CONTRO IL CARCERE, L'ART. 41 BIS, I REATI ASSOCIATIVI
CONTRO L'ATTACCO ALLE LOTTE SOCIALI
A SOSTEGNO DEI PRIGIONIERI RIVOLUZIONARI
E DELLE LOTTE DI TUTTI I DETENUTI
Dossier preparatorio, interventi, contributi e
saluti all'assemblea del 14 dicembre 2002
presso la sala dell’USI - V.le Bligny, 22 (Mi)
A
cura
di
compagni e compagne contro il carcere e la repressione
INDICE
Parte
prima: Dossier
preparatorio all’assemblea del 14.12.2002
Sugli
artt. 41 bis e 4 bis dell’ordinamento penitenziario
I
GOM (Gruppo Operativo Mobile)
Le
carceri turche e le celle di tipo “F”
La
carcerazione speciale in Spagna (i moduli FIES)
Dall’art.
90 alle carceri speciali, al 41 bis
Il
carcere come rapporto sociale
Lettera
di una compagna detenuta in un braccio morto del carcere speciale in Germania
Parte
seconda: Interventi,
contributi e saluti all’assemblea del 14.12.2002
Un
compagno anarchico sui moduli FIES
Lettera
del compagno Marcello Ghiringhelli
Un
compagno dell’UDAP sui prigionieri arabo-palestinesi
Compagni
del Revoluzionärer Aufbau Shweiz
Un
compagno della Panetteria Occupata di Milano
Un
compagno anarchico promotore di Milano
Una
compagna del foglio Rivoluzione
Un
saluto dei compagni Pietro Guido felice e Giorgio Colla
Alcuni
compagni francesi sulla proposta di azione contro le nuove carceri in Francia
Una
compagna del Gruppo di Lavoro Contro la Repressione
Un
compagno del CPO Gramigna di Padova
Un
compagno della Nave dei Folli di Rovereto
Lettera
inviata ai compagni prigionieri
Elenco
dei carceri con sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P.
Sabato 14 Dicembre 2002 si é svolta a Milano presso i
locali dell’USI in via Bligny una assemblea “contro il carcere, l’art.
41bis e i reati associativi, contro l’attacco alle lotte sociali, a sostegno
dei prigionieri rivoluzionari e delle lotte di tutti i detenuti”.
Tale iniziativa, in preparazione da alcuni mesi, é stata promossa da
compagni con impostazioni, metodologie di lavoro, esperienze differenti,
accomunati dalla necessità di far maturare, dentro il panorama di lotte
politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi strumenti di
prevenzione, controllo e repressione dello scontro di classe.
Gli incontri settimanali che hanno preceduto questo momento di
discussione pubblica e l’attività di ricerca e di elaborazione pregressa,
anche e soprattutto frutto dell’impegno dei singoli compagni, hanno portato
alla pubblicazione di un dossier in una serie limitata di copie, come occasione
di contro-informazione e di socializzazione del lavoro svolto, che preparasse il
terreno per un primo tentativo di sensibilizzazione e confronto.
L’interesse riscosso per l’iniziativa, il dibattito formale e
informale, gli scambi e gli incontri avvenuti, hanno rafforzato la convinzione
di andare sempre più a fondo alle questioni sollevate.
Abbiamo sottolineato il dato positivo della partecipazione,
anche se alcuni tra di noi hanno rilevato che la strutturazione dell’assemblea
- in particolare le lunghe relazioni per lo più scritte che riprendevano
largamente i contenuti del dossier - abbia minato la possibilità di un
dibattito più vivace.
Vista la sostanziale novità dell’appuntamento, la
particolarità dei temi trattati e i vari orientamenti politici dei
partecipanti, si pensa che alcune rigidità dell’incontro non potevano essere
smussate più di tanto e che comunque sia servita anche per rompere il
ghiaccio.
Non sono mancate proposte differenti e, implicitamente,
l’invito a confrontarle e a renderle operative, partendo dalla constatazione
comune che il controllo e la repressione sono un fatto quotidiano di ampie fette
del proletariato, delle minoranze agenti all’interno della classe,
specificamente dei militanti rivoluzionari.
Si é scelto di aprire un confronto fuori da logiche per così dire
“emergenzialiste” e “individualiste”, che ci pongono sempre sul terreno
della semplice reazione, quando si viene colpiti dalla repressione, e che
mobilitano i diretti interessati soltanto nell’impellente necessità di
auto-difesa giuridica, si tratti di singoli compagni, gruppi o organizzazioni,
come di aree politiche.
Controllo sociale e repressione sono aspetti inerenti allo
scontro di classe con cui fare i conti attraverso una progettualità di ampio
respiro, che abbia come proprio orizzonte la trasformazione radicale degli
attuali rapporti sociali e la distruzione di ogni sistema di dominio e delle sue
articolazioni.
Fare contro-informazione, sviluppare iniziativa, lavorare
concretamente sulla com-plessità carceraria, cercando di stabilire quel
rapporto di interazione reciproca dentro/ fuori dal carcere e quella comunità
d’intenti contro le istituzione totali, é una necessità imprescindibile per
chi non voglia avere sempre il fiato corto e stupirsi continuamente delle
pratiche repressive dello stato.
Solo i più criminali tra i mistificatori democratici
vogliono occultare la natura controrivoluzionaria dello stato, mitigando ogni
spinta tendente ad oltrepassare la timida reazione di indignazione innocentista,
respingendo con forza ogni pratica di azione diretta, bollata, sempre e
comunque, come criminale e destabilizzatrice dell’ordine sociale di cui
sono i “sinistri” custodi.
Mentre la macchina della detenzione offre ogni giorno prove
della sua produttività e la spirale della criminalizzazione e della
carcerizzazione aumenta, dovremmo forse rassegnarci ad una posizione di
subalterna richiesta di clemenza attraverso il ponte traballante delle forze
politiche istituzionali?
Nel delirio feticista della salvaguardia dell’ordine
costituito, della difesa dell’esistente e degli spazi d’azione sempre più
ridotti in tutti i terreni del conflitto di classe, dovremmo farci complici
diretti o indiretti di una pratica che non porta solo alla sconfitta ma al
martirio bello e buono e all’abdicazione di ogni ipotesi realmente
rivoluzionaria? Dovremmo infine
trattare il carcere con il piglio filantropico e umanitario che ci permetta di
lavare la falsa coscienza che questa società cristallizza, auspicando forme
alternative di controllo e repressione (lavoro coatto, terapeutici lavaggi del
cervello, carceri dal volto più umano, ecc) oppure squarciare la cortina di
silenzio che lo circonda, insieme a chi ha lottato e lotta dentro e fuori per la
sua distruzione? La mole e la
qualità del nostro sostegno ai rivoluzionari prigionieri non deve semplicemente
limitarsi alla contro-informazione e alla raccolta di fondi, né tantomeno
nascondersi dietro la difesa umanitario-democratica delle vittime della
repressione, magari di “regimi dittatoriali” lontani, secondo una logica
opportunistica di proporzionalità tra solidarietà e distanza geografica.
Non bisogna unirsi a questo silenzio ipocrita e censorio
che non fa che rafforzare il potere stesso: il sostegno ai rivoluzionari
prigionieri deve svilupparsi all’interno di ogni ambito di intervento
politico, come elemento qualificante l’attività militante complessiva.
Occorre far conoscere la voce di tutti i compagni che sono e saranno
incarcerati per le loro pratiche, la loro scelta risoluta di non collaborare con
la Giustizia, che non rinnegano il proprio patrimonio di rivoluzionari, che non
si rendono complici delle strategie e delle tattiche che il potere usa per
indebolire il conflitto.
La percezione di questa moderna malattia sociale, il
carcere, sta cambiando perchè l’evidenza dei fatti, là dove la crisi si
manifesta più apertamente (Argentina, Palestina, Algeria, Corea del Sud, ecc.)
e il compromesso sociale ha meno capacità di tenuta, rende cosciente a sempre
più proletari la natura di classe del carcere e la sua necessaria distruzione.
Abbiamo prodotto questo nuovo dossier che comprende sia i
contributi portati in assemblea, sia le relazioni esposte dai compagni, che
quelle che sono state inviate per essere lette. Alcuni contributi sono stati
modificati personalmente da coloro che sono intervenuti affinché questi fossero
più intelligibili dai lettori. Abbiamo
ritenuto importante ripubblicare, insieme alla totalità degli interventi, il
documento introduttivo all’assemblea del 14 Dicembre perché ne erano state
stampate soltanto un numero limitato di copie, tra l’altro esauritesi in breve
tempo.
Gli interventi si sono così strutturati:
Avv. Ugo Gianangeli sul 41 bis e dintorni,
l’attuale dibattito sulla proposta di legge alternativa e le sue reazioni
politiche, la continuità di questa norma nel corso degli ultimi 25 anni.
Un compagno anarchico che ha parlato della lotta
contro il FIES in Spagna. Una compagna
dell’AFAP che ha inviato il suo contributo rispetto agli arresti e alla
condizione detentiva in Spagna e in Francia di alcuni compagni comunisti del
PCE-r e della campagna di criminalizzazione del sostegno ai rivoluzionari
prigionieri. Avv. Sandro
Clementi, legale di alcuni compagni detenuti delle BR-PCC, sulla natura
borghese del diritto e sulla qualità della nostra iniziativa come
rivoluzionari. Una lettera del compagno
Marcello Ghiringhelli detenuto a San Vittore.
Un compagno dell’UDAP sulla condizione carceraria in Palestina e
in Israele e sulla condizione di alcuni compagni palestinesi che lo stato
Italiano vuole espellere, reclusi nei centri di detenzione temporanea nel più
sinistro silenzio e nel parziale disinteresse delle Autorità Palestinesi.
Una lettera di alcuni compagni del Soccorso Rosso del
Revoluzionärer Aufbau
Shweiz, impegnati in un presidio in solidarietà con Marco
Camenisch, sulle leggi di guerra nel fronte interno europeo e statunitense
(liste nere, criminalizzazione delle organizzazioni, ecc).
Le relazioni dei compagni promotori dell’iniziativa, che
alleghiamo, tra cui:
Un compagno della Panetteria Occupata di Milano, un
compagno anarchico di Milano, una compagna del foglio Rivoluzione e
una Compagna degli amici e familiari dei prigionieri rivoluzionari,
intervallati da un saluto dei compagni Pietro Guido Felice e Giorgio Colla detenuti
nel carcere di Biella e una proposta d’azione contro le nuove carceri e
la nuova legislazione del controllo sociale in Francia.
Nel dibattito sono intervenuti una compagna del gruppo
di lavoro contro la repressione, ribadendo l’importanza di dotarsi di
strumenti di auto-difesa legale militante e di un bagaglio di conoscenze, come
pure di una rete di relazioni adeguate; un compagno di Senza Freni sull’esperienza
dell’occupazione della comunità terapeutica Primo Maggio a Parma e sul ruolo
della cooperazione sociale nel circuito delle istituzioni totali in Emilia; un compagno
del CSOA Gramigna di Padova sulla loro esperienza militante di iniziative
contro la repressione; un compagno che ha promosso l’iniziativa che ha
parlato a titolo personale muovendo alcune critiche all’insufficienza e alla
scarsa rilevanza delle iniziative intraprese fino ad ora e sulla incapacità
dell’assemblea di esprimersi su alcuni punti e di coinvolgere ex-detenuti
“comuni”. Infine un compagno della Nave dei Folli di Rovereto ha
ribadito la necessità di una critica radicale del presente che colga tutti gli
aspetti del controllo sociale e si appronti a una pratica conseguente, senza che
venga data centralità ad un campo od a una questione particolare.
A fine assemblea é stato redatto e letto un breve
saluto per i compagni in carcere che qui alleghiamo.
per contatti:
Panetteria occupata
Via Conte Rosso 20, 20134 Milano
Villa occupata
Via Litta Modignani 66, 20161 Milano
Rivoluzione
Piazza Toselli 3, 35138 Padova
Dossier
preparatorio all'assemblea del 14.12.2002
Quello che segue é un lavoro “a più mani”,
espressione di punti di vista e esperienze di lotta differenti.
Pur conservando queste “diversità”, ciò che accomuna
i compagni che hanno raccolto e prodotto il materiale di controinformazione é
il sentire comune della necessità di far maturare, dentro il panorama di lotte
politiche e sociali, un agire collettivo contro il potere e i suoi strumenti di
prevenzione, controllo e repressione dello scontro di classe.
In vista, o agli albori, dell’applicazione
dell’articolo 41bis in via definitiva, e della sua messa in pratica non solo
ai cosiddetti “mafiosi” e a chi “traffica in esseri umani” ma anche ai
rivoluzionari prigionieri, riteniamo indispensabile stimolare un dibattito sia
tra le diverse realtà del movimento rivoluzionario, sia tra i detenuti e i loro
familiari. Ci rendiamo conto
dell’enorme ritardo con cui ci approcciamo a questo dibattito, considerato che
l’articolo 41bis é in vigore dal 1991, ma questo ci é di maggiore stimolo
per mettere a punto una discussione che sappia socializzare le diverse
esperienze di lotta, confrontando le proposte che ne emergeranno per poter
meglio affrontare le lotte che questa ennesima manovra repressiva potrà far
scaturire all’interno e all’esterno del carcere.
Tale dibattito é indispensabile per non ritrovarsi ancora una volta
impreparati di fronte al nascere di una protesta, o rivolta, all’interno delle
prigioni e per poter meglio valutare le possibilità esistenti per uno sviluppo
ulteriore delle proteste, magari con metodi differenti da quelli fino ad ora
usati. Inoltre per riflettere e trovare soluzioni sulle modalità delle
possibili lotte fuori dalle galere in sintonia con quanto da dentro si porta
avanti. Le prigioni sono lo
specchio del sociale, l’appendice di un ordine imposto da quanti pretendono di
dividere per sempre l’umanità in ricchi e poveri, dove i poveri dovrebbero
accontentarsi di elemosinare briciole al banchetto dello Stato-Capitale.
Parlare di galera significa parlare di punizione, parlare di punizione
significa parlare di trasgressione delle regole, e di conseguenza, delle regole
stesse. Chi impone queste ultime conoscerà sempre chi, per desiderio o necessità,
cercherà di infrangerle; finché ci saranno ricchezza e povertà, ci sarà il
furto; finché ci sarà il danaro, non ce ne sarà mai abbastanza per tutti;
finché esisterà il potere, nasceranno i suoi fuorilegge.
E’ proprio nel tentativo di eliminare ogni fermento sociale che possa
fomentare rivolte contro l’ordine costituito, che i paesi europei -
adeguandosi al modello statunitense - si applicano nel dimostrare di saper
tenere in pugno la situazione sociale interna e nell’appianare i contrasti
perfezionando il controllo sociale e reprimendo il dissenso (dalle
manifestazioni di piazza alle lotte dei lavoratori, dall’occupazione di case
ai sabotaggi diffusi contro tutte le nocività).
Ciò avviene anche attraverso un rapido processo
d’integrazione, legislativo, giudiziario, militare (coordinamento delle
polizie locali e dei servizi segreti, mandato d’arresto europeo e
internazionale, “liste nere” delle organizzazioni rivoluzionarie, di
liberazione nazionale o islamiche, applicazione del reato di “terrorismo
internazionale” a chiunque ne appoggi o ne condivida la prassi o
l’ideologia). Si rende necessario per il potere, Stato per Stato, di
rifunzionalizzare gli apparati repressivi adeguando il controllo sociale allo
scontro di classe in corso e alle contraddizioni che questa fase apre.
Assistiamo quotidianamente al suo funzionamento con
l’aumento del fenomeno d’irruzione nelle case dei compagni, delle
perquisizioni nei centri sociali, nella continua applicazione dei reati
associativi, nel monitoraggio costante e nel rastrellamento d’interi quartieri
popolari per l’”emergenza criminalità”, all’aumento dei posti di
blocco, ai fermi arbitrari, alla detenzione nei lager - detti centri di
accoglienza temporanea - con conseguente espulsione degli immigrati senza
permesso di soggiorno. Lo spettro della carcerazione serve per prolungare il
controllo sociale così come ogni forma di repressione serve per prolungare il
consenso forzato. Allo stesso modo le carceri “speciali” e la legislazione
che le legittima (in passato l’articolo 90 e oggi il 41bis) sono studiate per
favorire il massimo controllo e la massima efficienza repressiva e rispondono,
per essere legittimate dall’opinione pubblica, ad esigenze considerate
“emergenziali” diventando, di fatto, strumenti integranti e di
perfezionamento del sistema di coercizione generale.
La lotta contro il carcere comprende molte differenze ed ha
bisogno di confronto, esclude però coloro che hanno a che fare con il potere e
con ogni sua istituzione, con tutti i suoi fiancheggiatori sociali. Chi dice
carcere, infatti, dice giudice, poliziotto, secondino, assistente sociale,
giornalista, politico (di governo o all’opposizione), costruttore, impresario,
appaltatore, psicologo, prete..... responsabili diretti di tutte le angherie,
soprusi, torture, privazioni e sofferenze, di chi si trova ostaggio dello Stato.
Essendo il carcere uno degli strumenti che lo Stato si é dato per
esercitare il proprio potere non dobbiamo farci trovare né impreparati, né
passivi, né divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di dominio
economico e politico del capitale. Costruiamo
una rete di controinformazione e mobilitazione che, a partire dallo “specifico
carcerario del 41bis” sostenga la difesa dell’integrità psicofisica dei
rivoluzionari prigionieri, la loro identità politica la loro storia, una
mobilitazione che sappia indirizzarsi contro l’istituzione-carcere e i suoi
sostenitori, per la libertà di tutti. Ricostruiamo
un terreno di solidarietà di classe anticapitalista e antimperialista, con
l’intento di individuare i modi più opportuni per riuscire a sostenere
concretamente le lotte individuali e collettive dei prigionieri, cioé agire
direttamente contro il potere e i suoi aguzzini.
SUGLI ARTICOLI 41 BIS E 4 BIS DELL’ORDINAMENTO PENITENZIARIO
L’articolo 41bis dell’ordinamento penitenziario, la cui
applicazione é stata recentemente prolungata per tutta la legislatura ed estesa
ai cosiddetti reati di “terrorismo” é, insieme all’articolo 4 bis del
medesimo ordinamento, il risvolto carcerario dell’apparato repressivo che lo
stato ha dispiegato nell’emergenza criminalità organizzata a partire dalla
fine degli anni 80.
Il carcere duro, previsto dal 41 bis, ricalca modelli
detentivi già sperimentati con le carceri speciali istituite nel 1977 e
l’applicazione dell’allora articolo 90 per la madre di tutte le emergenze:
la lotta armata. 41 bis e 4 bis si inseriscono storicamente in un contesto
penitenziario segnato dalla approvazione della legge Gozzini (1986) e delle
leggi sulla dissociazione e il pentitismo.
Il carcere é diventato il luogo del reinserimento
premiale. Quale ulteriore elemento di differenziazione, gli articoli 41 bis e 4
bis inseriscono il mancato accesso ai benefici premiali in base alla condanna.
L’unico modo per potervi accedere consiste nella collaborazione alle indagini
e nell’accertamento di cessato collegamento con l’”organizzazione”
esterna. Il 4 bis impedisce l’accesso ai benefici di legge (lavoro
all’esterno, permessi, licenze, detenzione domiciliare, semilibertà,
affidamento ai servizi sociali o ai programmi terapeutici); il 41 bis, oltre ad
escludere i benefici, istituisce il carcere duro in cui sono sospese le
normali regole di trattamento penitenziario. Con lo scopo di mantenere un
condizionamento premiale anche per le persone sottoposte a 4 bis e 41 bis la
liberazione anticipata é condizionata alla buona condotta interna al carcere:
essa viene conteggiata sulla base delle relazioni semestrali di buona condotta
formulate dal carcere, in maniera analoga alle altre persone detenute.
La nascita
Gli articoli 4 bis e 41 bis dell’ordinamento
penitenziario sono provvedimenti emergenziali introdotti a partire dall’inizio
degli anni é90 (entrano in vigore nella loro forma definitiva nel 1992).
Il decennio precedente era iniziato con le uccisioni di La
Torre e Dalla Chiesa, di quell’epoca sono il pool antimafia di Palermo guidato
da Falcone, i maxiprocessi e il ricorso al pentitismo. I primi provvedimenti di
questa stagione dell’emergenza “mafia” risalgono al 1982, subito dopo i
due omicidi, quando é istituito l’alto commissariato antimafia e viene
approvata la legge Rognoni - La Torre. Il codice penale contempla la nuova
formulazione del reato associativo di tipo mafioso definendo con l’articolo
416 bis l’associazione di tipo mafioso. Insieme all’articolo 416 bis
l’altro reato che più riguarda l’applicazione di 4 bis e 41 bis é il
sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione definito dall’art. 630
del Codice Penale.
A partire dagli anni é80 in nome della lotta alla
“mafia” si estende l’uso arbitrario di arresti e custodia cautelare,
pentitismo, certificazione antimafia obbligatoria, militarizzazione del
territorio. Nel 1986 viene approvata la legge Gozzini e tre anni dopo entra in
vigore il nuovo codice di procedura penale.
La premialità genera una prima differenziazione tra chi
accede ai benefici e chi no, oltre a creare circuiti premiali differenziati per
il reinserimento lavorativo, terapeutico o frutto della dissociazione e
rivelazione di elementi utili alle indagini. Come ulteriore grado di
differenziazione e desolidarizzazione il 4 bis e il 41 bis introducono, in base
al reato, l’impossibilità di accedere ai benefici a chi non si dissocia e fa
i nomi dell’organizzazione criminale ed eversiva. Dal 1992 la loro
applicazione, la cui validità é temporanea (semestrale), é stata sempre
rinnovata, fino a diventare nei fatti regime penitenziario permanente.
Il 4 bis e il 41 bis sono il risvolto penitenziario di un
apparato emergenziale consolidatosi in Italia negli ultimi decenni contro la
criminalità organizzata e i reati considerati di “terrorismo”: comitati
provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica, procura nazionale antimafia
e procure distrettuali, direzione investigativa antimafia, pool giudiziari,
maxiprocessi, pentitismo, reparti speciali delle forze armate e di polizia,
militarizzazione del territorio.
L’utilizzazione
Negli anni il 41 bis, non solo é stato regolarmente
rinnovato, ma la sua applicazione si é via via estesa a nuove categorie di
reato e forme di criminalità organizzata.
Analogamente l’articolo 4 bis é abbondantemente applicato quale
punizione aggiuntiva per le persone detenute nelle sezioni comuni, che in questo
modo devono scontare, per intero, in carcere la condanna. Già da qualche anno
rientrano nell’applicazione del 41 bis le persone condannate per appartenenza
ad organizzazioni criminali straniere, così come la recente disposizione del
governo estende l’uso del 41 bis all’emergenza “terrorismo” e ne
prolunga la durata per i prossimi quattro anni. Grazie alla loro formulazione
gli articoli 4 bis e 41 bis sono utilizzati in maniera diffusa. Essi comprendono
qualsiasi tipo di “delitto” teso ad agevolare l’attività delle
organizzazioni e qualsiasi persona indicata dalla procura nazionale antimafia. Nella criminalità organizzata e per i reati considerati di
“terrorismo” possono essere inclusi numerosi fenomeni associativi, così
come ampio é il ricorso alle condanne per sequestro di persona. La loro
introduzione ha avuto una ricaduta negativa sulla concessione complessiva dei
benefici, orientando tribunali e magistratura di sorveglianza in senso
restrittivo anche al di là dei casi interessati dagli articoli 4 bis e 41 bis.
L’applicazione dell’articolo 41 bis (il regime di carcere duro)
é cresciuta negli anni e riguarda circa 650 persone detenute; il 4 bis, che
prevede l’esclusione dai benefici e la detenzione in istituti e sezioni
carcerarie comuni, é applicato a migliaia di persone detenute.
Circuiti differenziati
Come nel 1977 era stato per l’istituzione delle carceri
speciali e dell’articolo 90, così con il 41 bis il circuito penitenziario si
diversifica con propri regimi detentivi, istituti, sezioni, personale e
strutture di riferimento esterne. Le persone detenute in 41 bis sono sorvegliate
da agenti di polizia penitenziaria che non entrano in contatto con le sezioni
comuni delle carceri. I GOM (gruppo operativo mobile), quei massacratori che
“pare” siano stati scoperti per la prima volta durante il G8 di Genova, sono
agenti speciali della polizia penitenziaria, alle dirette dipendenze del
ministero, incaricati di effettuare ispezioni, trasferimenti e attività di
intelligence carceraria relativamente alle persone in 41 bis. Gli articoli 41
bis e 4 bis contengono anche una differenziazione al proprio interno basata
sulla creazione di tre fasce di pericolosità dei reati cui corrispondono
diversi gradi di possibilità di accesso ai benefici.Reati di prima fascia: 416
bis CP (associazione mafiosa), al fine di agevolare l’attività delle
associazioni del 416 bis CP, delitti art 630 CP (sequestro), art 74
decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n. 309 (traffico
stupefacenti). Reati di seconda
fascia: come la prima fascia con circostanze attenuanti art. 62 numero 6, art.
114 CP, art. 116 secondo comma.
Reati di terza fascia: delitti commessi per finalità di
terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, art. 575, 628
terzo comma, 629 secondo comma, art. 73 nelle ipotesi aggravate ai sensi
dell’art. 80 comma 2 del decreto del Pres. della Repubblica 9 ottobre 1990 n.
309. Il procuratore nazionale antimafia e il procuratore distrettuale, su
segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, hanno
inoltre la facoltà di stabilire l’applicazione degli articoli 4 bis e 41 bis
a qualsiasi persona detenuta ritenuta in collegamento con la criminalità
organizzata, al di là dei reati per cui essa é condannata.
Per i reati di prima fascia l’unica alternativa al
carcere duro é la collaborazione con l’autorità giudiziaria che porti
benefici concreti all’azione repressiva. Tale forma di collaborazione sulla
base di una propria disciplina specifica dà accesso a benefici e programmi di
protezione.
Per i reati di seconda fascia occorre una collaborazione
anche senza effetti pratici sulle indagini e l’accertamento dell’esclusione
di collegamenti con la criminalità organizzata.
Rispetto ai reati di terza fascia la revoca é condizionata
dall’esclusione di qualsiasi collegamento con l’”organizzazione”
esterna.
La differenziazione si ripercuote anche nei regimi
detentivi di sicurezza del 41 bis. Un
regime iniziale di massima sicurezza estremamente duro, della durata di almeno
un anno e un regime ordinario di sicurezza speciale. Il primo viene applicato
con lo scopo di creare un isolamento completo e favorire la confessione.
Limitazioni della difesa
La discrezionalità che l’articolo 41 bis prevede per gli
apparati preposti a verificarne la legittimità rende vano qualsiasi tentativo
di ricorso contro la sua applicazione, anche prima della sentenza di condanna
definitiva. Per revocare 41 bis e 4 bis, fuori dai casi di collaborazione, si
deve escludere qualsiasi collegamento con l’”organizzazione” esterna
secondo le informazioni fornite dall’apparato investigativo (sia giudiziario
sia di polizia). I collegamenti comprendono qualsivoglia rapporto o relazione
con ambienti o persone appartenenti alla criminalità organizzata, anche se non
condannate a tal riguardo. Rispetto ai collegamenti con le organizzazioni
esterne vige una presunzione di colpevolezza dettata dalla sentenza di condanna
che ne stabilisce l’esistenza al momento della commissione del delitto.
Per la revoca del 4 bis e 41 bis occorre una prova negativa
che dimostri la scomparsa di tali collegamenti e a fornirla devono essere gli
apparati giudiziari e di polizia. I
colloqui con l’avvocato dentro il carcere si svolgono con vetro divisorio e
citofono o interfono. Nell’applicazione del 41 bis sono previsti anche i
processi in video-conferenza con la lontananza della persona imputata
dall’aula del dibattimento e il collegamento telefonico con la difesa.
Limitazioni dei contatti esterni
I contatti tra la persona detenuta e l’esterno sono
volutamente limitati, anche per quanto riguarda il nucleo familiare che é
considerato dall’istituzione un potenziale tramite con l’organizzazione
esterna. Le persone sottoposte a 41 bis sono detenute in carceri speciali, o
sezioni speciali di istituti, in città distanti da quelle di provenienza; i
colloqui sono limitati nel tempo (più di quanto imposto alle altre persone
detenute) e nelle forme (vetri divisori e controlli).
Il regime 41 bis di massima sicurezza prevede un unico
colloquio al mese, quello di speciale sicurezza ne prevede da due a quattro che
si svolgono in un locale molto piccolo, una sorta di acquario col vetro
divisorio fino al soffitto, telecamera e citofoni per parlare con i parenti; a
volte questi “locali” sono di 1 metro per 1 metro e i familiari devono fare
i turni per parlare al citofono.
Le restrizioni riguardano anche i colloqui telefonici che
non possono essere effettuati verso le abitazioni di residenza della famiglia né
ad apparecchi mobili. I famigliari, su appuntamento, si devono recare presso il
carcere cittadino e da lì ricevere le telefonate per una durata inferiore di
quella concessa con la detenzione ordinaria. Sono penalizzati anche i pacchi
dall’esterno e la posta. C’é il visto di controllo sulla corrispondenza in
arrivo e in partenza: le lettere in arrivo vengono aperte e controllate, quelle
in partenza devono essere consegnate aperte.
Limitazioni della vivibilità interna
Le sezioni del 41bis sono sempre in una palazzina separata
dal resto del carcere e 6 di queste hanno una cosiddetta “Area Riservata”
per i detenuti definiti “eccellenti”. Solitamente
sono al piano terra della sezione, quella meno areata e illuminata del carcere,
con il cesso nella cella posto dietro un muretto.
Il “passeggio” di quei detenuti più “speciali” degli altri é
una sorta di gabbia in cemento armato di due, tre metri per cinque e alta tre
metri, chiusa in cima da una pesante rete metallica a maglie molto strette, il
tutto video sorvegliato. In queste aree possono finirci anche detenuti che non hanno
commesso grossi reati o che sono prossimi al fine pena.
Le sezioni “normali” del 41bis hanno un bagno separato.
In alcune sezioni (Cuneo, L’Aquila, Viterbo) ci sono fino
a tre sbarramenti alle finestre delle celle: il primo di sbarre vere e proprie,
il secondo di una rete abbastanza fitta, il terzo fatto da una serie di fasce di
ferro o di vetro anti-scasso attaccate una sopra l’altra a formare una specie
di tapparella (“gelosia” in gergo penitenziario) leggermente inclinata verso
l’esterno, dalla quale filtra poca aria e poca luce, con conseguente
abbassamento della vista. ll 41 bis
prevede poche ore d’aria e durante queste limita le possibilità d’incontro
tra le persone detenute a piccoli gruppi (da due a otto persone) o in
solitudine. Non si ha accesso alle
strutture sportive e ai luoghi di socialità comune. Il passeggio é confinato a
vasche di cemento.
