indice n.155

Il Niger e il Ribollire africano
Giustizia per Nahel. Radici delle rivolte in Francia
Aggiornamenti dalla lotta contro i campi di internamento
sul “Decreto Caivano
Lettere dal carcere di Napoli-Secondigliano
Lettera dal carcere di Bancali (SS)
Lettera dalla REMS di Volterra (PI)
lettera dal carcere di viterbo
Autolesionismo, scioperi della fame, suicidi
QUANDO C'E L'AMORE C'E TUTTO... NO, QUELLA E' LA SALUTE!
lettera dal carcere di Genova
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Lettera dal carcere di Vigevano (PV)
Per l'immediata liberazione di Khaled El Qaisi
FREEDOM FOR THE BUDAPEST'S ANTIFASCISTS
Operazione Scripta Scelera contro il quindicinale “Bezmotivny”
Brandizzo: le stragi della guerra nei cantieri di casa nostra


Il Niger e il Ribollire africano
Che succede in Niger, fra i paesi confinanti come il Burkina Faso, il Mali e in tutta l’area del Sahel?
Dai giornali occidentali apprendiamo ci sarebbe stato un nuovo colpo di Stato diretto da una giunta di militari che comanda la Guardia Presidenziale dell’Esercito del Niger. Poi però le immagini mandate in onda su tutti i canali televisivi ci mostrano manifestazioni popolari di sostegno al “colpo di Stato”; non solo, ma che i manifestanti innalzano cartelli di condanna nei confronti della Francia e inneggianti a Putin. I riflettori dei media Occidentali si accendono sull’Africa commentando i fatti con serissima preoccupazione. Intanto, a Niamey c’è un fuggi fuggi generale di civili stranieri francesi, italiani ed europei che si trovano in Niger, mentre le forze militari in missione di Stati Uniti, Francia e Italia si barricano nelle rispettive basi militari presenti nel paese. Gli Stati Uniti, che hanno decuplicato il numero delle basi militari in Africa dagli anni di Obama ad oggi (almeno una dozzina concentrata nella regione del Sahel e sei proprio in Niger), temono di perdere il loro migliore ed ultimo avamposto nel West Africa.
E allora cerchiamo di capirci di più, senza nasconderci dietro il dito, e da subito diciamo che l’esultanza di masse di oppressi e sfruttati africani è un ulteriore segnale della fase di destabilizzazione del modo di produzione a egemonia occidentale, altrimenti detto: la rivoluzione procede il suo inarrestabile corso.
Questo colpo di mano di una unità d’élite dell’Esercito del Niger – di cui molti comandanti ed esponenti della nuova giunta militare sono stati addestrati dal Comando Operazioni Speciali dell’Esercito degli Stati Uniti presso la Base Aerea 201 o a Fort Benning in Georgia – è parte del medesimo processo caratterizzato da eventi improvvisi dello scorso anno, accaduti nei confinanti Burkina Faso e Mali. Avvenimenti cadenzati da quel fattore X inaspettato: l’immediata mobilitazione popolare in piazza a sostegno del manipolo di militari che ha appena preso il potere senza sparare un colpo, l’assalto ai negozi, gli attacchi alle sedi diplomatiche francesi e, come trasmesso anche dai media italiani, la piazza Nigerina pretende che tutte le forze militari occidentali – non solo quelle della Francia – lascino il paese, gridano contro Macron, assaltano l’edificio dell’Ambasciata di Francia sul quale issano la bandiera Russa.
Poco più di due anni e mezzo fa (Febbraio 2021), quando l’ambasciatore italiano Luca Attanasio nella Repubblica Popolare del Congo finiva ucciso durante una missione umanitaria, intorno al rinnovato saccheggio del continente Africano da parte delle potenze Occidentali era calato un silenzio tombale. Un silenzio tombale che è proseguito quando prendeva il via la più massiccia operazione militare congiunta di Francia e Italia proprio nel Sahel nel marzo 2021: Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad. Ossia l’accelerazione della guerra “informale” di rapina e di occupazione, portata avanti nella regione e in centro Africa da Francia, Italia e Stati Uniti innanzi tutto, in continuità con le aggressioni militari degli USA al tempo della presidenza Obama in Libia e Somalia, passava del tutto inosservata.
In controtendenza rispetto all’Occidente e alla stessa Cina, l’Africa è un continente in forte crescita demografica e con una accelerazione dei processi di urbanizzazione che segue una crescita di produttività e del PIL che, seppure disomogenea e rallentata rispetto a quella registrata nel decennio 2000-2010, conferma le potenzialità produttive di gran parte del continente. Una crescita trainata dalle tre principali economie Africane: Sud Africa, Egitto e Nigeria, che si fanno volano rispettivamente per le regioni del Corno D’Africa e dell’Etiopia, per l’area delle colonie ex Britanniche e Francesi nel West Africa e per parte del centro Africa (Congo e Kenya). Dunque una possibilità per la valorizzazione dei capitali dettata dalla crescita dei volumi della domanda di merci e macchinari in varie aree del continente Africano. Mentre in altre aree, alla liberazione Africana dal colonialismo imperialista è succeduta solamente la barbarie dei piani di ristrutturazione del debito e/o del credito imposti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, che hanno aperto una dinamica sociale ed economica disgregativa, manifestando il fallimento drammatico dell’uscita reale dall’oppressione coloniale e dalla dominazione imperialista. Una ferita aperta il cui pus determinato è rappresentato dalle guerre etniche e dall’emergere di quelle consorterie economiche locali – rappresentati anche in parte dal Jihadismo subsahariano – che non vanno oltre l’espressione di interessi capitalistici di tipo corporativo.
Ed è in questa fascia più fragile rappresentata dai 5 stati del Sahel che Francia, Italia, EU e Stati Uniti avevano avviato la propria strategia tendente realizzare un cavallo di troia per la ripresa del controllo più ferreo del continente conteso dalla Cina: le missioni militari per combattere l’emergere delle formazioni jihadiste. Gli obiettivi reali manco a dirlo sono essenzialmente tre: le materie prime dell’Africa che abbondano anche nelle aree più depresse (metalli rari, uranio, petrolio – recentemente scoperto in Mali); appropriarsi delle terre fertili del Centro Africa e della fascia subsahariana, trasformando la campagna della savana in un indotto agro-intensivo per il rifornimento delle nuove centrali elettriche in progettazione basate sulle biomasse (agro-hub), che copriranno la crescita della domanda di energia elettrica che l’aumento della capacità produttività Africana richiede; una energia, dunque, “pulita” e “de-carbonizzata”, ma decisamente rapace, che comprometterà velocemente, ne siamo certi, la fertilità del suolo della savana Saheliana compromettendone per sempre la possibilità della coltivazione attraverso le sementi locali; governare la nuova tratta degli schiavi Africani attraverso le rete delle ONG europee e italiane che proliferano nella regione del Sahel, e che trova uno snodo principale lungo la direttrice che attraversa Agadez nel centro del Niger e che collega la Nigeria e il West Africa con l’Algeria e la Libia attraversando il Niger e il Sahel.
In sostanza una presenza militare che diviene necessaria per vincere la concorrenza delle multinazionali della Cina, degli Emirati Arabi, Sauditi e dell’India che si sono affiancate all’Occidente nella nuova forma storica del colonialismo e del saccheggio Africano: il land grabbing.
Un fenomeno in continua progressione dal 2008, dove rappresentanti di interessi locali o governanti messi su da potentati economici stranieri concedono in affitto migliaia di ettari a multinazionali straniere al costo medio di 2 Euro l’anno per ettaro di terreno, che per fare profitto sfruttano al massimo le risorse della terra. La legge storica della produzione del valore non può che essere ineguale: le popolazioni in eccesso sono sfrattate dai nuovi padroni o sono costrette a lasciare le terre dove vivono perché trasformate in discariche dall’agrobusiness e migrano nei centri urbani; la produzione intensiva agricola è per l’esportazione per soddisfare il consumo alimentare dei paesi ricchi o per la produzione di massa di biocarburanti, mentre regredisce l’autosufficienza alimentare dell’Africa e si compromette la fertilità del suolo, la biodiversità e l’ambiente.
Sicuramente le nazioni del Sahel sono tra le più economicamente fragili e quindi più esposte agli effetti della disgregazione sociale innescata dai devastanti piani di ristrutturazione del debito del FMI degli anni ’90. Al comando dei vari governi si sono succeduti sicuramente rappresentanti di consorterie economiche che non potevano che allinearsi all’offensiva neo coloniale in Africa ed essere comprati con quattro spicci dall’Occidente, ma senza mai ottenere in cambio alcuna capacità materiale di porre freno alla decomposizione di quei tessuti unitari statuali risultati dal colonialismo e post colonialismo. Quanto a lungo poteva durare questa ridiscesa vero gli inferi per l’Africa subsahariana?
I fatti recenti dimostrano che i popoli del Sahel hanno iniziato ad annusare che il tutorato Occidentale nel combattere le formazioni jihadiste è la medicina peggiore del male, è appunto quel cavallo di troia utile per la loro ri-sottomissione neo coloniale, che diviene sempre più urgente in quanto l’Africa rischia di sfuggire di mano all’Occidente stesso proprio a causa di una crisi generale del valore che lo espone alla concorrenza con l’Oriente, la Cina e ne evidenzia il declino.
Infatti, dopo nemmeno un anno dall’avvio coordinato Francia – Italia dell’operazione militare Barkhane nel Sahel, dalla Guinea e soprattutto dal Mali e dal Burkina Faso è iniziata una rapida presa a pedate degli Europei, che si sta realizzando attraverso l’unico mezzo possibile stante le condizioni materiali di partenza e la nullità del movimento dei lavoratori in Occidente: un colpo di mano militare di qualche battaglione di fanteria, ma col sostegno diffuso e attivo di larghissimi strati delle popolazioni lavoratrici delle città e delle campagne, la cui miseria e sfruttamento combinata con le potenzialità della crescita produttiva dell’Africa sta precipitando un rinnovato sentimento crescente anti Francese e anti neo coloniale tout court.
A fine gennaio 2022 il governo militare del Mali espelle con preavviso di 72 ore l’ambasciatore francese e poco dopo nel febbraio le truppe francesi presenti fin dal 2013 senza soluzione di continuità sono costrette a lasciare il paese. E ora il Niger. In ognuno di questi momenti le strade si sono riempite di manifestanti e di sentimento anti-francese e di sostegno militante diffuso alle giunte militari salite al potere.
Il cadenzare degli eventi di una fascia importante dell’Africa che vede gli Europei occidentali ingolfarsi tra le dune del deserto e la foresta della savana, descrive una dinamica tutt’altro che “golpista” e di scontro tra gruppi di interessi economici corporativi per il potere. Dietro ogni momento emblematico di questa cacciata degli Europei dal Sahel c’è una materialità di una insopprimibile necessità che emerge dal profondo: la potenzialità di crescita della produttività in Africa e la crisi di un modo di produzione monista e della sua catena unitaria mondiale che indebolisce l’Occidente e mette l’Europa di fronte al suo canto del cigno. Questo sviluppo recente dell’Africa richiede macchinari per sviluppare la trasformazione delle sue ricche risorse e l’Occidente non li produce più di suo, perché per ovviare alla lunga crisi di valore ha dovuto delocalizzare le produzioni principali in Asia e in Cina, quindi le masse Africane per necessità sono sospinte a guardare verso l’Oriente e verso la Cina per sviluppare l’economia di mercato e sfamare le bocche.
Le masse povere e lavoratrici, delle campagne e delle città hanno i telefonini ma hanno problemi di sussistenza, di protezione dalla disgregazione sociale come effetto del fallimento post-coloniale e non vogliono essere espropriate dalle loro terre per dar luogo ai munifici progetti delle multinazionali straniere. Le nuove tecnologie usate per lo sviluppo delle reti mobili, internet e delle infrastrutture digitali, necessarie per la circolazione del valore e lo sviluppo del business all’interno della catena mondiale della produzione del valore, sono prevalentemente made in Cina e made in India, sono corporate quali Huawei e Tata Telecommunications che scalzano i colossi delle TLC, le multinazionali Europee, Britanniche e Nord Americane. Non è dunque un caso che anche gli interessi borghesi, finanche quelli più corporativi, siano attratti da un moto profondo a tradire gli alleati Occidentali per necessità.
Molti paesi dell’Africa, in particolare il Sud Africa, avevano già fatto capire a chiare lettere di non avere alcuna intenzione di schierarsi con l’Occidente contro la Russia e di voler rimanere neutrali nella guerra condotta in Ucraina (nei voti delle risoluzioni ONU e nell’infruttuosa missione Africana di Blinken la scorsa estate), perché la merce che l’Occidente produce, per via della crisi, si riduce a un logo o a uno slogan di marketing. D’altro canto l’Africa non ha mai conosciuto il colonialismo da parte Russa e le mobilitazioni popolari nel Sahel guardano ad essa con uno sguardo completamente diverso rispetto al secolo scorso.
Appare dunque chiaro che definire “colpo di Stato” la presa del potere dei militari in Mali, in Burkina Faso e in Niger col sostegno popolare, è tutt’altra cosa dai colpi di Stato diretti e organizzati dall’Occidente, e chi avanza questa tesi lo fa per opportunismo eurocentrico accondiscendente all’imperialismo di casa propria. Stiamo assistendo a un ribollire generale dell’Africa, che non potrà consolidarsi nel solco del panafricanismo degli anni ’60, ossia nella prospettiva di sviluppare la produzione del valore e relazioni di scambio eque tra le nazioni Africane. Quella possibilità storica è stata definitivamente sconfitta ai tempi di Lumumba in una fase ascendente dell’accumulazione mondiale e del mercato, non può trovare spazio all’oggi quando la crisi mondiale inizia a mordere anche la Cina e l’Oriente.
È il processo della rivoluzione in marcia ancora dai connotati confusi che sta attraversando il Sahel e che rischia di contagiare il continente: un processo che origina da cause profonde e che inizia a determinare anche quelle personalità della storia che divengono riflesso agente della necessità di chiamare in causa il rapporto di un modo di produzione con le risorse della natura e le relazioni di scambio con gli altri popoli dal punto di vista delle necessità dello sviluppo dell’Africa e delle sue masse lavoratrici sfruttate. Il tutto non può che avvenire lungo il solco determinato dal passato storico e dalle condizioni materiali dell’oggi.
Pochi giorni fa Ibrahim Traoré, presidente del Burkina Faso, dalla platea del Summit Russia-Africa di San Pietroburgo, rivolgendosi all’intero continente Africano, constata che “la mia generazione si pone mille e una domande. Ma non troviamo una risposta“. Come mai, si domanda il giovane neo-presidente, il continente Africano, benché ricco di ogni ben di dio rimane il continente più povero e quello che soffre di più la fame? Perché i paesi del continente Africano non riescono a realizzare quella trasformazione in loco delle materie prime che l’Africa possiede, dimostrandosi incapaci di realizzare quelle relazioni solidali ed essere auto sufficienti e indipendenti dall’imperialismo?
«La mia generazione mi ha incaricato di dirvi che, per la povertà, è costretta ad attraversare il mare per raggiungere l’Europa. Muore nel mare, ma presto non attraverserà più il mare ma verrà nei nostri palazzi in Africa per reclamare il suo sostentamento quotidiano… Il vero grande problema è vedere i nostri capi di stato africani, che non portano a nulla i loro popoli in lotta, cantare la stessa musica degli imperialisti. I nostri capi di stato africani devono smetterla di comportarsi come marionette..»

6 agosto 2023, da lacausalitadelmoto.blog

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Il 21 ottobre manifestiamo a Ghedi:
contro la guerra, l’economia di guerra, il governo Meloni, la NATO
La guerra tra NATO e Russia in Ucraina, una guerra che è da ambo i lati dettata da interessi di dominio e di sfruttamento, e ha già prodotto un orrendo massacro di centinaia di migliaia di morti e di feriti, non accenna a finire. Anzi, nonostante si parli di proposte di pace, la continua fornitura di armi da parte di UE e Stati Uniti a Kiev prolunga la guerra e la porta sempre più in territorio russo.
Su scala globale, è in atto una crescita esponenziale delle tensioni commerciali, diplomatiche, militari e, in questo contesto, è partita una vera e propria corsa al riarmo che esprime e a sua volta alimenta la corsa verso nuove, catastrofiche guerre inter-capitalistiche per una spartizione del mercato mondiale tra le massime potenze capitalistiche dell’Ovest e dell’Est.
Intanto in Italia e nell’intero Occidente si afferma a grandi passi un’economia di guerra e un disciplinamento sociale sempre più soffocante nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università, sui territori, nei mezzi di comunicazione.
Il governo Meloni attacca frontalmente le condizioni di vita di milioni di lavoratori, disoccupati e precari, ha consentito senza muovere un dito l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità che colpisce salari che sono già in molti casi da fame, effettua altri tagli alla sanità pubblica, ai servizi sociali e al reddito di cittadinanza, con milioni di famiglie spinte verso la povertà estrema, ha dato il via libera alla violazione di tutte le norme di sicurezza sul lavoro con l’effetto di moltiplicare i morti sul lavoro, prosegue nell’opera di devastazione sociale e ambientale, aumenta le spese militari per l’invio di armi in Ucraina e per il potenziamento delle basi e delle infrastrutture belliche. E ora, per deviare la crescente rabbia su un falso bersaglio, indica negli emigranti-immigrati il “vero nemico” da cui difendersi.
In realtà, invece, il nostro primo e principale nemico è qui, ed è proprio il governo Meloni e la classe degli sfruttatori, grandi, medi e piccoli per conto dei quali l’esecutivo delle destre amministra le spese dello stato e il cosiddetto ordine pubblico.
La guerra e le politiche di austerity sono due facce della stessa medaglia: ad un aumento delle spese militari e per la repressione corrisponde, da un lato, il taglio di pari intensità ai salari, alle pensioni e alla spesa sociale, dall’altro un incremento della militarizzazione della vita sociale, del nazionalismo, del razzismo di stato, del sessismo favorendo la impressionante crescita della violenza fisica e psicologica contro le donne, dell’intervento poliziesco nelle lotte sindacali e sociali.
Contro questa nuova barbarie che avanza, facciamo appello a tutte le realtà attive contro la guerra, nelle scuole, nelle lotte sociali e ambientali, affinché la giornata di sabato 21 ottobre diventi l’occasione per rilanciare la mobilitazione contro la guerra, l’economia di guerra, il governo Meloni, per lo scioglimento della NATO, la chiusura di tutte le basi militari e il ritiro delle truppe italiane all’estero.
La scelta della giornata del 21 ottobre rappresenta per noi un ponte verso quei lavoratori e quelle lavoratrici che il giorno prima entreranno in lotta “contro guerra, carovita, precarietà, per fermare il governo Meloni” in occasione dello sciopero generale indetto dal sindacalismo di base.
Per questo – nel contesto di un insieme di iniziative contro la guerra in Italia e all’estero – promuoviamo il 21 ottobre una mobilitazione nazionale unitaria a Ghedi. Ghedi è la base storica di attacco dell’aeronautica militare italiana e il deposito di decine di bombe atomiche NATO-US da montare su aerei italiani. Mentre in molti vanno alla ricerca del nemico solo ed esclusivamente al di fuori dei confini nazionali, i duri fatti dimostrano che il nostro primo nemico è qui “in casa nostra”.
Da Ghedi vogliamo far arrivare il nostro messaggio anti-militarista e disfattista anche al di là delle frontiere italiane per dare il nostro contributo al coordinamento internazionale e internazionalista delle iniziative di lotta contro la guerra in Ucraina, contro tutte le guerre del capitale. La sola ed unica forza che può fermare la folle corsa alla distruzione reciproca dei paesi e alla catastrofe ambientale e umana che la accompagna è il disfattismo in Ucraina, in Russia e qui verso i “propri” governi, i “propri” capitalismi, e l’affratellamento, l’unità tra gli sfruttati e gli oppressi di tutti i paesi del mondo. Proletari di tutti i paesi uniamoci: è ancora e sempre questa la via della liberazione dallo sfruttamento e dalla guerra.

