L’AUTONOMIA
NELLA LOTTA DI CLASSE
Il
testo che segue è la versione completa della prefazione di un opuscolo sugli
scioperi dell’estate 1955 a Saint-Nazaire edito dal gruppo Front libertaire di
Saint-Nazaire in occasione di una giornata di incontro e dibattito su Fernand
Pelloutier, il 5 maggio 2001[1]
Come
collocare quella che viene chiamata l’autonomia?
Le
vie dell’autonomia nella lotta di classe sono impenetrabili, perlomeno per
coloro che non vogliono vederla là dove essa si trova. Si potrebbe dire che
quest’autonomia, cioè quello che si sprigiona come tale dalla lotta di classe
e non ciò che è preconcetto nella testa di qualche ideologo, è proteiforme -
mutando costantemente forma, registro e livello d’attacco, poiché si trova di
fronte, a seconda delle necessità del capitale, delle costruzioni repressive
e/o d’integrazione che tendono ad impedire e/o deviare il corso che essa
tenderebbe a prendere naturalmente.
Certo,
questa tendenza generale a fare nello sfruttamento del lavoro altra cosa da
quello che viene prescritto da - e nell’interesse di - chi trae il plusvalore
da quel lavoro, si svolge obbligatoriamente nel quadro in cui la si costringe.
Questa reazione allo sfruttamento - individuale o collettivo (un insieme di atti
individuali simili o un attitudine concertata) - in tali circostanze non può
essere quella meccanica perfetta che si vorrebbe che fosse. In termini più
chiari, il lavoratore sfruttato non si mangia il suo capo o il suo padrone tutte
le mattine quando varca la soglia del suo posto di lavoro, così come ogni
sciopero all’inizio non ha altra prospettiva che un intento riformista, e in
nessun caso rivoluzionario. Esiste dunque una dialettica alla quale ogni azione
individuale e collettiva non può sfuggire, Questa dialettica dà forma ai modi
in cui l’azione nasce, in cui si sviluppa; essa ne fornisce anche i limiti e/o
il potenziale.
In
un certo senso, si potrebbe assimilare l’autonomia al virus dell’influenza,
che cambia ogni anno pur riferendosi ad un ceppo comune, oppure all’evoluzione
delle specie, visto che le barriere di cui abbiamo appena parlato la costringono
ad adattarsi modificandosi per poter continuare ad agire, cioè a sopravvivere.
L’autonomia è in qualche modo, all’inizio del suo manifestarsi,
l’espressione bruta della resistenza allo sfruttamento, che esiste come
correlato intrinseco in quanto esiste il capitalismo e che esisterà finché
questo esisterà. Il ceppo comune lo si trova in tutte le forme storiche o
presenti dell’autonomia nella lotta di classe; è la difesa da parte degli
attori stessi, gli sfruttati schiavi del lavoro salariato, dei loro interessi di
fronte a questo sfruttamento che tende a ridurli ad oggetti. Il che fu espresso
molto tempo fa, nel 1861, nella formula : << Siete liberi, organizzatevi;
fate voi stessi ciò che vi riguarda>>[2].
o più enfaticamente nelle prime righe dello statuto dell’Associazione
internazionale dei lavoratori nel 1864: <<Che l’emancipazione della
classe operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi>>[3].
Nuove
tecniche, nuove resistenze
È
più che evidente che le tecniche di produzione giocano un ruolo centrale in
questa dialettica capitale-lavoro che modella le manifestazioni
dell’autonomia. Da una parte, non si può dire che queste tecniche di
produzione (non soltanto gli incessanti perfezionamenti del macchinismo, ma
anche i metodi di produzione legati o meno ai cosiddetti perfezionamenti
tecnici) siano apparse in maniera totalmente indipendente da quella dialettica
capitale-lavoro. Non si può dire neppure che quelle medesime tecniche siano
state concepite e sviluppate unicamente per modificare le condizioni di
sfruttamento con l’intento di estrarre dal lavoro un plusvalore supplementare.
Si tratta infatti di un insieme indissociabile, la cui dinamica è quella del
capitale stesso, spinto dalla necessità di valorizzarsi nello sfruttamento del
lavoro e dall’estrazione del plusvalore. Indipendentemente dalla tecnica
stessa, ad ogni investimento che significa un apporto di capitale fisso deve
corrispondere in un modo o in un altro un aumento del plusvalore, dunque dello
sfruttamento del lavoro, per la remunerazione di questo capitale fisso
supplementare.
Ogni
lavoratore, posto davanti ad una simile situazione (e lo è costantemente nella
dinamica del capitale), deve modificare le forme della sua resistenza. Deve
modificarle, non solo in quanto deve adattarsi alle nuove tecniche che rendono
obsolete le pratiche anteriori di resistenza, ma anche nei confronti dei nuovi
metodi di produzione, ovvero di intensificazione del lavoro, poiché
l’introduzione delle nuove tecniche si accompagna sempre con una
“riorganizzazione” del lavoro. Anche questo meriterebbe sviluppi più ampi
con esempi concreti. Ciò che gli spregiatori della classe operaia presentano
spesso come un “freno all’innovazione” è sia l’adattamento delle
resistenze di base che la preservazione delle acquisizioni sociali legate alle
vecchie tecniche. È spesso in questi momenti che l’autonomia di base si
esprime più apertamente.