La lista di beni alimentari acquistabili con la spesa é
limitata, non si possono cucinare le pietanze, né si ha accesso alla
commissione di controllo in cucina. Le
numerose restrizioni riguardano gli oggetti consentiti in cella, comprese le
fotografie, le musicassette e le bottiglie. Le persone sottoposte a regime 41
bis sono escluse dai programmi didattici e dalla frequentazione di scuole e
corsi interni al carcere. E’
limitato l’accesso alle biblioteche e i contatti con il volontariato, così
come la scelta di giornali e riviste. Si può tenere in cella un numero ridotto
di libri, fascicoli, quaderni e penne. Sono vietate le pubblicazioni con
copertina rigida.
E ancora...
Oltre a tutto ciò che il 41 bis prevede per legge e nelle
circolari di applicazione, c’é un settore sommerso di diversi comportamenti
extra legali che ha luogo nelle diverse carceri e sezioni. Notizie di
maltrattamenti, pestaggi, torture, soprusi e vere e proprie esecuzioni sono
emerse da dietro le mura. In ogni istituto o sezione 41 bis esistono particolari
tipi di vessazione imposti dagli agenti penitenziari, dalla direzione o dalla
magistratura e tribunali di sorveglianza.
Conclusioni
Sino a qui, ciò che é stato e ciò che é a tutt’oggi.
Con le nuove leggi europee si allargano le possibilità
repressive che gli Stati si sono dati per controllare e reprimere il dissenso.
Difatti, in materia di legislazione europea, si arriva a
prevedere il fine terrorista anche per i reati di “occupazione abusiva o
danneggiamento di infrastrutture statali e pubbliche, mezzi di trasporto
pubblico, luoghi e beni pubblici (...) cui potrebbero rientrare gli atti di
guerriglia urbana”.
Qualsiasi forma di dissenso politico che travalichi o
minacci la legalità é terrorismo, quindi anche qui é possibile che venga
applicato l’art. 41bis a chi verrà imputato di tali azioni.
Appare subito evidente che se non iniziamo ad opporci
concretamente, presto ci ritroveremo di fronte ad enormi difficoltà di
movimento.
La storia ci ha insegnato che é sempre nei momenti di
abbassamento del livello di scontro che il potere trova il tempo e i modi per
razionalizzarsi e approntare i propri mezzi di difesa e attacco contro gli
sfruttati e chi si ribella. E non
credano, coloro che sono abituati a dialogare con le Autorità, o che pensano
(ragionando in termini di slogan) che “fare la tal cosa non é reato”, di
essere esenti dalle attenzioni repressive.
Le ultime incriminazioni per il reato di associazione
sovversiva sono state costruite partendo dalla contestazione di reati di
entità notevolmente differente, come l’attentato, la rapina, il
danneggiamento, la propaganda, il furto di un auto e, da ultimo - per le nuove
disposizioni europee - anche gli incidenti durante le manifestazioni e
l’interruzione di pubblico servizio.
Qualsiasi reato potrà essere contestato con l’aggravante
“terrorismo”, di conseguenza chiunque potrà finire nei circuiti del 41bis.
E’ una cosa che riguarda tutti, ladri, ribelli,
rivoluzionari e antagonisti, chiunque violi, per scelta o necessità, il Codice
Penale.
CARCERI CON SEZIONI DEL 41bis CUNEO L’AQUILA MARINO DEL TRONTO (AP) NOVARA PARMA PISA (centro diagnostico terapeutico) REBIBBIA (femminile e maschile) SECONDIGLIANO (NA) SPOLETO TERNI TOLMEZZO (UD) VITERBO DETENUTI IN 41bis AL 27.07.02 645 di cui 17 nell’area riservata POSIZIONE GIURIDICA 421 definitivi 55 ricorrenti 81 appellanti 79 in attesa di primo giudizio 9 non classificati |
I GOM (GRUPPO OPERATIVO MOBILE)
E’ un gruppo scelto di agenti di Polizia Penitenziaria
che opera alle dipendenze dirette del Direttore del Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria presso il Ministero di Giustizia. Questo
corpo speciale nasce da un decreto interno al Dipartimento
dell’Amministrazione Penitenziaria nel 1997, sulla base di indicazioni già
contenute in un decreto del 1994, dopo che era scoppiato lo scandalo dei
pestaggi nel carcere di Napoli Secondigliano - vedi il dossier del Comitato
Liberiamoci dal carcere di Napoli “Da Sassari a Poggioreale” del 2000 (http://www.ecn.org/ska/carcer/dossier.html).
Tra le finalità ufficiali di questa struttura vengono indicate il
mantenimento dell’ordine e della disciplina negli istituti penitenziari, con
priorità a interventi in occasione di “gravi situazioni di turbamento”;
inoltre i Gom sono impegnati nel garantire la sicurezza delle traduzioni e
piantonamento relativi a detenuti ed internati definiti ad altissimo indice di
pericolosità e con particolare posizione processuale (collaboratori di
giustizia e altri), che possono essere effettuati, per motivi di sicurezza e
riservatezza, in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia, con
particolari modalità operative. Il
GOM ha inoltre provveduto, sia in via esclusiva che di concorso, secondo
specifiche disposizioni impartite dal Direttore Generale, al servizio di
custodia dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41 bis
dell’Ordinamento Penitenziario (carcere duro), laddove esista l’opportunità
di ulteriori misure di sicurezza, e dei “collaboratori di giustizia” in
stato di detenzione, ritenuti maggiormente esposti al rischio di aggressioni
Infine al GOM competono i servizi di tutela e scorta del personale in servizio
presso l’Amministrazione penitenziaria esposto a particolari situazioni di
rischio personale (effettuati dal Nucleo Tutela e Scorte costituito da circa 50
unità), la traduzione di tutti i detenuti “collaboratori di giustizia”, ad
altissimo rischio, la gestione del servizio di multivideocomunicazione (processi
in videoconferenza) e gli interventi disposti dal Direttore Generale nei casi di
emergenza previsti dall’art. 41
bis (irruzioni nelle celle, intercettazioni).
Il GOM, diretto dal Generale Alfonso Mattiello, é
costituito da circa 600 uomini alle dirette dipendenze della Direzione del
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
Ufficialmente ha compiti di sorveglianza e protezione dei
detenuti di massima pericolosità.
Come già scritto, il GOM nasce nel 1997, dalle ceneri
dello Scop (Servizio coordinamento operativo), un corpo composto da 500 uomini
sparsi in tutta Italia e pronti a correre da un carcere all’altro in caso di
rivolte o di particolari necessità.. Lo Scop infatti, oltre a sedare le
proteste ha avuto la funzione, poi ereditata dal Gom, di acquisire informazioni.
Il corpo speciale del GOM é il fiore all’occhiello del corpo di Polizia
Penitenziaria - si veda il sito http://www.poliziapenitenziaria.it - e gode di
cospicui finanziamenti. In realtà l’operato degli agenti GOM si
contraddistingue dalla particolare brutalità nelle ispezioni che regolarmente
si trasformano in devastazioni delle celle, degli oggetti personali delle
persone recluse, nonché maltrattamenti e soprusi nei loro confronti. Proprio
per questo si era pensato a un coinvolgimento dei GOM nel pestaggio del carcere
di Sassari dell’aprile 2000, sebbene sia poi emerso che la presenza di agenti
GOM fosse limitata a poche unità. I GOM sono coperti dalla più totale impunità
in quanto non rispondono delle loro azioni né alla Direzione né al Comando
delle guardie dell’Istituto penitenziario in cui intervengono e godono
dell’autorizzazione a intervenire direttamente dal Ministero. Vengono anche
utilizzati in modo mirato per colpire i traffici che vedono il coinvolgimento di
agenti penitenziari locali. Durante
gli anni é90 furono aperte due grandi inchieste per maltrattamenti avvenuti
nelle carceri di Secondigliano e Pianosa. Vennero rinviati a giudizio 65 agenti
dello Scop diretti dal generale Enrico Ragosa, poi passato al Sisde e adesso
alla direzione dell’UGAP (Ufficio Garanzie Penitenziarie) che dirige
l’attività dei GOM (http://www.giustizia.
it/guidagiustizia/dap_ugap.htm). Il carcere di Pianosa venne in seguito
chiuso per intervento dell’ex direttore del Dap, Alessandro Margara,
all’epoca magistrato di sorveglianza a Firenze. Oggi il ministro della
Giustizia Castelli chiede la riapertura del carcere di Pianosa,insieme a quella
di altri istituti dismessi. Lo Scop
fu poi disciolto ma il suo posto fu preso dal GOM, dove confluirono gli stessi
agenti. Nel 1998, 15 agenti GOM entrano nel carcere milanese di Opera per
effettuare una perquisizione straordinaria. Anche in quell’occasione si
utilizzò il paragone cileno: “Detenuti spogliati, qualcuno anche tre
volte, costretti a ripetuti piegamenti, pure i cardiopatici e gli anziani;
quindi raggruppati nel cortile, al freddo dalle 9.30 alle 13.30, chi in
accappatoio, chi scalzo, mentre le celle venivano perquisite”. “Alcuni
agenti di Opera erano sconcertati, ed hanno raccontato di aver rischiato di
arrivare alle mani con i loro colleghi del Gom”. Le richieste di
scioglimento dei GOM in quell’occasione non portarono a nessun risultato,
anche se, come in passato per gli scandali riguardanti lo Scop, nacque
l’esigenza di cambiare la sigla del corpo, o confonderla in quella di un
ufficio di coordinamento. Nel 1999 Diliberto, ministro della Giustizia del
governo D’Alema, dopo aver posto ai vertici dell’Amministrazione
Penitenziaria Giancarlo Caselli in sostituzione di Margara, fa nascere l’UGAP
(Ufficio Garanzie Penitenziarie) che attualmente dirige l’attività dei GOM. A
capo dell’UGAP viene messo il generale Enrico Ragosa, già degli Scop e del
SISDE, che guiderà anche la spedizione di funzionari del ministero di giustizia
italiano in Kossovo per procedere alla ricostruzione e riorganizzazione
post-bellica del sistema penitenziario Kosovaro. Nel febbraio del 2000 il GOM
ottiene un distintivo di appartenenza, nel marzo 2000 agenti dei GOM
intercettano, in palese violazione della legislazione vigente, le comunicazioni
tra un imputato e il suo avvocato durante un processo per associazione
camorristica. Il Gruppo Operativo Mobile dispone di automezzi e autovetture,
anche protette. Il perfetto stato di efficienza dei mezzi, per l’immediato
impiego, é garantito dal Centro Servizi, ove opera personale di polizia
penitenziaria con specifica esperienza nel settore (circa 15 unità), per il
quale l’aumento delle esigenze operative, unitamente al potenziamento della
dotazione di veicoli, ha comportato un incremento notevole delle attività. Il
GOM ha operato ed opera presso le Case Circondariali di Roma “Rebibbia Nuovo
Complesso”, Roma “Regina Coeli”, Velletri, Viterbo, L’Aquila, Ascoli
Piceno, Pisa, Cuneo, Napoli “Secondigliano”, Catanzaro, Agrigento, Palermo
“Ucciardone”, Palermo “Pagliarelli”, Trapani, Novara, Tolmezzo,
Alessandria, nonché presso le Case di Reclusione di Spoleto, Sulmona e Parma.
LE CARCERI TURCHE E LE CELLE TIPO “F”
La carcerazione speciale in Turchia necessita un discorso
differente dal resto dei regimi di detenzione europei. Essa deve la sua
metamorfosi ad un percorso d’integrazione al modello occidentale dei sistemi
di contro rivoluzione preventiva intrapreso dallo Stato turco.
La Turchia, dal punto di vista strategico militare, riveste
un ruolo particolarmente importante tra occidente e medio oriente, é quindi una
base strategica fondamentale per il guerrafondismo capitalista
americano/occidentale - vedi Iraq e Afghanistan. Lo Stato turco, come membro della Nato, fedele alleato con le
forze statunitensi nella nuova “guerra infinita al terrorismo” e prossimo
all’ingresso nell’Unione Europea, deve adeguare la propria immagine di Paese
dalle maniere repressive “primitive” ad una più consona di Stato
democratico, questo anche a riguardo alle patrie galere.
Esso deve rimodellare le sue carceri introducendo l’isolamento,
prendendo a modello le celle come quelle americane e spagnole, pur non
disdegnando la vecchia ma sempre praticata tortura e guadagnandosi il rispetto a
suon d’asservimento agli U.S.A., i quali contraccambiano regalando al regime
di Ankara armi ed elicotteri di propria fabbricazione.
Nel 1996 viene introdotta la prima cella di tipo “F” (F
type). Questa “innovazione” in campo carcerario persegue l’obiettivo
d’isolare i prigionieri politici dai detenuti comuni.
L’applicazione dell’isolamento nelle attuali condizioni delle carceri
turche, peraltro, é di difficile attuazione dato l’ammassamento dei
prigionieri nelle celle comuni. Questa
prima cella tipo “F” fu accolta dai detenuti con uno sciopero della fame che
vide coinvolte 69 persone, tra le quali aderirono prigionieri comuni islamici.
Morirono 12 persone, riuscendo col loro gesto a far chiudere il carcere in
questione, non rendendo vana la loro lotta.
L’obiettivo delle celle di tipo “F” oltre che a voler
dividere i detenuti, é anche quello di distruggere l’identità rivoluzionaria
dei prigionieri politici, oltre che spingere al pentitismo, alla delazione o
alla dissociazione.
Numerose furono le rivolte, represse brutalmente dai
secondini congiunti alla Cevik Kuvvetleri (forze di azione rapida) e squadre
anti-sommossa che usarono largamente armi da fuoco e liquidi infiammabili.
Clamorosi furono i casi delle sanguinose sommosse negli anni ‘95, ‘96 e
‘99, costate la vita a molti detenuti, e il ferimento di altre centinaia, che
furono mutilati, stuprati, torturati, resi irriconoscibili. I prigionieri di
fronte a simili barbarie, hanno sempre fronteggiato dignitosamente le
istituzioni carcerarie e la mafia interna (utilizzata per vere e proprie
esecuzioni specialmente per i detenuti in sciopero della fame) resistendo anche
fino alla morte. Strumento
importante, per le lotte contro il carcere, utilizzato dai detenuti in Turchia
é lo sciopero della fame. Tra gli ultimi nell’Ottobre del 2000, 819
prigionieri politici in 18 carceri differenti iniziano uno sciopero della fame
ad oltranza. In seguito, in 13 carceri, 203 prigionieri politici trasformarono
la loro resistenza in uno sciopero della fame sino alla morte: 50 donne, 153
uomini.
Nel Dicembre 2000 questa lotta fu repressa brutalmente
dallo Stato col fuoco e le pallottole.
Ci sono state manifestazioni di protesta di massa in
Turchia, con la partecipazione di decine di organizzazioni, sindacati ed
associazioni per i diritti umani: tutti quelli che hanno protestato sono stati
colpiti dalla repressione, con diversi arresti e la chiusura di varie
associazioni (tra cui quella delle famiglie dei prigionieri, TAYAD), giornali
censurati, avvocati minacciati. Lo Stato non é comunque riuscito, attraverso i
massacri, a fermare la campagna di scioperi della fame, nemmeno minacciando i
dottori e continuando la tortura attraverso l’alimentazione forzata e
l’incatenamento dei prigionieri ai letti.
Il 28 maggio 2002 i detenuti sanciscono la cessazione dello
sciopero della fame ad oltranza, ma questo non segnerà la fine delle lotte
contro le celle di tipo “F” promosse e appoggiate dai militanti
rivoluzionari e da molti detenuti comuni. La lotta cambierà le modalità ma non
perderà la sua forza nonostante la repressione tuttora in atto.
I prigionieri, quindi, continueranno a rivendicare:
l’abolizione delle celle di tipo “F”; la fine delle torture, sia fisiche
sia psicologiche, e dell’isolamento; l’introduzione periodica di controlli
alle prigioni da parte di avvocati addetti a questo compito, medici selezionati
dai prigionieri, delegati di organizzazioni che appoggiano i detenuti, O.N.G.
per i diritti umani e il sindacato della Magistratura; controlli non arbitrari e
tutelati dalla legge; l’abolizione della legge antiterrorismo n° 3713; la
cancellazione del protocollo tripartito (del Ministero della Giustizia, degli
Affari Interni e della Salute) che abolisce la difesa e legittima il trattamento
coatto dei malati e la tortura; l’abolizione del DGM (Corti di Sicurezza
Statali) risalenti al periodo della giunta; che siano processati i responsabili
delle morti e dei feriti causati dagli attacchi a diversi carceri; il rilascio
dei malati e dei feriti.
TRATTO DA “SOLIDARIDAD, POR UN SOCORRO ROJO INTERNATIONAL” N.5 OTTOBRE 2002 Lo sciopero della fame più lungo di tutta la storia
continua a verificarsi nelle carceri turche di sterminio. I dati affermano
che i nostri prigionieri, quelli del TKEP/L, continuano la protesta ad
oltranza. In maggio molte
organizzazioni decisero di porre fine allo sciopero ad oltranza fino alla
morte, per ragioni che non condividiamo fino in fondo, ma che sono da
rispettare, soprattutto quando continuano a dimostrare che la loro
resistenza continua nelle carceri di sterminio.
Gli scioperi della fame, comunque, continuano e fino ad oggi i
morti rivoluzionari arrivano a 92. Anche le azioni di solidarietà, gli incontri, le proiezioni di video e le iniziative contro la situazione turca nel resto d’Europa stanno continuando apportando un grosso contributo d’appoggio ai prigionieri in lotta. In risposta a queste rivolte ed espressioni di resistenza e lotta, il DHKP/C é stato incluso nella lista delle organizzazioni terroriste. |
LA CARCERAZIONE SPECIALE IN SPAGNA (I MODULI
FIES)
Durante gli anni ‘70 e ‘80 in molte carceri della
Spagna vi furono diverse sommosse caratterizzate da vere e proprie rivolte,
scioperi della fame e dei laboratori di lavoro e parecchi morti e feriti tra i
prigionieri e tra i carcerieri. Alla
fine di Gennaio del 1977 esce pubblicamente il “Manifesto dei prigionieri
sociali di Carabanchel”, che ò il risultato dello studio delle cause della
loro situazione e la sua possibile soluzione.
Si forma il coordinamento dei prigionieri in lotta (COPEL)
che rivendica miglioramenti concreti nelle carceri, un’amnistia totale, e
l’abbattimento delle leggi e delle strutture ereditate dal franchismo. A
questa situazione lo Stato rispose con una forte repressione, che comportò
l’indebolimento e la successiva scomparsa del COPEL. Nel 1991, mentre in Italia veniva istituito il 41bis, in
Spagna vengono instaurati i regimi speciali per i prigionieri F.I.E.S. (archivio
di interni in speciale osservazione), su richiesta dell’esponente del partito
socialista spagnolo (P.S.O.E.), Antoni Ansuncion.
Nel 1994 il Tribunale Costituzionale accordò di sospendere
questo regime FIES fino a quando si trasmise a questo Tribunale il ricorso di
tutela di diritti presentato da alcuni detenuti.
Dopo la promulgazione del nuovo regolamento penitenziario,
la filosofia della circolare del 2/8/91 che regola il regime al quale sono
sottoposti i prigionieri FIES, continua ad esistere.
Questo regime, la cui durata é a tempo indeterminato,
prevede un isolamento pressoché totale; i piccoli cortili per l’ora d’aria
sono coperti da reti metalliche; vengono effettuate perquisizioni integrali;
esposizioni arbitrarie ai raggi X; torture fisiche; trattamenti farmacologici
con psicofarmaci e letti di contenzione.
I moduli sono progettati e suddivisi in cinque sezioni e vi
sono rinchiusi individui catalogati in base alla loro pericolosità sociale:
FIES I - rinchiude individui protagonisti di rivolte,
azioni contro il sistema e le autorità, tentativi di evasione.
FIES II - racchiude indiziati per traffico di droga e
riciclaggio.
FIES III - racchiude presunti appartenenti ad
organizzazioni rivoluzionarie. FIES
IV - raggruppa appartenenti alle forze di sicurezza dello Stato per proteggerne
l’integrità.
FIES V - vi sono collocati gli antimilitaristi e coloro che
destano allarme sociale. Dal ‘94
in poi le lotte contro le condizioni carcerarie e il carcere stesso continuarono
dentro e fuori, nonostante l’istituzione del regime speciale.
Di particolare rilievo fu un episodio del 1977, quando diverse persone e
collettivi si rinchiusero nella cattedrale dell’Almudena per protestare ed
esigere la chiusura dei moduli FIES.
Dal 1999 ad oggi I prigionieri FIES continuano la lotta che
si manifesta con continui scioperi della fame, rifiuto dell’ora d’aria, di
effettuare le pulizie, spesso si scontrano con le guardie, devastano le celle e
rendono inagibili le sezioni. All’esterno vi sono state varie manifestazioni
di solidarietà che sono spaziate dai cortei ai presidi sotto le carceri, dalla
controinformazione alle azioni dirette contro strutture legate all’istituzione
carcere, contro giornalisti e banche. Solidarietà che si
é espressa sia in Spagna sia in altri paesi europei, Italia compresa.
Attualmente i prigionieri nei moduli F.I.E.S. esigono:
la scarcerazione dei detenuti con malattie terminali;
la cessazione della dispersione dei detenuti;
la cessazione dell’isolamento e l’abolizione
dell’archivio F.I.E.S.
TESTIMONIANZA TRATTA DA UNA LETTERA DI CLAUDIO LAVAZZA, ARRESTATO NEL ‘96 E DA ALLORA RINCHIUSO IN UN MODULO F.I.E.S. (...) “La proposta seria di lotta l’abbiamo pure
lanciata ai quattro venti ed é pubblicata nella rivista Senza Censura n°5
(giugno 2001, pag.47) che, riassumendo, diceva: ése ci costringete a
vivere nella merda, che nella merda ci vivano anche quelli che ci
sorvegliano’. Si trattava di otturare i cessi per far si che la tubatura
scoppiasse in tutto il modulo FIES, ed é quello che successe nel carcere
di Picassent, a Valencia. Dopo
una settimana impiegata ad otturare I W.C. con stracci, borse di plastica,
ecc ...le tubature saltarono inondando di merda anche i locali normalmente
frequentati (per il loro lavoro) dai secondini, obbligandoli a chiudere
immediatamente l’intero modulo per il grave pericolo di infezioni, e
anche perché non avevano il coraggio di lavorare con mezzo metro di merda
nel pavimento. A me, noi non ce ne frega niente di rimanere mesi con la
merda nelle celle...però ai secondini sì che gli dà fastidio...
eccome! Quante volte abbiamo
chiesto la chiusura dei Bracci FIES con i nostri scioperi della fame? Però
é bastato riempirli di merda per chiuderli momentaneamente... Vi
immaginate se tutti i Bracci FIES fossero riempiti di escrementi?
Al potere gli interessa solo l’economia, e l’esistenza sicura
dei suoi servi, a questi non basta un buon salario, chiedono anche buone
condizioni nel posto di lavoro...e con la merda non si scherza. Nessuno ci
vuole avere a che fare. Questa grande proposta l’abbiamo fatta circolare un po’
dappertutto, assieme ad altre di sabotaggi continui e ripetuti alle
strutture di vigilanza e controllo, camere, metal detector ecc, però non
c’é stata risposta, se non in poche situazioni. Il trucco, se così lo
possiamo chiamare, é di rompere e sabotare senza essere visti, senza che
i cani possano accusarti di aver fatto... Anche perché, per un vetro
rotto ti possono aumentare la condanna di due anni.
(...) C’é chi si lamenta che le cose non sono più come erano
anni fa quando c’erano i compagni/e. Tenete presente che quando circa 400 prigionieri hanno
iniziato lo sciopero della fame solo il 10% sarebbe stato d’accordo ad
una lotta di bassa intensità (sabotaggi); quella ad alta intensità
(senza armi) non possiamo dichiararla, anche perché queste strutture sono
concepite in modo che la custodia ti possa bloccare da solo con 15 o 20
secondini armati di tutto punto (anti-sommossa).
Però una cosa é chiara e deve esserlo per tutti quelli che
soffrono le torture e le ingiustizie, e cioé che niente deve essere
dimenticato e alla prima occasione, quando tu lo decidi e non loro,
abbiamo il dovere di vendicarci del torturatore.
Ad es., a Jaen, nel carcere dove stavo prima, se un compagno veniva
torturato o insultato, quel giorno stesso e quella notte si picchiavano le
porte (non dormiva nessuno perché il rumore si poteva sentire fino a
parecchi Km di distanza), e poi insulti al direttore dalle finestre, senza
poi dimenticare la guerra di bassa intensità. Ci costava, però quasi
sempre ottenevamo quanto richiesto, vale a dire l’allontanamento dei
secondini torturatori, e ciò era sempre festeggiato da noi come una
vittoria. Di idee ce ne sono un mucchio, tanto scritte quanto dette,
noi le abbiamo anche messe in pratica e hanno funzionato. Se non si fa é
perché non si vuole o perché c’é molto da perdere. Chiaramente se ci
fosse un buon appoggio dal movimento esterno forse sarebbe diverso. (...) A Cordoba si sente come maltrattano un prigioniero, però
nessuno protestava, cosa del tutto impensabile in un Modulo dove ci sono
solo i più ribelli con o senza preparazione politica. Questa mancanza di
solidarietà é dovuta alle differenze che creano i benefici penitenziari.
Come nella società libera chi ha di più é meno interessato alla
situazione di chi ha nulla. Un
prigioniero FIES ha niente, per lui il carcere é un inferno; uno in 2°
grado ha quasi tutto, questo fa la differenza e, credetemi, la distanza
tra una realtà e l’altra la si può calcolare in anni luce. (...)”. Maggio 2002 |
DALL’ART. 90 ALLE CARCERI SPECIALI AL 41
BIS
Il carcere imperialista e il suo funzionamento sono una
delle più alte espressioni del domino coercitivo imposto nella società divisa
in classi come quella in cui viviamo. Proprio
per questo esso può rappresentare un’illuminante chiave di lettura per
comprendere i codici che regolano la società attuale, la lotta di classe e i
rapporti di forza in campo. Non a caso si sente spesso ripetere: “Il carcere
é lo specchio della società”. Analizzando
le trasformazioni avvenute nel suo ordinamento negli ultimi decenni ci
accorgiamo infatti che esse portano con sé parte importante della lotta di
classe e della lotta rivoluzionaria nel nostro paese e indicano le idee guida
che ha seguito la borghesia non solo per rimodellare il sistema carcerario ma
anche per imporre il suo sistema di dominio in tutta la società. Ci accorgiamo
anche che ogni trasformazione non é transitoria e atta a far fronte a qualche
emergenza ma é già inscritta nella natura stessa del carcere e del dominio di
classe che esso tutela. Si tratta di modifiche che registrano lo stato del
rapporto di forza tra le classi e mettono in luce la funzione non solo
repressiva (del castigo) ma anche quella preventiva (di deterrenza) sia per i
comportamenti sociali che escono dalle regole prestabilite della cosiddetta
“convivenza civile” sia per i comportamenti politici rivoluzionari che
coscientemente mettono in discussione il potere. Il carcere é quindi uno degli strumenti della
controrivoluzione preventiva, attività costante e strutturata di ogni stato
“democratico” imperialista che fonda il suo potere sull’oppressione di una
classe sull’altra.
Queste riflessioni trovano verifica se andiamo a vedere il
percorso che porta dall’art. 90
all’art.41 bis. Ripercorrendo questo itinerario siamo in un’ottima posizione
per studiare la realtà perché la guardiamo da uno dei punti più alti
dell’apparato repressivo: il carcere nel suo primo girone, quello di massima
sicurezza. Questa istituzione totale é infatti organizzata come i gironi
dell’inferno dantesco regolati dal codice della premialità, questi gironi
trasbordano fin fuori dalle mura attraverso le misure alternative alla
detenzione. Proviamo ora a vedere i passaggi della modifica del sistema
detentivo negli ultimi decenni.
L’art. 90 fa parte della legge sull’ordinamento
penitenziario del luglio ‘75, comunemente conosciuta come riforma carceraria,
ma esso non viene immediatamente applicato.
Esso dice: “Quando ricorrono gravi ed eccezionali motivi di ordine e
sicurezza, il Ministro per la Grazia e Giustizia ha facoltà di sospendere, in
tutto o in parte, l’applicazione in uno o più stabilimenti penitenziari, per
un periodo determinato, strettamente necessario, delle regole di trattamento e
degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto
contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Con questo fatto lo stato
si arroga la possibilità che il suo esecutivo possa, a suo piacimento,
sospendere una legge e definire che a una parte di cittadini vengano sospesi dei
diritti.
La riforma carceraria, di cui fa parte questo articolo, é
stata la risposta a un grosso
ciclo di lotte dei detenuti e il codice che la informa é
la premialità e la pena a seconda
del comportamento dei prigionieri. Si fa strada il
tentativo borghese, sperimentato nel
carcere ma applicato a tutta la società, di costruire un
enorme setaccio con cui dividere,
a secondo delle compatibilità con il sistema
capitalistico, i buoni dai cattivi, quelli che
si possono “recuperare” e quelli che si devono
annientare. Anche nella fabbrica, nel
mondo del lavoro e nel territorio viene applicato lo stesso
sistema attraverso una modulazione di interventi e misure repressive con la
logica dell’integrazione o dell’esclusione.Il fine é quello di far fronte e
fermare le lotte operaie e proletarie e la ribellione sociale espressione delle
contraddizioni di un sistema che, dall’inizio del decennio, é entrato in una
crisi che poi si verificherà come strutturale. Ed é anche quello di assestare
un colpo alle organizzazioni combattenti che hanno visto, lungo tutto il
decennio precedente, un rigoglioso sviluppo.
Ma anche dopo l’approvazione della legge, le lotte dei
prigionieri non si fermano e si collegano con il movimento rivoluzionario
all’esterno, per lo stato le carceri diventano ingovernabili. Si verificano
rivolte e proteste di massa con la particolarità italiana dell’unione nella
lotta fra detenuti politici e comuni. Per questa unità le basi erano state
gettate dai Nuclei Armati Proletari (NAP) che avevano teorizzato e praticato
l’unione tra i proletari prigionieri, i prigionieri politici e il proletariato
extralegale. Le Organizzazioni Combattenti promuovono nelle carceri organismi di
massa, i Comitati di Lotta in dialettica con la loro iniziativa esterna sul
fronte delle carceri.
La risposta dello Stato é, nel 1977, l’istituzione delle
carceri speciali sorvegliate dai carabinieri. L’art. 90 viene applicato a
partire dal 1980. Questo passo avviene gradualmente con l’istituzione dei
cosiddetti “braccetti” cioé sezioni di massimo isolamento con la riduzione
o l’interruzione dei contatti con l’esterno. L’attuazione di questi
passaggi nelle carceri é contemporanea alla modifica del codice penale con
l’approvazione del 270 bis (associazione sovversiva con finalità di
terrorismo) e quella delle leggi su pentitismo e dissociazione (la famigerata
legge Cossiga).