20 settembre 2023
Brescia anticapitalista – Collettivo NN Brescia – Collettivo Linea Rossa della bassa bresciana – Centro di documentazione contro la guerra, Milano – Comitato internazionalista, Como – Comitato permanente contro le guerre e il razzismo, Marghera – Controtendenza Piacenza – Controvento – Laboratorio politico Iskra – Movimento di lotta per il lavoro 7 novembre, Napoli – Plat Bologna – Rete dei comitati e dei collettivi di lotta Roma e Viterbo – SI Cobas – Tendenza internazionalista rivoluzionaria


Giustizia per Nahel. Radici delle rivolte in Francia
Di seguito pubblichiamo un articolo sull’omicidio del giovane Nahel Merzouk da parte della polizia francese. Sono passati due mesi dall’uccisione a sangue freddo di un ragazzino di diciassette anni che non stava facendo nulla, se non una “bravata” da adolescente qual era. Riteniamo assolutamente attuale ciò che è avvenuto poiché sappiamo che episodi simili sono all’ordine del giorno in Francia, così come in molti altri Paesi. Questa volta però la notizia ha oltrepassato i confini ed ha scosso il mondo intero perché un video è riuscito ad oltrepassare il muro del silenzio dietro il quale, Stato, polizia e mass media, troppo spesso nascondono i crimini perpetrati ai danni di coloro che non sono inscrivibili nel “buon” cittadino modello: bianco, benestante e comunque vada, asservito.
I rivoltosi che hanno “invaso e distrutto le strade francesi” dopo l’omicidio di Nahel - perlopiù giovanissimi - sono coloro che vengono condannati dal sistema a vivere ai margini della società ma che hanno il merito di opporsi e ribellarsi alla loro condanna ad una vita di schiavitù - quando non addirittura alla morte - poiché considerati eccedenza dal sistema capitalistico e quindi sacrificabili. Quello che è accaduto in Francia va ben oltre a ciò che i nostri mass media hanno cercato di circoscrivere al singolo episodio, tentando così di nascondere una rivolta che ha radici ben più profonde e una potenza incontenibile a cui non può che andare tutta la nostra solidarietà.

Il seguente testo ci è stato inviato dai compagni francesi il terzo giorno di disordini seguiti all’assassinio dell’adolescente Nahel Merzouk da parte della polizia francese nella città di Nanterre, un sobborgo di Parigi. Fornisce un’analisi della situazione e una panoramica della lotta contro la brutalità della polizia in Francia a partire dagli anni ‘70.
Oggi questo movimento sta affrontando un’intensa repressione nelle strade, nei media e nei tribunali. Ad oggi, oltre a Nahel, sono state uccise almeno tre persone. Piuttosto che concentrarci sul dispiegamento di poliziotti militari specializzati in tutto il paese, preferiamo iniziare con gli sforzi dei giovani che stanno rischiando la vita per difendere Nahel e per se stessi. Nelle strade, molte persone dicono che i sentimenti di rabbia e l’intensità della lotta ricordano le rivolte del 2005. Proprio come quelle rivolte hanno avuto luogo dopo il movimento studentesco del 2005, questa vera e propria rivolta ha seguito il potente movimento contro la pensione, riforma imposta dal presidente Emmanuel Macron, che in primavera ha subito una repressione senza precedenti. Nonostante l’enorme allocazione di risorse e la vera impunità legale, la polizia in Francia sembra perdere sia la legittimità percepita sia la capacità di intimidire ampi settori del pubblico fino alla passività.
Il 27 giugno 2023, Nahel Merzouk, 17 anni, stava guidando un’auto a Nanterre quando la polizia motociclistica lo ha fermato per un controllo stradale, poi lo ha ucciso a sangue freddo. Come descrisse in seguito uno dei passeggeri, un ufficiale ha minacciato Nahel: “Non muoverti o ti metto una pallottola in testa”. Poi entrambi gli agenti lo hanno colpito attraverso il finestrino aperto dell’auto. Stordito dai colpi, Nahel ha rilasciato accidentalmente il freno e ha premuto l’acceleratore, dopo di che un ufficiale ha sparato e lo ha ucciso. Sappiamo tutto questo perché quasi tutta la scena è stata videoregistrata. Il video dell’omicidio di Nahel è diventato rapidamente virale sui social media, che hanno svolto un ruolo chiave nei disordini che ne sono seguiti. La gente ha reagito rapidamente nelle strade. A partire da quella prima notte, il 27 giugno, sono scoppiati violenti scontri nei quartieri prevalentemente di immigrati di Nanterre e di altri sobborghi di Parigi (Mantes-la-Jolie, Boulogne-Billancourt, Clichy-sous-Bois, Colombes, Asnières, Montfermeil) e in tutta la Francia (Roubaix, Lilla, Bordeaux…).
Il 28 giugno, nonostante i politici riconoscano il carattere efferato di questo omicidio e il governo e le frange moderate della sinistra facciano appelli alla pace, la rivolta si estende ad altre città (Neuilly sur Marne, Clamart, Wattrelos, Bagnolet, Montreuil, Saint Denis, Dammarie les Lys, Tolosa, Marsiglia…). Nel frattempo, la famiglia di Nahel ha istituito un “Comitato Verità e Giustizia” (“Comité Vérité et Justice”) con l’assistenza di Assa Traoré (il cui fratello è stato brutalmente ucciso dalla polizia nel 2016) ed ex militanti del “Mouvement de l’Immigration et des Banlieues” (MIB). La madre di Nahel, modello di dignità e coraggio, ha indetto una grande marcia bianca a Nanterre, fissata per il pomeriggio del 29 giugno. La mattina del 29 giugno, il governo ha dichiarato che stava aprendo un’indagine per stabilire se l’ufficiale di polizia che ha ucciso Nahel avesse commesso un omicidio volontario. Questo apparentemente non ha dissuaso le persone dal partecipare alla marcia. Questa grande marcia ha riunito circa 15.000 persone. Hanno ripercorso l’ultima corsa di Nahel, marciando al ritmo di slogan tra cui “Tutti odiano la polizia”, “Sbirro, stupratore, assassino” e “Giustizia per Nahel”. Un cartello diceva: “Quanti altri Nahel non sono stati filmati?” Da quel momento, è stato ovvio che la morte di Nahel era stata un enorme shock e che molti dei manifestanti stavano marciando in solidarietà con la famiglia della vittima. Ma le richieste riguardavano anche qualcosa di molto più ampio: il ruolo della polizia nella nostra società. Come se ne fossero consapevoli, i poliziotti hanno deciso di gasare questo corteo pacifico al suo arrivo alla Préfecture (il ramo regionale del governo centrale) a Nanterre, scatenando una nuova ondata di scontri che si è estesa fino al quartiere degli affari chic di La Défense.
“Se non ci lasciano fare la marcia, mandiamo tutto a puttane” è stato il messaggio sentito tra i giovani rivoltosi. Sarebbe impossibile elencare tutti i quartieri e le città che hanno aderito al movimento la sera del 29 giugno, perché ce n’erano tanti. Nonostante l’annuncio che il governo avrebbe indagato sull’omicidio, questa terza notte di disordini ha dato al movimento una portata senza precedenti. I jeunes de quartiers (come spesso li chiamano i media e i politici, l’equivalente di ‘‘bambini dei progetti’’) hanno dato fuoco ad auto, moto e scooter, ed edifici pubblici tra cui stazioni di polizia locale e nazionale, scuole, biblioteche comunali, prefetture e municipi. Hanno distrutto arredi urbani, saccheggiato supermercati e incendiato cantieri, oltre a usare fuochi d’artificio negli scontri con la polizia. Negli ultimi anni, questi sono diventati l’arma di autodifesa preferita tra i giovani che sono soggetti a vessazioni quotidiane e operazioni arbitrarie di polizia.
Questa insurrezione nazionale non è nata dal nulla. È spontanea, nel senso che è in gran parte orizzontale, imprevedibile e inventa costantemente nuove forme di resistenza in linea con le aspirazioni che lo guidano. Ma questa rivolta emerge anche come risposta al modo in cui lo stato ha gestito l’immigrazione postcoloniale. Dagli anni ‘60, lo Stato francese si avvale di una forza lavoro “importata” dalle sue ex colonie dell’Africa settentrionale e occidentale. Il piano iniziale non prevedeva che questi lavoratori si costruissero una vita e si stabilissero in Francia. Erano contenuti in aree specifiche: prima negli slum, e poi in Projects –“cités”– alla periferia dei grandi centri urbani. Queste aree sono diventate note come le“banlieues”.
Negli anni ‘70, quando divenne ovvio che i lavoratori neri e arabi erano una parte permanente della popolazione francese, sono diventati un problema politico. I partiti politici che si sono succeduti al potere hanno adottato una politica di eccezione. L’obiettivo era mantenere i confini razziali e controllare una categoria di persone costantemente conteggiata e descritta come una minaccia per l’ordine sociale. Di conseguenza, i quartieri di immigrati della classe operaia sono stati gestiti principalmente attraverso la polizia. La polizia (e le prefetture da cui dipende la polizia locale) sono quasi esclusivamente responsabili della gestione e del controllo delle attività quotidiane nelle “cités”, che sono diventate luoghi di sperimentazione per il marchio francese di polizia. Gli abitanti di questi quartieri subiscono quotidianamente umiliazioni, intimidazioni e ritorsioni da parte della polizia. Oltre ad essere esclusi dalla vita politica del Paese, i giovani di origine immigrata sono costantemente controllati, insultati e arrestati. Allo stesso modo, vengono pesantemente criminalizzate tutte le attività e i mestieri da cui dipendono i più precari per sopravvivere.
Le rivolte devono anche essere intese nel contesto della lunga storia di omicidi di polizia a sfondo razziale in Francia. In Francia, come negli Stati Uniti, l’uso gratuito della violenza contro individui che sono così esclusi dalla concezione dominante dell’umanità è uno dei meccanismi che producono e mantengono le categorie razziali. La polizia ha ucciso centinaia di giovani neri e arabi dagli anni ‘70. In parte, questo è il risultato dell’intensa e continua presenza della polizia nei quartieri degli immigrati; più in generale, è una conseguenza materiale del razzismo strutturale che definisce il rapporto tra lo Stato francese e i giovani le cui famiglie sono immigrate in Francia dopo gli anni Sessanta, in mezzo al graduale smantellamento dell’impero coloniale francese. Per decenni, le persone nei quartieri hanno assunto posizioni politiche esplicite contro la violenza della polizia. Nel 1983, la gente ha organizzato la “Marche pour l’Egalité” (Marcia per l’uguaglianza) in risposta a una serie di omicidi della polizia nei sobborghi di Lione e Marsiglia. Ogni dieci anni dal 1979 si sono verificate massicce rivolte nella città di Vaulx-en-Velin, un simbolo della violenza della polizia statale contro i giovani non bianchi.
Creato nel 1995, il “Mouvement Immigration Banlieue” si è battuto per “verità e giustizia” (vérité et Justice) per le famiglie delle vittime di “errori della polizia” (l’eufemismo che gli apologeti usano per descrivere atti di estrema brutalità della polizia). Era un’organizzazione auto-organizzata e autonoma che rifiutava i discorsi dei principali partiti politici. Nel 2000 è stato sfrattato dal suo spazio a Parigi. Nel 2005 è scoppiata un’insurrezione dopo che due adolescenti, Zyed Benna e Bouna Traoré, sono morti dopo essere stati inseguiti e molestati dalla polizia a Clichy-sous-Bois, a nord di Parigi. Tra i tanti ricordiamo Lamine Dieng, assassinata dalla polizia nel 2005; Adama Traoré, assassinato dalla polizia nel 2016; Théo Luhaka, violentato dalla polizia nel 2017; Ibrahima Bah, ucciso dalla polizia nel 2019. Ogni volta è lo stesso scenario: la polizia commette un omicidio, poi mente per proteggersi. A volte, lì un video o una protesta sfidano la narrazione della polizia, fornendo prove sufficienti per costringere le autorità ad aprire un caso contro l’assassino. Ma le procedure legali contro i poliziotti non si concludono quasi mai con una condanna. In Francia, la legge serve gli interessi dello Stato (e non solo in Francia, ndr); in pratica, alla polizia viene concessa mano libera e immunità legale.
In questi giorni abbiamo visto, ancora una volta, che lo Stato protegge chi lo difende. Quando il paramedico che ha curato Nahel dopo che gli hanno sparato al petto ha rivelato ai media il nome dell’ufficiale che lo ha ucciso, è stato immediatamente condannato a 18 mesi di prigione. Per comprendere queste rivolte, dobbiamo vederle anche nel contesto della lotta di classe contemporanea in Francia.
La Francia ha vissuto un movimento sociale a livello nazionale o un’ondata di disordini quasi ogni anno dal 2016. Le rivolte sono diventate parte integrante del linguaggio politico francese e ciò che stiamo vedendo nel 2023 potrebbe essere l’espressione più radicale di ciò fino ad oggi. In altre parole, vista l’impopolarità delle politiche neoliberiste attuate con forza in Francia dal 2016, i governi di François Hollande ed Emmanuel Macron sono riusciti a restare al potere solo grazie alla violenza della polizia. Poiché comprendono le relazioni di potere strutturanti che collegano lo stato, il governo, la polizia e la popolazione, i sindacati di polizia di destra e fascisti si sono organizzati metodicamente per concentrare sempre più benefici sociali nelle loro mani, così come i vantaggi tecnologici e mezzi legali per infliggere violenza a tutti gli altri. Ad esempio, nel 2017, una legge ha dato alla polizia il diritto (e quindi l’incentivo) di usare armi da fuoco quando un individuo si rifiuta di collaborare con loro. La conseguenza diretta di questa legge è stato un drammatico aumento del numero annuale di omicidi da parte della polizia. Prima del 2017, la polizia (ufficialmente) uccideva ogni anno dai 15 ai 20 giovani neri e arabi; quel numero è salito a 51 nel 2021 e da allora ha una media di 40. Più in generale, ogni anno sono stati assunti sempre più nuovi ufficiali, con sempre più attrezzature a loro disposizione. La polizia militarizzata infligge una repressione sistematica contro i movimenti sociali; la sempre più rapida militarizzazione della polizia è uno dei fattori che spiega il sentimento di impotenza che caratterizza alcuni uomini di sinistra in Francia. Concretamente, questo crea condizioni di vita tese e precarie per molti, soprattutto per le donne che vivono nei quartieri di immigrati. Le nostre madri. Per quanto riguarda l’attuale ondata di disordini, posso solo parlare dalla mia posizione, descrivendo ciò che ho visto nella città in cui vivo, nella periferia vicino a Parigi.
Il movimento ha utilizzato tre tattiche principali, tutte molto efficaci: scontri violenti con la polizia, distruzione di “simboli” della Repubblica e saccheggi.
Gli scontri con la polizia sono avvenuti per lo più all’interno dei progetti, i “quartieri”. “Accendili!” Tutti hanno visto queste immagini: i poliziotti vengono assaliti con fuochi d’artificio, molotov, sassi e mobili da esterno da persone in tenuta black bloc, spesso molto giovani. Alcune delle azioni offensive che si sono verificate di notte potrebbero essere motivate meno dalla solidarietà con Nahel in particolare che da un desiderio più generale di vendicarsi di coloro che controllano, umiliano e picchiano le persone ogni giorno. È come se l’equilibrio di potere avesse temporaneamente cambiato posizione. Nel momento del confronto non ci sono slogan, né messaggi di sinistra, solo la volontà radicale di contrattaccare. La maggior parte dei gruppi partecipanti è composta da giovani, prevalentemente uomini, che si conoscono da molto tempo. Le persone impegnate in queste tattiche non hanno alcun desiderio di mediazione.
I giovani partecipanti, molti dei quali adolescenti, sono metodici. Hanno attaccato gli uffici del comune, i municipi e le sedi del potere esecutivo, tutto per ovvie ragioni. Ma stanno anche attaccando le scuole che segregano, escludono e costringono le persone a entrare nel sistema capitalista; le stazioni di polizia in cui i poliziotti catturano i loro amici e li picchiano; le telecamere di sorveglianza che ne monitorano i movimenti; infrastrutture di trasporto pubblico, che sono rare nei “quartieri” e spesso di nuova costruzione per trasportare i gentrificatori alle loro case suburbane appena ristrutturate; e i cantieri per la costruzione di nuove infrastrutture, immediatamente obsolete, per i Giochi Olimpici, che stanno giocando un ruolo significativo nella gentrificazione delle periferie. Infine, il movimento ha mostrato la sua forza creativa nel campo del saccheggio, in particolare nel ruolo che hanno svolto auto e scooter. Le auto vengono utilizzate per forzare porte e recinzioni, mentre gli scooter consentono una rapida uscita in seguito. Anche gli scooter giocano un ruolo cruciale negli scontri con la polizia. Senza entrare troppo nel dettaglio, la mobilità è fondamentale per le battaglie che si svolgono di notte. Cosa viene saccheggiato? Quasi tutto, ma contrariamente alla narrativa dei media aziendali, la maggior parte dei saccheggi non è festosa o divertente: la stragrande maggioranza di ciò che viene preso sono semplicemente beni di prima necessità e farmaci. Ciò implica che il movimento suscitato dalla morte di Nahel esprime anche un rifiuto fondamentalmente anticapitalista della precarietà e dell’alto costo della vita. Sentito per caso alle 4 del mattino nel supermercato del quartiere: “Prendo tutto questo per mia mamma”.
Nonostante la natura profondamente universale del sentimento politico al centro dei disordini e la centralità della lotta alla brutalità della polizia nei movimenti sociali dal (almeno) 2016, la possibilità di un’alleanza tra la sinistra e i giovani rivoltosi rimane tenue. I politici di sinistra chiedono in gran parte la pace e la riconciliazione, immaginando progetti di “riforma di una polizia repubblicana” che “riaprirebbero il dialogo tra la polizia e il popolo” (“refonder une police républicaine” e “rétablir le dialogue entre la police et sa Population”).
La sinistra rivoluzionaria (principalmente trotskista in Francia) sostiene il “Comité Vérité et Justice pour Nahel” formato da familiari e stretti sostenitori, sul modello del “Comité Vérité et Justice pour Adama” e della famiglia Traoré, ma non ha non ha preso alcuna posizione pubblica riguardo all’attuale rivolta. Per quanto riguarda gli anarchici e altri gruppi autonomi, stanno ancora trovando una loro base, per lo più mantenendo ruoli di osservazione, supporto legale e logistico, anche se alcuni di noi partecipano attivamente alle rivolte. Alla fine, il movimento va avanti a prescindere, e i giovani che partecipano non sono particolarmente preoccupati per i gruppi di cui non si sentono parte.