Si
è molto parlato di autonomia negli ultimi trenta o quarant’anni come se si
trattasse della nascita di un movimento specifico, e perfino di una corrente di
pensiero, come se si trattasse di una rivendicazione da inscrivere in un
programma[4]. L’autonomia non è un
comportamento da promuovere: essa è negli atti e non nelle parole, e questi
atti esprimono ciò che appare naturale nello sfruttamento: agire dapprima da se
stessi e per se stessi. Questo richiederebbe una lunga trattazione, ma si può
brevemente cercare di mostrare ciò che, in un passato lontano (in realtà dai
primordi del capitalismo) così come negli ultimi cinquant’anni, è
profondamente cambiato nell’espressione dell’autonomia nella lotta di
classe. Non è a caso che questi tentativi di teorizzare l’autonomia della
lotta e di convertirla in modo
d’azione programmato appaiano in un periodo recente. Ciò corrisponde a un
periodo di grandi sconvolgimenti tecnologici e di ristrutturazione insieme
interna alle imprese e spaziale quanto alla divisione mondiale del lavoro. Ma,
come abbiamo appena sottolineato, non è possibile parlare di autonomia nel
periodo presente senza collocarla storicamente. Poiché, dato che quelli che
vengono considerati come gli avvenimenti rilevanti della lotta di classe possono
apparire meno importanti e meno esemplari quando sono inseriti in un processo
storico, essi devono essere relativizzati come momenti apparenti (che
beneficiano di una mediatizzazione, facente parte di una visione della Storia
legata all’evento) di quel processo della lotta di classe.
Una
particolare diffidenza verso gruppi o partiti
In
questo processo, l’autonomia assume un ruolo centrale, che i dirigenti
capitalisti e i loro ausiliari sociologi riconoscono d’altronde più
facilmente dei militanti “rivoluzionari”. Così, come non provare - forse
ingiustamente - una diffidenza particolare verso gruppi che rivendicano
l’autonomia per se stessi - il che non ha senso, non ha niente a che vedere
con l’autonomia e ricorda l’identificazione dell’azione di un gruppo o di
un partito con la lotta di classe - , e che poi la rivendicano per il
proletariato e i lavoratori nel loro insieme. È li che possono sorgere dei
dubbi. Non si può fare a meno di pensare tra gli altri ai bolscevichi del 1917
che rivendicavano “tutto il potere ai soviet” per conquistarli politicamente
e sottometterli poi alla legge del partito[5].
Anche questo meriterebbe ampi sviluppi, che appariranno comunque qui e là nel
corso di questa esposizione. Non si può fare a meno di pensare anche a tutti
coloro che credono di poter formulare sugli organismi di lotta o sui movimenti
più ampi che esprimono più o meno apertamente quest’autonomia, dei giudizi
che fustigano ora la loro mancanza di prospettive rivoluzionarie, ora il loro
riformismo, considerandoli come organi futuri di gestione del capitale (il che
traduce pure una diffidenza fondamentale dell’autonomia che rimanda a quella
vecchia antifona leninista secondo la quale i lavoratori non possono superare
una coscienza “trade-unionista”)
Certo,
quest’autonomia nella lotta di classe è universale, internazionale; ma gli
stessi limiti di spazio in questo articolo ci obbligheranno spesso a restringere
le nostre considerazioni alla Francia. Si deve tuttavia aggiungere che se gli
stessi metodi di sfruttamento si ritrovano dovunque, le condizioni storiche e
non solo, specifiche di ogni Stato, faranno sì che l’espressione
dell’autonomia operaia sarà diversa e che le forme nuove che esprimono
l’apertura dialettica di quest’autonomia potranno sorgere lì dove non le si
aspetta con caratteri che nessuno aveva ancora previsto: ad esempio il sorgere
della forma consiglio nel 1905 e nel 1917 in una Russia semi-feudale[6].
Una
storia senza tracce
I
proletari non hanno mai descritto in particolare la loro azione e non lo fanno
neppure oggi. Questo è più che evidente, non solo per gli atti individuali - e
salvo rare eccezioni. Le si conosce - male - nella maggior parte dei casi
soltanto attraverso la loro sanzione disciplinare o giuridica o attraverso i
lavori dei sociologi al soldo dei padroni, che cercano precisamente di trovare
la martingala in grado di rompere resistenze indistinguibili; ciò è vero anche
per delle azioni collettive delle quali eventualmente
non si conoscono meglio i comportamenti individuali all’interno di un
movimento di quanto si conoscano i comportamenti collettivi,
e di cui sono mediatizzate e rese esemplari solo le manifestazioni
esterne visibili attraverso il canale dei poteri dello Stato, dei sindacati, dei
partiti e dei gruppi.