Contro l’art. 90, dalle carceri all’esterno, prende
corpo un vasto movimento. L’art. 90
non viene più rinnovato dall’ottobre del 1984 ma viene
di fatto incorporato nella istituzionalizzazione
del regime differenziato dove i carceri speciali sono
disciplinati per legge attraverso la proposta degli art. 14 bis, ter e quater
che stabiliscono le norme che regolano il raggruppamento, l’assegnazione e le
categorie dei detenuti nelle sezioni di massima sicurezza. Viene applicato anche
l’art. 4 che esclude alcune categorie di detenuti dall’ammissione a forme
alternative di detenzione. Si arriva quindi a rendere permanente l’art. 90
anche se sotto altro nome.
Tutte queste norme trovano vita e vengono applicate lungo
tutti gli anni 80 parallelamente alla campagna orchestrata dal potere sulla fine
del comunismo e sulla sconfitta del “terrorismo”. Questa campagna é la
premessa e l’altra faccia di quello che sarà l’inizio dispiegato
dell’attacco alle conquiste della classe operaia e delle masse popolari.
Essa verrà attuata cercando di isolare e annientare ogni identità
politica rivoluzionaria attraverso la dissociazione e la differenziazione, con
la vessazione dei prigionieri politici sottoposti alla tortura dell’isolamento
e alla tortura vera e propria. Il fine é quello di diffondere la cultura della
desolidarizzazione e di dichiarare sconfitta e fuori dal tempo ogni prospettiva
di cambiamento radicale della società. E anche quella di sotterrare la memoria
storica del proletariato e del movimento comunista. Ma, l’illusione del potere
di mettere una pietra sopra definitivamente alla formidabile forza che il
movimento rivoluzionario aveva espresso in Italia si scontra con la realtà
della crisi del suo sistema che produce incessantemente contraddizioni sempre più
acute che fanno rigenerare la lotta di classe. Esso deve continuamente mettere
mano all’ordinamento penitenziario per perfezionare le norme che regolano la
differenziazione dei regimi detentivi.
Nei primi anni 90 vengono approvati gli art. 41 bis e 4 bis
che, come ulteriore elemento di differenziazione dentro al carcere, inseriscono
il mancato accesso ai benefici premiali
(previsti dalla legge Gozzini del 1986) in base alla
condanna. Il 41 bis inoltre prevede il “carcere duro” in cui vengono sospesi
i normali diritti dei detenuti. Il trattamento duro non riguarda più solo
intere aree di prigionieri che vengono per questo raggruppati nelle sezioni
speciali ma diventa “ad personam”. Questo trattamento attraversa la
struttura carceraria sia verticalmente (nelle strutture) che orizzontalmente
(nelle persone), é l’asse portante del funzionamento della deterrenza e della
premialità. Si tratta in pratica di una riedizione allargata del vecchio art.
90.
Questi articoli vengono resi esecutivi dopo l’uccisione
di Falcone e Borsellino, hanno natura transitoria e devono essere rinnovati
individualmente in base a criteri di “pericolosità”. Già dalla loro
approvazione prevedevano una divisione in fasce per la loro applicazione, la
prima e la seconda riguardante delitti di mafia, la terza i reati commessi per
finalità di “terrorismo” o di eversione dell’ordinamento costituzionale.
La revoca dell’applicazione del trattamento duro é subordinata alla
collaborazione con la giustizia e, in particolare, per la terza fascia, cioé
per i prigionieri politici, all’esclusione di ogni collegamento con
organizzazioni esterne. Di fatto viene richiesta la dissociazione.
Arriviamo ai giorni nostri perché venga richiesta l’estensione
dell’applicazione del 41 bis ai rivoluzionari prigionieri e ne venga chiesta
la validità permanente. Così il
cerchio si chiude, la differenziazione e il carcere duro vengono definitivamente
istituzionalizzati. Lo stato democratico prevede che la sospensione dei
“diritti” é legale, che la tortura dell’isolamento e ogni procedura che
può avvenire in assenza di “diritti” sono praticabili. Queste misure che lo
stato prende fanno parte della necessità che la classe dominate ha di
salvaguardare il suo potere e vanno analizzate e fatte conoscere non solo per
denunciare la natura fascista del suo dominio ma soprattutto perché mostrano la
sua debolezza e la paura che il suo potere venga messo in discussione.
L’approfondimento e l’allargamento della detenzione accentuata sono
in stretta dialettica con la crisi e con lo sviluppo delle contraddizioni
sociali. Non é infatti un caso che i momenti in cui le misure sono state
promosse sono principalmente quello a ridosso dell’avanzata del movimento
rivoluzionario (fine anni é70, primi anni é80) e, oggi, quello del possibile
riaffacciarsi di prospettive di cambiamento. Oggi, a fronte della crisi e della
tendenza alla guerra, al rinvigorirsi della lotta di classe e antimperialista,
al ribollire del malcontento delle masse e al manifestarsi di comportamenti di
ribellione vengono attuate nel nostro paese queste misure preventive.
Vengono attuate all’interno di una situazione
internazionale incandescente seguendo i dettami dell’imperialismo USA e delle
legislazioni di guerra che ha varato. A questo proposito é un fatto rilevante
che in Italia esistano oltre un centinaio di prigionieri islamici sulle cui
condizioni vige il più assoluto silenzio.
Le attua anche nei confronti dei rivoluzionari prigionieri
che hanno mantenuto la loro identità politica perché essi, pur non
rappresentando un pericolo emergente come quantità, turbano ancora il sonno del
potere. Lo Stato, nel corso di più di due decenni, dopo averle tentate tutte
per annientarli ha ancora paura di loro, della prospettiva politica
rivoluzionaria che incarnano e si pone il problema di limitarne l’influenza e
la capacità d’azione.
IL CARCERE COME RAPPORTO SOCIALE
Introduzione
Le carceri sono una polveriera che accumula le
contraddizioni prodotte dalla crisi economica e sociale. I movimenti sociali fuori
hanno scosso e scuotono in profondità le galere, compenetrandosi e
saldandosi con le istanze e le lotte portate avanti dentro le istituzioni
totali stesse.
Questo é avvenuto, e tuttora avviene, per la natura di
classe di queste istituzioni.
Nelle carceri:
- possono avvenire rivolte spontanee: bambule, come
le chiamavano le ragazze degli istituti di rieducazione femminili in Germania;
- possono verificarsi timidi tentativi di denuncia della
propria condizione e lotte per parziali miglioramenti;
- può prendere piede un movimento in grado di comunicare
con i soggetti e le esperienze politiche fuori dal carcere, e viceversa, grazie
alla sedimentazione di precedenti esperienze di lotta e alla specifica struttura
e composizione sociale delle carceri, nonché alla presenza all’interno di
militanti rivoluzionari o di ribelli sociali permeabili ad una sensibilità
antagonista.
Oggi risentono del clima di rinnovato fermento sociale e di
mobilitazioni, anche se, tranne alcuni casi isolati, non é emersa una reazione
soggettiva dentro, in grado di far precipitare le sue contraddizioni e di
confrontarsi, almeno parzialmente, con lo scontro in atto.
Il carcere é un sismografo che registra i cambiamenti più
profondi della società nel suo complesso, si riorganizza continuamente in
funzione del ciclo di lotte precedenti, e del ruolo affidatogli di volta in
volta dal potere. Si differenzia la durata e la condizione detentiva, come il
suo affidamento e la sua amministrazione, sia a seconda delle esigenze
pragmatiche del potere politico, sia rispetto alle necessità dovute al governo
interno dell’istituzione: se da un lato si può arrogare il diritto di
concedere, dall’altro si riserva la possibilità di reprimere; se da un lato
cerca di “rieducare”, dall’altra reprime e basta. Essendo parte integrante dell’organizzazione sociale, ha
ispirato e ispira, con il suo modello, ogni serio paradigma del controllo ed
ogni codificazione comportamentale; rimane un ganglio vitale del sistema di
riproduzione dei rapporti sociali, e insieme alle articolazioni militari e
poliziesche rappresenta il baluardo delle ragioni di stato e della loro volontà
di potenza.
Rimane così una palestra di disciplina, di introiezione
dei valori capitalistici magari assunti per il tramite dei vari racket, della
cultura, della sopravvivenza individuale e dell’affiliazione ad un gruppo,
della subordinazione all’arbitrio di un beneficio concesso o negato,
dell’autolesionismo suicida.
La prassi detentiva incorpora e sperimenta le tecniche di
controllo più avanzate come le più arcaiche; utilizza sia le millenarie
discipline e dottrine del controllo sociale come le religioni, sia le più
attuali come la psichiatria, la medicina, la farmacologia, la psicologia
sociale; usa sia la forma più estrema di alienazione dalla comunità umana come
l’isolamento tout-court - istituzionalizzata dal carcere speciale -, sia la più
moderna forma di ri-socializzazione correttiva e trattamentale attraverso il
lavoro esterno e la premialità della regolare condotta, giudicata da quella
specie di tribunale permanente costituito dagli organi della Magistratura di
Sorveglianza e dalle varie figure addette al giudizio-recupero del detenuto.In
sintesi, il carcere come rapporto sociale é l’esempio, insieme alla guerra,
del pressoché assoluto monopolio della violenza da parte dello stato. Che
entrambi questi fenomeni riguardino fasce sempre più ampie di proletari, non fa
che rinvigorire la necessità della distruzione di questo edificio sociale, che
passa anche attraverso l’abbattimento di tutte le istituzioni totali.
Col sangue agli occhi:
il movimento dei comuni contro il carcere (‘60-’70)
Nel secondo dopoguerra, terminato il periodo cosiddetto
della “Ricostruzione”, la necessità di manodopera, per lo sviluppo
dell’economia italiana nel triangolo industriale, fece affluire braccia dalla
campagna delle zone contigue alle aree metropolitane e poi dall’esercito
industriale di riserva del meridione, delle isole e delle zone settentrionali di
tradizionale emigrazione, come il Veneto e il Friuli.
Questo fiume di persone che si riversò nelle città si
barcamenava tra occupazioni dell’economia informale, una situazione abitativa
precaria, senza trovare una comunità e un canale, che non fosse quello della
parentela e del paese d’origine. Negli anni sessanta la composizione sociale
delle carceri mutava e faceva il suo ingresso nelle galere quel proletariato
marginale, di cui la provenienza geografica, la condizione di precarietà
lavorativa, la collocazione urbana, la sensibilità sociale, erano proprie del
proletariato metropolitano in formazione e della moderne classe pericolose per
l’ordine capitalista. Furono
proprio le carceri delle realtà urbane più significative, soprattutto del
nord, che incominciarono a ribollire e in cui cominciarono a formarsi le prime
avanguardie di lotta forma e a sedimentarsi livelli di organizzazione.
Venne messa in discussione la gerarchia e i Kapò che
servivano da strumento di governo interno al carcere. Per esempio, con i
pestaggi dei fascisti, vennero messi in discussione gli atteggiamenti di
implicita collaborazione con i secondini e il qualunquismo opportunista teso ad
accattivarsi le simpatie dei propri carcerieri; soprattutto, prese forma una
critica della propria condizione da un punto di vista classista, e non
“innocentista”, che venne collocata all’interno di un meccanismo sociale,
che bisognava contribuire a distruggere.
Tra questi, i rapinatori saranno l’avanguardia del
movimento carcerario di fine anni sessanta e di inizio anni settanta; il grado
di cooperazione sociale maturata, le capacità organizzative, la cultura
antistatuale, la lontananza dalle tradizionali organizzazioni aventi la funzione
di pacificatori sociali, erano tutte caratteristiche acquisite in conseguenza
della propria attività, che li accomunavano ai proletari più combattivi
formatisi nelle lotte di fabbrica e di quartiere.
Si crea una struttura di solidarietà con il proletariato
in lotta, anche nelle carceri, in cui alcune figure professionali
tradizionalmente legate alla classe dominante - come avvocati, medici, e altri
profili di intellettuali della classe media - fanno propria la prospettiva
dell’emancipazione del proletariato, con una precisa e organica scelta di
campo. Questa presa di posizione
che si sostanzierà con l’impegno continuo di questi compagni, li renderà non
solo soggetti alla delegittimazione professionale, ma anche all’azione
repressiva vera e propria.
Il Soccorso Rosso che si formerà in quegli anni, sarà una
sponda importante del proletariato prigioniero, gli avvocati che ne fecero parte
ruppero quel legame di connivenza con le strutture del potere giudiziario,
citando un documento del Soccorso Rosso di Milano del settembre del ‘71: ´tutto
ciò comporta, per gli intellettuali che devono fornire questi servizi secondo
le esigenze della classe operaia, un nuovo stile di lavoro ben diverso dalla
professionalità tradizionale. » anche necessaria una mentalità completamente
nuova e una disponibilità generosa che niente ha da spartire con la diligenza
mercenaria del professionista. I concetti di legalità, diritto, salute,
funzionalità, produttività devono essere capovolti da coloro che si pongono
dal punto di vista del proletariatoª. Formazioni
politiche della sinistra extra-parlamentare, come Lotta Continua, costituirono
una ´Commissione Carcereª apposita, ospitando nel giornale, dalla primavera
del ‘71, lettere di detenuti e notizie sulle rivolte carcerarie in Italia e
nel mondo: ´A noi i detenuti interessano non perché “fanno pena”, ma per
il contributo che possono dare alla lotta di classe e alla rivoluzione» per
questo motivo che ci interessano le caserme e magari i manicomi, come i
proletari in divisa e i cosiddetti “malati mentali”ª, scrivevano i Dannati
della Terra in Liberare tutti di LC.
Altre formazioni della sinistra radicale, provenienti dal
marxismo e dall’anarchismo, dando una carica eversiva ai comportamenti del
proletariato metropolitano che si muoveva ai margini della legalità,
interpretavano la lotta criminale come la fonte più genuina di carica eversiva
per il sovvertimento della società e, nella prassi illegale, il terreno
prioritario della pratica rivoluzionaria, approccio che si tradurre nello
slogan: contro lo stato e il capitale, lotta criminale.
L’influenza delle rivolte urbane che dalla metà degli
anni sessanta costellarono l’universo metropolitano statunitense e le lotte
dei prigionieri afro-americani dal carcere, che trovarono la loro sponda
politica nelle Black Panthers, diventarono patrimonio comune di una generazione
di proletari prigionieri, che col sangue agli occhi, ribaltarono il ruolo
in cui la società li aveva relegati.
L’influenza degli scritti di Franz Fanon sul ruolo del
sotto-proletariato metropolitano nel processo di liberazione coloniale, -
filtrata attraverso l’utilizzo che ne fecero le punte più avanzate del
movimento afro-americano, come dell’esperienza algerina -, darà una spallata
alla vetusta interpretazione del marxismo tradizionale che vedeva nel Lumpen solo
una massa di sradicati, da cui l’apparato repressivo poteva sempre attingere
per reclutare i suoi sgherri.
Nel secondo numero di ´Nuova Resistenzaª, del maggio
‘71, le BR in un articolo dal titolo perentorio Bruciare le carceri é
giusto, spiegarono la posizione del giornale sulla criminalità e sulla
funzione rivoluzionaria del sottoproletariato: ´La rivoluzione moderna non é
più la rivoluzione pulita [...] accumula i suoi elementi pescando nel torbido,
avanza per vie traverse e si trova degli alleati in tutti coloro che non hanno
nessun potere sulla propria vita e lo sanno [...]. In attesa della festa
rivoluzionaria in cui tutti gli espropriatori saranno espropriati, il gesto
“criminale” isolato, il furto, l’espropriazione individuale, il saccheggio
di un supermercato non sono che un assaggio e un accenno del futuro assalto
della ricchezza sociale, il criminale rompe la monotonia a la sicurezza
quotidiana, banale della vita borghese (K. Marx). Per il fatto stesso di
esistere egli pone in crisi l’ideologia della società capitalistica: si
appropria realmente di ciò che la borghesia gli mostra come astrattamente
disponibileª.
I Nuclei Armati Proletari raccolgono l’eredità politica
del lavoro svolto da LC, che imboccò
ben presto la lunga marcia verso le istituzioni in
una deriva riformista che coinvolgerà anche la sua impostazione sulle lotte dei
prigionieri, compiendo il suo distacco dall’azione
politica armata, già dalle prime azioni significative
delle BR, criticando più l’immagine distorta fornita dai media che la
strategia d’azione maturata da questi compagni.
Le avanguardie delle lotte dei comuni danno vita ad un
organizzazione e ad una pratica in grado di raccogliere le aspettative del
proletariato prigioniero e di reggere il livello di scontro di quegli anni, che
avrà come punto di svolta la strage di Alessandria. Nel Maggio del ‘74 in seguito a una rivolta nel carcere di
Alessandria, in cui tre detenuti avevano sequestrato 21 persone, barricandosi in
infermeria, il comandante dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, futuro
responsabile dei reparti speciali anti-terrorismo, e il procuratore generale di
Torino Reviglio della Venaria, decidono per un’azione di forza che si concluse
con un bagno di sangue.
I NAP nell’ottobre del ‘74, davanti ai cancelli delle
carceri di Napoli, Milano e Roma, trasmettono un messaggio rivolto a tutti i
detenuti che annuncia la loro piattaforma sul carcere.
Questa piattaforma ha come referenti sia le avanguardie
detenute, alle quali si lancia lo slogan: ´rivolta generale nelle carceri e
lotta armata dei nuclei all’esternoª, sia la massa dei detenuti, non ancora
pervenuta alla coscienza critica del proprio ruolo, a cui i NAP indicano gli
obiettivi immediati della lotta contro i codici fascisti, per la
democratizzazione delle carceri, per l’abolizione dei manicomi carcerari, ecc.
Ad un anno circa dai fatti di Alessandria, i NAP rapiscono
Giuseppe di Gennaro, direttore dell’Ufficio studi del Ministero, in appoggio a
un’azione nata nel carcere di Viterbo a opera di tre detenuti che hanno
tentato un’evasione. Anche se l’azione, concertata tra il nucleo interno e
quello esterno, anche se non raggiunge l’obbiettivo di liberare i tre
rivoltosi ottiene, comunque, una risoluzione positiva: nessun intervento delle
forze di polizia esterne, nessuna rappresaglia sui tre protagonisti della
tentata evasione e il loro trasferimento in carceri non punitive. In cambio, i
compagni, liberano il Giudice De Gennaro.
Con la riforma del sistema penitenziario e l’incarcerazione di massa di militanti politici, la struttura, l’organizzazione e la composizione del carcere muta nuovamente.
I detenuti comuni, la Riforma carceraria del ‘75 e la
Legge Gozzini del ‘86
Vennero istituiti ufficialmente tre circuiti penitenziari
differenziali, in cui la vasta area della criminalità comune é soggetta a
nuove forme di controllo premiale: territorializzazione dell’esecuzione, non
più esclusivamente tra le mura carcerarie; scambio penacomportamento, con
l’istituzione di una micro-magistratura che ha il compito di giudicare in
continuazione, in combutta con tutta una serie di nuove figure del
disciplinamento democratico, la buona condotta del detenuto e di decidere le
forme e i tempi in cui deve scontare la propria pena.
Senza dilungarci sul trapasso da un modello segregativo ad
un modello correzionale, attraverso un approccio trattamentale e non più
solamente punitivo, che si sostanzia con l’uso di disposizioni disciplinari in
un regime di premialità, ci interessa sottolineare come il detenuto comune
viene e venga tuttora individualizzato.
Se qualcuno può decidere i tempi e i modi della pena, se
qualcuno detiene l’arbitrio
assoluto per soddisfare ogni qualsiasi richiesta inoltrata,
attraverso la pratica della Domandina, allora il potere di ricatto delle
gerarchie carcerarie aumenta e diminuisce
la possibilità dei “comuni” di riconoscere in coloro
che decidono di un beneficio nient’altro che le articolazioni terminali
dell’organizzazione del potere contro cui combattere. Lo stato interviene modificando la configurazione dei
rapporti di forza all’interno delle carceri, attraverso questa
ristrutturazione, per isolare dal resto della popolazione carceraria, i compagni
più combattivi. I meno risoluti ad iniziare una qualsiasi mediazione con il
potere si differenziano da quelli che, a seconda della loro pericolosità
sociale, possono incominciare a vedere schiudersi la possibilità della
semi-libertà, di uno sconto di pena, disposti a sottoporsi ad un approccio
trattamentale che verifica la costante volontà di piegarsi ai dettami, la reale
volontà di riscatto attraverso il lavoro, la famiglia e la fede.
Con la riforma del ‘75 rimangono esclusi dai benefici
sopraindicati i detenuti a medio indice di pericolosità, sospesi tra il
circuito del carcere riformato e l’inferno degli speciali.
Coloro che sono accusati o condannati per reati di rapina, sequestro di
persona, estorsione e dall’82, anche per associazione mafiosa, vengono
esclusi. Erano state figure chiave,
come quella del rapinatore, nella crescita del movimento carcerario del passato
e allora, a metà anni settanta, erano le fasce della nuova criminalità
metropolitana più permeabili al progetto politico di movimento, nonché quelle
ritenute responsabili del nuovo allarme sociale: bisogna quindi impedirne la
politicizzazione, mostrando quale condizione sarebbe riservata a loro nel caso
volessero fare una precisa scelta di campo e, allo stesso tempo, dare
all’opinione pubblica l’immagine di una rinnovata sensibilità per la
questione dell’ordine pubblico, usando il polso duro e facendo scontare il
dovuto alla delinquenza sociale che più preoccupava il belpaese.
In questo modo alla tradizionale prassi coercitiva si univa il rinnovato
potere di deterrenza degli speciali, anche nel senso opposto: passare da uno
speciale ad una sezione di questo circuito significava rompere l’isolamento
dagli altri reclusi, attraversare i vetri divisori, incontrare più spesso la
famiglia, poter telefonare e ricevere giornali e libri, entrare, cioé, in un
regime disciplinare quasi ordinario.
Più di dieci anni dopo, con la Legge Gozzini, vengono liberalizzati gli accessi ai benefici, universalizzando il modello del governo premiale e viene introdotta la possibilità per i condannati, che hanno tenuto regolare condotta e che non risultano di particolare pericolosità sociale, di poter godere di permessi premio di 15 giorni.
La Carcerazione sociale oggi
Partiamo da una fotografia della realtà.
La popolazione carceraria sfiora le 56.000 unità, di cui
più del 40% detenuta in attesa di giudizio, di questa particolare condizione di
imputato - specialità Italica nel campo del diritto penale - ne fanno le spese
quasi il 60% degli immigrati nelle prigioni.
Circa un quarto dei detenuti viene accusato, o é stato condannato, per
reati che violano le norme contro il patrimonio, circa un quinto per la
violazione delle norme del testo unico sulle sostanze stupefacenti, circa un
sesto per norme a tutela dell’ordine pubblico, poco di meno per reati contro
la persona, tra cui alcuni reati micro-criminali che poco tempo prima erano
considerati contro il patrimonio e che ora, bontà del centrosinistra, sono da
considerarsi atti criminosi contro la persona.
Ricordiamo che nella penultima categoria vanno collocati
anche i detenuti per “reati di immigrazione”, quali il non avere osservato
un ordine di espulsione o l’aver dato generalità false, reati che a metà
degli anni ‘90 riguardavano il 43% di quelli attribuiti dalla polizia agli
immigrati, reati per cui una legge del é93 ha introdotto una condanna dai 6
mesi ai due anni!
Se pensiamo che la nuova ondata di carcerazioni nel corso
degli anni novanta é diretta conseguenza di un inasprimento legislativo e di
una maggiore produttività del sistema repressivo, che colpisce sistematicamente
il sotto-proletariato metropolitano giovanile, non ci può sorprendere che la
stragrande maggioranza dei detenuti non ha assolto l’obbligo formativo o é in
possesso solo della licenza media-inferiore e quasi i 4/5 di coloro che
svolgevano una qualsiasi professione, prima di essere sbattuti in cella,
facevano l’operaio.
Il tasso di detenzione e il numero di coloro che sono
sottoposti ad una qualsiasi misura di restrizione della libertà aumentano,
nonostante non vi sia un aumento dei crimini commessi, perché si aumenta la
fascia di comportamenti ritenuti criminali, o meglio dei profili sociali
giudicati come tali. Le varie guerre combattute dallo Stato contro le fasce più
basse del proletariato, mascherate contemporaneamente da guerra alla droga,
guerra all’immigrazione, guerra alle organizzazioni mafiose e guerre contro la
micro-criminalità, hanno cambiato la composizione sociale dei detenuti degli
ultimi vent’anni. Fanno parte
dell’arcipelago carcerario le comunità terapeutiche istituite nella seconda
metà degli anni ottanta, i centri di detenzione temporanea istituiti a fine
anni novanta, le varie articolazioni del controllo sociale per coloro che
possono godere di un regime premiale, di cui beneficiano, si fa per dire, circa
20.000 persone, oltre ai rinascenti “vecchi” manicomi e ai sempre verdi
istituti minorili. Andiamo con ordine:
Poco meno di un terzo dei detenuti é costituita da
immigrati di origine extra-Unione Europea, prevalentemente concentrati al
centro-nord e nelle aree metropolitane, dove costituiscono talvolta circa la metà
della popolazione carceraria, mentre quasi la metà delle donne detenute é di
origine extra-UE.
Su di loro pesa un inasprimento della custodia cautelare,
più alta in percentuale rispetto agli italiani, oggettive difficoltà di difesa
legale, una minore possibilità di accesso alle misure alternative alla
detenzione, difficoltà maggiori per i colloqui con le proprie famiglie, tra cui
l’impossibilità di avere colloqui telefonici fuori dall’Italia.
Il processo di criminalizzazione della condizione di immigrato,
particolarmente accelerato e intenso in Italia, rispetto alle nazioni dell’UE,
é dovuto a due specificità, una storica e l’altra geografica, del
sistema-paese: il tramutarsi dell’Italia da paese di emigrazione estera e
immigrazione interna a paese di immigrazione interna ed estera, e dalla sua
posizione di confine e di transito di differenti flussi immigratori verso
l’area della Unione Europea dei paesi firmatari del Patto di Schengen.
La Legge Martelli a inizio anni novanta, la Legge Turco-Napolitano del
marzo ‘98, fino alla recente Legge Bossi-Fini, insieme agli altri
provvedimenti legislativi, hanno progressivamente criminalizzato la condizione
di immigrato, facilitando progressivamente la possibilità di espulsione,
istituendo i centri di detenzione temporanea con il governo di centro-sinistra,
rendendo la vita di questi proletari un vero e proprio inferno, in cui le varie
sanatorie che si sono susseguite sono state più uno strumento di
cristallizzazione della precarietà della propria condizione, che altro.
I centri di detenzione temporanea vennero allestiti in gran silenzio in
Puglia, in Sicilia e a Trieste e in altre località ritenute “critiche”. Il
grande pubblico scopre la loro esistenza, e la loro natura tutt’altro che
assistenziale, nell’estate del ‘98, quando ad Agrigento e a Caltanisetta
alcune decine di immigrati si ribellano alle condizioni inumane in cui sono
costretti, incendiando questi lager. Senza aver commesso nessun reato, sono
tenuti a pane e acqua per diverse settimane in edifici fatiscenti sorvegliati a
vista dalla polizia che interviene con violenza al minimo segno di protesta.
L’altra componente che dalla metà degli anni ottanta e soprattutto
dopo la Legge n.161 del 1990 ha subito un’accentuata criminalizzazione, é
quella che ha il profilo, nella stigmatizzazione socio-mediatica, del
tossicodipendente consumatore e spacciatore.
L’articolo 47bis della Legge Gozzini prevede la possibilità di
affidamento ai servizi sociali per tossicodipendenti, cioé più prosaicamente
l’auto-reclusione volontaria in una comunità terapeutica per chi deve
scontare una pena detentiva inferiore ai tre anni.
Questo micro-cosmo carcerario su cui non é dato indagare, da cui nessuna
notizia sulle regole che lo governano può trapelare, e a cui é stata delegata
una funzione terapeutica normalizzante, applica tutti i mezzi che ritiene
necessari per ottenere i fini sublimi della introiezione della colpa e
della sua espiazione attraverso la vita comunitaria incentrata sul lavoro
gratuito.
Queste oasi del sequestro dal sociale sono proliferate,
aumentando in numero e in capacità di accoglienza, e hanno catalizzato su di sé
le aspettative illusorie di chi pensa che la permanenza in uno di questi lager
sia garanzia di un certificato di guarigione almeno dall’infame marchio
sociale di tossicomane, di soggetto a rischio, di micro-delinquente, ecc. Hanno
spostato il discorso del disagio sociale, non sulle cause di questo, ma sulle
conseguenze e sono stati uno dei primi esperimenti di privatizzazione del welfare
con operazioni mirate alla cattura di consenso e benestare della pubblica
opinione. Un buon trampolino di lancio per santoni nostrani, pretazzi con la
vocazione del sociale, uomini forti che offrivano l’immagine dell’impresa
famigliare vincente, cooperative e tutto il carrozzone variopinto dell’impresa
sociale. Il carcere cura poi la
tossicodipendenza con gli psicofarmaci, che costituiscono i farmaci maggiormente
somministrati negli istituti di pena, provocando una dipendenza di ancora più
difficile rimozione!
L’ultima fascia protagonista suo malgrado del grande
internamento degli anni novanta riguarda la manovalanza della criminalità
organizzata, in parte compresa nelle componenti precedenti e delle fasce della
micro-criminalità che non ha bisogno di grandi mezzi per svolgere la propria
attività illegale: ladri di macchine, topi d’appartamento, scippatori, ecc.
Gli appartenenti al crimine organizzato in carcere sono
circa settemila. L’operato dello stato ha prodotto un notevole numero di
collaboratori di giustizia. Questo lo si deve sia alla costante instabilità
delle gerarchie dei gruppi criminali e il ricambio continuo delle elités, sia
al trattamento differenziato riservato ai collaboratori di giustizia, comprese
le garanzie di protezione assicurate ai familiari.
DETENUTA IN UN BRACCIO MORTO DEL CARCERE SPECIALE IN
GERMANIA
(Dal 16 giugno 1972 al 9 febbraio 1973)
... La sensazione che ti esploda la testa (la sensazione
che il cranio possa esserti esportato via, esplodendo),
la sensazione che il midollo spinale ti si comprima tutto
nel cervello,
la sensazione che il cervello ti si raggrinzisca,
la sensazione di trovarsi sotto una corrente, continua,
impercettibile che ti trascina lontano
la sensazione che ti si spappolino le capacità sociative
la sensazione che l’anima ti pisci via dal corpo, come
quando non si riesce a trattenere l’urina
la sensazione che la cella si muova. Ci si sveglia, si
aprono gli occhi, la cella viaggia;
al pomeriggio quando entra la luce del sole, la cella, di
colpo, si immobilizza.