2 luglio 2023, liberamente tratto da it.crimethinc.com


Aggiornamenti dalla lotta contro i campi di internamento
Rivolte nel CPR di Pian del Lago (Caltanissetta) e nel CRA (Centre de rétention administrative) di Canet, a Marsiglia. Apprendiamo della recente rivolta portata avanti da circa una cinquantina di reclusi nel CPR di Pian del Lago, a Caltanissetta. Durante la protesta contro il trattenimento e le deportazioni coatte, i prigionieri hanno lanciato sassi contro le guardie e incendiato dei materassi all’interno dei settori, per poi salire sul tetto della struttura.
Condividiamo anche degli aggiornamenti rispetto alla grossa rivolta scoppiata la notte del 30 giugno nel CRA (centre de rétention administrative) di Canet, a Marsiglia. In seguito all’incendio divampato in due settori del centro, diverse persone sono rimaste ferite a causa della risposta repressiva delle guardie, che hanno pestato i detenuti, privandoli poi di acqua, elettricità e materassi e vietando le visite di parenti e amici.
Il giorno seguente alcuni prigionieri sono stati ricoverati in ospedale in gravi condizioni, altri sono stati trasferiti nel centro di detenzione di Nimes, altri ancora presi in custodia dalla polizia nei commissariati di Marsiglia per poi essere nuovamente trasferiti nel centro. Diverse ore dopo si è appresa la notizia della morte di A., deceduto in ospedale dopo diverse ore di coma. Dopo aver saputo della morte dell’amico, un recluso ha tentato il suicidio. (4 luglio 2023, da nocprtorino.noblogs.org)

Accade al Cara-lager di Caltanissetta. Ad appena tre giorni dal primo corteo, reiterata protesta da parte dei richiedenti asilo del CARA di Pian del Lago. La mattina del 29 agosto e del 1 settembre, sfidando le minacce e le false promesse delle forze dell’ordine e delle autorità, un centinaio di ragazzi, quasi tutti di etnia subsahariana, sono scesi in strada, bloccando il centro cittadino di Caltanissetta. «Vogliamo essere trasferiti, qui non ce la facciamo più», la frase più ricorrente. Dopo l’odissea per arrivare a imbarcarsi sulle coste africane, la traversata in mare, i mesi parcheggiati nell’hotspot, se nel Centro di accoglienza per richiedenti asilo, ennesima trappola di questo gioco dell’oca infernale, ci si ritrova a dover mendicare il pasto quotidiano, l’esasperazione sfiancherebbe chiunque. Dei corsi di formazione e d’italiano, della consulenza legale in attesa della decisione della commissione territoriale neppure l’ombra. Da oltre un anno tanti sono costretti a sopravvivere in una struttura fatiscente, sporca, senza docce, servizi, persino cibo sufficiente per tutti.
La cooperativa Essequadro, vincitrice d’appalto, non fornisce come da contratto: vestiti, biancheria, prodotti per l’igiene, scarpe. Eppure la normativa prevede che la convocazione arrivi a trenta giorni dalla presentazione della domanda. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’assicurazione tradita da parte della Prefettura che sarebbe arrivato al più presto il pagamento dei pocket money arretrati, i pochi spiccioli che ogni richiedente asilo ottiene per le spese personali, cibo e vestiti. Ma, come troppo spesso avviene, al posto delle somme dovute, sono arrivate sigarette e schede telefoniche, neanche sufficienti per tutti, una vera e propria umiliante presa in giro.
I manifestanti hanno inoltre colto l’occasione per poter denunciare le ancor più gravi situazioni dell’attiguo CPR. In strada hanno confidato le condizioni dei «prigionieri», così vengono chiamati i dannati dei Centri di permanenza per il rimpatrio con cui ogni contatto è vietato. «Ogni notte sentiamo le loro proteste e ogni notte vengono colpiti con lacrimogeni. I fumi arrivano anche da noi». Legali di associazioni che hanno dovuto penare non poco per avere il permesso di un’ispezione hanno parlato di una struttura sporca e fatiscente, in cui psicofarmaci come il Rivotril vengono somministrati a fiumi e senza prescrizione. Quasi totalmente assente l’assistenza medica e legale.
«Un mio assistito è stato portato dentro sabato, non è mai riuscito a parlare con un operatore legale, spiega un’avvocata. Fortunatamente è riuscito a contattarmi, sono andata al centro e ha potuto formalizzare oralmente la nomina. Altrimenti martedì avrebbe dovuto affrontare l’udienza di convalida da solo, assistito da un difensore d’ufficio che non sapeva nulla del suo caso». Anche la comunicazione dall’interno del centro è organizzata per frustrare e alienare chi vi è ospitato. All’ingresso i cellulari vengono sequestrati e sostituiti con schede telefoniche, con pochissimo credito. «I cpr sono dei non luoghi. Paradossalmente, all’interno di un carcere ci sono codici, regolamenti, procedure, all’interno del CPR tutto è indefinito ». E’ con questi luoghi di tortura e la previsione di nuove strutture in ogni regione, che il governo punta a raggiungere l’obiettivo che sempre più persone rimangano stritolate. (Milano, settembre 2023)

I CPR grondano sangue, anche a Milano. Sono giorni in cui fatichiamo a stare dietro tutte le segnalazioni che ci arrivano dal CPR di Milano: a quanto raccontato negli scorso giorni circa il caldo insostenibile, gli sciami di zanzare, le cimici e l’autolesionismo quotidiano, vanno già aggiunto il caso di una persona che poco dopo aver mangiato ha rimesso ed è svenuta, e di un rilevante numero di persone che avverte dolori ma non viene portata in infermeria; oggi gira voce che ancora una volta siano stati trovati vermi nella pasta.
E ancora una volta, all’origine dell’atto di autolesionismo di poche ore fa – del quale abbiamo solo le tracce lasciate sul pavimento da pedate evidentemente passate in un abbondante quantità di sangue – ci sarebbe il mancato accesso in infermeria di una persona che reclamava cure mediche da ore senza essere ascoltato.
Solo tagliandosi ripetutamente coscia e polpaccio, ha ottenuto un accesso in infermeria: al di là delle necessità sanitarie, un miraggio, per chi è rinchiuso in quella scatola rovente di reti, sbarre e plexiglass.
A farlo sarebbe stata la stessa persona della quale vi avevamo raccontato diverse settimane fa, già svenuta e rimasta senza soccorso a giacere su una coperta in cortile.
La cosa che non deve accadere è che Milano si abitui a tutto questo, ad una fortezza nella quale in nome della legge la legge non vige, la frontiera interna dove è le legittimata la violenza contro un nemico immaginario costruito a tavolino, il luogo in cui, per sicurezza di cittadini e cittadine, esseri umani vengono fatti a pezzi del corpo e nella psiche e tutto questo viene considerato legale e magari anche giusto e necessario.
In questo contesto, non solo sono deleterie e controproducenti, ma anzi funzionali al meccanismo sul quale si fondano i CPR, quelle visioni e quelle pratiche che guardano a questi ultimi come un luogo da monitorare sul quale vigilare per la tutela dei diritti.
Ancora non si è capito infatti che è l’istituto stesso del CPR e della detenzione amministrativa ad essere una inevitabile e anzi deliberata e ricercata e voluta violenza di Stato ed una lesione dei principi fondamentali che si fregia di voler proteggere dall’ “invasione” degli “irregolari”, ai quali – altrettanto volutamente – non si dà nessuna possibilità di non esserlo.
E fino allo sfinimento aggiungeremo che non meno orrenda della detenzione amministrativa è la deportazione delle persone, da troppi e da troppe (anche tra coloro che avversano la detenzione amministrativa) ritenuta comunque necessaria e dovuta.
Da un lato la deportazione infatti è una pratica disumana, e dall’altro non risolve neppure quello che viene indicato come “problema emergenziale” mentre è un fenomeno fisiologico inarrestabile; non funge neppure da deterrente per chi è intenzionato a partire, e neppure per chi viene rimpatriato.
Le ultime parole che ci dicono da Malpensa, prima di vedersi sottratto il telefono ed essere legati (e spesso malmenati e sedati), sono quasi sempre: “Tornerò”.
Specie quando qui lasciano affetti, relazioni, spesso figli e compagne, pezzi di vita. (Luglio 2023, da FB NoaiCPR)

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se volete i pomodori dateci le case e i documenti!
Ieri 10 agosto, in piena stagione del pomodoro, i lavoratori residenti sull’ex pista di Borgo Mezzanone hanno bloccato il ghetto – il maggiore bacino di reclutamento di tutto il distretto agricolo – dando vita ad uno sciopero che ha riguardato il lavoro di raccolta dell’intera provincia di Foggia. Fin dalle prime ore del mattino i lavoratori residenti sull’ex pista hanno deciso di non andare a lavorare e di dare vita a una protesta davanti ai cancelli del CARA adiacente al ghetto, dove ha sede anche la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale.
Le richieste erano chiare: un cambiamento reale delle politiche migratorie che lasciano sempre di più migliaia di persone senza documenti, a partire dalle disposizioni dell’ultimo decreto Cutro, e soluzioni abitative per tutte le persone che abitano il ghetto di Borgo Mezzanone, anche alla luce dei recenti incendi – di cui l’ultimo due giorni fa – che continuano a distruggere le case, gli effetti personali, magari i documenti.
Ai dirigenti della Questura che si sono immediatamente recati sul posto i lavoratori hanno chiesto di interpellare anche la Prefettura e tutti i responsabili del campo container adiacente al CARA, contenente 130 moduli abitativi pronti all’uso da circa tre anni ma che non sono mai stati aperti.
I lavoratori ne chiedono l’immediata apertura senza aspettare la fine di agosto: una tempistica stabilita dal Prefetto senza senso, visto che i container sono pronti e che la stagione è cominciata da settimane.
La rabbia di fronte al rifiuto del Prefetto di recarsi sul posto, dove le persone in sciopero pretendevano di incontrarlo tutte insieme, ha spinto i lavoratori prima davanti al cancello del campo container chiuso e poi a fare irruzione dentro, iniziando un presidio di diverse ore tra quei moduli di cui mancano ormai soltanto le chiavi.
Le uniche risposte che il dirigente dell’Ufficio Immigrazione e il vice Questore sono riusciti a dare ai lavoratori sono state bugie e prese in giro. E alla domanda sul perché alcuni dei container fossero stati rimossi è stato risposto che erano stati portati al campo costruito per i lavoratori e le lavoratrici bulgare sgomberati qualche settimana fa a Stornara. Una guerra tra poveri istituzionalizzata.
Alla determinazione e l’insistenza del presidio la polizia ha soltanto risposto con gravi provocazioni durante tutta la giornata, arrivando ad inviare una camionetta della celere per intimidire e poi perfino ad estrarre una pistola in reazione a qualche calcio tirato ad un container dopo ore di attesa sotto il sole cocente.
Anche questa volta i responsabili istituzionali di questo sistema di sfruttamento e precarietà sono riusciti a fare muro davanti a chi avrebbe diritto ad una casa e non riesce nemmeno ad entrare in un container; a chi spaccandosi la schiena fa andare avanti l’economia di un paese intero, rischiando tra l’altro di morire di lavoro ogni giorno: come successo il 7 agosto nel ghetto di Rignano, dove un lavoratore maliano, Famakan Dembele è morto di fatica dopo una giornata di lavoro.
Il vostro silenzio non ci spaventa, noi andiamo avanti. Case documenti contratti per tutt.

11 gosto 2023, da campagneinlotta.org

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Milano: sullo sgombero degli ex bagni pubblici di via Esterle
Martedì 29 agosto alle ore 6:00 sono iniziate le operazioni di sgombero degli abitanti dello stabile comunale di via Esterle 15 eseguite dalla Questura di Milano con la presenza di diversi rappresentanti della Casa della Cultura Musulmana che si era aggiudicata il bando comunale per la realizzazione di un luogo di culto e che il 10 luglio aveva stipulato con il Comune l'atto di cessione del diritto di superficie.
I primi che hanno cercato di forzare la porta di ingresso dello stabile non sono stati però gli agenti delle forze dell'ordine, ma tre persone - due uomini e una donna – che hanno spinto con forza la porta e rotto alcuni vetri senza però riuscire ad accedere all'interno dei locali. Un gruppo che poi abbiamo visto riunirsi con la delegazione della Casa della Cultura Musulmana. Un'azione di cui è difficile comprendere le ragioni che potrebbero risiedere solo in una ostentazione, arrogante e meschina, di una nuova proprietà ostile verso gli ultimi, anche quando questi sono della stessa fede religiosa di cui quel luogo dovrebbe essere in futuro la casa.
A questa ostentazione va aggiunto il silenzio di questi ultimi giorni dell'Amministrazione comunale che non ha rilasciato alcuna dichiarazione pubblica fino al giorno dello sgombero quando al TGR Lombardia è stata riportata una dichiarazione della vicesindaco Scavuzzo: "Il dialogo resta aperto. Non possiamo farli passare davanti a chi è nelle stesse condizioni. La Casa della Cultura Mussulmana ha vinto il bando e ha tutto il diritto di realizzare la moschea".
Questo comportamento mostra ancora una volta l'atteggiamento ipocrita di chi si fa portatore di una politica sociale accogliente e inclusiva ma poi nei fatti, a conclusione di una vicenda durata più di un anno, propone come un'unica soluzione un elenco di pensionati che risulteranno poi tutti al completo.
Dimostrazione che se le soluzioni non vengono costruite con una politica attenta ai bisogni dei ceti medi e bassi, queste non saranno disponibili all'occorrenza, tanto più se l'attenzione è essenzialmente rivolta ad attrarre grandi investitori immobiliari privati, ai quali la città di Milano garantisce vantaggi incomparabili in Europa rinunciando ad a un beneficio per l'intera collettività.
Dunque a Milano non c'è contesa tra chi dovrebbe venire prima e chi dopo, come sottolinea la vicesindaco Scavuzzo, poiché le risorse destinate a garantire il diritto alla casa sono talmente esigue da non bastare neppure per le famiglie con minori e le persone più fragili e marginali. Ne sono un esempio l'esiguo numero di assegnazioni di case popolari a fronte di una domanda sempre più crescente (1), la sistematica mancanza di fondi per ristrutturare le migliaia di case popolari lasciate vuote, e una gestione del patrimonio pubblico in perenne emergenza in cui l'eccezione diviene prassi e la deroga alle normative vigenti uno strumento ordinario di amministrazione come dimostrano i casi di via Bolla e via Vaiano Valle.
Tornando allo sgombero, nello stabile comunale di via Esterle abitavano da più di sei anni circa quaranta persone provenienti dall'Africa occidentale che, come abbiamo ampiamente raccontato nei precedenti comunicati e appelli, lavorano con contratti brevi e ricevono salari bassi, che variano mediamente tra 700 a 1.000 euro al mese.
Lavoratori precari le cui condizione sono simili a quelle di centinaia di migliaia di italiani e stranieri che per queste ragioni non riescono ad accedere ai mutui per l'acquisto di una casa oppure ad affittarne una nel mercato libero o calmierato. Persone che sono costrette a vivere nella migliore delle ipotesi in appartamenti sovraffollati senza un regolare contratto d'affitto oppure in stabili abbandonati da anni senza luce e acqua potabile oppure in strada sotto ponti o in parchi pubblici.
In questo panorama sociale, caratterizzato da sfruttamento e ricatto, i movimenti di lotta per la casa hanno trovato nella difesa degli sfratti e nelle occupazioni, di case e edifici vuoti e inutilizzati da anni, l'unica soluzione percorribile per dare dignità a famiglie e persone che non possono accedere nemmeno all'offerta pubblica di case popolari. Un’offerta che diminuisce sempre di più a causa di piani di alienazione o di progetti di gestione pubblico-privato che sottraggono case al patrimonio pubblico per darle a soggetti privati che inevitabilmente devono trarne l'adeguato margine di profitto secondo le regole di mercato.
Tuttavia, nonostante sia palese l'assenza di soluzioni alternative alle occupazioni abitative, si assiste a una crescente criminalizzazione di questa pratica sia da parte dei governi di sinistra che di destra. Ne sono un esempio le leggi, i decreti e le direttive che in questi anni impediscono l'allaccio delle utenze, negano la residenza, aumentano le pene detentive e agevolano i tempi e le procedure di sgombero. (Decreto Renzi-Lupi, Decreto Salvini su sicurezza e immigrazione, Direttiva Ministero dell’Interno su occupazioni).
Questa affermazione e ostentazione della legalità e della sicurezza, che caratterizza anche l’Amministrazione Comunale di Milano che in passato aveva annunciato con enfasi il successo del contrasto alle occupazioni abusive delle case popolari ridotte in dieci anni del 70%, si accanisce però solo sui più poveri e non sanziona con la stessa determinazione coloro che utilizzano, sfruttano, guadagnano imponendo condizioni di lavoro spesso illegali.
In molti casi con il tanto acclamato ripristino della legalità in realtà si sgomberano spazi di socialità, cooperazione e mutualismo, per poi lasciarli a lungo vuoti e nel medesimo stato di abbandono in cui erano prima dell'occupazione. Le persone allontanate invece si ritrovano senza più un tetto ma con gli stessi problemi e le stesse necessità di prima che li costringono a trovare una soluzione immediata e concreta che ancora una volta - in assenza di politiche abitative e sociali efficaci - non può che essere l'occupazione; e ciò avviene in un contesto sempre più repressivo che ne aumenta la marginalità e l'esclusione sociale.
Una consapevolezza ben presente nei movimenti di lotta per la casa che nei prossimi mesi dovranno organizzarsi per costruire una forza sociale più ampia, unita e determinata che sia capace di contrastare le politiche di questo governo che, come quelli precedenti, sono al servizio degli interessi di tutti coloro che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla città e che privatizzano i servizi.
La manifestazione seguita allo sgombero di via Esterle, che ha portato nel tardo pomeriggio alcune centinai di persone in via Padova, ha rappresentato un importante momento di solidarietà e unità che saranno in futuro necessarie alla crescita di qualsiasi percorso di lotta che ambisce a cambiare i rapporti di forza tra le classi senza i quali nulla potrà accadere di buono.