Ne
risulta che, sebbene l’esistenza dell’autonomia nella lotta di classe non si
riassuma nella presenza di organizzazioni di lotta che esprimano
quest’autonomia, si è costretti a constatare che il dibattito si limita
spesso al riferimento a queste organizzazioni e nient’affatto a ciò che essa
suppone tra i lavoratori: è soltanto la storia formale a lasciare tracce
storiche. Per fare un esempio, negli scioperi di Nantes del 1955, l’autonomia
della lotta si esprimeva in un quadro sindacale (il che avveniva spesso e forse
avviene ancora), ma in questo quadro la determinazione, la combattività,
l’iniziativa di base, secondo le circostanze, facevano sì che la lotta
superasse largamente i caratteri e gli obiettivi che gli organi costituiti di
controllo gli avevano assegnato. Eppure, eccetto che sul terreno preciso degli
scontri con le “forze dell’ordine” (comprendente sbirri e sindacati), non
appariva nessuna forma precisa che esprimesse quest’autonomia. Nel movimento
di lotta del novembre-dicembre 1995, l’autonomia della lotta si è espressa
nell’imperativo di una democrazia di base e di apertura nella assemblee di
base, imposta al controllo sindacale - ma senza che alcuna forma specifica
potesse opporsi al fatto che quel controllo si esercitasse attraverso altri
canali e arrivasse a spezzare, alla fine, il movimento.
L’integrazione
delle organizzazioni operaie
Così
come abbiamo ricordato, si può far risalire l’autonomia della lotta di classe
agli inizi del capitalismo, allo sviluppo intrinsecamente e necessariamente
interdipendente del capitale e del lavoro, del capitalismo (e delle diverse
forme di capitalisti) e del proletariato. Non è privo d’interesse
sottolineare che una delle prime leggi del trionfo della borghesia nella
Rivoluzione francese in questo campo dello sfruttamento del lavoro, la legge Le
Chapelier del giugno 1791, vietava, in nome della libertà di lavoro, ogni
associazione o coalizione operaia[7].
È
ciò che garantì allora l’autonomia del movimento operaio: nei cinque decenni
che seguirono lo sviluppo spontaneo e clandestino a causa della dura repressione
che colpiva ogni resistenza organizzata, degli organismi diversi basati
essenzialmente sulla solidarietà operaia sia nella sua espressione quotidiana
(associazioni di mutuo soccorso, cooperative, ecc...) che nelle lotte sul luogo
di lavoro (associazioni varie, ecc...). È tutto questo insieme che si
trasformerà poco alla volta in sindacati, i quali si vedranno repressi e si
svilupperanno parallelamente alla formazione di organizzazioni
politiche “operaie”. Si assisterà nei successivi cinquant'anni, fino
all'inizio della prima guerra mondiale, ad una lenta integrazione delle
organizzazioni, sia operaie che politiche, nell'apparato politico-economico di
gestione del capitalismo: sarà la prima manifestazione formale di quella
dialettica tra l'autonomia della lotta e i poteri di dominio dello sfruttamento.
Si
può vedere sin da questa epoca un'oscillazione costante tra il possibile e
l'utopia, tra il riformismo e la rivoluzione sociale. Nella misura in cui questa
rivoluzione sociale [non si realizzava - aggiunta
dal traduttore]*, le azioni del movimento operaio restavano limitate alle
regolazioni degli aspetti più odiosi del sistema di sfruttamento, e
autorizzavano quell’integrazione delle organizzazioni sindacali o politiche -
autonome al loro inizio - negli ingranaggi di funzionamento del sistema;
quell’integrazione tendeva a ridurre i lavoratori e le loro azioni autonome in
parti separate rafforzando il processo d’integrazione. Lo sviluppo, nello
stesso periodo, di tendenze rivoluzionarie nei sindacati e nei partiti mostrava
che delle correnti reali autonome di resistenza di base si sviluppavano dietro e
in risposta a quell’integrazione, proprio quando nessun avvenimento preciso
veniva a corroborare questi sviluppi.
Soviet,
shop-steward, insubordinati: forme sempre inaspettate
In
un certo senso, l’apparizione di
una forma d’autonomia fino ad allora sconosciuta - e quindi mai teorizzata -
doveva confermare questa persistenza di un movimento autonomo di lotta. I soviet
russi del 1905 e del 1917 ne sono
la ricomparsa formale, in una creazione spontanea che nessuno dei teorici
politici o sindacalisti, rivoluzionari o riformisti, aveva previsto o
immaginato. Tutto ciò che prevaleva era la forma partito e la forma sindacato,
abbellite eventualmente del qualificativo “rivoluzionario” in reazione
contro l’integrazione di questi organismi nel sistema, ma a prima vista
incapaci di immaginare altra cosa se non la “purezza” delle antiche forme
d’organizzazione. Essi appaiono là dove meno li si aspettava, in una
situazione che non era priva di somiglianze con quella esistente quasi un secolo
prima, proprio a causa di una repressione brutale e perché nessun contro-potere
era riuscito a instaurarsi.
A
questi sviluppi in Russia si può collegare il ruolo dei comitati shop-steward
in Gran Bretagna durante la prima guerra mondiale[8]
o gli ammutinamenti del 1917 in Francia (che non si limitarono all’esercito
francese ma furono anche accompagnati da un movimento sociale importante quanto
diffuso che coinvolgeva la vita quotidiana delle famiglie operaie).