Non riesce a respirare la sensazione di movimento, di
viaggio.
Non si riesce a capire perché si tremi, si geli.
Riuscire a parlare con un tono di voce normale, fatica come
se si dovesse parlare forte, come se si dovesse urlare.
La sensazione di diventare muti.
Non si può identificare il significato delle parole, si
riesce solo ad indovinare.
L’uso delle sibilanti - come s, sch, tz, z - é
assolutamente insopportabile. Secondini, visite, cortile, sembrano un film
Mal di testa
Flashes
Incontrollabile la costruzione delle frasi, la grammatica,
la sintassi. Si scrive: due righe.
Alla fine della seconda riga non si ricorda più l’inizio
della prima.
La sensazione di andare in cenere dentro.
La sensazione che se tu riuscissi a dire cosa sta
accadendo, tutto ti verrebbe fuori come un getto di acqua bollente, che bolle
per tutta la vita.
Furiosa aggressività che non trova sfogo.
Questa é la prova peggiore.
La chiara coscienza di non avere più alcuna possibilità
di sopravvivenza. Totale senso di impotenza nel tentativo di opporsi a questa
convinzione: le visite lasciano dietro di se il vuoto.
Un ora dopo una visita riesci solo a ricostruire
meccanicamente se la visita é stata oggi o la settimana scorsa.
Una volta la settimana invece il bagno a questo
significato: di scioglierti un attimo, di riprenderti - questo anche per un paio
d’ore.
La sensazione che il tempo e lo spazio si incastrino
l’uno nell’altro.
La sensazione di trovarsi nello spazio di uno specchio
deformato - vacillamento -, Poi; spaventosa euforia quando si sente qualcosa -
la differenza sonora tra il giorno e la notte.
La sensazione che ora il tempo scorra, che il cervello
nuovamente si rilassi, che il midollo torni al suo posto, per settimane.
La sensazione che ti abbiano strappato la pelle.
SECONDA VOLTA
(dal 21 dicembre al 3 gennaio 1974)
Turbinio nelle orecchie. Risveglio, come se si stesse per
essere picchiati.
La sensazione di muoversi a rallentatore.
La sensazione di trovarsi sospesi nel vuoto, come se si
fosse fatti di piombo.
Poi: shock. Come se ti fosse caduta in testa una lastra di
acciaio.
Confronti e concetti che ti vengono in mente: sbranamento -
lacerazioni fisiche – il lupo mannaro - la colonia penale di Kafka - l’uomo
sul letto di chiodi – ottovolante che non ferma mai.
La radio: si creano tensioni minime come se il ritmo
calasse da 240 a 190.
Che tutto ciò accada in una cella che esteriormente non si
differenzia dalle altre - radio, mobili, giornali, libri - significa un
inasprimento della situazione: impossibilità di comunicazioni, tra persone che
non sanno cosa significhi l’isolamento acustico e il prigioniero.
Disorienta anche il prigioniero. (Sia chiaro si tratta di
celle da lazzaretto, il terrore viene acuito dal silenzio, chi ne é cosciente
dipinge, dipinge i muri). E’ chiaro che là dentro si preferirebbe essere
morti.
Peter Milberg, che si é trovato in questa situazione nel
Preungesheim di Francoforte (“Sezione malati da rieducare”) ha accusato il
suo giudice di averlo voluto sopprimere ed é vero, poiché si tratta in realtà
di una “esecuzione”.
Cioé ha luogo un processo di disfacimento - come di
sostanze che vengono corrose dall’acido, il processo lo si può ritardare,
concentrandosi, ma non si può eliminarlo.
Perfida é pure la personalizzazione totale. Nessuno, se
non tu stesso, si trova in questa situazione totalmente abnorme. Come
mezzo/metodo simile a quelli usati con i tupamaros, inchiodati in situazioni di
esasperazione e di strazio totale, uso del pentotal - conseguenza: improvviso
rilassamento, poi euforia. Il prigioniero, così ci si attende, perde il suo
autocontrollo. Balle!...
Apparsa su “Solidarietà militante” ed in
“Contro-informazione” n. 3-4, 1974
Interventi,
contributi e saluti all'assemblea del 14.12.2002
A me é stato assegnato l’ingrato compito di un
intervento tecnico sul 41 bis, con tutti i limiti tipici degli interventi
tecnici; vedrò di ridurre il più possibile questo limite.
Vorrei ricordare innanzi tutto il recente 9° congresso dell’Unione
delle Camere Penali che si é svolto a Sirmione.
L’Unione delle Camere Penali é un organismo che
raggruppa tutti i penalisti italiani; in questo congresso ha prevalso la lista
per il rinnovo del direttivo che ha fatto dell’abolizione del 41 bis il
proprio cavallo di battaglia elettorale; ciò é di rilevante importanza.
La Camera Penale di Milano, che raggruppa i penalisti di questa città,
ha appoggiato questa lista; possiamo quindi dire che é passata la nostra
mozione a favore dell’abolizione del 41 bis.
La nostra Camera Penale si é espressa, al termine
dell’incontro che abbiamo avuto a Milano in vista del congresso di Sirmione,
in modo molto chiaro sul 41 bis; queste alcune righe del nostro documento
approvato all’unanimità: “Si tratta di un regime di detenzione
intollerabile, caratterizzato da un inaccettabile grado d’afflizione privo di
qualsiasi utilità circa l’effettivo distacco del detenuto
dall’organizzazione criminale d’appartenenza, applicato anche nei confronti
di chi si trova detenuto in regime di custodia cautelare fuori da un effettivo
controllo giurisdizionale, affidato com’é ad organi ministeriali; l’impegno
incondizionato dell’Unione non può che essere rivolta all’abrogazione di
tale regime. Impegno uguale dovrà essere profuso allo scopo di abrogare la pena
dell’ergastolo”.
Questo era parte del nostro programma che é stato fatto
proprio dal nuovo direttivo. Possono
essere, le nostre, considerazioni scontate; so che qui sono riunite realtà che
toccano con mano, tramite parenti e amici di compagni detenuti, situazioni
assimilabili al 41 bis, però detto da organismi di avvocati non é un fatto così
pacifico. Nei confronti dei
penalisti c’é sempre il sospetto che parlino più per interesse di
corporazione, se non addirittura per collusione con ambiti criminali, che per
reale adesione a valori e a principi di civiltà non solo giuridica.
Non solo noi corriamo questo rischio; ricorderete
probabilmente anni fa quando ci fu quella polemica con Sciascia, accusato
addirittura, per alcuni suoi articoli sul Corriere della Sera, di connivenza con
la mafia, solamente perché aveva ribadito in varie occasioni la necessità di
non abdicare mai ai principi dello stato di diritto.
A meno che qualcuno, più acuto di me, non voglia vedere dietro a certe
prese di posizione alcune possibili spiegazioni, forse con uno sforzo di
dietrologia eccessivo, credo che si stiano creando contraddizioni all’interno
di settori che potremmo definire borghesi e liberali illuminati.
Mi ha colpito leggere nei giorni scorsi la risposta di
Paolo Mieli ad un lettore (stiamo quindi parlando del Corriere della Sera)
contenente alcune affermazioni sul 41 bis che credo meritino di essere lette.
Dice Mieli: “Ho letto il libro bianco preparato dai
penalisti di Roma per denunciare le conseguenze di quella norma éBarriere di
vetro’; mi sono sentito male, non ho trovato un solo docente di diritto,
tranne quelli coinvolti nell’operazione, che a quattr’occhi non mi abbia
spiegato che questo nuovo 41 bis é incostituzionale. Sono giunto alla
conclusione che rendere permanente una norma del genere equivale a
istituzionalizzare un sistema di tortura, si, di tortura”.
E va avanti con altre considerazioni, anche sulla scarsa
efficacia di questo strumento rispetto al fine, non dichiarato, di favorire la
collaborazione processuale. Dallo
stesso articolo ricavo alcuni dati provenienti dall’associazione Antigone; si
parla di 11 collaborazioni processuali ottenute nel 1992 a fronte di 498
detenuti sottoposti a 41 bis, e di 7 collaborazioni avviate nel 2002 a fronte di
678 detenuti in 41 bis. L’errore
in cui incorre Mieli, come anche poco fa chi ha introdotto il tema
dell’assemblea, é frequente, “Un domani sarà previsto anche per i reati di
terrorismo”. La possibilità di
applicare il 41 bis anche ai detenuti politici in realtà c’é sempre stata,
sin da quando é entrata in vigore questa norma.
E’ un errore in cui sono caduti in molti, anche tra noi
addetti ai lavori; ma partiamo dal principio: il 41 bis 2° comma é entrato in
vigore nel 1992 con il decreto Scotti-Martelli, in coincidenza con alcuni
particolari eventi, ossia gli assassini di Falcone e Borsellino.
Il 1° comma del 41 bis altro non é che una riproposizione
dell’articolo 90, di antica memoria, che formalmente é stato abolito nel 1986
con l’entrata in vigore della legge Gozzini, ma che il 1° comma
dell’attuale 41 bis non fa altro che riprodurre testualmente.
Il 2° comma del 41 bis prevede le restrizioni e il trattamento
carcerario che ben conosciamo e sui quali non ci soffermiamo per tutti i reati
di cui all’art. 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario.
L’articolo 4 bis é stato introdotto nel 1991, un anno
prima del 41 bis e la sua applicazione é prevista sia per il reato di
associazione mafiosa e il sequestro di persona a scopo di estorsione ma anche
altri reati come rapina, spaccio, estorsione ed anche delitti con finalità di
terrorismo o eversione.
Poiché l’articolo 41 bis fa espresso riferimento
all’articolo 4 bis, é evidente che anche i reati commessi per finalità di
terrorismo o di eversione sono suscettibili di applicazione delle restrizioni
del 41 bis; questo sin dall’entrata in vigore della normativa e quindi sin dal
1992.
E’ vero che non é stato applicato, salva una
applicazione “di fatto” del 41 bis in determinati carceri o in determinate
sezioni di carcere, con restrizioni di spazi di libertà e di diritti, ma questo
é un altro discorso; adesso parliamo dell’applicazione istituzionale e
formale del 41bis.
E allora, la differenza tra il reato associativo di mafia
(associazione mafiosa) e il sequestro a scopo di estorsione da tutti gli altri
reati, tra cui quelli che ci interessano maggiormente cioé quelli cosiddetti
commessi per finalità di terrorismo o di eversione, sta solamente in questo:
che per beneficiare di determinati benefici della legge penitenziaria per i
primi reati (quindi associazione mafiosa e sequestro a scopo di estorsione)
occorre la collaborazione processuale; per gli altri reati, invece, é
sufficiente che non vi siano collegamenti con la criminalità organizzata o
eversiva. Il dato importante, lo
vedremo tra poco, é che proprio su questo aspetto é intervenuta la nuova
formulazione del 41 bis nel disegno di legge che é attualmente in discussione
alla commissione, alla Camera.
L’errore in cui tantissimi sono incorsi (anch’io fino a
non molto tempo fa, lo confesso) deriva probabilmente dal fatto che l’articolo
di cui stiamo discutendo é stato introdotto con il decreto contro la criminalità
mafiosa e quindi questo può aver agevolato l’errore per cui si é ritenuto
correntemente che effettivamente fosse applicabile solamente a quelle categorie
di reati.
Quali novità ha portato il disegno di legge che é in
discussione e in corso di approvazione in tempi particolarmente rapidi, visto
che entro la fine di questo anno deve essere approvato altrimenti decade?
Intanto, non c’é la proroga, sappiamo che non si parla
più di proroga ma ormai di approvazione con caratteristiche di permanenza.
Il disegno di legge originario prevedeva una proroga del
41bis per quattro anni; su pressioni in particolare della commissione Antimafia
e dell’Ulivo in Senato é stato abolito il termine; ora il 41 bis diventa una
misura permanente. Ricorderò tra
poco vari interventi della Corte Costituzionale che hanno cercato di salvare la
costituzionalità della norma, facendo spesso riferimento anche al suo carattere
di eccezionalità; evidentemente ora viene meno questo tipo di argomentazione.
Poi il disegno di legge in discussione ha modificato il 41
bis sotto due aspetti, sostanzialmente: é stato introdotto il “terrorismo
internazionale” e si é previsto che per i detenuti politici (loro usano
normalmente il termine “autori di reati commessi con finalità di terrorismo
ed eversione”) necessita il requisito della collaborazione: é richiesta ora
la collaborazione per potere accedere ai benefici penitenziari e questo é il
dato nuovo particolarmente grave.
L’altro non é un dato nuovo: la possibilità di
applicare il 41 bis, l’abbiamo chiarito, preesisteva.
Questo disegno prevede anche che, per i detenuti in attesa
di giudizio, é ammesso il ricorso al Tribunale della Libertà e non al
Tribunale di Sorveglianza che é riservato solamente ai definitivi; é questo un
aspetto processuale che però é significativo perché in pratica l’Esecutivo,
cioé il Ministro che applica con il proprio decreto il trattamento deteriore,
uscirà (in una sorta di corsa, una sorta di inseguimento) sempre primo rispetto
all’autorità giurisdizionale; sia che sia, come é attualmente il Tribunale
di Sorveglianza a decidere sul ricorso, sia, come si prospetta in questo disegno
di legge, che sia il Tribunale della Libertà.Si accellerano solo un po’ i
tempi, perché dinanzi al Tribunale della Libertà é possibile accedere con un
rito più veloce, ma poi comunque ci si scontra sempre con i tempi lunghi della
Corte di Cassazione, perché le proroghe del 41 bis sono previste di sei mesi in
sei mesi; é altamente probabile, se non anche certo, che nei sei mesi
sicuramente non si farà in tempo a giungere innanzi la Corte di Cassazione.
In ogni caso, quando sarà intervenuto il provvedimento giurisdizionale -
é estremamente improbabile che sia favorevole, ma ipotizziamo anche che lo sia
- sarà anche intervenuto il nuovo decreto che rinnova il 41 bis e quindi resterà
priva di qualsiasi efficacia pratica l’eventuale vittoria a livello
giurisdizionale. Questo il disegno
di legge; i punti essenziali sono questi; é passato, ricordava prima il
compagno, praticamente all’unanimità; c’é stata solo qualche posizione
dissidente a livello personale.
Adesso alla Camera, sia nell’ambito della Commissione sia
poi nel dibattito che dovrebbe seguire in aula, si prevede una minore uniformità
di opinione. I tempi, ricordavo
prima, sono strettissimi, e quindi io personalmente ho grande perplessità che
sia consentito un reale dibattito, ma sono anche pessimista sul fatto che un
dibattito potrebbe portare a qualcosa di utile.
A questo punto sono tornati di attualità i penalisti, che
una volta tanto fanno una figura decorosa in questa vicenda perché,
coerentemente con quello che é stato il documento che ricordavo prima
dell’Unione delle Camere Penali, hanno elaborato un proprio disegno di legge
che sta circolando (é cosa di questi giorni) presso la Commissione Giustizia e
sembra che debba essere fatto proprio da Rifondazione e dai Verdi.
Questo disegno lo cito semplicemente per evidenziare, cito
i punti essenziali molto velocemente, che se veramente gli intenti del 41bis, e
comunque di un trattamento carcerario deteriore, fossero quelli di combattere le
associazioni mafiose attraverso l’ostacolo ai rapporti, eccetera, ci sarebbero
gli strumenti senza andare a ledere esigenze e diritti minimali dei detenuti;
noi invece sappiamo che altre sono le ragioni che inducono a questo tipo di
normativa e quindi, diciamo così, sveliamo apertamente quello che c’é
dietro.
L’articolo 1 di questo disegno proposto dai penalisti é
molto semplice, dice: “E’ abrogato l’articolo 41 bis”.
L’articolo 2 non fa altro che modificare l’articolo 4
bis, che é quello che stabilisce il campo di applicazione del 41 bis, e
prevede, questo nuovo disegno, limitazioni ai benefici solo per il reato di
associazione mafiosa.
Si tende a tutelare anche coloro che sono inquisiti, perché
ricordiamoci, ed anche questo é spesso dimenticato, che possono essere
sottoposti a 41 bis non solamente i detenuti definitivi ma anche coloro che sono
ancora sottoposti a giudizio.
L’articolo 2 vuol tutelare in modo particolare coloro che
sono ancora sottoposti a giudizio: applicando la presunzione di non
colpevolezza.
Si può applicare a quei soggetti scelti individualmente e
non per categoria di reato, e cioé solo perché indagati per 416 bis, in caso
di comprovata permanenza di rapporti con l’esterno.
Sono esclusi tutti gli altri reati ed é esclusa quella
vergognosa figura, che conosciamo da tantissimi anni nel nostro ordinamento,
della collaborazione che scompare completamente.
L’articolo 3 di questo disegno modifica l’articolo 14
bis, che é quello del regime di sorveglianza particolare, che prende in buona
sostanza il posto del 41 bis; qualcosa evidentemente bisogna concedere a coloro
che sono allarmati dalla criminalità organizzata, però é prevista una serie
di garanzie sicuramente considerevole perché dice l’articolo: “I
presupposti di applicazione del regime differenziato devono essere validamente
provati”, non come adesso che si va per presunzione, basandosi esclusivamente
sul tipo di reato; inoltre, questo é interessante, la sorveglianza particolare
é applicata dal Magistrato di Sorveglianza: per lo meno si cerca di uscire
dalle maglie dell’applicazione ministeriale, si cerca di tornare nelle mani
della magistratura. Sarebbe un
discorso lungo ma forse qualche garanzia in più rispetto agli organi
amministrativi e esecutivi la magistratura dovrebbe offrire.
L’articolo 4 prevede il ricorso al Tribunale di Sorveglianza e il
ricorso in Cassazione ma con un’interessantissima novità: sono previsti tempi
strettissimi; la Cassazione deve pronunciarsi entro trenta giorni, se non lo fa
il decreto decade; quindi, automaticamente, con la non decisione della
cassazione nel termine previsto e qualificato espressamente come perentorio, il
decreto decade.
Ultimo articolo, e concludo questa parte, l’articolo 5.
Limita un grande numero di restrizioni nell’applicazione
del 41 bis, in particolare espressamente esclude che possa essere effettuata una
restrizione sul vitto, sul vestiario, sui colloqui, su tutto ciò che,
all’evidenza di tutti, non ha nessuna attinenza con le esigenze di tutela
della collettività; e questo é detto espressamente.
E’ sicuramente un ottimo testo, non c’é nessuna speranza che passi,
ma minimamente serve quantomeno per tentare di conquistare qualcosa in quei
compromessi che sicuramente saranno realizzati all’interno della discussione.
Tenete presente che mi é giunta voce, proprio qualche giorno fa, da uno
degli estensori materiali di questo disegno di legge, che la commissione Affari
Costituzionali, proprio ai primi di questo mese, ha denunciato
l’incostituzionalità del disegno di legge in discussione.
In pratica ha detto anticipatamente: state attenti ad
approvarlo così com’é, é pacificamente anticostituzionale, quindi
sicuramente dovete intervenire in qualche modo, in qualche misura, per cercare
di correggere la rotta.
Gli aspetti tecnici sono questi, o almeno questi sono più
importanti.
Qualche considerazione finale, magari non proprio tecnica.
Il 41 bis può essere applicato, questo lo abbiamo appurato, ai detenuti
politici attuali e ai detenuti politici futuri; é prevista la collaborazione
per accedere a determinati benefici penitenziari e questo, lo ricordavo prima,
é forse il dato di maggior rilievo, la novità assoluta.
Le due norme sono complementari tra loro: intanto si
applica il 41 bis, il carcere duro, una serie di restrizioni che per quelli in
attesa di giudizio comportano anche una restrizione degli spazi del diritto alla
difesa, in quanto, comunque, si vuole ottenere un determinato atteggiamento, un
atteggiamento collaborativo. C’é
da chiedersi, e qui le mie opinioni valgono per quel che sono, cioé opinioni
del tutto personali, cosa può aver spinto a questo tipo di modifica?
E’ facile pensare al vuoto investigativo dopo l’omicidio D’Antona e
dopo l’omicidio Biagi, all’incapacità manifesta di giungere a qualche
conclusione sul piano investigativo attraverso gli abituali strumenti
investigativi senza passare attraverso la collaborazione di qualche collaborante
di turno.
E’ stata quindi avvertita la necessità di spingere alla
collaborazione i vecchi detenuti, nell’ipotesi di un coinvolgimento dei
detenuti di vecchia data in questi fatti relativamente recenti, perché ormai il
primo é di oltre tre anni fa; non a caso, sapete bene, sono state fatte
perquisizioni nel carcere di Trani; rispetto ai nuovi, coloro che esprimono oggi
antagonismo nelle varie forme, sappiano - é questo il messaggio che viene
lanciato - che li aspetta un carcere duro.
Fin quando saranno sottoposti a giudizio questo carcere
andrà anche a limitare il diritto alla difesa; sicuramente si troveranno di
fronte un carcere con un livello di afflittività estremamente alto.
Se un giorno dovessero essere interessati a benefici
penitenziari, sappiano che potranno ottenere questi benefici solo ed
esclusivamente attraverso la collaborazione; quindi, come dire, é un chiaro
messaggio, ben preciso, lanciato in via preventiva. E questo é un aspetto, una possibile chiave di lettura, una
possibile spiegazione. L’altro é
la ripresa delle lotte, dei conflitti sociali, delle manifestazioni grandi di
base; si sta di pari passo, come sapete tutti, sviluppando la creatività di
molti magistrati. Vediamo quelli di
Cosenza, che sono andati a rispolverare articoli di codice assolutamente
desueti, salvo poi essere ben aggiornati nella collocazione carceraria: sapete
che i compagni arrestati sono stati ristretti in carceri significativi per la
presenza di determinati soggetti e per una lunga tradizione, Trani e Latina.
Non stiamo a ricordare il vecchio articolo 90, penso ne siate al corrente
tutti di quello che fu la funzione dell’articolo 90.
Fu creato, lo ricordate, un circuito speciale differenziato
da cui sono transitati circa seicento detenuti politici.
Ricordate quello che é successo all’Asinara nel 1977;
ricordate bene quel fenomeno, che é tuttora attuale, delle truppe speciali
preposte al controllo nelle sezioni speciali e nelle carceri speciali.
Adesso si chiamano GOM, Gruppi Operativi Mobili, e sono gli
agenti di polizia penitenziaria, preposti proprio al 41 bis e che notoriamente
si sono resi responsabili in molte occasioni di pestaggi e, almeno in
un’esperienza professionale diretta del sottoscritto a Reggio Calabria, anche
di omicidio.
Quindi si ripristinano antichi strumenti per le finalità
di sempre. Un ultimo argomento di
riflessione che vi sottopongo, e poi concludo, perché mi é stato detto
“aspetti di un intervento tecnico e dintorni”: ecco questi sono alcuni
dintorni. E’ l’atteggiamento
della sinistra, di una parte della sinistra e di alcuni giuristi su cui é
opportuno riflettere.
Ho letto questa mattina un intervento che mi ha colpito
perché é di un giurista che scrive su Liberazione, Albero Burgio: “41bis la
vera ratio della riforma”. » di
pochi giorni fa l’articolo, l’ho letto stamattina in vista dell’incontro
di oggi e ho trovato una parte, che non vi leggo perché sarebbe troppo lunga,
duramente critica nei confronti della presa di posizione dell’Unione della
Camere Penali, quella che vi ho ricordato poco fa.
Evidentemente qualcuno crede realmente, io voglio
attribuire buona fede a questo giurista, che il 41 bis possa svolgere una
funzione utile nella lotta alla mafia; se non ché dopo, lo stesso giurista,
entra in contraddizione con se stesso perché si rende conto che appare per lo
meno strano che un governo come l’attuale, la cui collusione con ambiti
mafiosi, partendo dal vertice e scendendo mano a mano nei suoi collaboratori, é
sotto gli occhi di tutti, anche prima delle recenti dichiarazioni del signor
Giuffré, sta promuovendo, addirittura con carattere di permanenza, il 41 bis.
Si fanno delle interessanti ipotesi, come quella che ci sia in atto una
lotta all’interno delle mafie per cui si voglia seppellire una certa realtà
troppo compromessa con le stragi per favorire una realtà mafiosa nuova, meno
compromessa con questo passato. »
un’ipotesi possibile, altre se ne potrebbero fare, ma tutti protési a
discutere di questi argomenti, sicuramente importanti, si dimentica l’altro
aspetto molto importante che é quello dell’utilizzabilità del 41 bis per
reprimere dissenso e lotte sociali.
UN COMPAGNO ANARCHICO SUI MODULI FIES
Ringrazio i compagni e le compagne che hanno dato la
disponibilità per questa sala e per questa iniziativa.
Ni FIES ni dispersion, ni enferm@s
en prision.
Esiste un fronte di lotta estremamente minoritario e
marginale rispetto alla situazione totale, generale, nelle carceri spagnole che,
da moltissimi anni, stanno portando avanti una lotta per la libertà e la dignità.
Questa lotta negli ultimi tre anni quattro anni ha focalizzato l’attenzione su
quattro punti fondamentali.
Il primo punto rivendicativo che queste persone stanno
portando avanti é l’abolizione del FIES e di tutti i tipi di isolamento. Il
secondo punto rivendicativo é la fine della dispersione, ovvero trasferimenti
coatti, allontanamento dai familiari e dal contesto sociale in cui si trovavano
a vivere, eccetera eccetera.
Il terzo punto rivendicativo é la scarcerazione dei
malati, libertà immediata per i malati gravi e/o terminali.
Il quarto punto rivendicativo, questa é una cosa un po’
più tecnica, c’é una legge, pare, in Spagna dove le persone non devono
scontare più di 20 anni di carcere, non c’é l’ergastolo in Spagna anche se
esiste, di fatto, e questo é il quarto punto rivendicativo. [Per la verità per
i reati più gravi la pena massima é oggi di 30 anni, grazie al Codice Penale
del é95 legiferato dal governo PSOE, adesso il governo Aznar per i reati di
banda armata vuole portare il limite massimo a 40 anni, con l’appoggio del
PSOE ovviamente] Ci sono stati degli scioperi individuali, degli scioperi
collettivi, non di tante persone si parla di un centinaio di persone, quasi
tutti rinchiusi nel primo grado FIES - Controllo Diretto - e poi di varie
iniziative individuali, alcune tra l’altro fatte in solidarietà ai
prigionieri politici turchi che sono in sciopero della fame a tomba aperta,
oppure rispetto a vari attacchi repressivi che ci sono stati in Spagna contro il
movimento anarchico e libertario (ultima la montatura di Valencia dove tre
giovani anarchici sono in carcere nel FIES 3 [banda armata] accusati di
associazione illecita a fini di “terrorismo”) Questo é quanto. Che cos’é
il FIES? E’ un archivio, creato nel é91, dove sono schedati i detenuti “più
pericolosi”. Praticamente una sezione speciale all’interno delle quattro
carceri spagnole, dove vengono rinchiuse le persone, dove vengono suddivise,
c’é tutto un lavoro di psicologi, medici, che poi sono dei boia - quello di
Puerto I (Cadiz) lo chiamano Mengele per darvi un’idea della sua concezione
del giuramento d’Ippocrate. Il FIES é la reazione alla combattività dei
detenuti, alle rivolte, alle evasioni alle rivendicazioni, all’autorganizzazione
che in Spagna ha contraddistinto la vita carceraria negli anni 70-80. Questa
lotta ogni tanto riesce a varcare il velo del silenzio, della complicità
rispetto a questi fatti, rispetto a tutto quello che succede dentro le carceri e
così torna all’attenzione per poi ripiombare subito nel silenzio generale.
Adesso é tutto da verificare quale percorso possano fare queste persone,
verificare con chi con quali persone, con quali soggetti cooperare, pianificare
quello che si può fare in futuro, sia rispetto ai detenuti che sono rinchiusi
dentro i moduli FIES, sia chi ne é al di fuori perché comunque siamo solidali
anche coi detenuti comuni, che anche se magari non partecipano alle lotte, ci
sono comunque delle sensibilità all’interno delle sezioni comuni rispetto a
queste tematiche specifiche, particolari. Non lo so é tutto da vedere.
Io concluderei qua, oggi preferisco più ascoltare che parlare.
UNA COMPAGNA DELL’ASSOCIAZIONE FAMIGLIARI
E AMICI DEI PRIGIONIERI POLITICI
Ancora una volta, cause di forza maggiore mi costringono
mio malgrado a non partecipare a eventi come questo... Voglio però far giungere
a tutti i presenti e agli organizzatori di questa giornata il saluto solidale
dei compagni spagnoli incarcerati in Francia e in Spagna. Non si tratta di un
saluto formale e vorrei veramente essere in mezzo a voi, per abbracciarvi ad uno
ad uno, per dirvi, per ripetervi, quanto é importante la vostra solidarietà e
quanto vi si senta vicini: i muri, le sbarre, l’isolamento, non impediscono
alle vostre voci solidali di giungere a ciascuno dei compagni...
Il 25 novembre 2002, giusto due settimane fa, su ordine del
giudice Garzón sono stati arrestati altri 8 compagni spagnoli; cinque di loro,
erano già stati in carcere, chi per 14, chi per 16, chi durante 20 anni... Il
loro “reato” attuale é quello di essere stati in galera per tanto tempo
senza pentirsi... A tutt’oggi nulla si sa di questi compagni, né degli altri
tre giovani membri delle Afapp-per un Socorro Rojo Internacional, che sono stati
arrestati nello stesso pomeriggio con l’accusa di appartenenza a banda
armata... Da sempre, é vero, diciamo che “la solidarietà é
un’arma”... ma proprio non immaginavamo che Garzón ci avrebbe preso in
parola...
E questa del novembre scorso é la terza ondata repressiva
che colpisce il PCE(r) - Partito Comunista di Spagna (ricostituito), il
movimento di solidarietà (Afapp-per un SRI) e i Grapo Ggruppi di Resistenza
Antifascista Primo di Ottobre) negli ultimi due anni.
L’11 novembre del 2000 sono stati arrestati a Parigi 5 militanti del
PCE(r), tra cui il Segretario Generale del Partito, e due militanti dei Grapo.