(1) Nel 2022 secondo i dati di Regione Lombardia l'Aler Milano ha pubblicato tre avvisi pubblici, il primo riguardava 781 alloggi e ha ricevuto 17.758 domande, il secondo riguardava 226 alloggi da ristrutturare e ha ricevuto 2.726 domande, il terzo 516 alloggi e 16.462 domande.
Rete solidale Ci Siamo
Milano, 31 agosto 2023


sul “Decreto Caivano
Lo schema rodato del Governo Meloni tra isterismo mediatico ed efficienza penale.
Dall’eccezione alla regola, i decreti legge eterogenei e “mappazzoni” si moltiplicano emergenza dopo emergenza, pronti a rappresentare l’efficienza senza sosta di un Governo che lavora su ogni problema che si presenti.
A quasi un anno dalla formazione del Governo ormai lo schema del suo funzionamento è abbastanza palese. Al fatto che assume rilevanza mediatica corrisponde l’azione massiccia e repentina: all’inizio furono i rave, poi la strage di Cutro, sino agli stupri di gruppo a Palermo e – pochi giorni dopo – a Caivano. Gli episodi citati sono tutti accomunati – per via e per mezzo della loro mediaticità – dall’accrescimento coartato di un senso di insicurezza nella popolazione, creati da “allarmi sociali” veri o presunti tali che appaiono destinati ad ingigantirsi senza sosta se non si interviene nell’immediatezza.
Detto fatto, i supereroi sono pronti ad intervenire con prontezza convocando un immediato Consiglio dei Ministri. Su quel tavolo, ecco il menù tradizionale recante i soliti strumenti a “difesa della collettività”: aumento delle pene e delle misure detentive, carcere duro, più arresti, allontanamenti, avvisi orali, et similia. Dall’eccezione alla regola, i decreti legge eterogenei e “mappazzoni” si moltiplicano emergenza dopo emergenza, pronti a rappresentare l’efficienza senza sosta di un Governo che lavora su ogni problema che si presenti. Il pronto intervento panpenalista è facilissimo e, senza dubbio, economico. Nessun impegno di spesa, nessun intervento della Corte dei Conti sul provvedimento, basta il CdM, un decreto legge che non necessita di nessuna interlocuzione col Parlamento, una pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ed il gioco è fatto.
Diversa è invece l’impostazione istituzionale del Governo dinanzi a questioni nevralgiche che però, oltre a risultare meno adatte ai dettagliatissimi reportage da pornografia del dolore, risulterebbero dannatamente costose. Morti sul lavoro (dalle impalcature ai binari), rischio povertà peggiorato con l’eliminazione del reddito di cittadinanza, inflazione alle stelle, disoccupazione e stipendi da fame. A riguardo, il Governo alza il naso verso Bruxelles senza mettere mai mano a riforme ben che meno al portafoglio. Ritenuta doverosa la premessa per costruire attorno un contesto adeguato, veniamo ora al Cdm del 7 settembre 2023 e al correlato Decreto legge recante misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile. Innanzitutto, non accade spesso, al di là delle emergenze climatiche o catastrofiche naturali (alluvioni, terremoti) che lo Stato prenda dei provvedimenti diretti nei confronti di un Comune. Caivano, 35mila abitanti, 14 km da Napoli, con sindaco democraticamente eletto, avrà un commissario straordinario (Fabio Ciciliano dirigente medico della Polizia di Stato) che dovrà predisporre un “piano straordinario di interventi infrastrutturali e di riqualificazione del territorio comunale”. Tutto questo con il supporto tecnico-operativo della società per azioni Invitalia, cioè l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, connessa al Mef. Nuove opere all’orizzonte, dunque, in un territorio che di opere e di connessi disfacimenti ne conta già abbastanza. Basti pensare alla vicina Scampia, Secondigliano (Na), le cui 2 vele delle 3 rimaste (le altre sono state demolite nel 1997, 2000, 2003, 2020) saranno abbattute nel 2025 grazie a 70 milioni di euro ottenuti solo attraverso il PNRR, e nel frattempo, laddove sorgevano le altre – nonostante le promesse – non è che rimasto un vuoto polveroso, una sorta di ground zero ma di monumento all’ei fu degrado debellato.
Le altre misure che compongono il “mappazzone” sono di taglio generale volte a contrastare la “recrudescenza della devianza giovanile” (vengono utilizzate proprio queste parole). Il Governo ha ritenuto dunque di ampliare le misure tuttora utilizzate per gli adulti anche nei confronti dei minori (per lo più dai 14 anni). Daspo urbano in primis e foglio di via obbligatorio, si potenzia poi la facoltà di arresto in flagranza per il reato di “porto d’armi od oggetti atti ad offendere” e si inaspriscono, fino a raddoppiarle le sanzioni relative a tale reato. Si aumenta anche la pena per il reato di spaccio di stupefacenti nei casi di lieve entità. Novità delle novità, l’ammonimento del Questore per i minori dai 12 ai 14 anni, in questa nuova e peculiare forma i genitori dovranno recarsi assieme al figlio/a dinanzi al Questore e risponderne direttamente con un’ammenda dai 200 fino ai 1000 euro. Si inseriscono nel solco anche i provvedimenti volti a vietare i dispositivi elettronici ai minori interessati da tali reati. Si interviene poi in maniera molto incisiva sul processo penale a carico di imputati minorenni per quanto riguarda l’accompagnamento presso gli uffici di polizia in caso di flagranza e la custodia cautelare. A chiusura del decreto, vengono “buttati sul tavolo” 6 milioni di euro per potenziare gli istituti scolastici dell’intero meridione, con potenziamento del corpo insegnanti, laddove vi siano situazioni di dispersione scolastica.
Tale decreto fa seguito ad un blitz massiccio che ha portato al Parco Verde di Caivano (frazione residenziale) un totale di 400 interforze di polizia. Un’operazione ingente assolutamente simbolica. Non serve essere investigatori della Procura distrettuale antimafia per capire che in un momento del genere, in cui i riflettori di tutt’Italia venivano puntati su Caivano, chi doveva sbarazzarsi di qualcosa l’aveva anzitempo già fatto. SI tratta di agenti provenienti da decine di corpi di polizia – numeri degni di un’operazione bellica – hanno quindi, a finale, rinvenuto 44 mila euro (forse una settimana di proventi di spaccio?), 800 grammi di cannabis e degli esotici scoiattoli di Prevost (veri!). Come volevasi dimostrare: la criminalità aveva già ampiamente delocalizzato altrove, in attesa che i riflettori si spegnino repentinamente per riaccendersi altrove, dinanzi all’ennesimo caso ghiotto per telecamere, giornalisti e macchine del fumo.

9 settembre 2023, da globalproject.info


Lettere dal carcere di Napoli-Secondigliano
Utopia Democratica
La giustizia si è frantumata. La democrazia non è mai esistita. Lo Stato, giorno dopo giorno, mostra il suo volto. Sin dai tempi antichi il popolo ha sempre nutrito nei confronti dei primi giudici, delle figure politiche o semplicemente dei rappresentanti della Polis un misto di emozioni. Timore, fiducia, rispetto, paura, si facevano largo tra le menti meno erudite, menti plasmate dall’inedia del sapere ove nessuno ha colpe, perchè quando si ha fame, la priorità è quella di portare a casa il pane.
Oggi non viviamo più avviluppati da tale inedia. Oggi i mezzi di informazione e comunicazione sono molteplici e alla portata di tutti. Oggi non abbiamo scusanti. Girarsi dall’altro lato vale a dire scegliere di non vedere, scegliere di non far nulla, scegliere l’indifferenza. Oggi il nostro paese è amministrato da una casta inquinata, marcia e corrotta, il cui dispotismo e la cui tirannide sono ben celati dai tanto sbandierati principi democratici, e tutelati da una totale impunità auto applicata. L’uso indiscriminato di mezzi di coercizione, l’abuso giuridico e le campagne mediatiche del fango la fanno da padrone.
La politica del dopo Mani Pulite ha aperto le porte alla magistratura dispensando poltrone in cambio di silenzi, stringendo accordi e favorendo una legislazione che le attribuisce poteri immensi, svincolandola da ogni responsabilità. La democrazia ha radici tanto nobili quanto utopistiche. I filosofi della storia ne tracciano i punti cardine: Eleuteria, la libertà del popolo, libertà sempre astratta in una società del controllo; Isònomia, il principio secondo il quale la legge è uguale per tutti, tale principio non trova valenze nelle aule di tribunale. Tali principi si riducono a una mera pragmatica dello Stato, dove chi detiene il potere ha di fatto la facoltà abbietta di cambiare le carte in tavola a proprio piacimento.
All’interno di una società di controllo chiunque manifesti un pensiero divergente da quello collettivo viene etichettato come l’oppositore di turno, il nemico da distruggere, rinchiuso, isolato, deriso, stigmatizzato, persino privato della propria libertà. Lo spettro di un regime sempre più totalitario avanza tra noi. Qualcuno dirà che la lotta è una follia, che siamo destinati a fallire fin dall’inizio. Molti di voi hanno paura di perdere ciò che hanno di più caro, la propria libertà (se così si può chiamare), è lecito. Preferite rimanere inermi aspettando che siano altri a lottare per voi, per la vostra libertà? Cosa siete disposti a fare? (Robber)

Piccole riflessioni
“Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai reso migliori gli uomini mi ha spinto a esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo ben organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi […]” (C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, XXVIII “Della pena di morte”, pp. 31, 38-9, 1764).
È pazzesco che già a fine 700 si parlava e ci si rendeva conto dell’abominio della pena di morte, tanto che Beccaria aggiungeva nei suoi scritti: “Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità”. Senza tornare sempre sui soliti argomenti, ossia, come l’ergastolo che altro non è che una pena di morte vada in contraddizione con la funzione di emenda garantita dall’art. 27 e 3 Cost., ecc. ecc. ecc. Ho iniziato a pormi delle domande leggermente diverse. Facendo inizialmente riferimento a quel pezzo estrapolato dal testo di Jean Jacques Rousseau “Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare ‘Questo è mio’, e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile, quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse avesse gridato ai suoi simili: ‘Guardatevi dall’ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi sarete perduti”. Un pezzo che mi piace tantissimo. Come dicevo, facendo riferimento a quanto appena scritto, non posso non soffermarmi sulle parole di Rousseau e sulla loro importanza. Rousseau ci fa notare come la terra e i suoi frutti siano di tutti. Ci richiama all’attenzione facendoci capire che siamo solo di passaggio su questo pianeta, che esisteva, e che esisterà anche dopo di noi. Noi lo coabitiamo, insieme agli animali e alla natura, non ne siamo i padroni. I confini, i territori, gli spazi sono stati tutti occupati con il predominio e con la forza, i famosi paletti. Gli Stati sono nati con l’uso della forza, sono, anzi la loro legittimazione si basa sul sangue versato nei secoli. Noi dovremmo poter vivere in un mondo libero in cui la terra è di tutti. A questo punto mi viene da chiedermi: “Chi siamo noi per incatenare e rinchiudere i nostri simili, e non solo, nelle gabbie, nelle carceri? Chi siamo per decidere della vita altrui?” La lotta prima ancora di mirare allo Stato deve mirare al consenso popolare, perché è tramite il nostro tacito consenso che noi legittimiamo lo Stato ad agire nel modo più repressivo possibile. Tramite il nostro silenzio costruiamo le nostre prigioni, bisogna tornare a lottare.
Contro ogni galera. Solidarietà a tutti i prigionieri e a tutti i combattenti anarchici, rivoluzionari, politici e ribelli. Che la scintilla della lotta possa trasformarsi in un focolaio.

Claudio Cipriani
C. P. Secondigliano Reparto Mediterraneo
via Roma verso Scampia n. 350 - 80100 Napoli

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Ciao carissima OLGa! È stato davvero un piacere immenso ricevere il vostro piego con l’opuscolo + il libro “Pensare l’impensabile tentare l’impossibile” tratto da un pensiero di Alfredo che ho sempre fatto mio, solo che preferisco andare a “realizzare l’impossibile” senza “tentare” di farlo, qualunque sia l’esito che sarà sempre un’arricchimento individuale rispetto a prima. Vabbè son dettagli scusate. Sono contento dei risultati che è riuscito ad ottenere e mi auguro che Alfredo recuperi senza problemi irreversibili. Finalmente ha fatto anche cessare questa logica del mito del martirio che stava alimentando anche una parte di movimento. Un’abbraccio.

29 maggio 2023
Davide Delogu, via roma verso Scampia, 350 - 80144, Napoli
Lettera dal carcere di Bancali (SS)
Cara Olga: spero che questa mia lettera vi trova bene in salute. Io Boyahia Ahmadi ti scrivo dal carcere di sassari. Ho finito la mia condanna in alta sicurezza e mi è rimasto ancora qualche anno per finire tutto se dio vuole. Ho ricevuto due lettere da parte tua quando sono tornato da Terni. Mi auguro che lei stia bene.
Ho deciso di scriverti due righe parole della mia permanenza qua nel carcere di Sassari, è un carcere senza regole, diritti e un carcere fai da te. Volevo dirti che questi qua del carcere mi tengono ancora in carcere di alta sicurezza, anche se la condanna di alta sicurezza l’ho finita tutta. Ho fatto la richiesta di trasferimento nella sezione dei comuni ma non me lo hanno permesso. Purtroppo è un carcere peggio di quello di Egitto. Poi mi hanno fatto un errore di una condanna vecchia, era una condanna di sei mesi, e questi me la hanno fatta diventare 1 anno e 6 mesi. Poi ho fatto il sollecito ma non mi hanno risposto per questo errore. [...] Salutami tutti gli amici di Terni da parte mia. Grazie di cuore da parte mia per la tua disponibilità. Ciao a tutti gli amici e a te. Con affetto.

