Critica
del partito rivoluzionario
Noi ci troviamo attualmente solo
agli inizi di un nuovo movimento operaio. Il vecchio movimento si incarna nei
partiti, e la credenza nel partito costituisce oggi il freno più potente per la
capacità d’azione della classe operaia. Per questo noi oggi non cerchiamo di
crearne uno nuovo, e non perchè siamo troppo pochi -qualunque partito è
piccolo all’origine - ma perchè oggigiorno un partito non può essere altro
che un’organizzazione che mira a dirigere e a dominare il proletariato. A
questo tipo di organizzazione, noi contrapponiamo il seguente principio: la
classe operaia potrà affermarsi e vincere soltanto a condizione di prendere
essa stessa in mano il proprio destino. Gli operai non devono adottare
religiosamente le parole d’ordine di un gruppo qualsiasi -e neppure del
nostro- ma devono pensare da soli, decidere e agire loro stessi. Ed ecco perchè,
in questo periodo di transizione, noi pensiamo che essi possono trovare degli
organi di chiarificazione naturali appunto nei gruppi di lavoro, nei circoli di
studio e di discussione, che si sono formati spontaneamente e che cercano da
soli la propria strada.
Questo modo di vedere si trova
in flagrante contraddizione con le idee tradizionali riguardanti il ruolo del
partito come organo di chiarificazione essenziale del proletariato. Ne consegue
che esso incontra una resistenza ed anche una ferma opposizione in numerosi
ambienti che pure non vogliono più avere nulla a che fare ne col partito
socialista ne con il partito comunista. Da un lato, certo, ciò è dovuto alla
forza della tradizione: quando si è sempre vista la lotta di classe come una
lotta di partito e come una lotta fra partiti, è assai difficile riuscire a
vedere il mondo esclusivamente sotto l’angolo visuale della classe e della
lotta di classe.
Ma, in parte, ci troviamo anche
di fronte all’idea chiara secondo cui, nonostante tutto, al partito deve
spettare un ruolo di primo piano nella lotta del proletariato per la propria
emancipazione. Vediamo ora di esaminare più da vicino questa idea.
Essa trae origine dalla seguente
distinzione:
mentre un partito è un
raggruppamento sulla base di certe idee, una classe è un raggruppamento sulla
base di interessi comuni. L’appartenenza a una classe è determinata dalla
funzione svolta nel processo di produzione, funzione che ha come conseguenza
degli interessi definiti. Apparentemente a un partito significa invece legarsi
ad un insieme di persone che hanno dei punti di vista identici per quanto
riguarda le grandi questioni sociali.
Fino a poco tempo fa si credeva,
per delle ragioni teoriche e pratiche, che queste differenze fondamentalmente
scomparisse all’interno del partito della classe, il “partito operaio”.
Durante il periodo di grande sviluppo della socialdemocrazia si diffuse
l’impressione che questo partito avrebbe inglobato a poco a poco tutti i
lavoratori, in parte come militanti, in parte come simpatizzanti. E dal momento
che la teoria enunciava che interessi identici devono necessariamente generare
idee e scopi identici, si andava sempre più cancellando -così si credeva- la
distinzione tra partito e classe. Ma nulla di ciò avenne. La socialdemocrazia
resto una minoranza, e per di più comincio ad essere oggetto di attacchi da
parte di nuovi gruppi di operai: conobbe parecchie scissioni, mentre il suo
carattere originario subiva delle metamorfosi e certi articoli del suo programma
venivano revisionati oppure interpretati in un senso completamente diverso da
prima. La società non si sviluppa in modo continuò, senza sbalzi e
contraccolpi, ma passando attraverso lotte e antagonismi. Nello stesso momento
in cui cresce l’ampiezza della lotta operaia, cresce la forza del nemico;
l’incertezza e il dubbio sulla via giusta da scegliere rinascono in
continuazione nello spirito dei combattenti. E il dubbio è fattore di
scissioni, di dispute intestine e di scontri di tendenze in seno al movimento
operaio.