Quel
movimento si estese tra le due guerre sotto forme diverse. Esse potevano essere
affini ai soviet, come i consigli tedeschi (1918) che raggiunsero la forma più
elaborata nella sua proiezione di un’altra società, ma che rimasero
influenzati dalla socialdemocrazia ( per passare alla fine sotto il suo
controllo), come i consigli italiani (Torino, 1921) sebbene già così segnati
dall’influenza del partito. Esse potevano prendere la forma delle collettività
in Spagna o la spinta del Fronte popolare in Francia nel 1936, ma, in un caso
come nell’altro rimanevano sotto l’influenza di vecchie organizzazioni
integranti, partiti e/o sindacati. La scomparsa o l’integrazione formale di
queste organizzazioni diverse poteva venire da una repressione brutale così
come da una conquista da parte delle correnti politiche tradizionali di ogni
genere, bolscevichi leninisti poi stalinisti, socialdemocratici, anarchici, ecc.
Là
dove l’integrazione poteva essere fatta, la conquista o l’ufficializzazione
potevano spesso essere realizzate solo perché gli attori erano, per ragioni
diverse (tra cui il peso delle ideologie, o la situazione economica globale
dell’epoca), il più delle volte favorevoli a questa evoluzione; essi non
vedevano in molti casi altro sbocco alla loro manifestazione di autonomia. Là
dove la minaccia per il sistema capitalista era stata più grande, le
repressioni presero la forma di regimi totalitari: socialdemocrazia tedesca,
fascismo italiano, stalinismo russo, nazismo tedesco, franchismo spagnolo si
divisero l’eliminazione fisica dei protagonisti. Là dove queste minacce erano
state minori, le democrazie si incaricarono di una repressione più dolce in cui
dominava l’integrazione.
Nel
1955, contro gli apparati CGT o FO
Per
la Francia, questo doppio ruolo, dal 1936 fino al secondo dopoguerra, spettò al
Partito comunista ed alla sua succursale, la CGT. Tuttavia i poteri restavano
molto diffidenti di fronte a ciò che sarebbe potuto affiorare dalle sofferenze
della guerra come era accaduto in tutta Europa dopo la prima guerra mondiale[9].
In una sorta di parodia di ciò che aveva potuto creare prima l’autonomia
operaia, una legislazione promosse il Welfare come espressione della solidarietà
operaia, i consigli sotto la forma dei comitati d’impresa, la cogestione
tedesca, i comitati shop-steward in Gran Bretagna...
La
corrente dell’autonomia riaffiorava nondimeno nei diversi scioperi del 1947,
tra cui lo sciopero di Renault-Billancourt, corrente subito recuperata nella
confusione che circondava l’inizio della guerra fredda. La creazione di Force
Ouvrière poté persino apparire come una scappatoia al dominio totalitario
PC-CGT. È in relazione a questo dominio sindacale stalinista filo-sovietico da
una parte, filo-americano dall’altra, che gli scioperi di Nantes del 1955
esprimono ciò che alcuni considerarono allora come il <<risveglio della
classe operaia>> ma che non era altro, sotto altra forma più diffusa, che
la ricomparsa alla luce del sole dell’autonomia di lotta. A questa corrente
d’autonomia si può altresì ricondurre l’esistenza in quel periodo di forme
effimere di organizzazioni informali di base, di impresa o di interimpresa, che
non hanno certo storia scritta ma che furono oggetto di recupero da parte di
gruppuscoli politici o di sindacati indipendenti, tutti sostenitori della
combattività operaia. E dimostrando con ciò stesso (cosa che possiamo vedere
ancora oggi nel dopo 1995) che ogni velleità aperta di autonomia in una lotta
porta subito le due forme: repressione padronale o del/dei sindacati dominanti,
integrazione attraverso il recupero dell’ “estrema sinistra” che la
inserisce inevitabilmente nel processo legale di contestazione.
Dai
Partiti comunisti alla Thatcher, una stessa missione
A
questa corrente dell’autonomia post-seconda guerra mondiale si possono altresì
collegare le insurrezioni operaie nella Germania dell’Est del 1953,
dell’Ungheria nel 1956 o della Polonia nello stesso anno. Esse corrispondono
tutte al vacillare del dominio repressivo dei partiti comunisti (che si
manifestava sotto altre forme altrove in Europa, e in particolare in Francia) e
vedevano la ricomparsa della forma consiglio, immediatamente distrutta da una
brutale repressione. Vi si può anche ricollegare lo sviluppo durante tutto quel
periodo che si concluderà nel 1979, delle resistenze “selvagge” del
proletariato britannico al dominio delle trade-union, che dimostrerà la
possibilità di una larga autonomia. Cosa che provocherà per il capitale
britannico una crisi politica, e definirà la missione della Thatcher: una
repressione il cui scopo non era, com’è stato sostenuto e ancora si sostiene,
di <<spezzare i sindacati>>, ma di impedire l’insorgere di
conflitti “selvaggi” che utilizzassero le strutture sindacali di base
autonomizzandosi rispetto agli apparati (proprio come nella Francia del
dopo-guerra 1945, i sindacati - in Gran Bretagna il sindacato unico - si
trovavano rafforzati nel loro ruolo di integrazione/repressione da disposizioni
legali dello Stato).