Si é trattato di un’operazione congiunta, realizzata dallo Stato fascista
spagnolo e dallo Stato francese. I 7 continuano in isolamento e a tutt’oggi
non sono ancora stati processati. Tra
il 18 e il 22 luglio del 2002 si é avuta una nuova ondata repressiva, che si é
scatenata contemporaneamente in Francia, in Spagna e in Italia. In Francia la
DNAT (polizia politica francese) ha fatto irruzione negli appartamenti
accompagnata da membri della Guardia Civile spagnola. Otto compagni sono stati
arrestati a Parigi ed altri 8 in Spagna. Tra gli arrestati di Parigi, un
compagno che certamente qualcuno di voi ricorderà perché viveva in Italia: si
era fatto oltre 20 anni di galera in Spagna e, a fine pena, aveva raggiunto la
sua famiglia in Italia. Era in Francia per organizzare la solidarietà nei
confronti dei sette arrestati nel novembre 2000. Altri, magari, li avete
“conosciuti” di nome, forse, chissà, avrete scritto a qualcuno di loro
quando era in galera... eh già... degli 8 arrestati di luglio, quattro avevano
già scontato lunghe pene nel loro paese. Quanto agli altri, si tratta di
giovanissimi (tra i 20 e i 33 anni). Il
giudice Garzón e il governo spagnolo cercano di condannare, attraverso queste
persone, il Partito Comunista di Spagna (ricostituito) perché l’esistenza di
questo Partito é un pericolo per il regime spagnolo. Per raggiungere i loro
obiettivi, il Governo spagnolo e i suoi burattini cercano di dimostrare che il
PCE(r) e i Grapo sono la stessa cosa, quando sanno perfettamente che si tratta
di due organizzazioni distinte. Il
PCE(r), infatti, é un partito di classe, il partito del proletariato spagnolo;
un partito marxista-leninista, il cui funzionamento si basa sul centralismo
democratico. L’attività dei militanti del PCE(r) é un lavoro esclusivamente
politico che si attua attraverso l’agitazione, la propaganda e
l’organizzazione politica. Il PCE(r) certamente - e come dovrebbe fare
chiunque si dica realmente democratico - appoggia politicamente e moralmente la
lotta di resistenza antifascista in atto in Spagna dagli anni é40.
Il giudice Garzón ed il suo omologo francese Brugiére si stanno
adoperando per condannare il PCE(r) con l’accusa di essere “la stessa
cosa” che il movimento di guerriglia. Sulla situazione nelle carceri in Spagna sono anni che
parliamo: in Spagna si muore di carcere, in Spagna esiste ancora la tortura...
Nessuno immaginava che la situazione nelle galere francesi
fosse così pesantemente tragica... I compagni spagnoli stanno tutti in
isolamento, tanto quelli arrestati nel novembre 2000 che quelli arrestati nel
luglio 2002. Non possono avere rapporti tra loro, neppure epistolari; nessun
rapporto con gli altri prigionieri; 22 ore di cella e due ore d’aria al
giorno, da soli. I mezzi di comunicazione sono, in pratica, proibiti:
“affittare” la televisione costa infatti 10 euro a
settimana. Nessuna telefonata, neppure al proprio avvocato. Nessun pacco, ad
eccezione che in questi giorni, perché, bontà di lor signori, si avvicina il
Natale. Nelle carceri francesi si deve acquistare tutto e tutto costa il triplo
rispetto a “fuori”. La corrispondenza subisce due censure: arriva in carcere
e da qui viene trasmessa al giudice istruttore che, dopo aver fatto tradurre,
legge e poi rimanda in carcere le lettere, che però devono passare attraverso
una ulteriore censura, quella del carc ere. Questo significa ch e una lettera può
tardare anche mesi. Nei confronti del Segretario Generale del PCE(r) bisogna
dire che le guardie si accaniscono in particolar modo...
Potrei continuare per ore, raccontandovi ciò che accade, i
soprusi di cui ciascuno dei compagni é vittima... Ma non voglio occupare troppo
tempo... Prima di concludere,
tuttavia, voglio porvi una domanda: perché proprio ora tanta repressione contro
i comunisti spagnoli? E’ necessario chiederselo perché il fascismo spagnolo
é, oggi come ieri, l’avanguardia dell’ascesa del fascismo in Europa.
Come nel 1939, in Spagna i fascisti stanno mettendo a
tacere ogni forma di dissidenza politica, sociale o sindacale, ma non vogliono
farlo da soli e, esattamente come allora, cercano di coinvolgere un altro Stato
sovrano, la Francia, che di fatto potrà diventare una sorta di colonia
spagnola. E usano questi collaborazionisti che, come ai tempi di Vichy, tengono
in galera ai comunisti spagnoli, senza prove e con accuse false. Ora tocca ai
comunisti spagnoli...
E in Italia cosa sta accadendo, compagni? E in Germania, in
Gran Bretagna...? La situazione,
ovunque, é drammatica... neppure ai tempi dell’Impero romano, neppure un
Caligola che pure ha vestito il suo cavallo da senatore, si sono mostrate in
modo così chiaro le rovine di un sistema totalmente putrefatto...! Ma nessuno
come loro stessi sta mostrando ai popoli della Terra cosa é veramente
l’imperialismo, cosa sono il fascismo, la tirannia, l’oppressione, la
miseria e la schiavitù... E prima
o poi, più prima che poi, i lavoratori, i contadini, i disoccupati, gli
studenti, le casalinghe, i giardinieri e chissà persino le suore di clausura ne
avranno sin sopra i capelli e diranno basta... In Europa, evidentemente,
confidano nel fatto che, per mancanza di organizzazione e di direzione politica,
il movimento finisca per auto distruggersi nella propria impotenza...
E’ quindi più necessario che mai unirsi e non rinunciare
alla pratica rivoluzionaria... questo, compagni, é il messaggio dei compagni
spagnoli in carcere in Spagna e in Francia.
Sono l’avvocato di alcuni prigionieri delle Brigate
Rosse-Partito Comunista Combattente.
Vi ruberò pochissimi minuti unicamente per esprimere il
saluto dei compagni che assisto e per invitarvi ad una semplice riflessione.
Sul 41 bis OP abbiamo ascoltato un’esposizione che
ovviamente, oltre a condividere, ritengo articolato e scrupolosa.
Non vorrei, tuttavia, che determinasse un equivoco in chi
ascolta.Ovvero l’equivoco che l’approvazione della modificazione, in via
permanente, dell’art. 41 bis determini una differenza sostanziale delle
condizioni di prigionia alle quali sono sottoposti i prigionieri rivoluzionari
in Italia e che una mancata approvazione della stessa norma, ossia dell’art.
41 bis e quindi la conferma delle attuali condizioni carcerarie, siano la
conferma di condizioni carcerarie accettabili.
I prigionieri rivoluzionari, che resistono da decenni nelle
carceri italiane, subiscono un trattamento carcerario che non può certo
definirsi morbido, in contrapposizione con la durezza del 41 bis OP.
Lo Stato ed il Governo, in alcune sue articolazioni, hanno
sempre avuto ed hanno tutt’oggi, e avranno comunque, gli strumenti di
intervento repressivo e oppressivo sui prigionieri rivoluzionari. Strumenti che
sfuggono a norme legislative più o meno efficaci e pressanti.
L’Elevato Indice di Vigilanza che viene riservato, da
decenni, ai compagni rivoluzionari in carcere, é un cugino molto stretto del 41
bis op, questo va detto. E’ un pò un sacco vuoto che viene riempito a seconda
delle occasioni dal DAP, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con formule
di repressione e di restrizione dei normali diritti dei detenuti a seconda delle
esigenze politiche del momento. I
compagni che assisto, i compagni detenuti a Biella, vivono questa condizione da
sempre attraverso la censura della corrispondenza, la negazione dei colloqui, le
perquisizioni nelle celle. Prima il collega, il compagno che mi ha preceduto,
faceva riferimento alle perquisizioni intervenute nel carcere di Trani,
altrettante ne sono state realizzate in quel periodo, mi riferisco a quello
dell’uccisione di D’Antona e successivamente del collega Biagi (collega di
D’Antona ovviamente) nel carcere di Biella.
Questi episodi hanno determinato perquisizioni e pestaggi e
non solo nelle carceri soggette ad Elevato Indice di Vigilanza ma anche ad Opera
rispetto a Compagni ivi detenuti e che si riconoscono comunque nel Movimento
Rivoluzionario. Un trattamento,
quello attualmente riservato ai prigionieri Rivoluzionari, che può essere
peggiorato dall’approvazione del 41 bis e dalla sua estensione anche ai
prigionieri rivoluzionari con l’effetto di registrare unicamente un
indurimento della repressione già esistente a carico dei prigionieri.
Altro aspetto, in materia di approvazione del 41 bis, come
diceva giustamente il collega é quella di una estensione quasi a livello
sociale di un trattamento repressivo nelle carceri sottoposte al 41 bis. La
riforma in atto in materia di trattamento carcerario pone le basi per una
restrizione delle residue libertà dei detenuti senza limite anche per i
soggetti detenuti e diversi dai prigionieri rivoluzionari.
Le restrizioni saranno, ovviamente, calibrate dalle scelte politiche e
sociali del momento, dal conflitto, dalla resistenza rispetto ai percorsi della
borghesia. Quell’equivoco che
dicevo all’inizio del mio discorso dovrebbe essere evitato comprendendo che il
diritto, italiano ed internazionale, non consente di operare “miglioramenti”
per i prigionieri rivoluzionari.Il diritto borghese esprime una funzione
anti-rivoluzionaria.
Ringrazio chi ci ha ospitato, chi ci ha consentito di
tenere questo incontro, chi é intervenuto pur leggendo questo momento come
un’occasione perché si riprenda il dibattito e soprattutto le iniziative di
solidarietà con i prigionieri rivoluzionari secondo il sentire di ciascuno di
noi. Ci sarà chi ritiene di fare azioni dirette a modificare, in qualche
misura, l’ordinamento giuridico vigente o di combattere in ogni forma il 41
bis; questo é del tutto legittimo.VI sarà anche chi ritiene che la solidarietà
con i prigionieri rivoluzionari vada ben oltre ad una modificazione legislativa
che, di fatto, nulla potrebbe cambiare rispetto alla condizione della detenzione
politica. Vi saluto e vi ringrazio
tutti.
UN SALUTO DEL COMPAGNO MARCELLO GHIRINGHELLI
Carissimi compagni/e, ciao.
Ho ricevuto con molto piacere il vostro opuscolo a sostegno
delle lotte sociali e nelle galere.
Mi complimento per la serietà dell’impegno che svolgete
in favore dei meno garantiti.
Purtroppo mala tempora currunt!
Credo che se siamo arrivati a questi livelli, non é tanto
perché il capitale sia forte e invincibile, ma piuttosto perché noi, i
proletari con i rivoluzionari, non si abbia sufficiente memoria.
Nel contempo siamo troppo frammentati e divisi da centomila
parrocchie, già proprio così!
Nella storia ogni qualvolta il capitale si é sentito
attaccato, nonostante la sua indole caotica, ha fatto quadrato contro gli
attaccanti cioé la classe e/o i rivoluzionari.
Mentre per contro quando veniamo attaccati dal capitale, noi ci
frantumiamo di fronte alle minacce e/o lusinghe, dando così spazio
all’opposizione di renderci malleabili come crea....
In una delle ultime lettere che mi aveva scritto la
compagna della RAF Ulrike Meinhof, avevamo già riscontrato questo dilemma molto
serio, ma le sue critiche in tal senso sono state soppresse nel carcere speciale
di Stammhaim. E le mie si sono perse nel magma ribollente degli anni 70/80. Ed
oggi, la situazione non é molto rosea. Tuttavia non dobbiamo mai dimenticare che noi i proletari e
rivoluzionari abbiamo la forza della ragione !
La dobbiamo usare per batterci contro chi oggi inalbera la
ragione della forza. Il capitale con tutti i suoi clichés!
Non arrendetevi, ma imparate a combattere.
Io ho fatto 20 anni il 1.12.2002 di cui 18 in carcere
speciale a Novara, senza mai arrendermi.
Anche se oggi non nego che mi sento stanco. Ma ho fatto 34
anni di carcere, quindi vi abbraccio tutte/i con affetto.
Buon lavoro, un caloroso saluto comunista.
Marcello Ghiringhelli
carcere di San Vittore
Milano, 9 dicembre 2002
UN COMPAGNO DELL'UDAP SUI PRIGIONIERI
ARABO-PALESTINESI
E' doveroso oggi esprimere solidarietà con tutti i
prigionieri rivoluzionari in tutto il mondo, ribadendo la loro totale internità
ai processi rivoluzionari nelle aree di cui fanno parte.
Cari compagni, in Palestina, da anni si parla di movimento
dei prigionieri semplicemente per il fatto che sono numerosi. Allo stato attuale
il numero dei prigionieri ammonta a 8.300, di tutte le età , dai 14 anni in su.
I nostri prigionieri versano in condizioni disumane da tutti i punti di
vista: cibo, visite dei familiari, salute ed accesso alle informazioni esterne.
Dal 1967 in poi, abbiamo registrato 122 decessi a causa delle torture in
carcere, numerosissimi sono i detenuti malati che non ricevono cure adeguate.
Nelle carceri sioniste sono passati 450.000 palestinesi nell'arco di
trent'anni, potete immaginare per una popolazione di 3.500.000 di persone,
quanto sia alta la percentuale. L'entità
sionista ha inventato forme di accuse e di detenzione diversificate per
giustificare la propria azione nazi-fascista.
Oggi, in Palestina, la detenzione si divide in tre parti
fondamentali:
1. Campi di concentramento collettivi, inclusa la chiusura
completa di villaggi e centri urbani con coprifuoco che può durare delle
settimane
2. Detenzione amministrativa: senza alcuna accusa si
arrestano le persone e il fermo viene prolungato di sei mesi in sei mesi e può
durare degli anni.
3. Detenzione ordinaria con accuse specifiche con condanne
che a volte arrivano a quattrocentocinquant'anni.
In Palestina c'é da aggiungere alla repressione
dell'occupante anche quella dell'Autorità nazionale Palestinese dalle cui
carceri sono passati tanti compagni e combattenti palestinesi.
Vi ricordiamo che la forma carceraria imperialista nuova di
Guantanamo é stata introdotta anche in Palestina. Oggi nel carcere ANP di
Gerico ci sono quattro compagni (quelli che hanno giustiziato il ministro
fascista Zevi) ed il segretario del fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina. Questi compagni sono controllati a vista da carcerieri americani e
inglesi.
In quest'occasione vogliamo ribadire la nostra piena
solidarietà con tutti i compagni prigionieri e rivendicare il loro impegno a
non cedere al nemico di qualsiasi natura esso sia, forze d'occupazione o nemico
di classe.
Noi pensiamo che la migliore solidarietà con i compagni
detenuti sia il proseguimento della lotta, motivo per il quale subiscono la
prigionia.
Viva la lotta dei prigionieri rivoluzionari
A fianco della lotta dei popoli repressi
Per un mondo giusto e umano
COMPAGNI DEL SOCCORSO ROSSO DEL REVOLUTIONÄRER
AUFBAU SCHWEIZ
Care compagne, cari compagni, in primo luogo, grazie per
l’invito alla vostra iniziativa del 14.12. Anche noi oggi siamo impegnati in
una iniziativa di solidarietà con i prigionieri politici: una manifestazione
davanti al carcere dì massima sicurezza dove, nel braccio speciale, é in
isolamento Marco Camenisch, il compagno anarchico che ha passato più di dieci
anni nelle galere italiane. Per questo vi mandiamo queste righe in segno di
solidarietà e di internazionalismo proletario.
“La guerra contro il terrorismo é una lotta contro un
male invisibile che agisce ovunque”. Queste
le parole di Bush che ricordiamo tutti. La borghesia imperialista cerca di
uscire dalla profonda crisi capitalistica portando la guerra imperialista
all’ordine del giorno della loro politica. Nessuno allora si meraviglia che
questo famoso “male” si trovi soprattutto nelle regioni che hanno
un’importanza strategica o ricche di materie prime. Ed é là che, con le
bombe, prendono il potere o il controllo sulla distribuzione delle materie
prime. Una repressione feroce si scaglia contro tutte le forze che si oppongono
o alla loro presa di potere o al modo di produzione capitalista e al suo ordine
sociale. I movimenti di liberazione, le organizzazioni rivoluzionarie e
combattenti finiscono nelle famigerate liste nere, le cosiddette “liste
antiterroristiche” e con questo diventano perseguibili in tutto il mondo.
La controrivoluzione dello stato spagnolo é, per il
momento, in Europa, il punto più alto della controrivoluzione che non attacca
soltanto le organizzazioni rivoluzionarie e combattenti (come PCE-r, GRAPO o ETA)
in Spagna, Paesi Baschi o in Francia. No,
vengono messi nella famigerata lista, quasi giornalmente, nuovi nomi di
compagni, collettivi giovanili rivoluzionari (come Haika o Segi) o organismi di
massa, sindacali o quelli in sostegno e in solidarietà con i compagni
prigionieri (Gestorias). Divieti,
blocchi di conti bancari, arresti di massa e torture fino ad oggi non sono
riusciti a schiacciare i movimenti di liberazione, la lotta di classe, la
militanza rivoluzionaria. La
controrivoluzione spagnola non agisce soltanto in Europa, ma si ricorda del suo
ruolo storico, come potere coloniale, e appoggia la controrivoluzione colombiana
nella loro lotta contro le FARC.
Apoggiando Sharon nella sua sporca guerra contro il popolo
palestinese e il suo movimento di resistenza, gli usa e gli europei, allungano
la lista nera mettendoci anche il FPLP, un’organizzazione socialista con una
tradizione di lotta rivoluzionaria molto ricca e importante. Con ciò si apre la
caccia ai suoi dirigenti come “terroristi” in tutto il mondo. Questi
attacchi mirano, tra l’altro, anche ad eliminare le basi e le rappresentanze
estere e, con questo, i legami internazionali. Proprio l’altro giorno due
compagni del DHKP-C sono stati arrestati a Londra, la loro sede perquisita. La
“lista antiterroristica” é alla base di questa operazione sbirresca. Era
ovvio che la Turchia approfittasse di questo strumento della controrivoluzione
internazionale, per mettere a tacere tutto ciò che si oppone in modo radicale
al loro regime. Anche la Germania
si é attrezzata con un nuovo articolo del codice penale, il 129b, che permetterà
di perseguire i compagni di organizzazioni straniere come se fossero militanti
di organizzazioni rivoluzionarie tedesche.
Il ruolo della controrivoluzione in Italia lo conoscete voi
meglio di noi e siamo interessati a conoscere le vostre analisi, valutazioni e
proposte di lavoro anche a livello internazionale. Siamo profondamente convinti
che, in questa fase dell’imperialismo, non solo la parola d’ordine “o
socialismo o barbarie” ma anche l’internazionalismo proletario, sia più
attuale che mai.
La borghesia imperialista fa bene a temere la rabbia dei
popoli oppressi, la lotta di classe, la resistenza rivoluzionaria e le lotte di
liberazione. Un’occhiata nelle varie regioni colpite, come ad esempio la
Palestina o i Paesi Baschi, fa vedere che né la guerra né la repressione
intensificata, raggiunge il loro obiettivo.
Non meraviglia affatto che, “creare fiducia”, sia la parola
d’ordine del World Economic Forum di Davos quest’anno. A gennaio, come tutti
gli anni, la créme de la créme della borghesia imperialista, governatori,
specialisti economici, intellettuali, scienziati e naturalmente un mare di
specialisti antiterrorismo, servizi segreti, per citarne soltanto un paio, si
riuniscono sulla montagna bianca con aria pulita. Gli strateghi delle guerre,
dello sfruttamento e dell’oppressione, vorrebbero sviluppare in “santa
pace”, strategie e tattiche da intraprendere contro la grave crisi
capitalistica. Per lo stato
svizzero é di fondamentale importanza, così come ha dichiarato il capo
dell’esercito, che questo “avvenimento più importante per la piazza della
finanza svizzera” si svolga senza “immagini di guerra”.
Ogni lotta di classe, resistenza rivoluzionaria o lotta di
liberazione, a livello nazionale o internazionale trova lassù in montagna i
“suoi” nemici di classe, gli imperialisti e potenti della politica, cultura
e scienza. “Creare fiducia” nelle nostre possibilità di mobilitarci contro
un nemico comune, essere visibili e ovunque portando con noi anche la lotta dei
prigionieri politici, é il nostro invito a voi tutti, affinché si riesca a
salire, insieme, lassù in montagna.
Buon lavoro, compagne e compagni
Soccorso Rosso del Revolutionärer Aufbau Schweiz
membro della commissione per un soccorso rosso
internazionale
Zurigo, il 13.12.02
UN COMPAGNO DELLA PANETTERIA OCCUPATA DI
MILANO
Un saluto a tutti, crediamo sia importante oggi fare questa
iniziativa come momento di informazione sulla strategia repressiva che lo stato
sta portando avanti a partire da una riflessione sull’attualità
dell’applicazione del regime di detenzione speciale che rientra nelle norme
contenute nell’articolo 41bis dell’Ordinamento Penitenziario. Vuole anche
essere un primo momento di crescita, come necessità di comprendere la
situazione carceraria e repressiva che esiste oggi collegandola ed inserendola
in un piano generale, piano di attacco alle condizioni del proletariato
metropolitano in genere e di conseguenza anche di quello prigioniero. Una
riflessione sul carcere rientra così necessariamente su quelli che sono oggi i
rapporti fra le classi, i rapporti di forza, e su quello che é oggi il livello
di espansione raggiunto dal modo di produzione e riproduzione capitalistico.
Avviare un dibattito a 360 gradi, iniziando un lavoro di
informazione, sviluppando rapporti e reti di collegamento, costruendo un terreno
di solidarietà attiva.
Gli elementi su cui si é fermata la nostra attenzione
sono:
- la comprensione di una strategia che vive all’interno
delle prigioni di annientamento e di differenziazione del proletariato
prigioniero e in particolare dei prigionieri rivoluzionari;
- la solidarietà ai prigionieri rivoluzionari, solidarietà
totale sia attorno a bisogni concreti, alle esigenze dei compagni prigionieri,
che al riconoscimento del loro ruolo storico e della loro partecipazione allo
scontro di classe in atto, non solo come testimonianza ma in perfetta dialettica
con il dibattito e con l’azione del movimento rivoluzionario;
- la necessità di ricostruire un rapporto organico con il
proletariato prigioniero che sappia raccogliere i segnali di insofferenza che
esprime e le sue tensioni di “fuga”, un proletariato prigioniero che é il
medesimo specchio dell’attuale composizione di classe, in cui si ritrova in
sempre maggior numero la presenza di una popolazione migrante ed in particolar
modo di soggetti frutto del processo di precarizzazione e di estromissione dai
processi produttivi di grosse fascie sociali.
- Il ruolo della controrivoluzione preventiva come
strumento permanente ed in perfetta continuità con il passato di controllo e
gestione della crisi e come strategia mirata all’impedimento dello sviluppo di
forme di organizzazione e lotta rivoluzionaria indipendente del proletariato.
Se possiamo schematizzare si tratta di valorizzare un piano
di informazione, di apporto di contributi utili e necessari allo sviluppo di un
dibattito e confronto come base per una critica radicale al sistema di dominio
imperialista di cui il carcere ne é parte.
Se a livello internazionale siamo in una fase segnata da
processi di radicale ridefinizione dei ruoli egemonici e del controllo economico
e politico del mondo da parte delle forze imperialiste che trova come soluzione
la guerra sia essa “umanitaria” o “preventiva” nei singoli paesi si
inaspriscono ovunque gli attacchi alle condizioni di vita del proletariato
attraverso l’espulsione dal mercato del lavoro, l’approfondimento delle
condizioni di sfruttamento e l’aumento della miseria sociale. Il rilancio del
processo di accumulazione a livello globale non deve incontrare resistenze e
deve spegnere con ogni mezzo necessario i focolai di resistenza ancora accesi e
che si oppongono alla penetrazione imperialista (citiamo a proposito i Paesi
Baschi - da Batasuna a ETA; la Colombia - Farc; il medio oriente ed in
particolar modo la Palestina e le sue Organizzazioni). Un attacco che viene
portato non solo alle esperienze rivoluzionarie ma anche alle borghesie locali
che esprimono interessi differenti. Ciò avviene anche attraverso un processo di
integrazione legislativo, giudiziario e militare sempre più transnazionale.
Rientrano in questo ambito il coordinamento delle polizie locali e dei
servizi segreti; il mandato di arresto europeo e internazionale; le liste
“nere” delle organizzazioni rivoluzionarie, di liberazione nazionale o
islamiche; l’applicazione del reato di “terrorismo internazionale” a
chiunque ne appoggi o ne condivida la prassi o l’ideologia.
Si rende necessario per il potere borghese, Stato per Stato,
rifunzionalizzare gli apparati repressivi, implementando una maggiore
integrazione e identità di comando nella macchina incaricata al controllo
sociale, in relazione allo scontro di classe in corso e alle contraddizioni che
questa fase apre. Giorno dopo giorno assistiamo al suo funzionamento con
l’aumento del fenomeno di irruzione nelle case dei compagni, delle
perquisizioni indiscriminate nelle sedi politiche e nei centri sociali, nel
monitoraggio costante e nel rastrellamento di interi quartieri popolari,
all’aumento dei posti di blocco, ai fermi arbitrari, alla detenzione nei lager
(Centri di permanenza temporanea) con conseguente espulsione degli immigrati
senza permesso di soggiorno. E’
in questo quadro che si inserisce la volontà di applicazione dell’art.41bis
ai prigionieri rivoluzionari: un ulteriore e illusorio tentativo per renderli
sempre più estranei alla lotta di classe, per annientarli nella loro identità
politica, per sottoporli ad ogni arbitrio e ricatto nel tentativo di portarli
all’abiura della pratica rivoluzionaria. Questa riedizione della
“segregazione” dei compagni rivoluzionari nelle carceri o nei bracci di
“massima sicurezza” vuole essere un monito e il deterrente per impedire che
la loro scelta rivoluzionaria, sostenuta e rivendicata nel corso di questi anni,
si leghi e dialoghi con l’insieme delle pratiche di classe.
Obiettivo del 41bis sono oggi quei compagni che perlopiù
hanno già scontato 20 anni e oltre nelle “carceri speciali”, sottoposti a
forme di censura e controllo e ai quali viene già ostacolato ogni elemento di
contatto e relazione con l’esterno. Con l’applicazione del nuovo disegno di
legge che modifica l’art. 41bis dell’Ordinamento Penitenziario
l’isolamento diventa pressoché totale, con drastica limitazione della
socialità anche attraverso la contrazione dei colloqui con familiari e amici,
la riduzione delle ore d’aria, le telecamere fisse per la sorveglianza, i
vetri divisori ed i citofoni durante i colloqui, la limitazione nella
corrispondenza con l’esterno, le video-conferenze a sostituzione della
presenza ai processi: tutto un armamentario “collaudato” che vorrebbe
portare alla distruzione fisica e psicologica dei prigionieri rivoluzionari. Un
regime speciale che sarà applicato a chi appartiene ad organizzazioni
rivoluzionarie ma potrà essere utilizzato contro chiunque si organizza su un
terreno antagonista e questo sin da subito avrà un funzione deterrente e da
monito.
Le carceri “speciali” e la legislazione che le
legittima (in passato é stato l’art.90 e oggi il 41bis) sono studiate per
favorire il massimo controllo e la massima efficienza repressiva e rispondono
per essere legittimate dall’opinione pubblica ad esigenze considerate
“emergenziali”, diventando di fatto poi strumenti integranti e di
perfezionamento del sistema di coercizione generale. Questo collaudato sistema
di ricatto, pressione e violenza istituzionale si articola in forma calibrata a
seconda del soggetto prigioniero avendo come elementi costituenti la
differenziazione e l’individualizzazione del trattamento penitenziario. Una
ruota nella quale il “trattamento differenziato” del 41bis rappresenta
l’ingranaggio principale e lo strumento massimo di repressione contro chi si
ribella, si organizza e lotta. Applicato ormai da 10 anni dapprima ai cosidetti
“reati di mafia” viene ora esteso ai compagni delle organizzazioni
combattenti ed ai sospetti di appartenenza alle organizzazioni islamiche,
costituendo di fatto un ulteriore elemento di persuasione, nella dialettica
pacificazione-distruzione, sull’intera popolazione prigioniera che già vive
in condizioni accentuate di degradazione e prevaricazione (mancanza di cure
sanitarie in generale ed in particolare assenza pressoché totale di assistenza
ai malati di Aids, aumento del numero dei suicidi, pestaggi e vessazioni di ogni
tipo). E contro queste condizione si sono sviluppate negli ultimi anni un ondata
di lotte del proletariato prigioniero, da Sassari a San Sebastiano (dove lo
stato ha risposto con un massacro dei detenuti), alle rivolte a Marassi, sino
all’ultimo ciclo di proteste in tutte le carceri italiane.
Ma la prevenzione e la distruzione di ogni elemento di coscienza e di
lotta contro il capitale non si ferma al recinto dei lager di stato, siano essi
“normali” o “speciali”, ma vive principalmente all’esterno, applicata
senza distinguo a tutte le tensioni, anche parziali, e ad ogni momento di
rifiuto che la classe oppone ai meccanismi di sfruttamento. Mentre si aprono contraddizioni dentro il blocco dominante in
merito alla gestione della crisi (patto sociale, legge finanziaria,
partecipazione alla guerra, opzioni divergenti sulla ristrutturazione del
sistema industriale italiano) e le lotte sembrano riprendere corpo e sostanza,
lo stesso schieramento borghese si ricompatta, unito come non mai, nel cercare
di dividere e isolare la classe.
Dove non arriva la burocrazia sindacale per prevenire la
radicalizzazione dello scontro si “criminalizzano” le lotte che si
sviluppano in modo autonomo e differenziato e le avanguardie che le dirigono: si
passa dalla schedatura di massa degli attivisti sindacali alle 130 denunce ai
lavoratori delle pulizie Trenitalia per aver occupato i binari come strumento di
lotta a difesa del posto di lavoro. Per meglio controllare i gruppi politici del
movimento antagonista si allargano le maglie dei reati associativi e dei
provvedimenti che colpiscono i singoli compagni (divieto di partecipare alle
manifestazioni, 270 e 271 bis/ter/quater, inchieste su Genova e Napoli, arresto
di militanti del movimento prima a Cosenza ed ora in tutta Italia).
Soluzioni adeguate alle circostanze per imbottigliare e
differenziare le diverse componenti della classe una dalle altre, per mantenere
come realtà “separate” le pratiche e le opzioni del movimento antagonista e
dei lavoratori dalla prospettiva rivoluzionaria, per rendere ancor più
“invisibili” i prigionieri rivoluzionari alla classe e farli separare dalle
istanze di liberazione dallo sfruttamento e per la rivoluzione sociale.
Se il carcere é uno degli strumenti che la borghesia si é dato per
esercitare il suo potere non dobbiamo farci trovare né impreparati, né
passivi, né divisi sul terreno dello scontro contro ogni forma di dominio
economico e politico del capitale. Costruiamo
una rete di controinformazione e mobilitazione che, a partire dallo “specifico
carcerario del 41bis”, sostenga la difesa dell’integrità psicofisica dei
rivoluzionari prigionieri, la loro identità politica, la loro storia.
Sosteniamo e stabiliamo relazioni con le lotte dei proletari detenuti come
percorso di ricomposizione politica del proletariato metropolitano.
Costruiamo un terreno di solidarietà di classe, per il
comunismo.
