Il carcere duro diventa più lungo


È alle porte una nuova proposta governativa di riforma del 41-bis, regime penitenziario a cui sono oggi sottoposti circa 500 detenuti. Lo scorso 3 maggio a palazzo San Macuto il ministro della giustizia Clemente Mastella è stato sentito in audizione formale dalla commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa. Il tema era la gestione dei detenuti sottoposti al regime di cui all'articolo 41-bis, secondo comma, dell'ordinamento penitenziario. Il 41-bis, introdotto nel 1991 con il decreto Scotti-Martelli, ha visto la sua definitiva stabilizzazione nel 2002 con la legge n. 279. Nei mesi scorsi vi sono state molte polemiche sulla riduzione del numero dei detenuti soggetti a tale regime. Ciò sarebbe stato determinato dal forte incremento dei ricorsi contro il carcere duro, e, di conseguenza dell'altrettanto evidente aumento degli annullamenti da parte della magistratura di sorveglianza dei provvedimenti applicativi del 41-bis, alcuni dei quali hanno riguardato i capi storici di cosa nostra. In alcuni casi si trattava di persone che erano sottoposte al regime di cui all'articolo 41-bis (colloqui ridotti e con il vetro divisorio, trattamento penitenziario vietato, rapporti con l'esterno al lumicino, detenzione in carceri speciali) da lunghissimo periodo, ossia oltre 15 anni. Proprio a partire da questa insofferenza dell'amministrazione penitenziaria nei confronti dei controlli di merito da parte della magistratura di sorveglianza parte la proposta di riforma della legge 279 a meno di cinque anni dalla sua entrata in vigore. È stato preannunciato un disegno di legge governativo che prevede:

 

1) l'innalzamento della durata del regime speciale a tre anni, prorogabili per periodi successivi di durata non inferiore ai due anni;

2) il divieto di un intervento giudiziario che modifichi anche il contenuto delle misure adottate riservando alla magistratura di sorveglianza la sola verifica della legittimità formale;

3) l'estensione del regime di cui all'articolo 41-bis agli autori dei reati previsti all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario anche ove tali reati non costituiscano titolo di attuale detenzione;

4) il riconoscimento di autonomi poteri di istruzione, proposta e impugnazione, alla Dna e alle Dda territorialmente competenti;

5) l'introduzione, questa richiesta esplicitamente dalla Direzione nazionale antimafia, di una norma sanzionatoria per chiunque ponga in essere comportamenti diretti a tenere o consentire collegamenti tra il detenuto sottoposto al 41-bis ordinamento penitenziario e gli ambienti esterni;

6) l'inversione dell'onere della prova riguardante la cessazione del rapporto con
l'organizzazione criminale di appartenenza facendola gravare sul detenuto, divenendo così una sorta di probatio diabolica;

7) la previsione della competenza territoriale sui reclami al solo Tribunale di sorveglianza presso la Corte di appello di Roma, aumentandone, ove necessario, l'organico, in modo, si dice, da assicurare uniformità nell'applicazione della normativa. La proposta di riforma troverà prevedibilmente la legittima resistenza dell'avvocatura e della magistratura di sorveglianza la quale rischia di vedersi esautorate del tutto le proprie funzioni di controllo. D'altronde sia la Corte europea sui diritti umani che la Corte costituzionale hanno condizionato il loro sì al regime speciale solo in quanto la legge prevede un effettivo controllo giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi di compressione dei diritti dei detenuti che vi sono sottoposti. Nel suo ultimo rapporto sull'Italia anche il Comitato europeo per la prevenzione della tortura ha specificato che vanificare il sistema dei reclami equivale a rendere il regime duro del 41-bis privo di accertamenti esterni e quindi assimilabile a un trattamento penitenziario disumano.

 

Da http://www.consiglionazionaleforense.it