In
Francia, le forme di lotta che esprimevano l’autonomia, così come erano state
evidenziate dalle lotte del 1955 a Nantes e da lotte ulteriori con le
conseguenze che abbiamo appena descritto, andranno in qualche modo a culminare
nel 1968 con la generalizzazione dello sciopero[10],
che le forze di controllo/repressione non avevano affatto messo in conto. Il
fatto è che le contestazioni del dominio sindacale nel corso dei conflitti
anteriori erano state troppo disperse, troppo disparate per lasciar supporre che
avrebbero potuto essere l’espressione di una corrente persistente di autonomia
delle lotte. Esse potevano prendere ad esempio la forma del rifiuto della
requisizione nello sciopero dei minatori del 1963, sia degli scontri violenti
come a Caen nel 1967, sia di un’esigenza di democrazia diretta come alla
Rodiaceta di Besançon pure nel 1967. Dopo gli avvenimenti del maggio, alcuni
considereranno questo periodo pre-68 come portatore di segni premonitori di un
tale sviluppo generalizzato dell’autonomia, sebbene a quell’epoca nel 1967
solo coloro che pronosticavano sempre la rivoluzione per l’indomani avrebbero
potuto vedervi un segno precursore.
Integrazione/repressione:
la divisione del lavoro
I
sindacati avevano in qualche modo potuto contenere la grande ondata del 1968,
risparmiando allo Stato un intervento più violento, poiché assegnarono, in una
divisione del lavoro controllo/repressione/integrazione, il ruolo repressivo
piuttosto alla CGT ed il ruolo integratore alla CFDT. Ma questa spinta
dell’autonomia era comunque stata assai seria per il sistema capitalistico
perché si sviluppassero ancora più ampiamente, dopo il deflusso dell’ondata,
le forme classiche di integrazione/repressione. Queste ultime giocarono a
differenti livelli. L’integrazione della corrente dell’autonomia (perlomeno
di coloro che ne erano sembrati i militanti attivi) si realizzò su diversi
piani:
- politico,
nelle organizzazioni “rivoluzionarie” che si crearono o si svilupparono nel
dopo-68, maoisti, trotzkisti, ed altri Ccisti che trascinarono per anni coloro
che <<ci avevano creduto>> sulle strade sterili di un superattivismo
basato sulla credenza che la rivoluzione fosse dietro l’angolo. Tutti quelli
che, nei decenni successivi, saranno mollati sul bordo della strada con tutte le
loro disillusioni e il loro scoraggiamento. Scopo oggettivamente raggiunto;
-
sindacale, con il sindacato in ascesa che faceva concorrenza alla CGT
monolitica fissata nella sua rigidità repressiva e che sembrava portatore dello
“spirito del 1968” con le ambiguità dell’autogestione[11];
- ideologico,
con lo sviluppo statale, padronale e sindacale dell’ideologia
dell’autogestione, in qualche modo il prolungamento di quanto era stato
avviato nel 1945 con i comitati d’impresa. Con dei tentativi, inoltre, di
sviluppare questa cogestione del sistema capitalistico in istituzioni marginali
come l’insegnamento. E altri tentativi, più o meno abortiti, di
riorganizzazione del lavoro alla catena, come il lavoro in squadre “autogestite”,
con la speranza rapidamente delusa che questo avrebbe permesso di superare il
“muro della produttività”;
-
si deve tuttavia aggiungere che questa onda “rosa” era accompagnata da
un’onda “nera” di cui i commentatori del dopo-68 non parlano quasi mai: la
repressione che, nei cinque anni seguenti, si abbatté nelle imprese su tutti i
militanti che erano stati attivi, non soltanto nel 1968 ma che in seguito
avevano utilizzato, con molti altri lavoratori, il rapporto di forza creato
dallo sciopero generalizzato per modificare le relazioni di lavoro. Non è
facile ottenere cifre sul numero dei licenziamenti di coloro che erano così
stati portati in primo piano sulla scena della lotta autonoma, ma alcune
statistiche permettono di dire che furono un numero molto elevato. Le scelte
divenivano limitate: o essere fuori o entrare nel “sistema protettore”
dell’integrazione.
La
democrazia di base s’impone
Eppure il 1968 aveva segnato una rottura - a
dispetto dei successi apparenti di questa integrazione/repressione - con certe
forme di dominio dell’autonomia; quest’ultima ricomparirà sotto forme
diverse, effimere ma ricorrenti (qui parliamo solo della Francia)[12].
Esse possono essere distinte sebbene spesso coesistano:
-
in tutti i conflitti importanti e significativi (ovvero fuori dalle sempiterne
giornate d’azione sindacale anche se queste, concepite inizialmente come dei
controfuochi, possono “degenerare” e, come nel novembre-dicembre 1995,
aprire la porta all’irruzione dell’autonomia), la democrazia di base si
impone. Praticamente, nessuno sciopero può terminare senza un voto in assemblea
generale. Siamo lontani dagli scioperi sindacali telecomandati che di solito
erano la regola negli anni ‘50. Certo, questo non esclude le manipolazioni,
tanto più che, forti del loro riconoscimento legale, i sindacati impongono la
loro presenza nei negoziati e spesso tornano alla carica diverse volte con
proposte appena modificate, dopo aver nel frattempo lavorato ai fianchi “gli
anelli più deboli” dello sciopero. La generalizzazione di questa pratica
“democratica” con i suoi corollari può essere considerata come una delle
acquisizioni del 1968, senza che sia stato possibile alle forze
integrative/repressive ritornare al-di-qua;
-
gli scioperi del 1995 hanno rivelato un’altra forma di democratizzazione delle
lotte, un’altra forma dell’autonomia, anche se questa forma sembra molto
“imperfetta”. Mentre nel 1968, i comitati di sciopero non erano il più
delle volte che delle intersindacali allargate, sotto la pressione della base,
ai non sindacalizzati ma vietando ogni contatto con l’esterno[13],
nel 1995, le assemblee generali erano sovrane e aperte ad ogni tipo di pubblico.