E’inutile deplorare queste
divisioni e queste lotte di frazione come una cosa dannosa, che non dovrebbe
esistere e che riduce i lavoratori all’impotenza. L’abbiamo detto più volte
in questa rivista: la classe operaia non è debole perchè divisa, ma è al
contrario divisa perchè debole. E la ragione per cui il proletariato deve
mettersi alla ricerca di nuove vie dipende proprio dal fatto che l’avversario
dispone di una forza e di un potere tali che gli antichi metodi rimangono
inefficaci. E la classe operaia non troverà la via giusta per magia, bensì a
prezzo di duri sforzi, di un lavoro di riflessione, attraverso lo scontro di
opinioni divergenti, e conflitti accaniti di idee. Spetta alla classe operaia
trovare essa stessa la propria strada: ecco appunto la ragione d’essere delle
divergenze e delle lotte interne. Essa è costretta a rinunciare alle idee
sorpassate, alle vecchie chimere, e la difficoltà di questo compito è quella
che sta all’origine di divisioni tanto grandi.
E neppure va coltivata
l’illusione secondo cui queste lotte accanite di partito e questi scontri di
opinioni sarebbero cose naturali soltanto nei periodi di transizione, com’è
l’attuale, e che essi scompariranno in seguito, quando l’unità diverrà più
grande che mai può accadere
certamente, nell’evoluzione della lotta di classe, che talvolta tutte le forze
si uniscano per strappare una grande vittoria, e che l’unità così realizzata
abbia per effetto la rivoluzione. Ma anche in questo caso, come dopo ogni
vittoria, vengono immediatamente alla luce delle divergenze a proposito dei
nuovi obiettivi che devono essere fissati. Infatti il proletariato si ritrova
allora, immancabilmente, alle prese con i compiti più ardui: finire di
scacciare il nemico, organizzare la produzione, creare un ordine nuovo.
E’ impossibile che tutti i
lavoratori, tutte le categorie e tutti i gruppi, i cui interessi sono ancora
spesso ben lungi dall’essere omogenei, abbiano gli stessi pensieri e
sentimenti e raggiungano immediatamente e spontaneamente l’unanimità per
quanto riguarda le azioni future. Proprio perchè è loro dovere scoprire da
soli la propria strada, sorgono le più vive divergenze ed essi si scontrano
l’un con l’altro, ed infine giungono a chiarirsi le idee.
Se delle persone animate dalle
stesse concezioni si riuniscono per dibattere delle prospettive d’azione,
giungere ad una chiarificazione attraverso la discussione, fare della propaganda
per le loro idee, è naturalmente possibile -volendo- dare a questi gruppi il
nome di partiti. Il nome ha poca importanza, una volta che è chiaro che questi
partiti attribuiscono a se stessi un ruolo del tutto diverso da quello cui
aspirano i partiti attuali. L’azione pratica, la lotta concreta sono cose che
spettano alle masse stesse, nella loro totalità: la loro azione deve fare perno
sui loro raggruppamenti naturali, in particolare modo sulle squadre di lavoro,
che costituiscono le unità di combattimento effettive. Sarebbe aberrante vedere
i militanti di una tendenza scendere in sciopero e quelli di un altra continuare
a lavorare. In questo caso, i militanti delle due tendenze hanno il dovere di
esporre i loro rispettivi punti di vista davanti alle assemblee di fabbrica, per
permettere al collettivo operaio di pronunciarsi con conoscenza di causa. Data
l’immensità della lotta e l’enorme potenza del nemico, per strappare la
vittoria è necessaria una convergenza di tutte le forze di cui dispongono le
masse: non soltanto le forza materiale e morale, l’unità e l’entusiasmo che
sono necessari in funzione dell’azione, ma anche quell’energia spirituale
che può nascere solo dalla lucidità. E’ l’importanza di questi partiti o
gruppi di opinione consiste nel fatto che essi contribuiscono a far nascere
questa chiaroveggenza attraverso le loro lotte reciproche, le loro discussioni,
la loro propaganda. Ed è per mezzo di questi organi di autochiarificazione che
la classe operaia giunge per conto suo a discernere la via della libertà.