Bouyahia Hamadi, strada provinciale 56, n.4 - 07100 Bancali (Sassari)


Lettera dalla REMS di Volterra (PI)
Cari compagni di OLGA vi scrivo in questa torrida giornata d’estate (e forse avrei dovuto farlo prima...) per salutarvi ma soprattutto per ringraziarvi del sostegno e della vicinanza che mi avete donato in tutti questi anni, ci “conosciamo” ormai da più di 10 anni e per me siete stati dei compagni di viaggio importanti e preziosi.
Vi comunico che è da qualche mese che non ricevo vostre notizie, spero che sia solo un problema di posta e che si possa risolvere. Tra meno di 10 mesi dovrei andare in comunità, ancora non so dove, forse è un po’ presto, ma inizio a essere impaziente e penso di aver bisogno di cambiare “aria”, e poter iniziare, anche se un passo alla volta, a riacquisire la perduta libertà. Non vi ho mai raccontato precisamente la mia esperienza quaggiù alla REMS perchè devo dire che non sono stato particolarmente male... Ma poi ho sempre pensato che la mia vicenda e quella di questo posto fossero un po’ marginali rispetto alle lotte che portate avanti voi.
Ho sempre tenuto un profilo basso e anche se spesso ho dovuto ingoiare rospi belli grossi , o attuato in struttura un comportamento il più possibile corretto e “equilibrato” che secondo me per quanto riguarda la mia esperienza ha pagato. Intraprendere delle lotte in questo posto è molto difficile c’è sempre il rischio di essere fraintesi perchè considerati “pazzi” e si corre il pericolo di essere ricattati con la contenzione farmacologica, un altro motivo è che all’esterno non c’è un movimento che possa fare da intermediario per supportare le nostre lotte e questo non è poco. Comunque fermo restante che ideologicamente resto dell’idea che posti del genere non vanno riformati o migliorati, vanno semplicemente cancellati e secondo me in un mondo più umano le persone con disagio psichico dovrebbero essere reinserite direttamente nella società (e ancor più azzardato, credo che in una società migliore il disagio psichico sarebbe percepito in tutt’altro modo).
Detta questa piccola riflessione vi saluto con tanto affetto e stima e spero di poter avere presto tra le mani il vostro opuscolo.
Un abbraccio solidale Alberto.

Mennucci Alberto, REMS-D 2, Borgo San Lazzaro 5 - 56048 Volterra (Pisa)

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RESOCONTO PRESIDIO in SOLIDARIETA’ ALLE VITTIME DEI MALTRATTAMENTI alla STELLA MARIS a Pisa
Nonostante l’ennesimo rinvio dell’udienza prevista martedì 20 giugno, rinvio funzionale ad allungare sempre di più i tempi rendendo la giustizia meno giusta e sfiancando le famiglie e le parti civili coinvolte, si è svolto ugualmente il presidio sotto il tribunale di Pisa per i maltrattamenti avvenuti nell’estate del 2016 all’interno della struttura di Montalto di Fauglia gestita dalla Fondazione STELLA MARIS. Sono 25 le famiglie coinvolte, genitori delle ragazze e dei ragazzi con autismo maltrattati, insultati e picchiati per mesi all’interno della struttura di Fauglia.
La scorsa settimana Roberto Cutajar, direttore generale della Stella Maris, è stato assolto nel secondo grado del processo dalla corte d’appello di Firenze. In primo grado era ricorso al rito abbreviato ed era stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione. La sentenza era attesa da mesi, il processo aveva dovuto subire vari rinvii per la mancata trasmissione di atti da Pisa a Firenze (atti che Pisa sosteneva di aver inviato e Firenze di non aver ricevuto). Le parti avevano già discusso da oltre un anno e il procuratore generale aveva chiesto la conferma della condanna di primo grado. Ma improvvisamente, durante l'ultima udienza (quella definitiva), si è presentato di fronte agli avvocati un nuovo collegio. Sì, avete capito bene: un collegio composto da tre magistrati diversi rispetto a quelli che avevano seguito dall’inizio tutte le fasi processuali!!! Questo collegio in nuova composizione ha ribaltato la sentenza di primo grado, non ha condiviso la richiesta di condanna del procuratore generale e ha abbracciato il teorema difensivo.
Il 19 giugno, il giorno precedente l'udienza per il procedimento che vede imputati per maltrattamenti 15 persone fra operatori e dottori, è giunta la notizia che il giudice non ha concesso l’autorizzazione alle telecamere della Rai a riprendere l’udienza con la seguente motivazione: "non rinvenendosi un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento". Sottolineiamo che è semplicemente scandaloso che la sorte di 25 persone con autismo e delle loro famiglie non presentino per un tribunale alcuna rilevanza sociale.
Il presidio è stata un'ottima occasione d’incontro fra diversi familiari che hanno avuto figli vittime di maltrattamenti e che hanno potuto confrontarsi e raccontare la loro storia. Non lasceremo sole le vittime e i loro familiari, infatti continueremo a portare la nostra presenza solidale anche alla prossima udienza, prevista per ottobre. Non ci interessa la giustizia dei tribunali. La triste vicenda di Montalto di Fauglia svela e mette sotto gli occhi di tuttə i dispositivi mortificanti insiti in questa tipologia di istituzioni totali, dove la possibilità di sopraffazione e la mancanza di trasparenza creano spesso le condizioni per soprusi e violazioni dei diritti e della dignità delle persone.
VERITA’ SUGLI ABUSI ALLA STELLA MARIS, SOLIDARIETA’ ALLE VITTIME DEI MALTRATTAMENTI!

Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud, via San Lorenzo 38, 56100 Pisa
antipsichiatriapisa@inventati.org, artaudpisa.noblogs.org, 3357002669

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Assemblea Antipsichiatrica: CHI SIAMO
Siamo dei collettivi antipsichiatrici e singole persone da anni impegnate, sul territorio, a contrastare le pratiche della psichiatria. Il nostro impegno consiste nell’osservazione, nell’analisi, nel monitoraggio attivo del ruolo sempre più ingombrante che la psichiatria si vede riconoscere all’interno della società, ponendo particolare attenzione alle modalità e ai meccanismi attraverso i quali essa si espande sempre più capillarmente e trasversalmente. Tale tendenza si è ingrandita e rafforzata durante la pandemia. Aver vissuto un periodo senza contatti sociali dovuto alla paura del contagio, lo stress da confinamento e la crisi economica, che sta colpendo ampi strati sociali, ha causato un incremento dei disagi psichici. L’epidemia da Covid-19 e la sua gestione politico-mediatica ha messo in difficoltà la maggior parte della popolazione, generando disagi, patologie e fragilità e ha portato ad un rafforzamento dei dispositivi psichiatrici.
Assistiamo infatti ad un frequente ricorso al TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), ad un aumento del consumo di psicofarmaci e della contenzione fisica all’interno dei reparti psichiatrici di diagnosi e cura e non solo (RSA, ospedali, centri di detenzione per immigrati). In questo opuscolo collettivo troverete approfondimenti sul ruolo della psichiatria nell’adolescenza, nell’aumento delle diagnosi psichiatriche a scuola, nella digitalizzazione, nel carcere e nelle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). L’assemblea nasce dalla volontà di contrastare il dilagare della psichiatria, con l’obiettivo di informare e sensibilizzare sugli effetti nefasti di una disciplina che opprime e riduce gli individui a mere categorie diagnostiche e nega loro la possibilità di autodeterminarsi. Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di esclusione e segregazione indirizzate a coloro che non rientrano negli imposti parametri dei così detti “comportamenti normali”. Negli ultimi decenni la psichiatria ha radicato il suo pensiero e potenziato le sue tecniche nell’intero corpo sociale diventando un vero e proprio strumento di controllo sociale trasversale a varie Istituzioni e fasce d’età. Un concreto percorso di superamento delle pratiche psichiatriche passa necessariamente da uno sviluppo di una cultura non etichettante, senza pregiudizi e non segregazionista, largamente diffusa, capace di praticare principi di libertà, di solidarietà e di valorizzazione delle differenze umane.

Per scriverci: assembleaantipsichiatrica@inventati.org


lettera dal carcere di viterbo
Sono 112 le persone morte in carcere dall’inizio dell’anno, 50 per impiccagione o per avere inalato gas, 62 per altre cause. E le responsabilità dello Stato, dell’Amministrazione penitenziaria e di chi (sistema sanitario compreso) deve assicurare il diritto alla salute continuano a ed essere ignorate. Le morti negli istituti di pena non possono essere definite suicidi. Ecco la lettera aperta inviata dal carcere di Viterbo alla direttrice Anna Maria Dello Preite dopo il malore e la morte di un detenuto e il tentato suicidio di un altro, pubblicata a settembre su osservatoriorepressione.info.

Alla c.a. della direttrice Lo Preite del c.c. Viterbo e pc a Ministero della Giustizia, a presidente della Repubblica e del CSM, e alla Corte Europea del diritto dell’uomo a Strasburgo.
Egregia direttrice Lo Preite chi scrive sono i detenuti della sezione che nei scorsi giorni hanno intrapreso uno sciopero pacifico per solidarietà ad un detenuto della stessa sezione che da 3 giorni vomitava sangue e non veniva visitato. Abbiamo chiesto un confronto con lei e non rispondendoci ci ha costretti a non rientrare nelle celle affinché non fosse stato visitato il detenuto. In 2 anni di mandato ha trasformato questo carcere in uno staliniano gulag “da dove si entrava vivo non era certo di uscire nella stessa modalità”. Lei ha rifiutato il confronto preferendo troneggiarsi nella vetrina offerta dalla messa in carcere del vescovo. Con la nostra protesta chiedevamo soprattutto il rispetto del diritto alla salute, curarci, diritto negatoci dalla mancata volontà e competenza di alcuni sanitari incaricati. La bontà della nostra protesta ha purtroppo ricevuto conferma dagli eventi successivi ed è stata punita trasformandoci per sua decisione da detenuti in prigionieri. Questa prigionia ha provocato un tentativo di impiccagione (salvato dal pronto intervento del suo compagno di cella) e un decesso nella serata del venerdì 8 settembre. La morte del detenuto Imran, bengalese che veniva segnalato durante il confronto con la comandante come persona ammalata e non curata, è stata classificata come “naturale” ma noi riteniamo che con le adeguate cure pretendenti poteva essere salvato!!! Tra l’altro il detenuto defunto aveva un residuo pena di pochi mesi e di certo non poteva essere considerato socialmente pericoloso ma purtroppo è noto che a Viterbo i benefici della legge non vengono quasi mai applicati. Segnaliamo inoltre che ci sono i detenuti non curati a partire da problemi di denti, con pus compreso sino a prostate ingrossate e rigurgiti di sangue dallo stomaco. Lei direttrice, evidentemente non è interessata ad occuparsi del benessere e della salute dei detenuti, si ci ha inviato la comandante, degna persona ma sprovvista dei poteri relativi alle nostre richieste. Ad oggi noi “prigionieri” puniti, speriamo che chi di dovere abbia ad intervenire in una conclamata situazione al di fuori di ogni standard europeo e di umanità. Esprimiamo comprensione nei confronti del personale di custodia, vittima come noi di un sistema malato o, meglio, mal gestito. Con la speranza che tutto non venga messo a tacere mediante i soliti trasferimenti di detenuti diventati testimoni e comunque scomodi. Inverosimilmente abbiamo saputo che venerdì 8 settembre 2023 ci è stata negata assistenza legale impedendo all’avv. di vederci.

A seguire le firme di un trentina di detenuti.

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Buongiorno Olga, buongiorno compagni, stamattina stavo come sempre scartoffiando nel mio disordine ordinando e leggendo il vostro opuscolo di maggio, il n. 154, dove avete pubblicato il mio breve scritto e mi è sorto il dubbio di non avervi scritto, questo è possibile, anzi più avanti affronterò un tema importante e utile di sicuro, il mio periodo attuale è strano e vi descrivo il perchè, il 29 di marzo sono andato davanti al tribunale di sorveglianza di Roma che mi ha concesso il differimento della pena per andare a curare la mia infermità fuori in clinica. In teoria io dal 29 di marzo dovrei stare fuori, anzi non dovrei stare più qui, per fare presente e farmi ascoltare “visto che nessuno mi ascoltava” sono dovuto arrivare al punto di cucirmi la bocca, così sono arrivati quelli del sistema e alla mia logica domanda: dal 29 di marzo perchè sono ancora qui? Non hanno saputo rispondermi, ma il punto è molto più grave e complesso, già sappiamo che nel sistema c’è una grave falla, non esiste non gli interessa la parte più importante, la riabilitazione e rieducazione che dovrebbero essere il motivo, lo scopo e la ragione per cui esiste questo luogo. Io, come molti altri, sono la prova vivente che a nessuno gli interessa questo punto, io glielo ho regalato, ma si sono anche presi e distrutto senza scrupoli la cosa, il dono più importante e prezioso e aggiungo anche irripetibile che è la vita. Io personalmente non riesco, anzi non mi permettono di fare una vita normale, nel 2000 decisi fermamente che era giunta l’ora di terminare con la mia criminalità e lo feci, mi piace alzarmi la mattina e andare al lavoro che mi sono creato e mi riesce bene questo, avere qualcuno che ti aspetta per portare il cucciolo a spasso e poi decidere insieme alla compagna cosa fare, parlo el piacere di una vita normale, bellissimo. Poi di colpo, così senza preavviso ti sradicano da quello che ti sei creato perchè hai un vecchio definitivo da scontare, questa è la seconda volta che la mia bella e importante, piacevole normalità e bellezza viene distrutta, sembra che il sistema mi voglia criminale e fare la loro riabilitazione e recupero, cioè quello che mi ero creato già è stato fortunato ed è perso quindi ho la rabbia, ma questa è la forza positiva che già mi ha fatto materialmente sviluppare un progetto imprenditoriale che il mio gestore già ha messo nero su bianco da presentare al comune dove per i loro interessi politici e propagandisti accetteranno, è una scuola di formazione professionale per meccanici di motori a scoppio endotermici e per autovetture elettriche, da una parte i carrozzieri, questo se fosse stato fatto con me la 1a volta invece che essere solo piaciuto, forse e dico forse non starei qui ora [...]
Il comune, cioè la giunta comunale, in principio deve fornirmi uno stabile e uno dei tanti capannoni che ha inutilizzati con i fondi regionali che poi sarebbero della comunità europea per comprare i macchinari e il resto, ma dare un mezzo per questi ragazzi che non hanno nulla per crearsi, con quest’aiuto è l’inizio perchè poi il progetto è più ampio, anzi chi vuole scrivermi per partecipare è ben accetto e risponderò. Olga grazie ma devo chiederti se hai testi sulla meccanica e sulla ostruzione di come si faceva alla maniera artigianale, o testi che pensi mi possano essere d’aiuto, anche di motociclette va bene. Vi saluto a tutti. Maurizio.

22 luglio 2023
Maurizio Bianchi, Strada Santissimo Salvatore 14/B - 01100 Viterbo (VB)