UN COMPAGNO ANARCHICO PROMOTORE
DELL’ASSEMBLEA
Innanzi tutto vogliamo salutare i familiari dei detenuti
comuni incontrati durante i volantinaggi davanti ad alcune carceri, e che forse
sono presenti oggi.
Che cosa ci aspettiamo da questa assemblea e cosa non
vorremmo.
Non vorremmo che l’assemblea si trasformasse in un’autocelebrazione,
con degli interventi, orali o scritti, che “pubblicizzino” la propria
organizzazione o gruppo. Gli interventi che seguiranno - o che ci hanno
preceduto - riguardanti particolari situazioni estere, sono per noi un bagaglio
importante e ci sono di stimolo per affrontare meglio una discussione che, a
nostro parere, dovrebbe però indirizzarsi oggi sullo specifico nazionale.
Ciò’ che ci aspettiamo, é un confronto di analisi, di
metodologie basate sull’esperienza, un confronto su proposte di lotta concreta
per poter meglio affrontare - come dicevamo nell’introduzione dell’opuscolo
- le lotte che potrebbero svilupparsi all’interno e all’esterno del carcere.
Lotte che potranno essere determinate da detenuti comuni, o
da sottoposti a 41bis (e qui vorrei aprire una parentesi per sgombrare il campo
da facili prese di distanza riguardo i cosiddetti “mafiosi”. Innanzi tutto
il termine “mafioso” é un appellativo che dà lo Stato a chi é imputato di
appartenere ad una grossa associazione criminale. Allo stesso modo in cui pone l’appellativo “terrorista”
a chi lotta contro l’esistente. Poi c’é da dire che non tutti i detenuti
che soffrono il 41bis sono appartenenti ad organizzazioni criminali. A regime
41bis c’é stato anche un compagno per 10 anni, Matteo Boe; ci sono passati
proletari che, pur non avendo una coscienza di classe, non hanno mai ceduto alle
lusinghe dei Magistrati e che hanno vissuto, o vivono, la loro carcerazione in
modo dignitoso, scontrandosi con i carcerieri e la Magistratura di Sorveglianza.
In ogni modo, é senz’altro un falso problema per un rivoluzionario che si
pone come obiettivo la distruzione della società divisa in classi e di tutte le
istituzioni totali), lotte quindi - dicevamo - che oltre a poter essere
determinate da detenuti comuni o sottoposti a 41bis, possono vedere coinvolti
anche i prigionieri rivoluzionari, é una possibilità.
Ovviamente, non é che ci si possa aspettare che
dall’interno del carcere la lotta possa nascere subito in modo conflittuale.
Una lotta dall’interno, generalmente inizia come lotta
intermedia (cioé che non si pone immediatamente obiettivi rivoluzionari, ma
si presenta come lotta rivendicativa, in carcere così come in qualsiasi
settore della vita sociale), non dimentichiamoci che ogni individuo detenuto é
un ostaggio nelle mani dello Stato e che, quindi, deve muoversi con cautela
avendo anche a disposizione quanta più documentazione possibile, in modo
particolare su quello che accade in altre carceri: dalle condizioni estreme di
repressione alle iniziative di resistenza, di contrapposizione vera e propria.
Una lotta intermedia può andare dal rifiuto dell’aria al rifiuto dei
colloqui, dei pacchi familiari, della socialità e di tutte le altre attività.
Si possono anche sviluppare forme più complesse come il rifiuto del vitto
dell’Amministrazione, del lavoro in carcere, lo sciopero della fame, la
fermata all’aria con rifiuto di rientrare nelle celle, il sequestro di una
guardia.
Nessuno può prevedere come possa evolversi una lotta che
parta da una rivendicazione di migliorie, ma tutti quanti possiamo dare ampio
risalto all’esterno di ciò che accade dentro quelle mura, ed adeguare alla
lotta i nostri metodi e strumenti d’intervento. Tuttavia una lotta contro il carcere potremmo determinarla
anche noi altri, dall’esterno, insieme ad amici e familiari dei detenuti,
perché é anche con chi si vive in prima persona le conseguenze di una
carcerazione che bisogna confrontarsi e creare dei punti di contatto da cui far
partire delle mobilitazioni, auto-organizzate, che sappiano tenere a distanza
gli avvoltoi della Politica.
Nonostante riteniamo che la migliore soluzione possibile
per quel che riguarda il carcere é la sua completa distruzione, spesso abbiamo
solidarizzato con le proteste dei detenuti, tenendo ben presente che non é con
il rivendicare “diritti” a coloro che sono i diretti responsabili della
barbaria-carcere che ci si possa avvicinare alla liberazione ma, a nostro
avviso, con una lotta autogestita in prima persona che sappia mettere in crisi i
meccanismi dell’Amministrazione Penitenziaria ed indurla ad accogliere le
istanze di lotta. Perché é vero che negli ultimi anni le lotte dei detenuti
sono state a carattere rivendicativo (e non totali contro l’esistente),
generalmente pacifiche e di dialogo con le istituzioni, ma é altrettanto vero
che non hanno portato ad una miglioria concreta, relegate ad un attendismo di
volta in volta suggerito da un politico, un ex-carcerato famoso, un Ministro, un
Papa.
Secondo noi la lotta, per avere maggior incisività, deve
svolgersi su due fronti. Quello
interno, composto dai prigionieri, e quello esterno composto da tutte quelle
realtà, singoli individui, amici e familiari che intendono essere vicini ai
detenuti in lotta, in modo non strumentale e non solo assistenzialista.
Una lotta che ponga delle discriminanti nel metodo
d’intervento: l’attacco, cioé nessuna mediazione con il potere; l’azione
diretta, cioé mettere in pratica ciò che dichiariamo di fare, senza delegare
ad alcuno, o aspettare che altri lo facciano al nostro posto; l’autonomia
totale della lotta, cioé il rifiuto di intermediari, strumentalizzatori,
partiti, ecc. Denunciare,
sbugiardare, attaccare, boicottare, presidiare le strutture che compongono il
sistema repressivo, i sindacati che hanno tra i loro iscritti delle guardie
carcerarie, le ditte fornitrici e costruttrici di carceri, le aziende che
sfruttano il lavoro dei detenuti (significativa la proposta della Lega che
intende dimezzare la pena ai detenuti che lavoreranno gratis), organizzazioni e
associazioni complici e sfruttatrici. Il
potere mira a clandestinizzarci, espellerci dai contesti sociali, separarci
dagli esclusi del sistema, perché tra essi rappresentiamo lo stimolo perenne
alla insurrezione generalizzata, alla possibilità di riprenderci la vita.
La proposta che lanciamo a questa assemblea é un progetto
di lotta, un intervento continuativo che in prospettiva coinvolga chi soffre la
galera, ma anche chi la sente estendersi sempre più al complesso della propria
vita, nelle proprie case, nel proprio tempo, pur non trovandosi dietro le sbarre
di un penitenziario. Un progetto,
quindi, che si fa forza del nostro agire rivoluzionario del passato e che si
pone in continuità operativa col nostro agire quotidiano, nella interdipendenza
tra analisi ed azione, in modo coerente e dignitoso. Senza secondi fini, se non
la lotta stessa.
Gli anarchici promotori
UNA COMPAGNA DELLA DEL FOGLIO RIVOLUZIONE
Innanzitutto un caloroso saluto a tutti coloro che
partecipano a questa assemblea che “Rivoluzione” ha contribuito a promuovere
e costruire come un momento di dibattito per il rilancio della cultura e della
pratica della solidarietà di classe. E’ questo un momento importante perché,
accomunando in un unico fronte contro la repressione borghese diverse realtà, dà
un segnale nuovo dopo il lungo silenzio in questo campo, silenzio frutto della
cultura della desolidarizzazione e della dissociazione che per mano della
borghesia ha contaminato il movimento di classe e il movimento rivoluzionario
nel nostro paese al fine di distoglierlo dalla via rivoluzionaria.
Silenzio rotto solo dal lavoro minoritario di pochi collettivi di
compagni che hanno resistito in questi anni e hanno continuato a portare avanti
la battaglia a fianco dei Rivoluzionari Prigionieri (RP).
Un saluto e un ringraziamento in particolare agli organismi
di solidarietà e di lotta contro la repressione che oggi sono presenti e che
con la loro lotta e la loro esperienza possono portare in questa assemblea un
contributo positivo, carico di insegnamenti.
Con questo intervento non vogliamo entrare nel merito dell’analisi
della situazione carceraria oggi, delle modifiche nell’ordinamento
penitenziario e in quello penale frutto dell’attuale situazione di crisi del
sistema capitalistico, della tendenza alla guerra e del conseguente acuirsi
della lotta di classe nei paesi imperialisti e delle lotte di liberazione e
guerre popolari dei popoli oppressi. Molti interventi, e i materiali proposti
per questa assemblea affronteranno questi temi. Vogliamo invece rispondere per
punti a delle domande che secondo noi servono a dare un orientamento collettivo
al lavoro e alla militanza concreta sul terreno della repressione e della
controrivoluzione.
Innanzitutto: “Perché é fondamentale lottare sempre
contro la controrivoluzione?” Molti compagni, “aree” di movimento,
“gruppi politici” hanno sostenuto e sostengono che questo terreno di lavoro
non é centrale, distoglie dal legame con le masse, provoca isolamento, va
considerato solo quando si viene colpiti direttamente o nei momenti in cui la
repressione diventa visibile, per forza ed estensione, a livello di massa. A
queste affermazioni dobbiamo contrapporre con la forza dell’analisi
scientifica delle leggi che regolano il mondo e con la tenacia della pratica
che, per chi si pone onestamente e senza opportunismo sulla strada del
cambiamento rivoluzionario della società, la lotta contro la controrivoluzione
e la repressione non é un settore particolare da considerare quando comoda e a
seconda dei periodi ma, essa é parte integrante e indissolubile del lavoro per
far avanzare la classe operaia e il proletariato verso la propria emancipazione.
Rivoluzione e controrivoluzione é una contraddizione, essa é un’unità di
opposti: é la contraddizione che nel suo sviluppo porta o a un avanzamento di
un polo o a quello dell’altro. Un polo non esiste senza il suo opposto, nella
politica rivoluzionaria questi due aspetti vanno trattati sempre e sono l’uno
il complemento dell’altro. La controrivoluzione preventiva, strumento della
borghesia, é nata e si é sviluppata solo dopo l’affermazione della prima
rivoluzione proletaria e da allora avanza e si perfeziona per contrastare ogni
possibile avanzata di processi rivoluzionari, in tutto il mondo. Per Marx ed
Engels fin dall’inizio e, per i partiti comunisti maoisti di oggi, qualsiasi
processo rivoluzionario potrà avanzare solo se si eleva sulla
controrivoluzione, cioé solo se la rivoluzione riesce a divenire polo
principale della contraddizione. Questo significa, nella pratica, che questo
terreno di lavoro é fondamentale in ogni momento e va studiata sempre la
situazione concreta per trovare il modo corretto per affrontarlo.
Una seconda domanda: “Perché quando si affronta la
questione carcere bisogna partire dal punto più alto di segregazione, in questo
caso dal circuito di Massima Sicurezza? E perché quando si parla di prigionieri
partire dai R.P.?”
Molti compagni pensano che devono analizzare la situazione
a partire dai soggetti più numerosi che vengono incarcerati e che il loro
lavoro deve partire da li, oppure che la realtà di controllo e coercizione va
vista a partire dall’estensione delle misure applicate in tutta la società.
Noi pensiamo, al contrario, che per comprendere bene qualsiasi cosa essa vada
guardata dall’alto perché così si vede per intero e si capisce il posto che
occupano i singoli aspetti di quella cosa. Quindi, per capire come funziona il
sistema carcerario é fondamentale partire dal suo livello più alto raggiunto
perché esprime la sintesi della capacità repressiva del potere borghese e
racchiude i codici che regolano tutta l’istituzione totale che traboccano e
informano l’intera società. E,
quando parliamo di prigionieri, parliamo in primo luogo dei RP perché noi
guardiamo il carcere dal punto di vista del proletariato e della lotta di classe
e, in questa concezione, la loro condizione rappresenta uno dei punti più alti
della lotta dello stato contro chi ha osato organizzarsi per mettere in
discussione il suo potere. Se andiamo a ritroso e guardiamo la storia del
carcere negli ultimi decenni a partire dalla condizione dei RP vediamo che essa
porta con se un importante spaccato della lotta di classe e rivoluzionaria nel
nostro paese. Questo aspetto é affrontato nell’opuscolo preparato per
l’assemblea nel pezzo intitolato “dall’art 90 al 41 bis”. Con questa
impostazione guardiamo alla costruzione di un legame e di un’unità nella
lotta con tutto il corpo prigioniero.
“Che tipo di solidarietà vogliamo promuovere e
raccogliere?” La solidarietà che vogliamo promuovere e raccogliere non é
umanitaria e nemmeno un piagnisteo sulle carenze della “democrazia” borghese
indirizzato al suo possibile miglioramento. Non é una solidarietà rivolta solo
ai prigionieri che in altre parti del mondo lottano all’interno delle carceri
imperialiste. E’ prima di tutto solidarietà qui, alla lotta che i RP hanno
sostenuto e non hanno svenduto: la loro resistenza rafforza la nostra lotta e la
nostra solidarietà concreta rafforza la loro resistenza.
I RP sono la testimonianza del percorso rivoluzionario nel nostro paese e
dei passi avanti fatti contro il revisionismo. Nonostante non siano più le
migliaia di fine anni ‘70 continuano a essere estremamente scomodi e vengono
continuamente presi di mira come ora con il 41 bis. Questo perché essi sono un
esempio di coerenza e mostrano con la loro esistenza che oggi vive una
prospettiva rivoluzionaria. E’ di questo che lo stato ha paura. La solidarietà
che vogliamo promuovere deve servire a sviluppare questa prospettiva con la
consapevolezza che essa é un contenuto indispensabile per raggiungere
l’obiettivo della ricostruzione del partito comunista nel nostro paese. “Che
metodo di lavoro dobbiamo applicare per dare impulso e sviluppare la solidarietà?”
Contro il gruppismo, la solidarietà di parrocchia, la
differenziazione, dobbiamo costruire un fronte ampio contro il carcere, la
controrivoluzione preventiva, la repressione
e a sostegno dei RP che abbia come discriminante il
riconoscimento del nemico comune e la scelta di campo rivoluzionaria. Dobbiamo
intervenire a partire dal particolare della situazione della lotta di classe
attuale. Guardare le cose da un punto elevato non significa non analizzare
sempre tutti i singoli aspetti delle cose e la situazione concreta in cui si
manifestano. Possiamo staccarci a guardare la realtà per elaborare dei criteri
generali di comprensione che siano utili ad intervenire su di essa solo se prima
siamo pienamente immersi in essa e ne conosciamo i nessi interni.
Dobbiamo applicare la linea di massa, saper vedere e valorizzare in ogni
occasione gli aspetti positivi della lotta di classe per contrastare quelli
negativi. Per fare questo é necessario unirsi nella lotta attuale contro il
carcere, non snobbare quello che avviene in risposta a ogni episodio di
repressione solo perché é manipolato o diretto dai revisionisti. E’
importante anche saper vedere e utilizzare le contraddizioni, che oggi sono
acute, in campo nemico. Lo stato non é un mostro onnipresente, cattivo per
natura e con strumentazione repressiva imbattibile, come, più in generale non
lo é l’imperialismo. Se attua misure sempre più fasciste questo non é certo
un segno della sua forza ma della sua debolezza.
Concludiamo con l’augurio che questo incontro sia
proficuo nel dare elementi e strumenti per capire la realtà della repressione e
della controrivoluzione che possano dare impulso e guidare un rilancio della
pratica della solidarietà di classe. Siamo convinti che nella situazione
attuale in cui la lotta di classe coinvolge ampi strati di operai, lavoratori,
giovani e donne, lo spazio politico per il nostro lavoro diventa sempre più
ampio. Quindi, con entusiasmo rivoluzionario, diamoci dentro!
Un saluto a tutti i compagni prigionieri e a tutti i
detenuti che lottano, in Italia e nel mondo.
A fianco della mobilitazione dei compagni contro gli
arresti di Genova.
Redazione di “Rivoluzione”
UNA COMPAGNA DEGLI AMICI E FAMILIARI DEI
RIVOLUZIONARI PRIGIONIERI
Le carceri speciali, in Italia, nascono nel '77 dalla
necessità dello stato di isolare i prigionieri politici. Questo perché, con
l’arrivo nelle carceri dei compagni, dal '68 in poi, la situazione diventa
sempre più esplosiva: crescono le rivolte, si pretendono condizioni di vita
dignitose ma soprattutto, i detenuti per cause comuni, prendono coscienza
dell’origine sociale e politica della loro condizione, si sentono parte del
proletariato, si crea un forte legame tra proletariato fuori dalle carceri e
proletariato detenuto. In seguito,
con la nascita delle organizzazioni combattenti, anche il proletariato
extra-legale si organizza nei N.A.P. (Nuclei Armati Proletari). Lo stato deve tentare di arginare la situazione, vara quindi
la riforma carceraria, che entrerà in vigore nel '76. Questa si muove in due
direzioni che, da quel momento in poi, saranno sempre presenti negli schemi
delle leggi successive sul carcere: da una parte, la concessione di benefici,
condizioni carcerarie migliori, permessi subordinati alla buona condotta e,
dall’altra, il trattamento speciale per i prigionieri politici e per quei
detenuti che si espongono nelle lotte.
Ad occuparsi del circuito delle carceri speciali, sono
chiamati i carabinieri, il cui comandante é il Generale C. A. Dalla Chiesa.
All’inizio si creano sezioni speciali all’interno delle
carceri normali, contemporaneamente sono costruite nuove carceri, concepite già
come speciali, con caratteristiche, anche architettoniche, tali da permettere il
massimo controllo. Queste, nel corso degli anni, si andranno sempre più
perfezionando con il corollario di congegni elettronici e tecnologici.
Le carceri speciali non se le sono inventate qui,
l’Italia ha un modello da seguire, la Germania occidentale.
L’Italia e la Germania occidentale, in quegli anni, sono
paesi centrali per la strategia USA, sia come paesi di frontiera con l’area
dell’Urss, sia nella strategia americana contro le lotte di liberazione del
Terzo Mondo.
In Germania, in particolare nelle basi militari, esistono
centri d’intelligence da dove sono gestite le operazioni, più o meno segrete,
di propaganda, d’informazione e anche militari, americane. A differenza
dell’Italia, dove esisteva un forte partito comunista, seppure revisionista,
la Germania del dopoguerra, ha cercato di estirpare, nel modo più radicale,
ogni tipo d’opposizione politica, infatti il partito comunista era fuorilegge,
dichiarato anticostituzionale fin dal ‘56. Dopo l’esplosione del movimento
del é68, lo stato tedesco reagisce varando, immediatamente, leggi speciali
d’emergenza. All’inizio degli
anni ‘70 emergono due organizzazioni di guerriglia: gli anarchici del “2
giugno”, che nascono dall’esperienza delle comuni, in particolare nel
quartiere di Kreuzberg, a Berlino e la R.A.F. che, analizzando il ruolo
strategico della Germania ovest nei piani dell’ imperialismo USA, si pone
principalmente su un piano di lotta anti-imperialista. Una delle loro prime
azioni, sarà proprio l’attacco, nel ‘72, al quartier generale USA di
Heidelberg da dove erano coordinate le campagne di sterminio in Vietnam. Questa
e altre azioni contro le istituzioni americane, hanno rappresentato un aiuto
concreto al popolo vietnamita in lotta, tanto che, ad Hanoi erano affissi
manifesti con la notizia degli attentati e, dopo la liberazione di Saigon sarà
intitolata una strada ad Ulrike Meinhof per ricordare i compagni tedeschi. Un
altro punto importante é la solidarietà (come vedremo ricambiata), con la
lotta del popolo palestinese. Dopo
il massacro, ricordato come “Settembre nero”, in Giordania, i compagni
palestinesi decidono di portare la lotta qui, nel cuore dell’Europa. Nel
‘72, con il sequestro della squadra israeliana che partecipa alle Olimpiadi di
Monaco e le azioni successive, la lotta di liberazione palestinese esce
dall’ambito regionale in cui era confinata e viene conosciuta in tutto il
mondo. Si prende coscienza del ruolo che Israele svolge in quella regione, che
va ben al di là di quello che appare, e che la lotta palestinese non é solo la
lotta di liberazione di un popolo ma un nodo centrale della lotta
antimperialista mondiale, ruolo che conserva ancora oggi.
Per stroncare la guerriglia lo stato tedesco attuerà,
contro i compagni, una repressione durissima. Saranno rinchiusi, per anni, in
carceri super tecnologiche dove vige l’isolamento in celle singole
insonorizzate, dove i compagni verranno sottoposti a torture di tipo psicologico
e farmacologico, secondo tecniche, studiate fin dagli anni ‘50 in America,
capaci di provocare gravi problemi fisici e psichici, con lo scopo di annullarne
la resistenza e annientarli. Lo stato tedesco non riuscirà a piegare i
compagni: resisteranno e lotteranno strenuamente con scioperi della fame che
porteranno alla morte del compagno Holger Meins nel ‘74. E non ci riuscirà
nemmeno con l’assassinio in carcere, nel ‘76, di Ulrike Meinhof.
Non ci riuscirà nel ‘77, quando la R.A.F. rapirà il
presidente della Confindustria Schleyer, che era stato attivo nazista nelle SS,
e chiederà la liberazione di 11 compagni.
Un commando palestinese appoggerà le richieste della R.A.F. sequestrando
un Boeing 737 della Lufthansa che atterrerà a Mogadiscio. Un commando dei corpi
speciali tedeschi darà l’assalto all’aereo della Lufthansa liberando i
passeggeri e uccidendo i componenti del commando palestinese. Questo é il primo
intervento della Repubblica Federale Tedesca su suolo straniero dal ‘45.
Infine, verranno assassinati, nelle loro celle, i compagni Andreas Baader,
Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. La versione ufficiale del governo sarà, ed é
ancora oggi, “suicidio”, come già era avvenuto per Ulrike Meinhof.
L’uccisione dei compagni susciterà un’ondata di proteste e ci saranno
azioni contro obiettivi tedeschi in tutto il mondo. Le B.R. la definiranno “la
prima offensiva unitaria sul terreno della guerra di classe”.
Il tentativo di fermare la guerriglia assassinando i compagni andrà a
vuoto. La guerriglia continuerà a
combattere fino agli anni '90. Le tecniche d’ annientamento nelle carceri
speciali tedesche, saranno il modello che verrà esportato un pò ovunque,
dall’Italia all’Irlanda, alla Spagna. Non é un caso che la Turchia, che
chiede di entrare in Europa, si adegui a questo modello con la costruzione dei
blocchi, detti di tipo “F”, a cui i compagni turchi stanno resistendo con
uno sciopero della fame che ha già prodotto più di cento morti.
Questo il modello dunque, ma le cose, nell’Italia di
quegli anni, che come abbiamo visto non rappresenta un caso isolato, sono rese
difficili dall’alto numero dei prigionieri e dal livello delle lotte che si
sono sviluppate ovunque, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri e intorno
al problema del carcere.
I compagni prigionieri vengono trasferiti continuamente per
impedire che una situazione stabile possa permettere di organizzarsi e per
rendere più difficoltoso il contatto con l’esterno, essenzialmente con i
familiari (se non si é in qualche modo familiari, non vengono dati colloqui), i
quali sono costretti ad attraversare tutta l’Italia senza mai sapere se il
loro compagno é ancora lì.
Ma nonostante “gli speciali”, la lotta non si ferma e
raggiunge il suo culmine con la rivolta dell’Asinara nel ‘79.
I detenuti chiedono la chiusura del carcere per le
condizioni di vita impossibili. Le B.R., fuori, rafforzano la richiesta dei
prigionieri con il rapimento del direttore generale delle carceri, il magistrato
D’Urso. Alla fine, il carcere dell’Asinara, semidistrutto dalla rivolta,
viene chiuso e D’Urso liberato.
Siamo alla fine degli anni ‘70... la borghesia ha bisogno
di portare avanti una ristrutturazione sia a livello politico che a livello
produttivo; ristrutturazione che é già in atto negli altri paesi, ma che in
Italia é bloccata da più di dieci anni di durissima lotta di classe e dalla
presenza di avanguardie armate. » necessario, per lo stato borghese, usare ogni
mezzo per stroncare queste lotte. Attacca quindi su tutti i fronti, innanzitutto
le fabbriche: emblematica la sconfitta della Fiat con migliaia di cassaintegrati
e i 61 arrestati per “terrorismo”; il movimento, con teoremi come quello del
7 aprile, che porteranno centinaia di compagni in carcere e/o all’estero;
cerca di fare terra bruciata intorno ai prigionieri con arresti e intimidazioni
a familiari ed amici e a tutti quei settori di movimento che si occupano di
carcerario; arriva anche ad arrestare gli stessi avvocati difensori, accusandoli
di favoreggiamento nei confronti dei loro clienti (già successo, anni prima in
Germania).
Per fermare a tutti i costi la guerriglia, verrà poi
applicata la tortura a chi viene arrestato, non la tortura psicologica, ma
quella più spiccia, la corrente nei coglioni per intenderci. Viene applicato
anche l’art. 90, che é, in pratica, l’attuale 41 bis: colloqui con i vetri,
isolamento, riduzione delle ore d’aria, ecc.
Ma a questo inferno c’é una via di uscita ed é la
delazione, il pentimento, il tradimento che porterà centinaia di compagni in
carcere. Ma non basta, Peci, l’infame tra gli infami, consegnerà le chiavi di
un appartamento, in Via Fracchia, a Genova: quattro compagni verranno uccisi. La
situazione é durissima per tutti, ma ancora c’é la volontà di lottare
contro l’art. 90 e le torture.
Il movimento si mobilita e manifestazioni e scontri si
svolgono davanti alle carceri speciali come Cuneo e Voghera. L’art. 90 verrà
infine abolito. Seguirà poi la stagione delle abiure, la legge sulla
dissociazione, i convegni, i dibattiti e, alla fine, come si conviene alla
società dello spettacolo, tutto finisce in tv, ex-fascisti ed excomunisti, le
stesse facce contrite in un cono di luce, ci spiegano che tutto é finito.
Ma la repressione continua. Vengono, di nuovo, arrestati decine e decine
di anarchici; Laudi, nota avanguardia dell’anti-terrorismo monta a Torino il
caso “squatter” contro i compagni che lottano contro il T.A.V. che porterà
al suicidio-assassinio di due compagni, Sole e Baleno. Intanto, i compagni che
non accettano compromessi, che continuano a resistere, restano nelle carceri
speciali rigorosamente isolati. Ed
é principalmente a questi compagni che oggi vogliono applicare l’art. 41 bis.
E allora ci chiediamo: perché proprio adesso? Perché questo rigore
verso dei compagni che sono già nelle carceri speciali da moltissimi anni,
alcuni 20, addirittura 28? Accanimento
gratuito? Non lo crediamo.
E allora guardiamoci intorno. La classe sta subendo, ancora
una volta, un attacco durissimo; gli stabilimenti chiudono, migliaia di operai
perdono il posto di lavoro, nel contempo lo stato sociale viene smantellato, si
susseguono gli attacchi in tutte le direzioni (scuola, pensioni, sanità, ecc)
la crisi economica porta il capitale alla dislocazione produttiva, in paesi dove
lo sfruttamento e quindi il profitto sono maggiori; cresce il capitale
finanziario. Tutto questo fa sì che non ci sia più spazio per ipotesi
riformiste. Lo stato perde quindi, sempre di più, il ruolo di mediatore dei
conflitti, poiché c’é sempre meno da mediare, per assumere la veste
repressiva e di controllo. Le
emergenze si susseguono. All’emergenza permanente, lo stato da risposte che
assomigliano, sempre di più, al carcere vero e proprio: aumentano i contenitori
per merce umana, i centri di detenzione per gli immigrati con il corollario
della legge Bossi-Fini, le comunità di recupero; si parla di abolire la 180 e
di riaprire i manicomi, fino alle casette chiuse per regolarizzare la schiavitù
della merce donna. Lo stato non ha
dimenticato gli anni '70. La classe certo é sotto pressione, costretta sulla
difensiva, sempre più smembrata dal nuovo, anche se in realtà vecchio, modo di
produzione con i lavori atipici, a termine, part-time, a chiamata, chi più ne
ha più ne metta! A quale livello dunque, può, in questo contesto, avvenire la
ricomposizione di classe se non su un terreno politico?
Fermare le avanguardie che potrebbero operare questa
ricomposizione é essenziale: questa é la vera emergenza.
Per questo lo Stato attua una contro-rivoluzione preventiva
contro tutti: i lavoratori, che si mobilitano contro il Libro Bianco e
l’art.18 (da notare la rapida riconversione della CGIL a
interprete-incanalatore delle lotte); il movimento (i fatti di Napoli e di
Genova che porteranno alla morte di Carlo Giuliani, non sono casuali); la
ripresa dell’attività combattente, preparando gli strumenti di cui,
l’art.41 bis é uno di questi. Ma la repressione, per essere efficace, deve
essere generalizzata. Ogni compagno deve sapere di essere a rischio carcere.
Lo Stato, per questo, non si limita mai a colpire solo “i
responsabili”, ma deve creare un clima di intimidazione, arrestando e
inquisendo: i 20 arrestati a Caserta lo dimostrano, non c’é bisogno di prove
per il 270 bis.
La repressione e l’inasprimento del carcere servono, da
un lato, a ri-punire chi non si é arreso e rivendica la propria identità
politica dando una continuità storica alle lotte e, dall’altro, a
desolidarizzare, a spingere alla resa. Il solito vecchio gioco.
Tutto questo nulla ha a che vedere con il governo di centro-destra, anzi,
basti dire che, di fronte alla proposta di applicare l’art.41 bis per la
durata della legislatura, il centro-sinistra ha chiesto, e naturalmente
ottenuto, che l’applicazione del 41 bis sia a tempo indeterminato!
L’intensità della repressione e del controllo sociale
non dipendono dal tipo di governo, é lo stato borghese, nel suo insieme, che
non può permettersi un ‘intensificazione della lotta di classe, che ha
bisogno del controllo sociale all’interno, per svolgere al meglio le sue
funzioni di Stato imperialista, per poter affrontare al meglio
l’intensificazione della contesa internazionale. Uno scontro che é vitale per
l’imperialismo; uno scontro, sempre più complesso, che si svolge a tutti i
livelli: commerciale, politico e sempre di più militare, che vede coinvolti
tutti, dagli Usa all’Europa in via di costruzione, alla Russia, alla Cina. Uno
scontro che, in prospettiva, sarà guerra aperta.
Lo stato imperialista deve, dunque, tenere sotto controllo la situazione
interna per massacrare, in pace, i popoli oppressi.
I due piani, interno e internazionale, sono le due facce
dello stesso problema. La stessa parola d’ordine: annientare chi resiste.