Ecco perchè dei partiti così
concepiti (allo stesso modo delle loro concezioni) non sanno che farsene di
strutture rigide e immutabili. Di fronte ad ogni cambiamento di situazione, di
fronte ad ogni nuovo compito, gli animi si separano per raggrupparsi in modo
diverso: altri “partiti” sorgono con dei programmi diversi. Dal momento che
la loro caratteristica è quella di essere fluttuanti, sono così sempre in
gradi di adattarsi alle nuove situazioni.
I partiti operai attuali hanno
un carattere assolutamente opposto. Del resto, il loro scopo è un latro:
prendere il potere ed esercitarlo a loro esclusivo vantaggio. Ben lontani dal
cercare di contribuire all’emancipazione della classe operaia, la loro
intenzione è quella di governare da soli, presentando tutto ciò sotto mentite
spoglie della liberazione del proletariato. La socialdemocrazia, il cui grande
sviluppo risale all’epoca del parlamento, concepisce questo potere sotto
l’aspetto di un governo che si basa su una maggioranza parlamentare. Il
Partito comunista, dal canto suo, spinge la volontà di dominio fino alle sue
estreme conseguenze: cioè fino alla dittatura del partito.
Contrariamente ai “partiti”
sopra descritti, questi ultimi devono essere delle formazioni politiche
caratterizzate da strutture rigide, da una coesione che viene assicurata
mediante statuti, misure disciplinari, procedure di ammissione e espulsione.
Nella loro qualità di apparati
di potere, essi lottano per il potere, e per mantenere i militanti sulla rette
via, servono di quei punti di forza di cui essi dispongono in modo sovrano, pur
sforzandosi di accrescere costantemente la propria espansione, la propria
influenza. Non si danno certo il compito di educare i lavoratori a pensare con
la propria testa, ma al contrario, si ritengono investiti del dovere di
ammaestrarli, di trasformarli in fedeli e devoti seguaci delle loro dottrine.
Mentre la classe operaia ha bisogno, per accrescere le proprie forze e per
vincere, di una libertà di viluppo spirituale illimitata, la potenza del
partito ha come base la repressione di tutte le opinioni non conformi alla
linea.
All’interno dei partiti
“democratici” questo risultato viene ottenuto con dei metodi che salvano le
apparenze della libertà, nei partiti dittatoriali con una repressione brutale e
dichiarata.
Numerosi lavoratori già si
accorgono che la dominazione del partito socialista o del partito comunista non
significherebbe altro che l’egemonia, sotto forma camuffata, di una classe
borghese, che in tal modo perpetuerebbe lo sfruttamento e la schiavitù. Ma,
secondo loro, bisognerebbe costruire al loro posto un “partito
rivoluzionario” il cui obiettivo fosse realmente quello di instaurare il
potere proletario e 0la società comunista. Ma non si tratta affatto di un
partito nel senso più stretto sopra definito, di un gruppo di opinione il cui
solo e unico scopo sarebbe quello di illuminare, di chiarire le idee, bensì di
un partito nel senso attuale della parola, di un partito che lotta per
impadronirsi del potere ed esercitarlo esso stesso con l’intenzione di usarlo
a favore della liberazione della classe operaia, di un partito che fa ciò nella
sua qualità di avanguardia, di organizzazione della minoranza rivoluzionaria
cosciente.
L’espressione stessa di
“partito rivoluzionario” contiene una contraddizione in termini. Un partito
di questo genere non potrebbe mai essere rivoluzionario.