Certo, i sindacati che formalmente, costretti e forzati, proclamavano il
rispetto di quella democrazia di base, mantenevano il controllo dei negoziati,
delle manifestazioni e potevano nel retroscena manipolare a piacimento (cosa che
divenne evidente alla fine del conflitto). Ma si era comunque lontani dai
diversi comitati d’azione di maggio 68 ridotti a giocare il ruolo di mosche
cocchiere all’esterno delle imprese;
-
la comparsa di forme globali d’organizzazione di base extra-sindacali - i
coordinamenti. Senz’altro hanno avuto un’esistenza effimera (sebbene siano
riapparse recentemente con la lotta delle ostetriche). Essi furono eliminati
insieme dai sindacati tradizionali e dal potere decisionale (all’occorrenza
spesso lo Stato, con il rifiuto puro e semplice di discutere fuori dalle
“rappresentanze legali”) e dalla comparsa di sindacati d’opposizione (un
fenomeno ricorrente in periodo di “dissidenze” sindacali, vedi il ruolo, ad
esempio, della CFDT dopo il maggio ‘68);
quei sindacati “autonomi” (che possono essere tanto sindacati corporativi
quanto “rivoluzionari”) si costruiscono su questa scomparsa dei
coordinamenti, operando in qualche modo per la loro integrazione, e parimenti
come mezzo di prevenzione contro la loro ricomparsa nei successivi conflitti
poiché divengono dei quadri fatti apposta per “esprimere” ovvero mettere in
un quadro legale quelle tendenze autonome.
Questo
è il bilancio che si può fare oggi dell’autonomia
nella lotta di classe. È certo che, per quanto incompleto sia questo
saggio, che dovrebbe essere allargato al mondo intero, le tendenze che abbiamo
evidenziato in questo incessante rapporto dialettico tra lotta autonoma e forze
di controllo delle condizioni di sfruttamento del lavoro si ritrovano
dappertutto dato che il capitale, con gradazioni diverse, domina il mondo...
Nuove
necessità dello sfruttamento
Bisognerebbe
altresì collegare questi sviluppi alle medesime tendenze che possono fare la
loro comparsa su di un piano sociale più globale, tant’è vero che ciò che
accade nei rapporti di produzione ricade sull’insieme dei rapporti sociali.
Questo tanto più che, come si può vedere con le 35 ore in Francia e la
precarizzazione che imperversa nei capitalismi più sviluppati (per certi versi
, un ritorno a situazioni all’origine dello sviluppo capitalistico) e che è
la regola in quelli che vengono oggi pudicamente chiamati “paesi in via di
sviluppo”, la vita quotidiana così come esisteva in una certa routine già
dettata dai metodi di produzione è sconvolta dalle nuove necessità dello
sfruttamento. La comparsa di nuove forme - apparentemente radicali - di
riformismo è la risposta a quelle medesime tendenze autonome che si esprimono
nella vita quotidiana.
Queste
forme di contestazione, più politiche che sindacali, corrispondono a quanto
abbiamo constatato nel campo dei rapporti di produzione. Ma esse esprimono di più
il non adattamento alle perturbazioni causate, nella vita di ognuno, dalle
trasformazioni troppo rapide del processo di produzione e delle strutture del
sistema che assicurano la riproduzione della forza lavoro.
Come
per il passato, nessuno può dire, nella concatenazione autonomia poi
repressione/integrazione, quello che sopraggiungerà, specialmente in ciò che
si può vedere attualmente un po’ dappertutto nel moltiplicarsi di azioni di
base - parcellari, limitate, ma che possono apparire una risposta a quei
controlli ricorrenti su tutte le lotte che superano questo quadro di base,
oppure nel fenomeno globale di rifiuto della politica nel senso democratico
tradizionale che corrisponde a questa evoluzione nel processo di produzione.
In
ogni modo, anche se le forme dell’autonomia sono oggi più evidenti e sembrano
progredire, fintanto che non rimetteranno in discussione la base stessa del
sistema capitalistico, lo sfruttamento del lavoro nella sua globalità insieme
geografica e sociale, questo sistema secernerà delle forme repressive e/o
integranti in quella stessa concatenazione dialettica che è la più chiara
lezione del passato delle lotte.
Una
dinamica senza fine
A
voler considerare soltanto i paesi capitalistici più evoluti, si potrebbe forse
pensare che, per effetto di questa corsa all’inseguimento di una produttività
tallonata dal calo del tasso di profitto, il capitalismo debba costantemente
modificare le sue forme di dominio del lavoro, in modo tale da finire per minare
le basi stesse di questo dominio.