Autolesionismo, scioperi della fame, suicidi
L’estate più nera delle carceri italiane
È molto difficile prendere parola su quanto sta accadendo in questi giorni nelle carceri italiane. E non soltanto perché a chi è fuori spetta la responsabilità di cercare spazi di visibilità per vicende che accadono dentro gli istituti, e che quindi possono essere comprese, empatizzate, condivise e analizzate solo fino a una certa soglia oltre la quale è impossibile spingersi. È difficile raccontare di questa nerissima estate perché gli eventi tragici sono tanti, e la (non) risposta dell’apparato istituzionale che gestisce l’universo penitenziario è sconcertante.
Nel carcere delle Vallette di Torino due donne si sono suicidate nella giornata di venerdì. La prima si chiamava Susan John, era una detenuta nigeriana quarantatreenne che si è lasciata morire per denutrizione e disidratazione. La seconda, Azzurra Campari, ventotto anni, si è impiccata poche ore dopo nella sua cella. Nella stessa giornata a Napoli, al carcere di Poggioreale, Massimo Altieri, quarantuno anni, è stato trovato morto in circostanze non ancora chiare, probabilmente suicidarie; ieri, un detenuto di quarantaquattro anni si è tolto la vita nel penitenziario di Rossano Calabro, impiccandosi anch’egli in cella.
Se la scelta autolesionista estrema dei detenuti che si tolgono la vita in carcere ha causato, nei soli primi otto mesi del 2023, quarantatré decessi, vi sono altri detenuti e detenute che sono morti, o che stanno rischiando di farlo, perché hanno intrapreso la protesta dello sciopero della fame come forma di lotta contro l’inumanità e l’ingiustizia dell’istituzione carceraria o del loro singolo caso. Tra aprile e maggio due detenuti sono deceduti nello stesso carcere – quello di Augusta, in Sicilia –, denunciando invano l’indifferenza verso le loro rivendicazioni (uno, in particolare, straniero, chiedeva attenzione rispetto alla pratica di estradizione nel proprio paese che aveva attivato fin dal 2018). Al momento, incrociando i dati forniti dall’Ansa e quelli raccolti tra i vari garanti cittadini e regionali, i detenuti in sciopero della fame in Italia sarebbero quasi quaranta.
Tra questi, il caso che sta ottenendo più visibilità è quello di Domenico Porcelli, detenuto al 41bis nel supercarcere di Bancali, in sciopero della fame da oltre cinque mesi. Nell’ultima settimana le condizioni di Porcelli sono peggiorate, tanto che il detenuto ha accettato di sottoporsi a una flebo ma, come spiega il suo avvocato Maria Teresa Pintus, non ha alcuna intenzione di ricominciare a nutrirsi. «In questi mesi Porcelli – spiega Pintus – ha perso quasi un quarto del suo peso, e le sue condizioni allo stato attuale sono veramente gravi. Gli sforzi per salvarlo sono stati nulli, tanto che il detenuto ha fatto richiesta questa settimana di poter accedere alle procedure per il cosiddetto suicidio assistito». Così come evidenziato da Alfredo Cospito nel corso della sua battaglia, la detenzione al 41bis, in uno stato di tortura e quasi sempre senza alcuna prospettiva di risocializzazione del reo, è considerata dalla maggior parte dei detenuti uno stato di “non vita”, a cui in molti casi è preferibile una morte vera e definitiva.
Attenendosi ai fatti, non si può trascurare l’aumento degli atti di autolesionismo nelle carceri italiane negli ultimi tre anni. Il dato si inserisce in un contesto particolare se si pensa che, nel periodo immediatamente precedente, ci sono stati numerosi episodi di proteste poi represse violentemente dall’istituzione. La violenza della repressione di marzo e aprile 2020, e le morti rimaste a oggi impunite – nel silenzio generale della società civile e con vicende giudiziarie che prendono pieghe molto scoraggianti¹ – potrebbero aver avuto un effetto anche irrazionalmente deterrente rispetto ai tentativi da parte dei detenuti di rivendicazioni conflittuali collettive. Contestualmente, in aumento sembrerebbero² le battaglie a mezzo di auto-annientamento del proprio corpo, utilizzato come arma in contrapposizione alla barbarie legalizzata dell’istituzione. Battaglie nobili e coraggiose, come lo sciopero della fame, che talvolta hanno avuto esiti rivoluzionari, ma che hanno difficile capacità di incidere sul reale se non vengono sostenute da una rete di opinione pubblica trasversale (come nel caso Cospito) e se vengono bellamente ignorate dagli interlocutori istituzionali competenti.
Il ministro Nordio – la cui nomina veniva accolta quasi con favore persino a sinistra, in nome di un presunto garantismo di cui l’ex pm avrebbe dovuto essere alfiere – ha in questi mesi, con i suoi silenzi e la sua (in)azione, dato risposte che in realtà sono chiare e rumorose. Senza ritornare sull’ignavia e poi l’autoritarismo con cui il guardasigilli ha gestito le evoluzioni del caso Cospito, basta leggere le dichiarazioni del ministro nella sua visita al carcere delle Vallette per capire le posizioni sue e del governo che rappresenta. Nordio (duramente contestato con fischi, battiture e rumori di mobili percossi contro il muro dai detenuti di tutti i reparti) ha attribuito l’aumento dei suicidi e degli atti autolesionistici al solo sovraffollamento, e ha detto senza mezzi termini che la soluzione più naturale sarebbe quella di costruire nuovi istituti penitenziari. Siccome, però, soldi non ce ne sono, un’idea potrebbe essere quella di contenere i detenuti in altre strutture, come le caserme dismesse. Evidentemente, al ministro non sembrano soluzioni praticabili l’aumento delle misure alternative, gli interventi per la depenalizzazione di reati legati all’uso di sostanze stupefacenti o alla cosiddetta “immigrazione clandestina”, l’elaborazione di percorsi diversi dal carcere quantomeno per un certo tipo di reati o l’ampiamento della possibilità di liberazione anticipata condizionale per chi ha pochi mesi di detenzione ancora da scontare.
È chiaro che la battaglia di Cospito ha mosso qualcosa rispetto al flebile dibattito sul carcere nel nostro paese. È altrettanto chiaro che molte tra le aree sociali e le personalità che nell’ultimo anno si erano esposte sulla violenza, l’ingiustizia, l’inumanità di istituti come l’ergastolo e il 41bis, e in alcuni casi contro la stessa idea di istituzione totale, sono tornate a pesare le parole, o a eludere il tema, ora che, credono, non sia più “caldo”. Ma il peso di ciò che accade in carcere non lo danno i titoli dei quotidiani o lo spazio che i pezzulli di cronaca riservano a un suicidio o a uno scandalo. Il metro della gravità della situazione si percepisce analizzando le emergenze che si susseguono, le violenze inflitte da chi è in cella sui propri corpi, il numero di detenuti e di detenute che spingono la protesta fino a mettere a repentaglio la propria vita, la percentuale in aumento dei suicidi per impossibilità di reggere un livello di sofferenza spaventosa. Tutte queste cose non possono essere lette come fatti slegati, ma vanno tenute insieme e utilizzate, dentro e fuori, per rompere il muro di silenzio come, a tratti, si è riuscito a fare con il caso Cospito.
È inammissibile che davanti a una situazione così critica nel suo complesso il ministro della giustizia si nasconda dietro il sovraffollamento, e per di più proponga come soluzione altre carceri e altri muri dentro cui chiudere persone. È difficile in uno scenario così desolante provare a dare un contributo, ma ciò che di certo si può fare è organizzarsi per provare a mettere sistematicamente in rilievo – da dentro e da fuori – la gravità della situazione e la crisi irreversibile dell’istituto carcere, nel nostro paese come altrove: scardinare uno per volta i pezzi per mettere il potere davanti alle proprie responsabilità e far vacillare le sue finte certezze. Un castello quando è fragile non si distrugge solo minandone le fondamenta, ma anche smontandolo mattone per mattone.

Note
1. Si vedano i casi di Modena e Santa Maria Capua Vetere.
2. La pratica dello sciopero della fame (parziale, a staffetta, o più radicale e prolungata nel tempo) è una forma di lotta all’ordine del giorno per chi vive in condizione di detenzione. Si scrive che i dati “sembrano” in aumento perché si fa una enorme fatica a venire a conoscenza di tutti i casi di detenuti che quotidianamente, in ogni parte del paese, portano avanti una battaglia di questo tipo.
13 Agosto 2023, da napolimonitor.it

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Detenuti in sciopero della fame
Segue una mappatura dei detenuti in sciopero della fame. Per dargli voce ma anche per evidenziare il consapevole silenzio delle istituzioni. A cura di Luna Casarotti, Associazione Yairaiha ETS e pubblicato l’ultimo aggiornamento il 7 settembre in osservatoriorepressione.info.

Carcere Bancali. Domenico Porcelli, 49 enne recluso in regime di 41-bis, in sciopero della fame dal 28 febbraio 2023, in quanto la misura del regime di 41-bis è stata prorogata.
Domenico Porcelli, Casa Circondariale di Sassari, Strada provinciale 56 n.c. 4, Località Bancali, 07100 Sassari
Carcere Parma. Un rifiuto del vitto dell’amministrazione, 5 scioperi della terapia, Bondavalli Marco Leandro, detenuto in sciopero della fame dal 24/08/2023, ricoverato presso l’ospedale di Parma dal 11/04/2023 affetto da Dumping sindrome e varie patologie, chiede che gli venga prescritta una nutrizione parenterale perché quando ha problemi di infezioni per lui diventa un vero calvario. Aggiornamento: Nutrizione parenterale tramite sondino endovenoso.
Casa Circondariale di Parma, Via Burla 59, 43122 Parma
Carcere Sanremo. Detenuto di Nazionalità tunisina in sciopero della fame da circa 45 giorni, in quanto vorrebbe parlare con il giudice nonostante l’udienza sia già stata fissata per Settembre 2023.
Casa Circondariale di Sanremo, Via Armea 144, 18038 Sanremo
Carcere Poggioreale-Napoli. Detenuto in sciopero della fame da 20 giorni, incompatibilità carceraria con patologie e vorrebbe curarsi. Inoltre è stata data anche la disponibilità da parte di don Franco Esposito di accoglierlo presso la comunità, ma il magistrato continua a opporsi.
Casa Circondariale di Napoli Poggioreale, Via Nuova Poggioreale 167, 80143 Napoli
Carcere Biella. Detenuto in sciopero della fame da 11 giorni prima detenzione e rifiuta il carcere. Aggiornamento: sciopero terminato nel pomeriggio del 23/08/2023.
Casa Circondariale di Biella, Via dei Tigli 14, 13900 Biella
Carcere Catania. 3 detenuti di nazionalità palestinesi in sciopero della fame.
Casa Circondariale Catania, Piazza Vincenzo Lanza 11, 95123 Catania
Cpr di Palese Bari
In sciopero della fame da alcuni giorni, S.B 43 enne albanese, in Italia dal 1997 ha una moglie tre figli e durante la pandemia ha perso il lavoro e il permesso di soggiorno non gli è stato rinnovato. Aggiornamento: interrotto lo sciopero il 23/08/2023 in quanto dopo un’udienza fiume è stato rilasciato.
C.P.R (Centro Per Rimpatri ) Bari Palese, Viale Europa, 70132 Bari
Carcere Verziano Brescia. Loredano Busatta, da 26 giorni in sciopero della fame per un’ingiustizia avvenuta nei suoi confronti dopo un diverbio con un agente penitenziario ogni sua richiesta è stata rifiutata e archiviata. Aggiornamento: sciopero della fame interrotto.
Casa Circondariale di Brescia Verziano, Via Flero 157, 25125 Brescia
Carcere Catanzaro Detenuto 40 enne in sciopero della fame da 100 giorni e da 70 giorni ha sospeso la somministrazione di farmaci, a causa di una malattia degenerativa è costretto a muoversi in sedia a rotelle e l’ascensore non funzionante non gli permette di usufruire dell’ora d’aria.
Casa Circondariale di Catanzaro, Via Tre Fontane 28, 88100 Siano
Carcere Milano-Opera. Antonino Mirco, in sciopero della fame dal 21 agosto 2023, con patologie che non gli permettono una buona condizione fisica.
Antonino Mirco, Casa Circondariale di Opera, Via Camporgnago 40, 20141 Milano
Carcere di Uta. Detenuto in sciopero della fame da 88 giorni (per il momento ha ripreso a magiare solo frutta).
Casa Circondariale Uta, Zona industriale Macchiareddu 19, 09123 Cagliari
Carcere Vicenza. Sezione AS Alta Sicurezza in sciopero della fame dal 29/08/2023 per diversi motivi: non esiste una scuola, sala colloqui non adatta a bambini perché la direzione non permette il colloquio nella ludoteca del carcere, nei colloqui e nei pacchi non entra nessun tipo di alimenti solo insaccati, sopra alla sezione alta sicurezza c’è il reparto psichiatrico e nell’ ora d’aria i detenuti con problemi buttano verso i ristretti di AS feci, urina e altro.
Casa Circondariale Vicenza, via Basilio della Scola 150, 36100 Vicenza

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24 SETTEMBRE: presidio al carcere di asti
Il carcere uccide. In estate il carcere uccide ancora di più.
Celle bollenti, sovraffollamento, isolamento, suicidi. Da inizio anno 48 persone si sono tolte la vita dentro ad una cella, 15 solo nel periodo estivo. Come se non bastasse, nella "distrazione" dell'estate, molte guardie penitenziarie sotto processo accusate di tortura all'interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono state reintegrate nello stesso carcere. Lo stato, tramite i suoi giudici e tribunali, copre e assolve chi tortura e uccide. Ricordiamo che, a seguito di quel pestaggio di massa, tre persone detenute sono decedute: Vincenzo Cacace, Fachri Marouane, due prigionieri che avevano denunciato le torture, e Lamine Hakimi, morto dopo un mese in isolamento dai fatti di Aprile 2020. Davanti a tanta violenza questa estate c'è chi non ha abbassato la testa, da Napoli a Roma fino a Genova, passando per Torino, i detenuti e le detenute hanno innescato proteste individuali e collettive, in rivolta contro gli aumenti dei prezzi dei generi alimentari, per il cibo che fa schifo, per la malasanità, per la violenza quotidiana che sono costrettx a subire.
Continuiamo a stare in strada e sotto le mura delle carceri per fare da megafono e sostenere le voci che arrivano da dentro, a fianco di tutti i detenuti e le detenute in lotta! La solidarietà è un'arma, usiamola! (da gancio.cisti.org)


QUANDO C'E L'AMORE C'E TUTTO... NO, QUELLA E' LA SALUTE!
Di seguito un volantino distribuito alla fine di settembre davanti alle carceri milanesi di San Vittore e Opera.

Spesso le proteste e le rivolte che avvengono nelle carceri sono a causa della mancanza di cure sanitarie per le persone detenute. E' successo ancora, ad esempio, all'inizio di settembre nel carcere di Viterbo: alcuni detenuti hanno intrapreso uno sciopero della fame seguito da una fermata all'aria protestando per la mancanza di cure nei confronti di un prigioniero che da giorni vomitava sangue, e che è poi deceduto per mancanza di assistenza. La morte di Imran è stata liquidata come “per cause naturali”.
Immancabilmente i giornali riportano le lamentele dei sindacati della polizia penitenziaria, che chiedono più agenti all'interno delle carceri, senza però fare accenno al bisogno di medici ed infermieri.
La situazione non è diversa nelle carceri milanesi dove i servizi infermieristici per gli anni 2020-2024 sono stati aggiudicati al Consorzio Stabile HCM tramite una gara d'appalto fondata sul massimo ribasso. Il presidente del Consorzio è anche membro, in evidente conflitto di interesse, del consiglio direttivo dell'ordine degli infermieri di Milano.
Tale Consorzio per vincere ha garantito di poter gestire i servizi infermieristici spendendo mezzo milione in meno rispetto ai 4,2 milioni che erano valutati sufficienti per la gestione della copertura sanitaria. E si vede: già nel 2021 mancava personale, e i buchi sono stati coperti dagli ospedali pubblici San Paolo e San Carlo attraverso ordini di servizio e precettazioni, obbligando medici ed infermieri a prestare servizio nelle carceri sottraendoli agli ospedali del territorio.
Di fatto questa estate nel carcere di opera era presente un infermiere ogni 600 detenuti su una popolazione carceraria di oltre 1.300, a copertura di tre turni. Questa è una delle principali cause delle innumerevoli morti che avvengono nelle carceri italiane.
E' sempre molto difficile portare fuori dalle mura del carcere quello che accade realmente al suo interno. La voce dei detenuti e dei loro familiari è fondamentale per capire cosa avviene e per costruire relazioni dentro e fuori capaci di cambiare la realtà. Per questo motivo saremo presenti sotto le carceri il terzo sabato di ogni mese in occasione dei colloqui per stringere relazioni, organizzarci e lottare assieme.
Potete scriverci ai contatti che seguono per condividere informazioni, racconti, esperienze e quello che accade quotidianamente all'interno delle mura.
e-mail : olga2005@autistici.org
casella postale: "Associazioni Ampi Orizzonti" casella postale 10241 - Milano 20122

Assemblea cittadina contro carcere, 41 bis ed ergastolo - Milano

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Un po' di memoria fa bene... alla salute!
Volantino dei lavoratori ospedalieri della Toscana che verrà distribuito oggi durante un presidio davanti all'ingresso dell'ippodromo Caprilli di Livorno.

Il Coordinamento Regionale Toscano ‘Salute Ambiente Sanità’ è a fianco del Comitato di Livorno in difesa dell'ospedale. E' rispetto alle scelte che vogliono adottare a Livorno che avanziamo alcune considerazioni, sottolineando che quanto accaduto in questi anni nella Regione è opera di politici e amministratori che a “parole” si schierano in difesa del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), nella pratica hanno sposato la logica aziendalistica con il taglio di servizi, posti letto, le infinite liste d'attesa, fino alla demolizione del sistema di diagnosi e cura dei piccoli ospedali e alla svendita del patrimonio pubblico.
E' stato modificato il sistema dell'emergenza che prevede l’assenza della guardia medica (h. 24.00-08.00) con sovraccarico per i 118 soppressi del 40%, gli accorpamenti dei laboratori analisi, la limitazione del servizio d’interruzione gravidanza, la riduzione di 2.000 posti letto (Patto per la salute tra Stato e Regioni), con il tasso più basso d’Italia, le degenze ridotte, i ticket aumentati di 10 € sul nazionale, lo smantellamento degli ospedali e dei presìdi, i tagli delle convenzioni con cooperative che gestiscono i servizi sociali e alla farmaceutica ospedaliera, alle forniture di beni e servizi (mense, pulizie, presìdi chirurgici), convenzionando tali servizi con ditte esterne.
Con la L.28, che prevede l’utilizzo massiccio della mobilità del personale, si sono cancellati 2.000 posti di lavoro. Erano sufficienti due calcoli per capire che, 2.000 operatori sanitari in meno, la ricaduta sui servizi territoriali, ospedalieri e sull’assistenza diretta ai pazienti, non poteva che rivelarsi drammatica!
Nel 2013 fu firmato l'Accordo di collaborazione che cedeva servizi sanitari pubblici al c.d. volontariato, proseguendo con lo spostamento di risorse alla sanità privata e integrativa che fa il paio con il progressivo smantellamento del SSN.
Con la delibera regionale del 23/12/2002 fu avviato il Project Financing, programma pluriennale di “interventi sanitari strategici”, con cui le Pubbliche Amministrazioni hanno realizzato 4 ospedali (Massa, Lucca, Pistoia e Prato) a favore dei privati con la concessione per 20 anni, e di servizi importanti: pulizie, sterilizzazione, pasti per degenti, mensa per lavoratori, prenotazioni, portineria, manutenzione, parcheggio... sui quali l’ente pubblico non ha il controllo né sulla qualità né sull’applicazione dei contratti di lavoro e delle tutele per sicurezza e salute verso lavoratori e cittadini.
Un processo governato da regole di mercato (domanda/offerta), dalla razionalizzazione aziendalistica della spesa sanitaria e dalla volontà a privilegiare attività ultraspecialistiche su quelle di base, le assicurazioni private sul servizio pubblico. Un processo di ‘Aree Vaste’ (sistema verticistico, piramidale e decisionale) nelle quali non solo si sono moltiplicati i posti di “direzione-comando”, ma anche i costi per i quali, a differenza dei servizi di base, specialistici e ospedalieri, non è previsto alcun ridimensionamento.
La strisciante distruzione e/o privatizzazione del SSN ha avuto conseguenze nefaste come il ‘Covid-19’ insegna, sia sulla salute della popolazione e degli operatori sanitari, sia obbligando i cittadini a fare a meno della maggior parte delle risorse a disposizione per potersi garantire l'accesso alle cure rendendo insostenibile il lavoro per gli operatori sanitari. Non possiamo aspettarci niente di buono da politicanti. I lavoratori e i cittadini hanno il diritto alla partecipazione e a esercitare il controllo sulla funzionalità degli ospedali e dei servizi territoriali, sulle scelte che coinvolgono la loro vita e la sicurezza. Il diritto alla cura e alla prevenzione è un bene prezioso. Per questo il SSN va difeso con unghie e denti dai giochi di potere, da leggi-inganno, da interessi privati, da abusi e clientelismo, dallo spreco di montagne di soldi pubblici.
La salute non si monetizza, non si delega, non si subordina a norme, contratti, leggi!