Oppure lo è soltanto nello
stesso senso in cui si dà il nome di rivoluzione ad un cambiamento di governo
avvenuto in seguito a pressioni un pò violente, com’è accaduto, per esempio,
con la nascita del terzo Reich. Quando noi parliamo di rivoluzione, pensiamo
evidentemente alla rivoluzione proletaria, alla conquista dei potere della
classe operaia.
Il “partito rivoluzionario”
ha come fondamento teorico l’idea secondo cui la classe operaia non potrebbe
fare a meno di un gruppo di capi capaci di vincere la borghesia a nome suo ed in
sua vece, e capaci quindi di formare un nuovo governo, cioè, in altre parole,
la convinzione secondo cui la classe operaia è incapace di compiere da sola la
rivoluzione. Sempre secondo questa teoria, i capi creano la società comunista a
furia di decreti, e cioè, in altri termini, la classe operaia è ancora una
volta incapace di gestire e di organizzare essa stessa il proprio lavoro e la
propria produzione.
Forse che questa testi non ha
una certa validità, almeno per il momento? Dato che attualmente la classe
operai, in quanto massa, si rivela incapace di fare la rivoluzione, non è forse
necessario che l’avanguardia rivoluzionaria, il partito, la faccia al posto
suo?. E ciò non sarà forse valido fintantoché le masse subiranno il
capitalismo senza recalcitrare?.
Un simile modo di vedere
sollecita immediatamente altre domande: che tipo di potere potrà instaurare un
simile partito grazie alla rivoluzione? Come farà per sconfiggere la classe
capitalista? La risposta è scontata: ciò potrà essere fatto solo per mezzo
della sollevazione delle masse; infatti soltanto dagli attacchi in massa,
soltanto delle lotte e degli scioperi di massa permettono di rovesciare il
vecchio dominio. Così il “partito rivoluzionario” non arriverà mai a far
nulla senza l’intervento delle masse.
Quindi, delle due l’una. O le
masse persistono nell’azione. Ed allora, lungi dall’abbandonare il campo per
lasciare il governo in mano al nuovo partito, organizzano il proprio potere
nelle fabbriche e nelle officine e si preparano a nuove lotte con l’obiettivo,
questa volta, di abbattere definitivamente il potere del Capitale. Formano per
mezzo dei consigli operai una comunità dotata di una coesione sempre più
grande, e perciò capace di assumersi la gestione della società nel suo
insieme.
In poche parole, le masse
dimostrano che alla fin fine non erano poi così incapaci di far la rivoluzione
come si pretendeva. Da questo momento, sorge ineluttabilmente un conflitto fra
le masse ed il nuovo partito che è desideroso di esser l’unico a detenere il
potere e che è convinto, in virtù della teoria secondo cui il partito deve
costituire la direzione della classe operaia, chel’autoattivita delle masse
non è altro che un fattore di disordine e di anarchia. Può accadere allora che
il movimento di classe abbia acquistato una tale forza da potersi permettere di
passare al di sopra del partito. Ma può anche darsi che il partito, alleatosi a
degli elementi borghesi, schiacci i lavoratori. In tutti i casi, pero, il
partito si è rivelato essere un ostacolo per la rivoluzione. E questo perchè
esso vuol essere qualcosa di più di un organo di propaganda e di
chiarificazione. Perchè si attribuisce come missione sua specifica quella di
dirigere e di governare.