Chi non é con noi é contro di noi. Inutile cercare
qualche eco di Voltaire in questa frase. Il dominio borghese, nel procedere del
suo cammino storico, ha perso quei valori che, per secoli, ci ha propinato per
camuffare la sua vera essenza, ha perso ogni volontà di mediazione, ogni
progetto di sviluppo, quello che vediamo oggi é l’imperialismo ridotto
all’osso, quello che i popoli coloniali conoscevano già.
Chi non é con noi é contro di noi. Non ci sono diritti, nemmeno la
farsa dei diritti umani, pensiamo a Guantanamo, alla Palestina, all’auto
colpita da un missile nello Yemen. Israele ha aperto la strada alle esecuzioni
mirate, adesso ci provano gli Usa:
silenzio assoluto, diventerà la norma. Compilano liste
dove si trovano le più svariate organizzazioni di lotta, non ci sono ragioni
legittime per opporsi, non c’é diritto alla resistenza.
Chi non é con noi é contro di noi. La guerra non é più
episodica per uscire da uno stato di crisi irrisolvibile altrimenti. La crisi é
permanente, la guerra diventa strutturale, infinita, duratura. Guerra
preventiva, non più missioni di peacekeeping o guerra umanitaria, é la guerra
e basta.
Chi non é con noi é contro di noi, estrema sintesi, il
nocciolo duro del dominio borghese.
Un livello di scontro altissimo. Non siamo nel ‘17, oggi
l’imperialismo é giunto a un tale livello di compenetrazione tra le varie
aree del pianeta che non sopravvivrebbe a una rivoluzione russa, il suo bisogno
di risorse é tale che non può permettersi di perdere nessuna area del pianeta.
Deve controllare tutto. Controllare, non governare. Non si piega nemmeno, e non potrebbe, alle richieste
legittime di borghesie nazionali che non vogliono certo cambiare il sistema ma,
più semplicemente, ritagliarsi un piccolo spazio, gestire in proprio le loro
risorse. Non é più tollerabile questo. Pensiamo
al tentato golpe in Venezuela, l’attacco all’Irak, quello che c’é stato e
quello che ci sarà, la Somalia, la Jugoslavia, l’Afganistan e poi l’Islam,
il male assoluto che si annida ovunque, lo cercano anche qui.
L’art. 41 bis sarà applicato anche ai prigionieri
islamici che si trovano nelle carceri italiane (sono più di un centinaio); si
susseguono, infatti, gli arresti di presunti “terroristi” islamici, spesso
é palese che si tratta, semplicemente, di lavoratori di origini arabe arrestati
a scopo propagandistico. Pensiamo alla fantomatica nave carica di uranio
radioattivo o all’arresto di tre pescatori egiziani nella cui casa, alla
seconda perquisizione (non alla prima), avvenuta una settimana dopo l’arresto,
sarebbe stata trovata una cintura esplosiva, fino a rasentare il ridicolo, con
gli arresti nella chiesa di S. Petronio a Bologna. Spesso, per questi arrestati,
la situazione risulta particolarmente dura, specie se difesi soltanto da
avvocati d’ufficio, che non si occupano certo delle condizioni di detenzione.
Sia che siano vittime della propaganda che tende a
dipingere gli arabi come “terroristi”, sia che appartengano effettivamente
ad organizzazioni islamiche, li consideriamo detenuti politici. Naturalmente, é
ovvio che non siamo interessati al fine politico della loro lotta, il nostro
fine é inconciliabile con la Sharia; ma ci siamo interrogati sulle ragioni che
spingono, in alcune situazioni, i popoli arabi a cercare un punto di riferimento
nell’Islam. Sicuramente, la
caduta dell’Urss non permette più, ai paesi del Terzo mondo, di trovare una
via per uscire dal sottosviluppo entrando a far parte della sfera sovietica; il
neoliberismo ha aggravato la situazione di questi paesi come del resto in tutte
le altre parti del mondo, dall’Europa dell’Est, all’ America Latina,
all’Africa, lasciandoli senza vie d’uscita, sempre più poveri e sempre più
legati e sottomessi al volere imperialista.
Le contraddizioni sono diventate enormi. In questo contesto si inserisce
l’ Islam che, pur non essendo un fenomeno unitario, in alcune situazioni, può
esprimere un forte carattere anti-imperialista. L’esempio forse più
esplicativo di questa parabola lo vediamo in Palestina dove, in un popolo
sostanzialmente laico che ha avuto per anni la sinistra all’avanguardia nella
lotta di liberazione, cresce il fenomeno islamico.
Davvero c’é un risveglio religioso? Non crediamo sia questo il punto.
Piuttosto, la sinistra é in crisi e non solo lì. Le rappresentanze borghesi si
sono messe o, per meglio dire, hanno provato a mettersi, sulla via delle
trattative, mentre gli islamici, favoriti all’inizio proprio in funzione
anti-sinistra, sono sfuggiti al controllo, hanno continuato la lotta (questo
conta, in un paese sotto un’occupazione durissima come quella israeliana ),
hanno utilizzato i fondi che venivano dai paesi islamici per sviluppare servizi
sociali, asili, scuole, presidi sanitari, ecc, tutte cose che contano per chi
vive in un campo profughi. Stessa politica portata avanti, nel sud del Libano,
dagli Hezbollah, occupando, quindi, uno spazio lasciato vuoto dalle forze laiche
e di sinistra.
Non si tratta, dunque, di arretramento culturale ma,
piuttosto, la manifestazione del bisogno che hanno i popoli arabi di opporsi
all’occidente imperialista e al sionismo, comunque. Da comunisti, sappiamo che anche in una fase di debolezza,
possiamo interagire con la realtà, pena l’isolamento. E allora, così come i
compagni in Palestina, in nome dell’unità nazionale, lottano insieme agli
islamici contro Israele pur portando avanti una lotta specifica, così noi qui,
in un altro contesto, non possiamo ignorare che l’Islam é un collante
culturale importante per gli immigrati arabi nel nostro paese e non possiamo non
confrontarci con loro, che sono poi con noi, nelle fabbriche e anche nelle
carceri, con i nostri stessi problemi.
Non uniamoci alla campagna contro il cosiddetto
“terrorismo islamico” e alla guerra scatenata dall’imperialismo. Proprio
perché sappiamo che non c’é scontro di civiltà, ma uno scontro di classe,
tutto dipenderà dalla nostra capacità, come sinistra internazionale, di
costruire delle alternative credibili, una prospettiva storica e di farlo non
solo a parole, ma lottando concretamente a fianco dei popoli arabi. L’Islam o
Saddam, non sono il nostro nemico principale oggi.
Abbiamo cercato di inserire il discorso carcere in un
ambito più generale perché, al di là della nostra condizione soggettiva,
molti di noi seguono da anni compagni in carcere, non vogliamo specializzarci
nel carcerario, non avrebbe senso. Vogliamo, piuttosto, cercare di fare in modo
che la lotta contro il carcere e l’art. 41 bis, entrino a far parte delle
altre lotte. Non possiamo fare un discorso separato dal contesto generale perché
i compagni prigionieri sono parte integrante di una lotta internazionale.
I compagni prigionieri rivoluzionari rappresentano un percorso storico
che é impossibile ignorare se vogliamo andare avanti e, se vogliamo andare
avanti, i nostri compagni ce li dobbiamo rivendicare, questo non significa
necessariamente condividere la loro proposta strategica di lotta, ma fare in
modo che la loro resistenza diventi anche la nostra.
UN SALUTO DEI COMPAGNI PIETRO GUIDO FELICE
E GIORGIO COLLA
Cari compagni, ho ricevuto l’opuscolo che mi avete
spedito. A fronte dell’attacco e
repressione che stanno portando avanti governo e capitale contro la classe
operaia e movimenti proletari, iniziative come queste sono necessarie.
Contro il rincoglionimento da tubo catodico che ci vorrebbe gregge
demente e remissivo, 10 100 1000 iniziative che fanno vivere e veicolano la
memoria rivoluzionaria.
Saluti comunisti
Biella, 09.12.2002
SULLA PROPOSTA DI AZIONE CONTRO LE NUOVE CARCERI IN FRANCIA
Contro le nuove carceri, occupiamo i cantieri.
Appello per una riunione di preparazione.
Dopo la libera circolazione delle merci e la moneta unica,
il processo di costruzione della potenza economica e militare europea si avvia
alla tappa dell’unificazione giudiziaria e poliziesca. La manifesta volontà
di giungere a un codice penale europeo é legata al fiorire in ciascuno dei
paesi dell’Unione europea di una moltitudine di nuove leggi e misure ultra
repressive, che sono il frutto del comune lavoro dei ministri dell’interno e
della Giustizia incontratisi durante i vertici dell’Unione europea a Tempere
(Finlandia), Nizza, Barcellona. Questi vertici hanno prodotto una comune
politica contro i lavoratori precari immigrati, una nuova definizione del
concetto di “terrorismo” inglobante tutti i movimenti sociali radicali, la
costituzione dell’EuroPol (una polizia europea allo stato embrionale) e del
sistema di informazione di Schengen (SIS, un sistema informatico che raggruppa
tutte le schedature effettuate dagli apparati polizieschi dei vari paesi
membri). Ma, nei fatti, l’instaurarsi di un vero spazio giudiziario europeo si
avrà il primo gennaio del 2004 quando entrerà in vigore il mandato di arresto
europeo. A partire da questa data, su richiesta di giudice o di un procuratore,
le leggi in vigore in ciascuno dei paesi dell’ Unione saranno applicate a
tutti coloro che vivono in uno dei 24 paesi membri. Tale volontà si manifesta
chiaramente in un atteggiamento ultra repressivo verso i movimenti
“sovversivi” (uso delle armi a Goteborg e Genova, messa al bando delle
organizzazioni di esiliati turchi, colombiani, iraniani e kurdi, messa fuori
legge di Batasuna in Spagna, incarcerazione di alcuni sindacalisti in Francia e
retate contro gli anarchici piuttosto che contro i no-global in Italia), e tende
ad andare oltre giacché mira ad una politica di terrore contro tutta la società
civile. Tale situazione é particolarmente evidente in Francia dove lo stato ha
lanciato un programma per la costruzione di 13.200 nuovi posti in carcere a
coronamento di una politica ultra repressiva trasversale (propria della destra
come della sinistra di governo) che ha designato quale nemico da abbattere la
gioventù delle periferie:
- delle vere e proprie retate sono organizzate dalla
polizia nei quartieri popolari dove la polizia si comporta come una forza di
occupazione;
- l’età minima di responsabilità penale é stata
abbassata a 10 anni e ormai si può incarcerare a 13 anni;
- é vietato riunirsi negli androni delle case;
- nei quartieri sono stati costituiti dei tribunali locali
per applicare una giustizia più sbrigativa;
- si impone la schedatura penale nella scuola
dell’obbligo richiedendo agli insegnanti di collaborare come assistenti
sociali.
Tra le altre categorie prese esplicitamente di mira
figurano in particolare gli zingari, gli squatters, i ravers, i senza fissa
dimora, le prostitute, sebbene ciò a cui si tenda é l’instaurarsi di un
terrore generalizzato.
- d’ora in avanti chi non paga i biglietti dei mezzi
pubblici può essere rinchiuso in galera;
- le guardie sono dotati di armi da guerra e pistole con
pallottole di gomma;
- guardie e vigili hanno ormai il diritto di perquisire chi
gli aggrada;
- il piano Vigipirate ha instaurato la suddivisione a
scacchiera dei luoghi pubblici per scopi polizieschi e l’entrata in vigore di
leggi speciali permanenti. Non si
tratta di misure specifiche atte a “rimediare” ad un problema specifico,
bensì di una politica di gestione sociale di stampo autoritario applicata dal
governo francese nel contesto europeo.
Ognuna di queste misure ha suscitato una reazione non
trascurabile, ma mancando di uno spazio comune non si é ancora giunti alla
realizzazione di un vasto movimento. A
tal fine diversi collettivi francesi e svizzeri, impegnati nella lotta contro
carcere e repressione, si sono uniti in un unico coordinamento. Abbiamo lanciato
una campagna tesa a impedire la costruzione delle nuove prigioni per ostacolare
concretamente la logica della sicurezza totale, giacché l’aumento delle
strutture penitenziarie é la misura che contiene tutte le altre. Infatti,
13.200 celle supplementari rappresentano la possibilità di incarcerare 25.000
persone in più (attualmente il tasso di sovrappopolazione carceraria é del
200%), ma ciò significa che, allo stesso modo, altri 75.000 saranno sottoposti
a misure restrittive della libertà individuale: braccialetti elettronici,
libertà vigilata, libertà condizionale, trattamenti terapeutici o psichiatrici
con la minaccia diretta della carcerazione al minimo passo falso (da 15 anni, in
Francia come in numerosi paesi “moderni” la proporzione é costante: 3
persone sotto indagine per ogni detenuto). La prigione, ultimo anello della
catena repressiva, é la minaccia che permette tutte le altre, é la spada di
Damocle sospesa sulla testa di ciascuno. Proponiamo
di occupare in massa il cantiere di una prigione in costruzione (ne sono in
programma 28) alla fine dell’estate 2003, questa occupazione, le cui modalità
dovranno essere decise collettivamente, durerà almeno una settimana.
Riappropriandoci di uno spazio di lotta e di discussione faremo avanzare
concretamente la realizzazione di una rete di coordinamento delle lotte in
Europa contro l’elaborazione di una macchina repressiva su scala europea. Le
riunioni preparatorie che si svolgeranno per circa due mesi saranno certamente
delle importanti occasioni d’incontro, per condividere le nostre riflessioni e
le nostre esperienze e per costruire insieme questo progetto. Il primo incontro
preparatorio si svolgerà a Parigi nei giorni 18 e 19 Gennaio 2003.
UNA COMPAGNA DEL GRUPPO DI LAVORO CONTRO LA
REPRESSIONE
Sono una compagna del Gruppo di Lavoro Contro la
Repressione, un organismo che raccoglie compagni e compagne di varie città e
che da anni sta lavorando concretamente sul terreno della repressione con la
coscienza di doverlo fare sempre, non solo quando essa si esprime nella sua
forma più evidente.
Siamo felici di partecipare a questa assemblea oggi;
avevamo promosso la partecipazione 3 anni fa a un presidio sotto il carcere
speciale di Trani, avevamo riproposto la mobilitazione in sostegno ai
Rivoluzionari Prigionieri (RP) davanti al carcere di Biella per due anni
consecutivi, sempre in occasione della Giornata Internazionale del
Rivoluzionario Prigioniero. Questo ha sortito una partecipazione abbastanza
numerosa dei compagni/e che avevano capito che la solidarietà nei confronti dei
R.P. e il lavoro contro la repressione deve avere una caratteristica militante,
che bisogna esporsi, partecipare in prima persona davanti alle carceri e urlare
in mille modi diversi la nostra solidarietà.
Parto da una domanda: qual é il motivo principale per cui
la repressione, nei suoi vari livelli, sta assumendo dei connotati sempre più
forti e pesanti? Non certo perché
i padroni e la magistratura serva dei loro interessi siano più “cattivi”
del solito, ma perché, come hanno sottolineato altri compagni, c’é una crisi
irreversibile del sistema di produzione capitalistico e, contemporaneamente, a
fianco delle lotte di liberazione dei popoli oppressi, c’é una ripresa e
un’avanzare della lotta di classe nei paesi imperialisti.
L’imperialismo ha bisogno di fare delle guerre sempre più
ravvicinate per tentare di uscire dalla sua crisi. Questo produce morte e
distruzione sul fronte esterno e delle contraddizioni sempre più feroci sul
fronte interno.
L’appesantirsi della repressione, in questo senso, non é
un esempio di forza della borghesia, ma un esempio della sua debolezza, cioé
della sua incapacità di risolvere pacificamente le contraddizioni che il suo
sistema produce con la classe operaia, il proletariato e le masse popolari.
In Italia, l’attuale uso massiccio dei reati associativi,
che non sono certo riapparsi con l’ultima inchiesta della procura di Cosenza,
ma che vengono utilizzati da anni contro i comunisti e gli anarchici, é uno
strumento di lotta preventiva contro chi si organizza autonomamente dalla
borghesia e che vuole indirizzare le energie positive che la lotta di classe nel
nostro paese sta esprimendo verso la via rivoluzionaria.
In questo senso abbiamo portato la nostra solidarietà nei confronti di
tutti coloro che sono stati colpiti dai reati associativi, ma nello stesso tempo
abbiamo rimarcato delle questioni importanti, con l’obiettivo di denunciare da
una parte la natura fascista di questo stato che non é riformabile, ma che si
può solo distruggere e, dall’altra, chi continua ad illudere le masse
popolari dicendo che si può migliorare. Quindi
unità con chi viene colpito dalla repressione, ma contemporaneamente lotta
ideologica contro le idee sbagliate che imperversano nel movimento.
Prima due compagni sottolineavano giustamente che il livello, il confine
di legalità non lo definiamo noi, ma la borghesia: tutti coloro che gestiscono
ad es. quello che é avvenuto alla questura di Genova qualche giorno fa come un
complotto contro il movimento, come un atto compiuto da servizi deviati o come,
peggio ancora, fatto da provocatori, assassini ecc, di fatto negano nel nostro
paese qualsiasi ipotesi di esperienza rivoluzionaria, di organizzazioni che si
pongono l’obiettivo della rottura rivoluzionaria. In questo senso é
pericolosa quest’idea che l’arco revisionista, dal PRC ai Disobbedenti, sta
seminando nel movimento.
Un’altra cosa importante che abbiamo cercato di
denunciare é la linea di difesa sbagliata, su cui abbiamo anche scritto un
allegato all’opuscolo “Reati associativi.
Imparare a difendersi” intitolato “Non un passo indietro”, in
merito alle varie inchieste aperte in questi mesi. Essa rigetta i reati
associativi, ma ammette che la magistratura lavori sui reati specifici, non
capendo che i primi vengono costruiti proprio sull’esistenza dei secondi, che
i secondi avallano l’esistenza dei primi.
Questa gestione crea non solo confusione e una linea difensiva debole,
oltre che dare fiducia a magistrati servi dei padroni, ma anche una divisione
nel movimento tra chi viene inquisito per gli uni o per gli altri. Forse, ai
signori revisionisti, i compagni incarcerati a Genova per “devastazione,
saccheggio e resistenza a pubblico ufficiale” sono indagati meritatamente!!!
Il compagno Ghiringhelli prima diceva nel suo saluto che
noi dobbiamo uscire dalle nostre parrocchie.
Dobbiamo avere la capacità di comunicare, soprattutto ai
giovani e ai giovanissimi, quella che é l’esperienza del carcere, della
repressione, ribadendo che sotto i suoi colpi ci si può rafforzare, facendolo
in tutti i luoghi e i momenti utili; non solo nelle nostre iniziative, ma anche
in quelle dirette da altri, anche dai revisionisti. Dobbiamo avere il coraggio, la forza e la determinazione di
portare i nostri contenuti ovunque, così come ci insegnano le AFAPP, le TAYAD e
tutte le associazioni di solidarietà internazionale che stanno portando avanti
la loro lotta nonostante tutti gli attacchi cui sono sottoposte.
Finisco dicendo che la solidarietà é una cosa molto
concreta e dobbiamo portarla in mille forme, attraverso mostre, presidi in
piazza e davanti alle carceri, la partecipazione ai processi che avvengono in
altri paesi, come quello di un mese fa a Parigi per l’estradizione di otto
compagni spagnoli. Anche questi sono momenti importanti per aprire e consolidare
rapporti con altri organismi di solidarietà, con l’obiettivo di partecipare
all’importante progetto di un Soccorso Rosso Internazionale che sarà uno
degli strumenti di difesa politica e pratica di cui i compagni si dovranno
dotare, per il rilancio della solidarietà di classe e per la difesa di tutti i
Rivoluzionari Prigionieri, delle loro idee e delle loro condizioni di vita.
Con questo articolo vorremmo mettere in evidenza alcune
probabili tendenze della politica penitenziaria in Emilia Romagna, non per
fornire un quadro “localistico” ma piuttosto per analizzare un aspetto,
quello della repressione, in un’area che presenta caratteristiche omogenee
rispetto al sistema produttivo, alla gestione e all’organizzazione del lavoro
e della vita sociale. Più che ad una regione geografica, facciamo riferimento
ad un’area metropolitana che si snoda lungo la via Emilia tra nuclei abitativi
e grandi aree industriali.
Storicamente, l’Emilia Romagna é caratterizzata
dall’esistenza di tessuti produttivi diffusi, una notevole sinergia tra grandi
e piccole/medie imprese che ne costituiscono l’indotto, da un rapporto molto
stretto sia tra industria e artigianato che tra industria e agricoltura. Data la
struttura produttiva, quest’area é sempre stata suscettibile a facili
ristrutturazioni e mutamenti, senza però pesanti ricadute sul livello
occupazionale ed anzi potendo contare su un “certo” benessere dei lavoratori
(il tasso di disoccupazione in Emilia Romagna é stato del 4,6% nel 1999, del 4%
nel 2000 e del 3,7% nel 2001, a fronte di una media italiana del 10-12%).
Tuttavia, é necessario anche un elevato livello di pace
sociale per la riuscita di ristrutturazioni che comunque incidono pesantemente
sulle condizioni di vita dei proletari e sulla composizione di classe (aumento
della flessibilità e della precarietà, presenza crescente di forza-lavoro
extraeuropea). Le giunte rosse emiliane, per anni hanno garantito poche
resistenze alle iniziative di uscita/ripresa dai periodi di crisi, non tanto a
causa di un reale consenso, quanto per il fatto che la borghesia, attraverso il
PCI, poi DS, é riuscita a mantenere una vasta rete di rapporti di controllo e
direzione all’interno della classe, egemonizzando pesantemente sia le
organizzazioni sindacali, sia le svariate forme culturali, di movimento e di
aggregazione esterne ai partiti. In sintesi, la particolare elasticità della
struttura produttiva rende possibile il mantenimento in Emilia Romagna di una
certa stabilità sociale che può avvalersi della possibilità del
riassorbimento della forza-lavoro espulsa nel circuito produttivo e/o del
recupero delle avanguardie di classe all’interno del mastodontico apparato
burocratico-sindacale della CGIL o del PCI-DS.
Anche sul piano repressivo, una struttura produttiva e
politica di questo tipo, ha condotto alla formazione di tendenze riformistiche,
finalizzate formalmente alla progressiva riduzione del ricorso alla pena
detentiva e, comunque, al miglioramento delle condizioni di esecuzione della
pena.
E’ nostro preciso obiettivo fare piazza pulita della
favoletta del carcere più umano, della riabilitazione e del recupero attraverso
il lavoro, mostrando come tale ipotesi riformista sia possibile solo in
ristretti contesti produttivi, capaci di assorbire la forzalavoro eccedente ma,
soprattutto, come sia perfettamente funzionale al sistema repressivo nel suo
complesso. Credere di poter sostituire progressivamente il carcere con forme di
custodia attenuata, alternative alla reclusione e fondate sul lavoro, significa
non voler fare i conti con le contraddizioni più macroscopiche di questo
sistema sociale. Il capitalismo porta porzioni di proletariato a entrare a far
parte dell’esercito industriale di riserva (disoccupati). Questo meccanismo si
acuisce nei momenti di crisi economica. Queste porzioni sociali vivono grazie ad
attività extra-legali. L’illusione di poter umanizzare il carcere sembra così
nascere in contrapposizione e in alternativa ad una visione autoritaria di
“destra” ma, nei fatti, ne costituisce un elemento indispensabile e
complementare. Le cosiddette misure alternative alla reclusione carceraria
tramite affidamento in prova, semilibertà, lavoro esterno, comunità di
recupero ecc, costituiscono un essenziale strumento materiale delle moderne
politiche repressive poiché é soltanto attraverso un percorso premiale che il
singolo detenuto può accedere ai benefici concessi dallo Stato. La
differenziazione della pena applicata mediante il trattamento individualizzato,
le meschine privazioni e il ricatto del “premio” per chi dimostra
arrendevolezza collaborando, operano nella direzione di una sistematica
desolidarizzazione del proletariato imprigionato e della frammentazione
preventiva della sua forza potenziale come classe.
L’”alternativa” si concretizza praticamente nello sviluppo, dove
possibile, di sinergie tra istituzioni statali, datori privati di lavoro
sottopagato, cooperative sociali (a Parma, il Consorzio di Solidarietà Sociale,
la Sirio, la Cabiria) e associazioni di volontariato nel ruolo di intermediari
di forza-lavoro. E’ così che a Parma, ad esempio, c’é una ricchezza di
progetti per la formazione e il reinserimento dei detenuti e si sprecano gli
appelli accorati per creare e promuovere “ponti tra fuori e dentro”, come le
strutture di accoglienza e gli stages lavorativi finanziati dalla regione nei
penitenziari di Parma, Forlì e Piacenza. Così pure si sprecano le tavole
rotonde di esperti, mirate a sviluppare risorse e opportunità per detenuti ed
ex-detenuti durante il reinserimento e a facilitare il rapporto tra luoghi di
esecuzione della pena e territorio. Di
fronte alla miseria dei risultati raggiunti dall’enorme apparato riformista in
Emilia Romagna sul versante della de-carcerizzazione, stanno gli alti livelli di
repressione e di controllo sociale diffuso garantiti dalla sua funzione
“umanitaria”. Allora, per sgomberare il campo dalle illusioni riformiste di
un’alternativa capitalistica al carcere e alla reclusione, sarà meglio far
coincidere le ipotesi di umanizzazione del carcere - queste si, realmente
utopiche poiché implicitamente paventano un capitalismo dal volto umano - con
le politiche di diffusione e differenziazione del controllo sociale, cui
sottendono le attuali “politiche della sicurezza”.
In questi ultimi anni stiamo assistendo al rapido
decentramento e alla diffusione territoriale del carcere, attraverso meccanismi
alternativi di internamento e di controllo e la creazione di nuove strutture
para-carcerarie. Una sorta di carcere metropolitano, differenziato sia in
orizzontale, in relazione alla collocazione sociale del soggetto “criminale”
(Centri di Permanenza Temporanea per il proletariato extraeuropeo, comunità per
tossicodipendenti, manicomi per i “malati” psichici) e sia in verticale, in
relazione al grado di controllo connesso alla “pericolosità sociale”. In
quest’ottica, l’applicazione in forma estesa del 41bis, la detenzione nelle
carceri dure, l’isolamento protratto, l’annientamento psico-fisico non sono
che l’altra faccia dell’accesso individualizzato e premiale alle forme di
custodia attenuata; una riedizione in chiave in moderna della logica del bastone
e della carota.
Dinamiche simili possono ravvisarsi per quanto riguarda le
politiche di gestione dei flussi migratori dal Sud e dai paesi più poveri
dell’area mediterranea. L’alto grado di sfruttamento e l’elevata
ricattabilità costringono milioni di proletari in una situazione di illegalità
permanente, determinante il sovraffollamento e la nuova composizione sociale
nelle carceri: al 31 maggio 2001 si hanno 1.930 detenuti italiani e 1.400
stranieri rinchiusi nelle carceri emiliane; dai dati nazionali risulta che sono
solo 670 i detenuti nati in Emilia Romagna. La critica ai C.P.T., sul piano
antirazzista e umanitario, non fa che rafforzare l’opzione riformista di una
gestione alternativa di queste nuove strutture carcerarie e, con essa, le
“politiche della sicurezza” nella loro totalità e, nello specifico, il
decongestionamento delle carceri mediante la diffusione di nuove strutture di
reclusione. Gli appelli all’integrazione del proletariato extraeuropeo
nascondono le caratteristiche generali di queste nuove trasformazioni sociali in
cui si fa sempre più labile il confine fra proletariato e sottoproletariato.
Anche nella repressione dei comportamenti cosiddetti “devianti”,
assistiamo all’estensione dell’uso della reclusione; anche quando suddetti
comportamenti non costituirebbero un danno immediato per la società, vengono
comunque considerati “pericolosi” o una minaccia per la tranquillità
sociale. E’ il caso, tra i tanti, di tutti coloro che vengono definiti
“malati psichici”.
La recente occupazione del centro psichiatrico “1°
Maggio” di Colorno, in provincia di Parma, ha costituito il riemergere vivo di
queste tematiche; non ci soffermiamo adesso sulla cronaca o i particolari di
questa lotta che saranno ripresi a margine. Ci interessa evidenziare come alcuni
settori della sinistra istituzionale parmigiana si siano prodigati nel tacciare
questa lotta, che é stata portata avanti insieme ai “malati” e ai loro
familiari, come lotta conservatrice, difensiva della logica manicomiale.
Come per il carcere, sembra che l’intera questione possa essere risolta
attraverso una psichiatria innovativa e democratica, che sostituisce ai manicomi
gli appartamenti, agli infermieri professionali gli operatori sociali,
all’elettroshock e ai letti di contenzione, bombe di psicofarmaci. Il
“manicomio che si libera” , come venne definito in un libro di F. O.
Basaglia (“Manicomio, perché?” - 1982), fa parte ed é il capostipite di
tutta quella “cultura alternativa” alla cosiddetta devianza, male curabile
frazionando il grande cubo, brutto, logoro e vistoso, in tanti piccoli cubetti
più accettabili moralmente, ed esteriormente più discreti.
Su queste tematiche, il dibattito é stato spesso ridotto
alla contrapposizione tra sostenitori del privato e sostenitori del pubblico,
tra liberisti e statalisti. Ma c’é anche chi ha pensato di poter fare di
necessità virtù, proponendo il modello del privatosociale, del sociale che si
fa impresa. Questa scelta si colloca a metà strada tra pubblico e privato,
poiché associa ad una gestione privatistica dei servizi, il ricorso ai
finanziamenti statali, regionali, europei (pubblici), oltre all’accettazione
del principio aziendale, in primis, quello della competitività. Le motivazioni
ideologiche che vengono portate a sostegno del privato-sociale, coincidono con
una visione della società molto superficiale: si critica il servizio pubblico
ma senza mettere in discussione la logica aziendale/mercantile riprodotta nelle
cooperative, anzi in esse accentuata dal carattere mistificante del “lavorare
senza un padrone”. Oltretutto, il passaggio della psichiatria, della sanità
in genere, dal pubblico al privato, se pur in forma ibrida (appalti e
finanziamenti nel pubblico, investimenti e sgravi fiscali nel privato),
garantisce notevoli fette di torta da accaparrare all’universo delle
associazioni, cooperative sociali, enti ed imprenditori di questa promettente
new-economy della sofferenza. Con questo, non vogliamo certo ergerci a strenui
difensori del pubblico poiché, oltre a non aver mai rappresentato una risposta
agli interessi proletari, é servito e serve tuttora come strumento di controllo
e repressione di quegli stessi interessi. La
tendenza a livello nazionale, tramite la proposta di legge Burani-Procaccini, é
quella di inasprire ulteriormente le condizioni già precarie dei “malati
psichici”, attraverso ad esempio la riesumazione della pericolosità sociale e
l’estensione del ricovero coatto, tendendo a far diventare l’intero circuito
dell’assistenza psichiatrica, un diffuso Ospedale Psichiatrico Giudiziario
governato da operatori, cui é attribuita la responsabilità piena, anche
legale, del comportamento e delle scelte di un individuo ridotto a malato.