Ma
questa visione di una trasformazione progressiva intrinseca del sistema stesso
in una sorta di implosione è contraddetta dalle possibilità presenti del
capitalismo, sia nell’estensione geografica del suo campo di sfruttamento del
lavoro che nelle sue possibilità di imporre ai paesi cosiddetti sviluppati un
“liberalismo” che gli permette di imporre un adattamento ai suoi imperativi
di produttività.
La
dinamica presente del capitalismo include insieme i meccanismi economici
necessari al mantenimento del tasso di profitto per una massa crescente di
capitale e l’adattamento delle strutture dello sfruttamento del lavoro a
questo imperativo capitalistico: la dialettica tra l'autonomia e le forze di
inquadramento del lavoro è uno degli elementi di questa dinamica. Se è
possibile comprenderne i meccanismi, è difficile determinarne una qualunque
prospettiva, salvo a dire che la lotta, le sue tendenze autonome ed il loro
controllo temporaneo, dureranno quanto il sistema stesso.
H.
S. maggio 2001
Questo
testo vuol essere l’apertura di una discussione che potrà essere proseguita
su queste
colonne o altrove.
[1]
In occasione di questa giornata Fernand Pelloutier, il gruppo Front
libertaire di Saint-Nazaire ha pubblicato due stampati : Le Mouvement
ouvrier à Saint-Nazaire, di G. Geslin, seguito da 1955: Grandes grèves
à Nantes et Saint-Nazaire,
di G. Radache; et Les grèves de l’été 1955 ( le lotte di Saint-Nazaire
e le loro ripercussioni, di H. Simon, testo pubblicato all’epoca nella
rivista Socialisme ou Barbarie - n°18, 1956). Questi opuscoli
possono essere richiesti a: Front libertaire, Maison du peuple, place
Allende, 44600 Saint-Nazaire (FR).
[2]
Questa frase appare in una lettera aperta indirizzata da Tolain, cesellatore
di bronzo, al quotidiano L’Opinion nationale, il 17 ott. 1861, in
risposta alla proposta di Napoleone III di inviare all’Esposizione di
Londra una delegazione operaia con l’incarico di difendere l’economia
francese all’estero. È l’inizio di quello che viene chiamato l’Impero
liberale e anche dei tentativi di integrare il movimento operaio nascente
negli ingranaggi del sistema.
[3]
Questa frase si trova negli statuti dell’Internazionale operaia fondata in
seguito ad un incontro tra sindacalisti inglesi e delegati operai francesi,
e redatta nell’ultima settimana ottobre del 1864, un mese dopo
quell’incontro. Marx che aveva assistito all’origine in quanto testimone
vi fu ammesso come rappresentante degli operai tedeschi e si vide finalmente
affidare praticamente la redazione dell’indirizzo inaugurale e degli
statuti.
[4]
Sarebbe troppo lungo presentare qui le tesi degli “autonomi”, una
tendenza sviluppatasi in Italia i cui teorici sono Bologna e Tronti. Questa
tendenza si è estesa anche alla Gran-Bretagna (Red Notes) ed agli
Stati Uniti con Zero Work e Midnight
Notes (Harry Cleaver).
[5]
Si possono trovare molte opere che trattano di questa “conquista” dei
soviet da parte del partito bolscevico. Una di queste riassume brevemente la
questione; è un opuscolo del gruppo inglese Solidarity,The Bolsheviks
and Workers’ Control, tradotto in francese in un numero di Autogestion
et Socialisme.
[6]
Non si trova traccia della forma “consiglio” prima del 1905 sebbene
numerose forme associative o comunitarie fossero apparse in passato. Il
fatto è che questa forma, che nessun teorico aveva mai immaginato o
previsto, fu ripresa in grandi dimensioni a partire dal 1917, non solo dagli
operai ma anche da altre categorie sociali come i soldati. Essa è riapparsa
regolarmente fino a tempi recenti in tutti i conflitti che affermavano il
loro radicalismo in opposizione alle strutture del sistema in vigore.
[7]
La legge Le Chapelier, votata dall’Assemblea costituente il 4 giugno 1791,
mirava a smantellare le regole rigide che reggevano le corporazioni
dell’ancien régime, allo scopo di permettere lo sviluppo senza
costrizioni del capitalismo. Col pretesto di garantire la “libertà del
lavoro”, essa assicurava infatti ai padroni la libertà totale di
sfruttamento dei lavoratori, limitando così strettamente il diritto di
associazione che ogni intesa per difendere i propri diritti più elementari
era passibile di “délit de coalition” represso in modo molto severo.
Essa fu completata da una legge del 22 germinal anno XI, ai termini della
quale ogni azione collettiva, in un senso molto ampio, poteva essere punita
con una pena da uno a tre mesi di prigione; i “capi o promotori”
incorrevano in una pena da due a cinque anni di prigione, conditi da una
sorveglianza poliziesca anch’essa dai due ai cinque anni.