Oppure -questo è il secondo
caso- le masse operaie si conformano alla dottrina del partito e abbandonano ad
esso la direzione del corso delle cose; seguono le consegne venute dall’alto,
e persuase (vedi la Germania del 1918) che il nuovo governo realizzerà il
socialismo o il comunismo, riprendono la via del lavoro. Immediatamente la
borghesia, le cui radici di classe non sono state ancora estirpate, mobilita
tutte le sue forze: la potenza finanziaria, il suo enorme potere spirituale, la
sua egemonia economica nelle fabbriche nelle grandi imprese. Il partito al
potere, troppo debole per tener testa a questa offensiva, per mantenersi al
potere non può fare altro che dar prova di moderazione, moltiplicare le
concessioni e le marce indietro. Si comincia allora a dichiarare che per il
momento è impossibile fare di meglio, che sarebbe una follia da parte degli
operai volere imporre con la costrizione delle rivendicazioni utopistiche. Ed in
tal modo il partito, privato di quell’appoggio potente delle masse che
caratterizza una classe rivoluzionaria, si trasforma in strumento di
conservazione del potere borghese.
Dicevamo poco fa che, per quanto
riguarda la rivoluzione proletaria, l’espressione “partito rivoluzionario”
rappresenta una contraddizione in termini. La stessa cosa può esser detta in un
altro modo: nella espressione “partito rivoluzionario” il termine
rivoluzionario designa per forza di cose una rivoluzione borghese. Infatti ogni
volta che le masse sono intervenute per rovesciare un governo ed hanno in
seguito affidato il potere a un nuovo partito, ci siamo trovati di fronte ad una
rivoluzione borghese, alla sostituzione di una classe dominante con una nuova
classe dominante. Così accade a Parigi nel 1830, quando la borghesia del denaro
successe ai grandi proprietari fondiari, e nel 1848 quando la borghesia
industriale prese il posto della borghesia finanziaria, mentre nel 1870 si
installò al potere la borghesia nel suo insieme, sia la grande che la piccola.
Così accadde durante la
rivoluzione russa, quando la burocrazia di partito si accaparro il potere in
qualità di categoria incaricata dei compiti di governo. Ma ai nostri giorni,
sia in Europa occidentale che in America, il potere della borghesia si è
installato troppo saldamente nelle fabbriche e nelle banche perchè una
burocrazia di partito possa scalzarvela. L’unico mezzo per vincere consiste,
ancora una volta, nel fare appello alle masse, nel farle impadronire delle
fabbriche e nel far loro costruire la loro organizzazione dei consigli. Ma in
questo caso appare evidente che la forza reale risiede nelle masse che
annientano il dominio del Capitale via che la loro azione diventa sempre più
estesa e profonda.
Coloro quindi che pensano a un
“partito rivoluzionario” traggono soltanto per metà l’insegnamento del
passato. Pur non ignorando che i partiti operai, i PS ed i PC sono diventati
degli organi di dominio che servono a perpetuare lo sfruttamento, sono capaci
soltanto di trarne la conclusione “l’unica cosa da fare è fare meglio”.
Ciò significa chiudere gli occhi sul fatto che il fallimento dei diversi
partiti è dovuto a una causa assai più generale, e cioè alla fondamentale
contraddizione che esiste fra l’emancipazione della classe nel suo insieme e
per mezzo delle sue forze, ed il fatto che un nuovo potere “filo operaio”
riduce al nulla l’attività della masse. Dinanzi alla passività,
all’indifferenza delle masse, scambiano se stessi per una avanguardia
rivoluzionaria. Ma se le masse rimangano inattive, ciò è dovuto al fatto che
esse ancora non arrivano a vedere la strada giusta della lotta, dell’unità di
classe, anche se sentono istintivamente sia la potenza colossale del nemico che
le dimensioni gigantesche dei compiti da portare avanti.
Ma quando le circostanze le avranno alla azione, dovranno pur svolgersi, quei compiti: organizzassi in modo autonomo, prendere in mano i mezzi di produzione, scatenare l’attacco contro il potere del Capitale. E una volta di più, apparirà evidente che ogni sedicente avanguardia che cercasse, in conformità con il proprio programma di dirigere e di spadroneggiare sulle masse per mezzo di un “partito rivoluzionario” si rivelerebbe un fattore reazionario proprio a causa di questa concezione.
A.Pannekoek 1936 in “Raetekorrespondenze”