La psichiatria non é professata solo dagli psichiatri, ma
di fatto, da tutti quelli che pensano che certi comportamenti siano
automaticamente sintomi di pazzia, psicosi, schizofrenia, delirio paranoide,
ecc. La classificazione tra normale e anormale, tra sano e malato di mente, é
uno degli schemi più usati nel linguaggio comune e nel giudizio verso gli
altri. L’intervento del controllo sociale della devianza, della malattia
psichica, del comportamento anomalo, che nella pratica riveste forme di
sovvenzione, assistenzialismo, soluzione dei bisogni, ha nella realtà il fine,
appunto, di controllare, prevenire, annientare o recuperare alla norma del
dominio e del modo di produzione capitalistico.
In generale, é il business il motore che permette in
Emilia Romagna buone prospettive di razionalizzare al meglio il sistema
repressivo. A fronte di un 33% di detenuti tossicodipendenti e 30% di stranieri,
le soluzioni per il sovraffollamento, sono strutture detentive differenziate per
i tossicodipendenti e il rimpatrio, previo soggiorno nei già citati C.P.T., per
gli immigrati.
La detenzione dei tossicodipendenti, si traduce di fatto in
una vera e propria privatizzazione delle carceri, già paventata negli scorsi
anni, oggi diventata realtà. E’ il caso di Castelfranco, in provincia di
Bologna, che potrebbe rappresentare l’apripista alla penetrazione
dell’interesse privato nel settore dell’esecuzione penale. Il modello é
quello anglosassone.
L’ex casa di lavoro di Castelfranco in Emilia (per la cui
ristrutturazione, lo stato ha speso 15 miliardi di lire), affidata in gestione
alla comunità dei Muccioli (San Patrignano), sarà il primo esperimento di
carcere privato in Italia. Questa struttura é costituita da un’azienda
agricola di 23 ettari con stalle, frutteti, vigne, serre, alveari e macchine
agricole e, in attivazione di un protocollo d’intesa tra ministero della
giustizia e regione Emilia Romagna, sarà destinata a casa di lavoro a custodia
“attenuata” (un carcere “soft”) per i tossicodipendenti e potrà
“ospitare” fino a 150 persone. L’operazione
é iniziata a metà luglio del 2001, in ballo c’é l’assegnazione di un
finanziamento della comunità europea (progetto Equal). Il provveditore
regionale dell’amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, firma
un’intesa di partnership con la comunità di Muccioli. Il 26 agosto, data di
scadenza del bando europeo, viene presentato un progetto che appalta al privato
l’esecuzione della pena e nel contempo impedisce il controllo da parte
dell’amministrazione penitenziaria. E’
chiaro che con l’intervento dei capitali privati, il giro d’affari crescerà
non solo intorno alle mere strutture (aree di costruzione, edificazione,
forniture di vario genere), ma anche intorno alla gestione stessa
dell’esercizio della penalità: insomma, più gente andrà in carcere, più ci
si potrà guadagnare. Alle società private può essere data in gestione la
sorveglianza interna (o parte della sorveglianza) dei detenuti o l’esecuzione
della pena.
E’ ormai appurato che un sistema produttivo in fase
recessiva abbia la necessità di “ottimizzare i costi”, contraendo il più
possibile gli investimenti improduttivi, ma senza per questo prescindere dal
potenziamento delle strutture repressive e di controllo che, proprio in
relazione alla fase recessiva in atto, tendono ad essere sempre più diffuse ed
affollate.
Di fronte alla necessità inderogabile di ridurre la spesa
pubblica - che ha già portato a drastici tagli alla sanità, alla scuola,
all’assistenza e alle pensioni, e a processi di privatizzazione - anche quella
parte di spesa destinata alle “politiche della sicurezza” e, in particolare,
al mantenimento del sistema penitenziario, deve essere razionalizzata.
L’esperimento di Castelfranco in Emilia si colloca in
questo scenario e non é un caso, infatti, che sulla questione l’ex direttore
del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Alessandro Margara, parla
di “espropriazione dei ruoli” e di “violazione delle regole”, facendosi
interprete degli interessi corporativi di tutto l’apparato penitenziario. La
riduzione di questa parte della spesa pubblica non potrà che passare per l’esternalizzazione/privatizzazione
di parte delle funzioni di custodia e di reinserimento, quantomeno per quei
detenuti che esprimono un basso grado di “pericolosità sociale”.
E’ chiaro che una simile tendenza entra immediatamente in
rotta di collisione con gli interessi materiali dell’apparato penitenziario
che in questo modo vedrebbe ridimensionato il proprio ruolo sia in termini
economici che politici.
Negli ultimi anni l’apparato politico-militare
penitenziario ha rafforzato ulteriormente il proprio potere. Gli svariati
benefici ottenuti dalla Polizia Penitenziaria, per il “difficile compito che
svolge”, svelano come dietro al pestaggio nel carcere di San Sebastiano (SS)
nell’aprile del 2000, premessa delle successive manifestazioni sindacali della
PP solidali con i “colleghi” colpiti da ordine di custodia cautelare, vi
siano in realtà forti interessi e tendenze corporative. Il potenziamento e
l’autonomia ottenuti attraverso i provvedimenti legislativi degli ultimi 10
anni, pongono il corpo di Polizia Penitenziaria come l’unico soggetto a cui
delegare la gestione del carcere e il controllo sui detenuti e le detenute.
Rispetto alle lotte dei detenuti il messaggio é stato chiaro: far temere che la
situazione nelle carceri precipitasse per poi presentarsi come gli unici in
grado di gestire la situazione militarmente.
L’occupazione della comunità psichiatrica 1°Maggio a Colorno (PR) cronologia 1999:
con un repentino trasferimento dei pazienti, a seguito della chiusura
dell’ospedale psichiatrico “Monti” di Colorno, nasce la comunità
riabilitativa 1°Maggio; la struttura, situata all’interno del parco del
palazzo Ducale, al centro della città, é composta da due corpi separati,
una residenza e alcuni appartamentini. I pazienti possono uscire
liberamente durante il giorno e raggiungere facilmente il centro
cittadino. Per molti anni la ristrutturazione e la cura dell’edificio
viene abbandonata, non vengono fatti lavori di manutenzione, viene
diminuito il personale. 2002
giugno: data la necessaria ristrutturazione della struttura, il
direttore dell’AUSL di Parma, Marino
Pinelli, decide la chiusura della comunità e il trasferimento
“provvisorio” dei pazienti nel Centro anziani San Mauro Abate di
Colorno, situato in prossimità della strada provinciale Asolana (i cui
costi di gestione sono aumentati e l’amministrazione non riesce ad
ammortizzarli). Luogo che, tra l’altro, dato l’elevato traffico, non
consentirebbe il passeggio quotidiano a cui sono abituati i “malati”.
La direzione dell’AUSL si avvale della sperimentazione di una delibera,
la 713, che si propone di chiudere tutti i servizi residenziali
psichiatrici territoriali, di trasferire gli “ammalati” in
appartamenti gestiti dalle cooperative sociali e dopo 2 anni di
riabilitazione, dichiararne guariti-riabilitati il 70%, mentre il restante
30% viene dichiarato guarito dopo un massimo di altri 2 anni: entro 4 anni
il 100% degli ammalati, residente negli appartamenti, verrà espulso dalla
sanità e affidato a quella che la delibera chiama “welfare
municipale” e “welfare familiare”, cioé i malati vengono dichiarati
guariti per via meramente burocratica e scaricati dalla sanità alla
assistenza sociale e sulle famiglie. In pratica ciò costituisce un
risparmio nel bilancio dell’AUSL. E visto che come in tutti i processi
di privatizzazione non si tratta che di un freddo calcolo economico, é
chiaro che la “riabilitazione” verrebbe effettuata in appartamenti con
turni soppressi, personale insufficiente e non qualificato dal punto di
vista sanitario, aumento dei ritmi di lavoro e, conseguentemente,
l’abbassamento della qualità del servizio. 6
novembre: i familiari effettuano un picchettaggio ad oltranza per
impedire il trasferimento coatto dei pazienti. L’unica psichiatra
presente nella struttura, contraria al trasferimento, viene trasferita e
sostituita pochi giorni dopo. 10
novembre: i familiari occupano il 1°Maggio; sospendono
l’occupazione in attesa di un incontro con il direttore dell’AUSL. 19
novembre: falliti gli incontri con il megadirettore, viene nuovamente
occupato il centro psichiatrico 22
novembre: vengono occupati per due giorni gli uffici della Direzione
Generale dell’AUSL e l” indetta un’assemblea cittadina; nella notte
viene redatto dagli occupanti un opuscolo di critica alla psichiatria. Continua
l’occupazione al centro 1°Maggio e viene fatto girare un foglio anonimo
e intimidatorio di raccolta
firme tra gli operatori contro l’occupazione. Inizia una serie di
incontri tra i familiari e il direttore dell’AUSL, Pinelli, in cui si
cerca di trovare un accordo per modificare l’attuazione della delibera
713. 3
dicembre: rottura delle trattative con la direzione generale dell’AUSL,
che propone l’attuazione di una delibera (la 614) per risolvere la
vertenza ma tale delibera é stata abrogata in passato e dunque
inapplicabile; una presa in giro. 7
dicembre: al risveglio, Pinelli, nota con stupore che proprio sotto
casa sua, in un paesino in culo ai lupi, sono comparsi manifesti recanti
la sua faccia e scritte di solidarietà con l’occupazione del 1° Maggio
a firma del Comitato Spontaneo per la Liberazione del Proletariato dal
Business Psichiatrico (C.S.L.P.B.P.) 10
dicembre: la direzione minaccia di sospendere pasti e servizi alla
comunità 1°Maggio, con l’obiettivo di intralciare l’occupazione e di
attuare il trasferimento. Nel pomeriggio, viene contestata una tavola
rotonda che si tiene proprio nel Palazzo Ducale a Colorno (che vede la
presenza di Pinelli, del sindaco di Colorno, il segretario provinciale
CGIL, della CISL, l’assessore alla sanità e servizi sociali
amministrazione provinciale di Parma e dirigenti delle cooperative sociali
e del dipartimento salute mentale), al seguito della quale la direzione
farà molti passi indietro, sospendendo l’attuazione del trasferimento. 21 dicembre: dopo 33 giorni di occupazione, viene pubblicamente sconfessata la delibera 713, viene concordata coi familiari la ricerca di una sede definitiva e più idonea per il trasferimento, in cui i pazienti verranno seguiti dallo stesso personale che li segue da anni, e viene creato un osservatorio per la valutazione della “qualità” dei servizi sia pubblici che privati che potrà essere effettuata dai familiari. |
UN COMPAGNO DEL C.P.O. GRAMIGNA DI PADOVA
Sono un compagno del Centro Popolare Occupato Gramigna di
Padova che, da quando é nato nel 1989, ha sempre fatto i conti con la
repressione, fatta di continui sgomberi, processi, intimidazioni di ogni tipo
per chiudere una realtà politica a Padova scomoda a tutte le giunte di destra o
di “sinistra”. In questo percorso di resistenza ci siamo rafforzati e il
lavoro contro la repressione é stato veicolo di aggregazione di nuovi giovani
che ora sono l’anima del centro.
L’estate scorsa, in occasione della GIRP 2002, siamo
riusciti a coinvolgere un buon numero di persone sia nelle iniziative di
preparazione che nella trasferta a Biella per far sentire ai compagni
prigionieri il nostro appoggio. Anche
qualche settimana fa, a Padova, durante un presidio in solidarietà agli
arrestati di Cosenza, molti giovani si sono avvicinati e hanno partecipato alla
nostra iniziativa.
Fatti come questi dimostrano che in un momento come questo,
in cui la repressione colpisce non più solo le avanguardie ma anche le persone
più giovani e meno “esperte” politicamente, parlare di repressione, di
carcere, ma soprattutto di solidarietà nei confronti di chi viene colpito e
incarcerato per la sua identità politica, avvicina i giovani che hanno ideali
di libertà e che, in modi diversi, vogliono manifestare la loro rabbia e
opposizione a questa schifosa società.
Visto che non ci sono altri interventi vorrei dire qualche
cosa che mi sembra necessaria e mi scuso a priori se non sono percepibile nelle
cose che dirò ma ho una limitazione rispetto alla lingua allora secondo me a
questa assemblea c’erano diversi punti di vista e credo siano presenti
compagni dei quali io non ho sentito la loro posizione perché se noi riteniamo
che é importante avere una lotta di massa nel discorso del carcere che
rappresenta una fonte fondamentale nel nostro malessere bisogna cogliere tutti
questi diversi punti di vista e trasformarli in un comune momento di lotta.
Parlo come un compagno che appartiene ad uno dei gruppi promotori di questa
assemblea ma che parla in questo caso per conto suo senza avere un atteggiamento
ostile ma un atteggiamento critico. Vorrei dire che bisogna rivalutare alcune
cose se vogliamo andare avanti con questo discorso. In questo caso la compagna
che ha parlato all’inizio si é espressa rispetto ad alcune cose, però io ho
individuato una cosa specifica rispetto alla quale non sono d’accordo. Lei
parlando rispetto ai presidi davanti ai carceri ha detto che avevano un alta
partecipazione e avendo conoscenza del presidio a Biella la scorsa estate direi
che cento persone per me non é un grande numero di partecipazione quindi
individuerei in questo caso un problema di sincerità da discutere prima di
tutto con noi stessi e cercare di trovare modi per risolvelo. Dopo c’é il
fatto che non é uscita una proposta di intervento a livello pubblico e a
livello pubblico intendo intervento a livello di tessuto sociale cioé oltre ai
soliti gruppi e strutture di compagni. Questo é un problema perché sembra che
l’assemblea e le persone che sono presenti qui delegano a noi e a chiunque
altro che si occupi del discorso del carcere e della repressione i modi in cui
lotteremo per il suo abbattimento e comunque che ne so di cos’altro. Ritengo
che sia problematico anche il fatto che nessun detenuto comune, e comune é
generale perché spesso sono di una certa appartenenza e per appartenenza
intendo della classe proletaria, non é intervenuto raccontando dei suoi momenti
di lotta contro il carcere o di come lui percepisce il carcere e il meccanismo
che lo porta al carcere che io ritengo molto importante. Questo perché se noi
pensiamo alla rivoluzione come una società senza carcere penso che una
rivoluzione deve essere fatta con la presenza dei proletari o anche dei
proletari e visto che i proletari sono un pezzo significativo della popolazione
carceraria devono avere una parola un punto di vista rispetto a questo discorso
qui e io oggi non l’ho visto e non so per quale motivo non é successo.
Dopo di che non ho altre cose da dire o meglio ho altro da dire ma
ritengo che non sono importanti per questo momento perché comunque ritengo che
ci saranno altri momenti nel futuro che potremmo continuare il dibattito. Per
finire penso che sarà molto importante per la prossima volta che ci sarà una
prossima assemblea di pensare ad un altro modo di portare avanti l’assemblea
cioé di intervenire e di esprimere la propria idea perché non debba esistere e
dobbiamo abbattere un meccanismo di delegazione di intervento e di azione
rispetto non solo al carcere ma rispetto al da farsi per il futuro.
UN COMPAGNO DELLA NAVE DEI FOLLI DI
ROVERETO
Con questo mio intervento vorrei sollevare un paio di
questioni legate alla lotta contro il carcere e più in generale contro la
repressione. Visto che si tratta di un concetto che ritorna continuamente,
comincio con qualche considerazione preliminare a proposito della solidarietà.
Per comodità prendo come esempio gli arresti per le giornate contro il G8 a
Genova. Senza enfatizzare troppo, si può dire che quei giorni e il loro seguito
hanno rappresentato e rappresentano un buon laboratorio da entrambi i lati della
barricata sociale. All'esperimento poliziesco di blindatura di un'intera città
per misurare il tasso di sopportazione dei suoi abitanti, alla repressione di
piazza, si aggiunge una grande rappresentazione mediatica. Alla contestazione
negoziata, all'opera costante di mediazione e di controllo, spinta fino alla
delazione, da parte delle forze riformiste, si aggiunge un massiccio
investimento statale sull'ideologia pacifista della collaborazione, sempre più
funzionale alla guerra interna e internazionale contro il
"terrorismo". Cosa significa, in tale contesto, solidarietà?
Non basta ricordare la repressione brutale, i pestaggi, le torture e la
loro deliberata pianificazione. Nell'esprimere solidarietà nei confronti dei
compagni arrestati, contro questa ennesima mossa repressiva, va soprattutto
affermato il senso di quei giorni. Quella
che é avvenuta a Genova é stata una frattura fra la protesta concordata con
governo e polizia e l'opposizione reale, fuori da ogni mediazione istituzionale.
Una frattura tra chi chiede sovvenzioni allo Stato, cerca la rappresentazione
mediatica, si allea con partiti e sindacati, e chi invece fa dell'autorganizzazione
il fine e il mezzo del proprio agire.
In troppi hanno cercato di ricucire quella frattura, con le
posizioni più ambigue e l'opportunismo più sfacciato. Ora é quanto mai
necessario essere chiari. Se la repressione va attaccata, indipendentemente
dagli individui o dai gruppi su cui s'abbatte, per farlo fino in fondo bisogna
affermare la propria prospettiva. Al di là delle accuse contro i singoli
compagni, al di là delle loro posizioni, al di là di quello che possono fare
sul piano difensivo, é il senso dell'azione diretta esplosa in quei giorni che
va rivendicato forte e chiaro. L'attacco generalizzato alle strutture del
capitalismo (banche, sedi di multinazionali, concessionarie, agenzie
interinali), lo scontro con gli assassini in divisa, la fine di ogni
contestazione concordata. E soprattutto i rapporti che simili pratiche, sia pure
in modo embrionale, hanno liberato, in un uso diverso dello spazio urbano, in
una festosa sospensione del tempo storico, in una rinata socialità.
Fuori da tutto questo, privata di ogni passione
progettuale, la solidarietà diventa un impotente lamento, oppure la difesa
personalizzata del singolo compagno (con i relativi dolori di pancia quando
qualcosa, tra chi é dentro e chi é fuori, s'incrina). Non bisogna allora confondere la solidarietà contro la
repressione con una solidarietà più generale nelle lotte, qualcosa che si
potrebbe definire complicità. Diffido degli appelli all'unità delle forze
contro la repressione, che spesso nascondono richieste di cauzione rispetto a
determinati progetti politici. Non si tratta semplicemente di coordinare le
forze attuali, quanto di trasformare qualitativamente i dibattiti e i metodi di
lotta, perché i dispositivi repressivi si rafforzano e si moltiplicano ben al
di là dell'ambito rivoluzionario, colpendo sempre più fasce di sfruttati. In
tal senso, penso che sarebbe un errore porre l'accento esclusivamente sulle
forme speciali di carcerazione, col rischio di trascurare quelle ordinarie,
sempre più esplosive. Trovo pericolosa la mentalità di chi é alla ricerca dei
presunti punti deboli del sistema statale e capitalista (secondo la logica: dove
c'é più repressione, la contraddizione é più acuta). Mi sembra che ne escano
spesso letture semplificatrici e d'uno strano trionfalismo al contrario (più ci
reprimono, più siamo pericolosi). Bisogna imparare a leggere la repressione,
soprattutto nei suoi legami con la normalizzazione sociale, con la diffusa
collaborazione e con l'isolamento delle pratiche di rivolta. D'altronde, quelle
letture sono il risultato di una visione determinista continuamente smentita. Le
situazioni insurrezionali che si sono prodotte negli ultimi anni a livello
internazionale (dall'Albania all'Argentina, dall'Algeria alla Corea del sud)
dovrebbero rendere più cauti sui nessi causali di necessità fra un certo
sviluppo del capitale e crisi sociale. I rivoluzionari sono non di rado gli
ultimi a rendersi conto che le condizioni sono gonfie di rivolta, salvo poi
teorizzare post festum. E lo stesso ragionamento si può fare per contesti più
piccoli. Che legame c'é, ad esempio, fra un semplice sciopero del carrello da
parte dei detenuti e una situazione di rivolta più aperta contro il carcere?
Molto spesso la banalità delle loro cause immediate, diceva Marx, é il
biglietto da visita delle rivolte nella storia. Se non si sa seguire, anche
criticamente, ma con attenzione, quello sciopero del carrello - guardando più
ai rapporti reali di solidarietà che al formalismo delle rivendicazioni -, ben
difficilmente si riuscirà a dare il proprio contributo a quella successiva
rivolta. I detenuti hanno un certo fiuto per i ritardatari del recupero
politico. Si tratta, ripeto, di distinguere la solidarietà nella propria
prospettiva dallo sposare acriticamente le cause altrui.
Ora, si possono tracciare le proprie prospettive senza costruirvi - tanto
meno con pretese scientifiche - delle certezze su dove avverrà la crisi, su
quale é il punto di tensione massima delle contraddizioni del capitale, ecc.,
giacché l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno é alimentare di nuovo le funeste
illusioni deterministe. Sia detto di sfuggita che il concetto stesso di crisi
avrebbe bisogno di un approfondimento perché non va affatto da sé. Ma,
lasciando perdere questi che sono problemi piuttosto ampi, scendiamo nel
concreto delle lotte contro il carcere oggi. Vorrei sottoporre alcuni
interrogativi all'attenzione dei compagni.
Se da una parte é importante e necessario che ci sia
un'attività continuativa sulla questione del carcere, delle lotte dei detenuti
in generale, e nel sostegno dei compagni, dei rivoluzionari prigionieri in
particolare, é altrettanto importante, a mio avviso, comprendere che quello che
conta, soprattutto nei momenti in cui lo scontro non é particolarmente
generalizzato e i rapporti di forza non sono per così dire entusiasmanti, é
soprattutto riuscire a portare il problema del carcere (che é anche il problema
della repressione, che é anche il problema del controllo sociale,
dell'organizzazione capitalistica delle città, dell'urbanistica, dei ghetti,
della sorveglianza, degli sbirri nei quartieri) all'interno delle lotte in cui
noi siamo già direttamente attivi o di cui dovremmo essere partecipi e
promotori in futuro. Spesso, infatti, le iniziative specifiche contro il carcere
- che sono, ripeto, importanti e necessarie - si limitano (salvo nei periodi di
protesta dentro) ad un ambito che a grandi linee potrei definire militante e che
riescono poco a legarsi con le altre lotte in corso. Faccio un esempio: ho
trovato interessante che in un volantino che ho letto in questi giorni proprio
rispetto a questa iniziativa si legasse il 41bis alle lotte attuali degli operai
della Fiat e ad altre forme di autorganizzazione di classe che stanno maturando.
Non si tratta, ben inteso, di limitarsi a giustapporre problemi e contesti
diversi, ma di vedere quali sono i nessi reali, senza autorappresentazione né
retorica. Se é importantissimo porre il problema del carcere in modo diretto,
é altrettanto importante porlo in modo indiretto, portandolo ovunque é
possibile lottare in modo autonomo, lontano da partiti e sindacati, contro ogni
collaborazione di classe e ogni mediazione con lo Stato. Si tratta di un
problema ampio che ovviamente sto semplificando: tutto questo per dire che molto
spesso la nostra capacità di attaccare la repressione é limitata perché la
repressione non riusciamo a leggerla in tutti i suoi aspetti, che non sono
soltanto quelli più concentrati e visibili - in cui qualcuno immagina di vedere
la massima espressione della crisi della borghesia o che so io - ma anche quelli
più diffusi, penetranti e capillari.
Altra questione che butto sul tappeto: c'é un rapporto
sempre più stretto fra l'attività della magistratura, quale corpo armato dello
Stato insieme a carabinieri, polizia ed esercito, e l'emergenza creata di volta
in volta dai mass-media. Questo rapporto é talmente stretto che molto spesso
determinati provvedimenti di tipo legislativo o anche immediatamente poliziesco
sono realizzati proprio per dover dare risposte ad un'emergenza mediatica
precedentemente e preventivamente costruita. Questo cosa vuol dire? Vuol dire
che, quando si parla di repressione, quando si parla di controllo sociale e di
carcere, se é importante vedere come strutture da attaccare la polizia, la
magistratura, i carabinieri ecc., é altrettanto importante porre la questione
dell'attacco antirepressivo nel senso dell'attacco ai mass-media. Può sembrare
una banalità, ma l'aspetto repressivo e quello del controllo sociale, anche
nella forma della collaborazione di classe, passano attraverso costruzioni
mediatiche non apparentemente repressive, nel senso che a volte fa più danni,
per dirla con una battuta, una trasmissione come il Grande Fratello (e la realtà
di cui é una degna rappresentazione) che non la polizia nei quartieri. Il vero
problema é vedere in che modo la polizia e il Grande Fratello sono legati. La
questione dei mass-media é fondamentale non solo in una prospettiva sovversiva
generale, ma anche in termini immediatamente pratici. Mantenere un'aperta
ostilità nei confronti dei mass-media, infatti, significa non farsi parlare
dalle parole del nemico, non accettare la rappresentazione e la
spettacolarizzazione che il nemico ci impone, e allo stesso tempo sottrarre da
sotto i piedi il terreno a tutti gli aspiranti dirigenti e a tutti gli aspiranti
collaboratori di Stato. Pensiamo alla situazione italiana, a tutti i Casarini,
gli Agnoletto e gli altri poliziotti sociali più o meno in tuta bianca: senza i
mass-media, che sono in tal senso delle fabbriche di leader, costoro non
sarebbero nessuno. Movimenti di lotta realmente autorganizzati e orizzontali,
lontani dalla merda politica e sindacale, devono rifiutare in modo metodologico
- quindi non occasionale, magari in seguito ad una campagna mediatica
particolarmente infame - la presenza dei mass-media e il dialogo con i
giornalisti. Si tratta di alcune armi per non riprodurre al proprio interno i
rapporti di dominio che si rifiutano. In senso più ambizioso, si può
sottolineare l'importanza dell'attacco a questo aspetto fondamentale del
capitale e dello Stato, in genere trascurato. La nozione di spettacolo andrebbe
intesa anche in senso stretto, non solo in senso generale (cioé come rapporto
sociale mediato dalle immagini). Avevano
visto bene quei rivoluzionari che in epoca non sospetta (fine anni Sessanta,
inizio anni Settanta) distruggevano furgoni e stazioni della televisione come
parte integrante della guerra sociale.
Quindi: solidarietà contro la repressione,
indipendentemente dai gruppi o dagli individui su cui questa si abbatte, ma
nella chiarezza della propria prospettiva, al di là di opportunismi e tentativi
di ricucire fratture che sono sia di pratica rivoluzionaria sia sociali e di
classe. La complicità - di idee, di progetti, di metodi - é altra cosa. Essa
si crea e si scopre nelle lotte, nei tentativi, anche parziali, anche
contraddittori (perché la ricetta scientifica non ce l'ha nessuno) per
distruggere l'esistente con tutte le sue carceri.
Distruggere le galere per non costruirne mai più: ecco la
prospettiva da cui emergeranno le complicità. Mi sembra, ad esempio, quanto
meno curioso - ma forse ho capito male - che quando il compagno parlava della
situazione in Israele, fra tutte le carcere nominate non siano state menzionate
quelle di Arafat, dove quotidianamente vengono torturati i ribelli palestinesi.
Per la distruzione di tutte le carceri, quale che sia il
loro colore o la bandiera che vi sventola sopra. Anche nelle lotte più piccole,
quello che facciamo deve essere all'altezza di questa splendida utopia.
LETTERA INVIATA AI RIVOLUZIONARI
PRIGIONIERI
L’assemblea tenutasi a Milano
Contro il carcere, il 41bis
Contro l’attacco alle lotte sociali
A sostegno dei prigionieri rivoluzionari
E delle lotte di tutti i detenuti
Ha visto una numerosa presenza di compagni e una importante
partecipazione di organismi di lotta contro il carcere e la repressione e di
solidarietà e appoggio ai prigionieri rivoluzionari.
Invia un abbraccio solidale e un sostegno politico ai
prigionieri politici rivoluzionari e a tutti i proletari detenuti in lotta
rinchiusi nelle carceri imperialiste. Rilancia
con forza l’appello per la mobilitazione contro il carcere a partire da quella
contro il 41 bis e per l’unità nella lotta a fianco dei detenuti politici e
di tutti i prigionieri. Questa
lotta é parte integrante di quella di tutti coloro che oggi insorgono contro il
sistema di dominio e di sfruttamento della società divisa in classi.
Elenco
dei carceri con sezione sottoposta ad art. 41 bis O.P. Ascoli Piceno Marino del Tronto Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis
O.P., sezione Alta Sorveglianza via dei Meli 218 63100 Belluno Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione sottoposta
ad articolo 41bis O.P., sezione femminile, sezione Alta Sorveglianza via Baldenich 11 32100 0437/930800-10-20-300437/930451-87 cc.belluno@giustizia.it Cuneo Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis
O.P., sezione Alta Sorveglianza via Roncata 75 12100 0171/4499110171/449913 cc.cuneo@giustizia.it L'Aquila Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis
O.P. via Amiternina 3 località Costarelle di Preturo 67100 0862/4520200862/452030 cc.laquila@giustizia.it Napoli Secondigliano Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis
O.P., sezione Alta Sorveglianza via Roma verso Scampia 350 80144 081/7021414 7022410-701 Novara Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis
O.P., sezione femminile, sezione Alta Sorveglianza via Sforzesca 49 28100 0321/402801 407200-10321/40280 cc.novara@giustizia.it Parma Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione sottoposta
ad articolo 41bis O.P., sezione Alta Sorveglianza via Burla 59 43100 0521/271106 2072850521/27124 cc.parma@giustizia.it Pisa Casa circondariale + Casa di reclusione, sezione del Centro
diagnostico terapeutico riservata ai detenuti sottoposti ad articolo 41bis
O.P., sezione femminile via Don Bosco 43 56127 050/574102 Roma Rebibbia Casa circondariale femminile + Casa di reclusione
femminile, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P. via Bartolo Longo 92 00156 06/ 41594357-358-20506/4100711 ccf.rebibbia.roma@giustizia.it Spoleto (PG) Casa di reclusione + Casa circondariale, sezione sottoposta
ad articolo 41bis O.P. via Maiano 10 06049 0743/263110743/263239 cr.spoleto@giustizia.it Terni Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis O.P., sezione Alta
Sorveglianza via delle Campore 32 05100 0744/800100-016-2190744/800262 cc.terni@giustizia.it Viterbo Casa circondariale, sezione sottoposta ad articolo 41bis
O.P. strada SS. Salvatore 14/b 01100 0761/244010761/353472 cc.viterbo@giustizia.it |