[8]
Ci sono pochissimi materiali in francese sull’attività degli
shop-stewards. Il loro sviluppo si colloca prima della guerra del 1914
in Scozia attorno al Clyde Workers’ Committee, poi al National
Shop-Stewards, e più tardi ad un Workers’Committee Mouvement, tutti
indipendenti dall’organizzazione sindacale ufficiale Trade Union; diversi
scioperi importanti furono condotti durante la guerra con la repressione che
si può immaginare. Più tardi questi comitati shop-stewards furono
integrati nel funzionamento del sistema, ma fu solo con il governo Thatcher
che il loro potere ed il loro ruolo, già molto diminuiti sparirono
praticamente.
[9]
Sembra che gli Alleati preferirono prolungare la guerra di un anno, allo
scopo di consolidare politicamente le loro conquiste in Europa occidentale
ed evitare le esplosioni sociali che avevano segnato la fine della prima
guerra mondiale. Furono aiutati in questo compito in tutti i paesi, dai
partiti comunisti, che fecero deporre le armi ai maquis e
parteciparono a coalizioni politiche di unità nazionale, ciò conformemente
agli accordi di Yalta che ponevano l’Ovest dell’Europa sotto controllo
americano. Quali che siano stati gli eventi, in particolare durante la
guerra fredda e fino alla caduta del muro di Berlino, nessuno dei depositari
di Yalta infranse la divisione dell’Europa in due zone d’influenza,
ognuno quindi lasciava l’altro praticare liberamente la repressione
sociale che garantiva il suo dominio.
[10]
Il supplemento a ICO (Informations Correspondance Ouvrière) di
giugno-luglio 1968, “ La grève généralisée en France”, che
ripercorre le giornate del maggio 68 nelle facoltà e nelle imprese, è
sempre disponibile.
[11]
Nell’opera Mai 1968: la Brèche, première réflexion sur les événements
formato da tre articoli di Edgar Morin, Claude Lefort e Jean Marie Coudray
(pseudonimo di Castoriadis), quest’ultimo scrive: <<Occorre
congiunturalmente incitare i lavoratori - senza lasciare alcuna illusione
sul sindacato in quanto tale - ad unirsi alla CFDT, perché meno
burocratizzata e più permeabile nella sua base alle idee del movimento, ma
anche e soprattutto per porvi questa questione e questa esigenza:
L’autogestione non è una cosa buona solo per l’esterno, essa è
altrettanto buona per la sezione sindacale, il sindacato, la federazione e
la confederazione.>> Una simile posizione era diffusa allora
nell’estrema sinistra così come l’imbarcarsi nell’ideologia
dell’autogestione appoggiata dai militanti del 68 entrati, seguendo questo
ed altri consigli, nella CFDT: la cosa culminò con l’enorme
mistificazione montata attorno alla Lip, la fabbrica che non fu mai
autogestita nonostante i fiumi di propaganda che ne fecero un caso esemplare
(un opuscolo di ICO analizzò in dettaglio questa lotta ma
sfortunatamente è stampato troppo male ed è troppo ponderoso per essere
fotocopiato.).
[12]
Gli avvenimenti di Polonia possono illustrare in modo perfetto la maniera in
cui l’autonomia di un movimento operaio poteva ad un tempo essere repressa
e recuperata. L’insurrezione del 1970-71 era l’espressione evidente di
una rivolta operaia spontanea ( vedi ICO : Capitalisme et lutte de classe
en Pologne, 1970 71, ed Spartacus). Era chiaro che quel movimento metà
represso e metà vittorioso avrebbe avuto delle conseguenze, la cosa divenne
particolarmente evidente dopo una breve giornata di rivolta, il 25 giugno
1976 ( opuscolo di Echanges, Henri Simon: Travailleur contre
capital). Cavalcando i rapporti di forza creati da quelle insurrezioni
operaie, i riformatori del sistema misero in atto, con l’appoggio della
Chiesa cattolica e degli Stati Uniti, una rete clandestina di organizzatori
che, quando scoppiò una nuova sollevazione nel 1980, poterono
immediatamente mettere in campo i loro uomini, canalizzando tutto il
movimento verso la transizione auspicata (sebbene con parecchie difficoltà)
attorno al comitato MKS di Danzica, poi al nuovo sindacato Solidarnosc (
vedi H.Simon, Pologne
1980/1982, Lutte de classe et crise du capital, ed
Spartacus).
[13]
Nel 1968, la fabbrica Renault di Billancourt, allora faro per tutto il
movimento operaio, era totalmente chiusa ad ogni intervento esterno e
strettamente controllata dall’apparato CGT-PC; gli operai della Renault
entravano in fabbrica solo dopo aver esibito la loro tessera di servizio e
ogni operaio che criticava allora la conduzione dello sciopero, poteva
vedersi ritirata la sua tessera, ovvero vedersi vietata l’entrata della
fabbrica in sciopero. Alcuni studenti partiti dalla Sorbona occupata per
avere dei contatti con gli operai furono costretti a restare davanti alle
porte dell’edificio di Billancourt e a dialogare con gli operai
arrampicati dall’altra parte dei muri. Questo dominio interno della CGT
non impedì, mentre la ripresa era iniziata in altri settori, che gli alti
responsabili della CGT dovessero ritornare parecchie volte davanti
all’assemblea generale dei lavoratori con nuove proposte per poter metter
fine allo sciopero.