30 agosto 2023, Coordinamento Regionale Toscano/ Salute Ambiente Sanità


lettera dal carcere di Genova
[...] spero che riuscirò ad avere un trasferimento verso marzo che ho un processo a Lucca e magari poi da lì cerco di essere assegnato in Campania o basso Lazio l’importante è uscire dalla Liguria perchè qui non si ottiene nulla e poi questo carcere è peggio dei carceri punitivi. Due settimane fa sono stato minacciato di essere denunciato perchè faccio troppe domandine e se le faccio è perchè mi dicono di rifarle perchè si sono potute perdere e ho detto così al preposto. Lui ha frainteso che mi vengono buttate e ha detto al collega: “hai sentito pure tu, dice che gli buttiamo le domandine, dammi carta e penna che lo denuncio”. Ci è voluto il bello e buono per fargli capire che ha capito male. Comunque mi hanno contestato un rapporto. Se potete pubblicate questo spezzone, inoltre vengo sempre frainteso perchè il vitto è immangiabile. L’ASL è carente come sempre. Vi ringrazio cari compagni/e. Un abbraccio forte e ferrea stretta di mano sempre in lotta con pugno alzato.

settembre 2023
Rosario Mazzone, Piazzale Marassi, 2 - 16139 Genova


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, con queste poche righe che vi spedisco prima per farvi avere mie notizie e informarvi che ho ricevuto l’opuscolo e il libro che leggo con piacere. Come sempre vi ringrazio per tutto quello che fate e per la vostra solidarietà e sostegno che esprimete a tutti i prigionieri con la vostra vicinanza e con i vostri gesti, con l’invio dei materiali. Certamente la solidarietà è molto importante per i carcerati perché aiuta ad andare avanti e non arrendersi mai e lottare per momenti migliori e per la libertà di tutti i prigionieri. Vi sono sempre vicino. Saluti cari a tutti i compagni e le compagne. Con affetto, Antonino.

05 giugno 2023
Antonino Faro, P.le Vittime del Dovere - 67039 Sulmona (L’Aquila)


Lettere dal carcere di Vigevano (PV)
Spero abbiate ricevuto la mia lettera. Che dirvi di nuovo se non quello di trovarmi a girare le carceri una volta all'anno, oppure ogni quattro cinque mesi. Purtroppo i continui spostamenti avvengono semplicemente per ragioni di sicurezza e ordine dell'Istituto interno ed esterno e poi, come se non bastasse tutto questo, ci si mette anche la censura che allo scadere mi verrebbe fatta con proroghe di tre mesi in tre mesi. E questo vale anche per i quotidiani nazionali. Perché a loro libero convincimento, la cronaca potrebbe riportare messaggi, oppure io potrei inviare messaggi. Di conseguenza hanno vietato di acquistarli. Qui al carcere di Vigevano non c'è problema per l'acquisto dei quotidiani, perché nella spesa non sono inseriti.
Nel carcere di Opera un po' di giornali giravano e ne potevo venire in possesso. Non ho capito chi dovrebbe inviarmi i messaggi nella cronache e o a chi dovrei inviarli. A mio avviso è solamente una pura fantasia.
Ormai questa censura persiste dal 2020. Se tento di uscire dal rigo esprimendo condivisioni politiche la lettera verrebbe bloccata. Allora bisognerebbe scrivere le novelle, le favole di Cenerentola, forse non comporterebbe il pericolo per la sicurezza.. Ti faccio un esempio. Quando sono stato nel carcere di Agrigento 2019-2020 ero guardato a vista ivi compreso il lavorante. Tutte le volte che sostava davanti alla mia cella veniva perquisito perché pensavano che gli passassi i pizzini. Tant'è vero che gli misero il divieto di avvicinarsi alla cella se non in presenza della guardia e quando mi recavo al passeggio da solo, non poteva sostare davanti alle celle E se qualcuno mi passava un quotidiano o un libro veniva perquisito accuratamente. Una volta alla settimana facevano la perquisa in cerca probabilmente di manoscritti e o altro. Per cui mi viene sequestrato un semplice articolo di un quotidiano che riportava solamente la sentenza della mia condanna con il titolo: condannato l'anarchico Lucchese ad anni 12 per l'attentato Casapound. Mi venne detto che l'articolo mi era stato sequestrato in quanto non poteva averlo per motivi di sicurezza dell'Istituto. Non sapevo che un articolo potesse mettere in pericolo la sicurezza del carcere. Poi avvennero delle mobilitazioni fuori del carcere. Il comandante, il vice comandante e un prete mi domandarono se i miei compagni sarebbero rivenuti e meno di 24 ore dopo venni trasferito nel carcere di Vicenza e allocato nel reparto chiuso e dopo cinque mesi venni trasferito nel carcere di Ascoli Piceno e da Ascoli viene trasferito nel carcere di Opera.

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Mi chiamo Mauro Rossetti Busa. Ho avuto la possibilità di leggere “Pensare l’impensabile. Tentare l’impossibile” a fianco di Alfredo. Leggendo l’intervento dell’avvocato Teresa Pintus sulla base di alcune restrizioni di chi è sottoposto al 41-bis come Alfredo ci sono alcuni passaggi di queste restrizioni dove ci sono passato anche io nonostante che non fossi sottoposto al 41-bis, nè sottoposto all’alta sicurezza (AS), bensì media sicurezza comune.
Mi trovavo al carcere di Agrigento per motivi di sicurezza e ordine interno ed esterno delle carceri. Il tribunale di sorveglianza di Agrigento su richiesta del direttore del carcere, mi venne applicata la censura per la durata di 6 mesi. Motivazioni: visionata la richiesta del direttore della casa circondariale di Agrigento da cui emergono elementi allarmanti, evidenziano la necessità di operare elevato controllo sul detenuto, ritenuto che il livello di pericolosità ed il mancato adeguamento alle regole di convivenza istituzionale impongono che la corrispondenza del detenuto, al fine di evitare che possa costituire elemento di turbativa dell’ordine e la sicurezza interna ed esterna, debba essere sottoposta a visto di controllo per un periodo di mesi sei, visti gli art. 18 della Legge n. 354/75 e 38 del DPR n. 230/2000.
Mi pervennero i plichi contenenti dei libri sull’anarchia, un libro che scrisse Pasquale Abatangelo, tutto ciò che per la loro politica venivano depositati al casellario con alcune riviste. I primi tempi ricevevo qualche lettera e cartoline, così anche negli altri istituti. Quando partii dal carcere di Ascoli Piceno e tradotto nel carcere di Opera. Motivazione: su il rinnovo della censura rilevato il provvedimento del tribunale di sorveglianza di Macerata evidenzia la persistenza di gravi motivi di ordine e sicurezza a causa della pericolosità del soggetto, giudicato responsabile di gravi reati commessi con violenza in quanto appartenente a movimenti sovversivi anarco-insurrezionalista, durante la detenzione ha tentato di delegare soggetti scarcerati al fine di acquisire materiale esplodente. Ritenuto, quindi, che la duplice richiesta vada accolta in considerazione del fondato pericolo che nella corrispondenza possano essere inseriti contenuti che costituiscono elementi di reato o che comunque potrebbero determinare pericolo per la sicurezza e la disciplina interna dell’istituto ed in ragione del fondato pericolo che attraverso giornali locali Rossetti Busa Mario possa mantenere collegamenti con il gruppo criminale di appartenenza; ritenuto che, pertanto, è opportuno disporre il visto di controllo su corrispondenza in arrivo e in partenza dallo stesso, con limitazioni di cui al comma 4 dell’art. 18 ter O.P; ritenuto che la ulteriore richiesta della direzione vada accolta in considerazione del fondato pericolo che in articoli di cronaca locale possano essere inseriti contenuti che costituiscono elementi di reato o che comunque potrebbero determinare pericolo per la sicurezza e la disciplina all’interno dell’istituto. Dispone: che venga inibita la ricezione di quotidiani, giornali e stampa locale non conducibili a testate nazionali per la durata di tre mesi.
Nel carcere di Opera sono stato un anno e per tutto il periodo ogni lettera veniva bloccata – ivi compresa di amici che quelle del mio legale. Oggi mi trovo a Vigevano, non capisco come mai visto che il direttore era così interessato e visto che ero detenuto nel carcere di Opera e non Vicenza perchè non abbia chiesto l’applicazione della censura al tribunale di competenza di sorveglianza di Milano? Anzichè di applicarsi le motivazioni di Macerata. Solo oggi ho ricevuto due lettere una dell’avvocato e di un amico.
Ringrazia e saluta.

10 luglio 2023,
Rossetti Busa Mauro, via Gravellona 240 - 27049 Vigevano (Pavia)


Per l'immediata liberazione di Khaled El Qaisi,
prigioniero delle autorità israeliane
Il 31 agosto Khaled El Qaisi, rispettivamente marito e figlio delle scriventi, è stato trattenuto dalle autorità israeliane ed è tuttora prigioniero in virtù di una misura precautelare in attesa di verifica di elementi per formulare un'accusa.
Lo scorso giovedì Khaled, che ha doppia cittadinanza, italiana e palestinese, attraversava con moglie e figlio il valico di frontiera di “Allenby” dopo aver trascorso le vacanze con la propria famiglia a Betlemme, in Palestina.
Al controllo dei bagagli e dei documenti, dopo una lunga attesa, è stato ammanettato sotto lo sguardo incredulo del figlio di 4 anni, della moglie nonché di tutti i presenti che erano in attesa di poter riprendere il proprio percorso.
Alle richieste di delucidazioni della moglie non è seguita risposta alcuna, piuttosto le sono state sottoposte domande per poi essere allontanata col proprio figlio verso il territorio giordano, senza telefono, senza contanti né contatti, in un paese straniero.
Nel tardo pomeriggio la moglie e il bambino sono riusciti a raggiungere l'Ambasciata Italiana solo grazie alla umana generosità di alcune signore palestinesi.
Khaled, traduttore e studente di Lingue e Civiltà Orientali all'Università La Sapienza di Roma, stimato per il suo appassionato impegno nella raccolta e divulgazione e traduzione di materiale storico palestinese, è tra i fondatori del Centro Documentazione Palestinese, associazione che mira a promuovere la cultura palestinese in Italia.
La famiglia, gli amici ma anche chi ha semplicemente avuto occasione di conoscerlo, sono in fremente attesa di avere aggiornamenti. Al momento ancora non ha potuto incontrare il suo avvocato e sono ancora poche le notizie che si hanno riguardo alla sua incolumità. Dal consolato e dal legale abbiamo saputo solo che affronterà un'udienza giovedì 7 settembre.
Immaginiamo intanto Khaled in completo isolamento, senza contatti col mondo esterno, senza percezione reale dello scorrere del tempo, sotto la pressione di continui interrogatori, in pensiero angosciato per la sorte del proprio figlio e di sua moglie lasciati allo sbaraglio con l'unica immagine negli occhi relativa alla sua deportazione in manette.
La situazione è dunque gravissima. Attendiamo con grande ansia la risoluzione di questa ingiusta prigionia. Chiediamo a chiunque ne abbia il potere, che si accerti delle condizioni di salute di Khaled e che soprattutto eserciti tutte le pressioni necessarie per la sua celere liberazione.

Le scriventi Francesca Antinucci, moglie e Lucia Marchetti, madre

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Il 7 settembre, come previsto, si è tenuta a Rishon Lezion a sud di Tel Aviv, l’udienza relativa alla proroga del suo trattenimento in carcere conclusasi con una proroga della detenzione per altri 7 giorni, quando dovrà comparire nuovamente davanti al giudice.
In questa udienza il detenuto e il suo difensore non hanno potuto comparire congiuntamente, finora impossibilitati per legge a vedersi e comunicare. In questa occasione si è appreso del suo trasferimento presso il carcere di Ashkelon.
La nostra viva preoccupazione è rivolta al totale spregio dei diritti di civiltà giuridica operati dalla legislazione israeliana ovvero alla violazione di quelle tutele, comunemente riconosciute in Italia (art. 13-24-111 della Cost.) e in Europa (art 6 CEDU) e in seno all’ONU (artt. 9-14 Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici), la cui osservanza consente di definire un processo “equo” e un arresto “non arbitrario”.
Dopo 9 giorni di detenzione a Khaled è stato impedito di interloquire con il proprio difensore di fiducia e non potrà certamente incontrarlo quantomeno fino al 12 settembre. È quotidianamente sottoposto a interrogatorio senza la presenza del suo difensore ed è quindi solo mentre affronta domande pressanti poste dai poliziotti nella saletta di un carcere. Non gli è consentito conoscere gli atti che hanno determinato la sua custodia e la sua possibile durata; non sa chi lo accusa, per quale ragione lo faccia, cosa affermi in proposito. Anche i motivi del suo arresto appaiono assolutamente generici e privi di specificità, fondati esclusivamente su meri sospetti e non su indizi gravi di colpevolezza.
Tuttavia, ciò che rappresenta maggior ragione di inquietudine e preoccupazione è la facoltà concessa all’autorità israeliana di poter sostituire, in difetto di prove, la detenzione penale con quella amministrativa. Condizione giuridica nella quale si trovano altri 1200 palestinesi ristretti in carcere senza un’accusa formale, senza alcuna prova e senza poter conoscere le ragioni del loro trattenimento.
In considerazione dell’allarmante situazione detentiva di Khaled e del mancato rispetto dei suoi diritti umani si chiede che si faccia tutto il possibile per ottenerne l’immediata liberazione e il suo ritorno in Italia. (Comunicato dell’avvocato Flavio Rossi Albertini, da radiondadurto.org)

Il 21 settembre, come previsto, si è tenuta la nuova udienza relativa alla proroga del suo trattenimento nelle carceri israeliane, conclusasi con un’ulteriore estensione della detenzione per altri 11 giorni. Il tribunale ha deciso che, al termine di questa lunga proroga, sempre finalizzata alla raccolta di elementi, entro un massimo di 3 giorni a partire dal 1° ottobre, le investigazioni dovranno presentare delle accuse poiché il termine per questa forma di detenzione cautelare decadrebbe.

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Dal Cile Chiamata internazionalista
Settimana di agitazione tra il 4 e l'11 settembre per l'annullamento delle condanne della giustizia militare per il compagno sovversivo antiautoritario Marcelo Villarroel in lotta nelle carceri cilene.
“Prendetevi cura l'uno dell'altro, mantenete gli altri al sicuro nelle lotte al fronte, e non dimenticate mai coloro che vivono rinchiusi nelle carceri perché domani i prigionieri dei mostri di questa terra potreste essere voi. I nostri nemici sono gli stessi e le stesse di paese in paese, essendo solo differenti di nome e di volto…” (Harold Thompson)
L' 11 Settembre 2023 si commemorerà il 50esimo anniversario del colpo di stato, che si celebrerà con atti ufficiali in Cile. Che ci sia ancora un prigioniero, l'unico, che sconta una condanna emessa dalla giustizia militare è un'aberrazione giuridica. La nostra chiamata alla mobilitazione vorrebbe essere quindi il più internazionale e ampia possibile. Soprattutto in Europa, dove lo stato Cileno è particolarmente sensibile all'immagine che offre di sé. Per l'annullamento delle condanne imposte dalla giustizia militare a Marcelo Vollaroel e la sua libertà immediata!

Sulla situazione del prigioniero politico Marcelo Villaroel.
Dopo 50anni dal golpe civile e militare, l'eredità giuridica di Pinochet continua intatta. Le situazioni delle e dei prigionieri politici cileni, anarchici e sovversivi, sono molto diverse tra loro a seconda dei casi. Tuttavia, c'è un compagno in una situazione unica nel mondo occidentale. Si tratta di Marcelo Villaroel Sepúlveda che da quasi 30 anni (in tre periodi differenti), più della metà della sua vita, vive in prigione. L'unica ragione per la quale gli si nega la possibilità di accedere a dei benefici carcerari, come a tutto il resto della popolazione carceraria in Cile, è che sta scontando una condanna emessa da un tribunale militare, eredità giuridica della dittatura di Pinochet.
L'esistenza di questo tribunale militare che giudica anche civili, agendo da giudice e pubblico ministero, implica evidentemente l'impossibilità di aver potuto accedere ad un processo giusto in un tribunale imparziale. Per queste stesse ragioni lo stato Cileno ha ricevuto forti critiche internazionali, che gli sono valse la negazione da parte di alcuni stati europei all'estradizione di diversi militanti cileni arrestati in suolo europeo. È per questa ragione che in Cile la giustizia militare non può più giudicare civili. Marcelo è l'unico caso in Cile e in occidente vittima di questa aberrazione giuridica.
Militante fin da giovane in un'organizzazione armata marxista-leninista, poi in carcere si avvicina alle idee anarchiche. Indipendentemente dalle idee di Marcelo e dalle azioni che lo hanno portarono in carcere, il Comitato di Solidarietà con il compagno focalizza le sue molteplici attività in una visione ampia, che consenta di smuovere questa situazione di evidente ingiustizia. Questo sta succedendo in Sud America, dove la vendetta delle istituzioni ereditate dalla dittatura di Pinochet, vede intrappolato in un ergastolo bianco il nostro compagno. Se non agiamo immediatamente Marcelo uscirà di prigione nel 2056.

Da Milano.
L’11 settembre dalle 18.00 saremo davanti al Consolato cileno di Milano in solidarietà con Marcelo e per ricordare il golpe militare di Pinochet sostenuto dagli Usa che costò tante vittime, con un generazione di giovani donne e uomini massacrata, torturata e fatta scomparire.

Tratto da “Comitato di solidarietà internazionalista con Marcelo”


FREEDOM FOR THE BUDAPEST'S ANTIFASCISTS
L'11 febbraio 2023 a Budapest vengono fermate alcune persone con l'accusa di essere coinvolte a vario titolo nel ferimento di alcuni nazisti. Ad oggi una compagna italiana e un compagno tedesco si trovano ancora in carcere a Budapest accusati di questi fatti.
Gli attacchi contro i neonazisti avvengono durante il fine settimana in cui cade il "Giorno dell'onore" data di rilievo per gli ambienti dell'estrema destra ungherese e di tutta Europa in cui si commemora il massacro di un battaglione nazista da parte dell'Armata Rossa avvenuto nel febbraio del 1944. In questi giorni centinaia di camerati si riuniscono a Budapest per una grande marcia commemorativa e per partecipare a varie iniziative organizzate per l’occasione.
Negli scorsi mesi la detenzione dei due compagni è stata prorogata sulla base di nuovi elementi che di volta in volta venivano forniti dagli inquirenti. Ad oggi le indagini sono ancora aperte e la compagna italiana è accusata del reato di "attacco a un membro della comunità" per due episodi. Il tentativo dell’accusa è quello di aggravare la posizione della compagna giudicando le lesioni subite dai nazisti come potenzialmente letali e provando a sostenere l’esistenza di un’associazione a delinquere tra persone provenienti da Germania e Italia.
Per il compagno tedesco ancora detenuto l’accusa, invece, è fin da subito quella di far parte di questa supposta associazione. La tesi viene rafforzata dal fatto che il compagno è stato indagato assieme ad altri compagni e compagne tedesche per fatti simili a quelli accaduti a Budapest, nel cosiddetto processo antifa-ost. Questo processo, giunto alla sentenza di primo grado il 31 maggio 2023 con la condanna a 5 anni per Lina e altre tre condanne fino ai 3 anni, verte sull’accusa di associazione criminale (§129 articolo codice penale tedesco) finalizzata ad attaccare membri appartenenti all’estrema destra tedesca. Nell'inchiesta vengono messi assieme diversi attacchi contro nazisti avvenuti negli ultimi 5 anni nella Germania dell’est.
È per noi importante sostenere i compagni e le compagne detenute/i e indagate/i e sviluppare un discorso solidale che rivendichi la necessità di organizzarsi per contrastare i fascisti. In un contesto europeo e occidentale attraversato da crisi economiche e sociali sempre più acute, posizioni reazionarie e identitarie sono sdoganate e accettate.
La guerra sistemica alle minoranze più povere ed emarginate imposta e nutrita dal capitalismo per la sua sopravvivenza trova la sua espressione più manifesta nelle aggressioni portate avanti da singoli o gruppi di estrema destra. Se per noi ha sempre avuto senso non solo dichiararsi antifascisti e antifasciste ma anche sostenere praticamente questa tensione, oggi ci pare ancora più importante ribadire che agire attivamente per contrastare idee reazionarie e pericolose è impellente e necessario.
Non abbiamo mai creduto alla favola della società pacificata, all’interno della quale ogni opinione è possibile fin tanto che resta all’interno di ciò che è democraticamente accettato e ratificato dalla legge. Sappiamo bene che non è nelle istituzioni statali che troveremo appoggio per arginare queste derive. Il presente che ci si mostra parla chiaro: la violenza statale e istituzionale non ha più bisogno di mascherarsi e si scaglia contro tutto ciò che mette in pericolo la riproduzione stessa di questo sistema.
Per quanto riguarda l’Italia non è certo con l’arrivo del governo Meloni che lo Stato ha cominciato la sua particolare guerra contro i poveri, seppure siano innegabili quanto inaccettabili i passi avanti fatti dall’esecutivo di matrice fascista nella direzione della repressione materiale di individui e gruppi. D'altro canto non si possono dimenticare decenni di discorsi pubblici sul decoro, sulla legalità, l’applicazione di politiche giustizialiste, la terrorizzazione generalizzata e la criminalizzazione delle classi meno abbienti.
Discorsi, portati avanti da destra come da sinistra, che hanno creato un clima non solo adatto alle feroci ristrutturazioni capitalistiche in atto, ma anche al proliferare di un senso comune superficiale e populista.
In questo contesto i gruppi organizzati dell'estrema destra, che si occupino direttamente di propagandare idee fasciste o che si infiltrino nella società attraverso associazioni o enti benefiche e solidaristiche, assumono un peso specifico da non sottovalutare.
È proprio quando discorsi populisti e razzisti si diffondono, quando vengono proposte soluzioni semplici e superficiali ai problemi complessi del nostro tempo che queste organizzazioni hanno la possibilità di focalizzare l'attenzione intorno a loro e crescere. È proprio nei nuclei più estremisti e organizzati che si riuniscono, si formano e si concretizzano le idee violente degli assassini fascisti dei nostri giorni, dall'America post Trump fin nelle nostre città. Si contano infatti a decine le aggressioni, gli omicidi e gli attacchi incendiari ai danni di migranti e non solo compiuti da gruppi neonazisti in Grecia, in Germania e in tutta Europa negli ultimi 20 anni.
È importante riconoscere questo pericolo e agire fin da subito per ostacolare questi gruppi. Non lasciargli nessuno spazio. Anche se nelle nostre città le principali formazioni di estrema destra possono sembrare sopite o al momento "poco pericolose", la sola esistenza di organizzazioni e sedi fasciste è un problema da affrontare attivamente ed eliminare. E’ importante non solo smascherarli ma anche combatterli concretamente, abbandonando ogni approccio naif che creda nella sola forza delle parole. Certe idee, certi soggetti sono pericolosi e hanno le spalle ben protette, perché inseriti perfettamente nel sistema “democratico” in cui viviamo. Inutile gridare allo scandalo, sempre meno persone si indignano. Inutile rivolgersi allo Stato che oggi come ieri li copre e li legittima.
Per questo saremo sempre al fianco di chi decide di agire per arginare i nazisti, di tutti gli antifascisti e le antifasciste imprigionate, innocenti o colpevoli che siano.
Vogliamo esprimere tutta la nostra solidarietà e vicinanza alla compagna e al compagno detenuti a Budapest e a tutti gli inquisiti e inquisite di quest’inchiesta.
Se vogliamo vivere in un mondo libero da fascismi e fascisti, sta a noi costruirlo!

Milano, 25 settembre 2023
Azione Antifascista Milano


Operazione Scripta Scelera contro il quindicinale “Bezmotivny”
All’alba di martedì 8 agosto si è dispiegata in varie città un’operazione repressiva – ridicolmente denominata Scripta Scelera (per ogni operazione lor signori hanno sempre un nuovo “ambizioso” o suggestivo nome) – volta, negli intenti dell’apparato repressivo dello Stato, a chiudere il quindicinale anarchico internazionalista “Bezmotivny” colpendone l’attività di pubblicazione di analisi e riflessioni, nonché e in particolar modo di testi rivendicativi di azioni, sabotaggi e iniziative d’attacco intraprese da anarchici e rivoluzionari in tutto il mondo contro lo Stato e il capitale.
In breve i fatti. L’operazione, che ha coinvolto in particolar modo compagni anarchici a Carrara e il Circolo Culturale Anarchico “Gogliardo Fiaschi”, ha comportato la notifica di un’indagine nei confronti di 10 compagni e compagne, destinatari di altrettante perquisizioni domiciliari (oltre a quella effettuata nei confronti del suddetto circolo), e ingenti sequestri di giornali e pubblicazioni varie. Tra questi 10 indagati (per i quali il pubblico ministero genovese Manotti aveva avanzato in due occasioni richiesta di custodia cautelare in carcere), il giudice per le indagini preliminari ha stabilito per quattro gli arresti domiciliari con tutte le restrizioni (incluso il braccialetto elettronico), per altri cinque l’obbligo di dimora con rientro notturno dalle 19:00 alle 07:00, mentre un compagno è senza alcuna restrizione (in questura hanno provveduto a notificargli un foglio di via obbligatorio dalla provincia di La Spezia per la durata di due anni). Uno tra i compagni destinatari dei domiciliari è stato inizialmente tradotto in carcere su disposizione dello stesso GIP per via del fatto che era privo di una residenza formale. Nel contesto dell’operazione è stata inoltre posta sotto sequestro (e successivamente dissequestrata) una tipografia ad Avenza dove ultimamente veniva stampato il giornale.
L’indagine – condotta principalmente dalla DIGOS della polizia di La Spezia, dalla direzione centrale della polizia di prevenzione e dalla Direzione Distrettuale Antimafia e Antiterrorismo di Genova – si è concentrata sull’attività di redazione, pubblicazione e distribuzione di “Bezmotivny” a partire dal 2020. Sulla falsariga di quanto già portato avanti nell’ambito dell’operazione Sibilla dal Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri e dalla procura di Perugia con il coordinamento della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (che vi ha fatto confluire una precedente indagine in corso a Milano), per cui la PM Comodi avanzò a settembre 2021 una richiesta di otto arresti in carcere nei confronti di altrettanti compagni, tra cui Alfredo Cospito, per la pubblicazione del giornale anarchico “Vetriolo”, anche quest’operazione ha i suoi cardini nelle accuse di associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis c. p.) e di istigazione a delinquere (art. 414 c. p.) con l’aggravante della finalità di terrorismo.
Quest’ultimo procedimento presenta quindi consistenti similitudini, come pure alcune differenze, rispetto a quello della procura di Perugia (in cui, tra l’altro, sono già indagati tre dei compagni coinvolti in quest’ultima inchiesta). Anzitutto, sebbene questa non sia un’indagine volta a puntellare il provvedimento di detenzione in regime di 41 bis per Alfredo Cospito (in carcere da oltre 10 anni e che ha rivendicato il ferimento dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare, R. Adinolfi), prosegue nell’esplicitare – come emerge con ossessiva ripetitività negli atti d’indagine – lo sfacciato e vano tentativo delle forze repressive di “ridefinire” i rapporti tra compagni, descrivendo il compagno Alfredo di volta in volta come un “leader”, un “ideologo”, un “teorico con un ruolo orientativo nelle azioni”, nonché le pubblicazioni anarchiche come “istigatorie” in relazione alla realizzazione di azioni rivoluzionarie. In questo senso, mentre la guerra e le necessità belliciste degli Stati rappresentano lo sfondo sociale e politico del nostro tempo, prosegue l’imperitura campagna repressiva antianarchica diretta ad ammutolire la solidarietà nei confronti dei rivoluzionari imprigionati e soprattutto a colpire il principio della solidarietà tra compagni, tra sfruttati, nella sua declinazione rivoluzionaria e internazionalista. Appare chiaro come questa operazione sia volta a tentare di dare un colpo al movimento ancora nei suoi strumenti di propaganda e agitazione, quindi a ristabilire il prestigio dell’antimafia e dell’antiterrorismo (da tempo la Direzione Nazionale Antimafia è divenuta anche Antiterrorismo, struttura di coordinamento dell’offensiva repressiva in corso da anni contro gli anarchici) a seguito dell’intenso movimento di solidarietà internazionale sviluppatosi dopo il trasferimento di Alfredo Cospito in 41 bis nel maggio 2022 e in special modo durante lo sciopero della fame contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo tra l’ottobre successivo e l’aprile di quest’anno.
Una mobilitazione che, impedendo il tentativo di annientamento nei confronti del compagno, quindi riuscendo a evitare una praticamente certa condanna all’ergastolo, è stata un serio bastone tra le ruote per la suddetta offensiva repressiva e per il mantenimento della pace sociale. Consapevoli che questa non è un’operazione contro insussistenti “libertà di stampa”, “di espressione”, “di opinione”… insussistenti proprio perché illusorie menzogne della giustizia, perseveriamo nel non avere alcuna fiducia in quest’ultima, consapevoli che l’elemento “tecnico” è sempre sovrastato e diretto da quello “politico”: precise esigenze di natura politico-ideologica conducono a queste operazioni repressive e non è certo sul terreno del diritto che si esplicita la nostra lotta (e anche volendo, sarebbe tra l’altro impossibile controbattere ad accuse sostanzialmente rivolte contro l’identità, la personalità, l’indole dei compagni). Operazioni repressive come questa non fermano proprio niente: fino a quando esisterà la società suddivisa in classi, lo sfruttamento e ogni forma di oppressione sociale, lo Stato non fermerà il germogliare delle idee rivoluzionarie e gli anarchici continueranno a lottare.

15 agosto 2023, tratto da un comunicato del Circolo Culturale Anarchico di Carrara

Si potrebbero ricordare le tre “Leggi scellerate” votate dal parlamento francese nel 1983/1894 per contrastare le azioni anarchiche di quel periodo e l’ultima era diretta proprio contro la propaganda anarchica attraverso pubblicazioni di giornali che furono banditi. In Italia, nel 1894, Crispi, muovendo la repressione contro i Fasci siciliani con cui gli anarchici di Carrara solidarizzarono, tra i pochi, con i “Moti della lunigiana” e dopo aver subito due attentati, riuscì a far passare tre leggi anti-anarchiche definite da qualcuno proprio con il termine “scelleratissime”. Riguardavano i reati commessi con esplodenti, le adunate sediziose e... i reati commessi a mezzo stampa.

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Il 29 agosto è stata aggravata la misura cautelare nei confronti di Michele, compagno anarchico coinvolto nell’indagine Scripta Scelera. Il compagno era stato destinatario dell’obbligo di dimora con rientro notturno dalle ore 19:00 alle 07:00. A seguito di un’annotazione della DIGOS di Perugia che segnalava un ritardo di 10 minuti nel rientro notturno e una presunta violazione dell’obbligo di dimora, al compagno sono stati comminati gli arresti domiciliari (sembrerebbe senza alcuna restrizione specifica, eccetto il divieto di incontrare persone pregiudicate).
Il 1°settembre è stato reso noto l’esito dell’udienza di riesame per le nove misure cautelari stabilite dal giudice per le indagini preliminari Ghio. Con l’udienza di riesame del 28 agosto i giudici hanno annullato l’ordinanza per otto compagni in riferimento all’art. 270 bis e l’hanno confermata per l’art. 414 (istigazione a delinquere) con la circostanza aggravante della finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico (art. 270 bis 1 c. p.). Inoltre, nei confronti di quattro compagni indagati per l’art. 278 c. p. (offesa all’onore e al prestigio del presidente della repubblica), l’ordinanza del GIP è stata confermata. Il nono compagno che, a partire dal 29 agosto, ha visto un inasprimento della misura, il tribunale del riesame ha stabilito la conferma dell’ordinanza del GIP, incluso il successivo inasprimento della misura in arresti domiciliari, e ha escluso l’aggravante della finalità di terrorismo. A seguito di questo pronunciamento del riesame restano invariate tutte le misure cautelari contro i nove compagni e compagne: quattro agli arresti domiciliari con tutte le restrizioni e il braccialetto elettronico, quattro all’obbligo di dimora con rientro notturno, uno (anch’esso già all’obbligo di dimora con rientro) agli arresti domiciliari “semplici”.
Si è tenuta il 6 settembre, presso il tribunale di Genova, l’udienza d’appello su richiesta del pubblico ministero Manotti avverso l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari Ghio che aveva stabilito le misure cautelari dell’operazione repressiva dell’8 agosto. Con quest’udienza il PM chiedeva l’aggravamento della misura (cioè la detenzione in carcere) nei confronti dei destinatari delle misure cautelari. Il giorno successivo è stato reso noto l’esito: la sezione del riesame del tribunale di Genova non ha accolto la richiesta del PM, ritenendo che la “valutazione del GIP in ordine alla scelta delle misure appare condivisibile”. Fuori dal tribunale si è tenuta una presenza in solidarietà con i compagni e le compagne indagati e attualmente agli arresti domiciliari e con le restrizioni.
Di seguito il testo di indizione della presenza solidale di mercoledì 6 settembre.

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PRESENZA SOLIDALE IN OCCASIONE DELL’UDIENZA D’APPELLO
Cinque morti sul lavoro in una sola botta creano una ferita profonda nella coscienza di quanti si professano paladini dei diritti. Fra questi finti paladini si annidano gli stessi assassini e complici (politici, imprenditori, sindacati asserviti al padronato, preti che benedicono cadaveri assegnando il premio paradisiaco), lavoratori che accettano tutto passivamente, sperando non tocchi a loro. Gli esempi dell’ipocrisia dei rappresentanti del potere si ripetono nel tempo ed è vomitevole il “mai più morti sul lavoro” pronunciato da ogni presidente della repubblica italiana nelle ultime decine di anni (Scalfaro, Ciampi, Napolitano – fra l’altro per un’altra strage, quella della Thyssen – e Mattarella che, a sua volta, ne ha seppelliti già a migliaia). Una domanda sorge spontanea: cosa deve ancora succedere perché si prenda collettivamente coscienza che gli interessi dei padroni sono in antitesi rispetto alle aspettative di migliorare la propria esistenza da parte degli sfruttati? Che di lavoro si morirà sempre se non si sviluppa una spinta verso l’autonomia della nostra classe rispetto a quella degli sfruttatori diretti o collusi? Perché padroni bravi non ce ne sono! E vivere e pensare da servi, o affidarsi ad intermediari di stato (CGIL, CISL, UIL…) non servirà nemmeno a mantenere diritti e migliorie conquistati, con le lotte, anni addietro, come dimostrano sia la riduzione del personale sia la privatizzazione di tutti i servizi con appalti al massimo ribasso. Nelle ferrovie come ovunque.
Ricordiamo, invece, quando lavoratori coscienti intervenivano quotidianamente, autorganizzati, con scioperi e blocchi indipendenti dalle convocazioni dei vertici sindacali i quali, a loro volta, si guardavano bene dall’intervenire attraverso le ormai collaudate, negli ultimi anni, mediazioni al ribasso (vedi procedure di raffreddamento dei conflitti, sic!).
Sempre dalla stessa parte della medaglia sta la violenza dello Stato nei confronti dei suoi oppositori dichiarati. Si arriva ad appioppare “finalità di terrorismo” a chiunque, anche a chi, semplicemente, scrive su riviste e giornali.
I magistrati genovesi fanno la loro parte, come ormai si sa.
Proprio ultimamente il dottor Manotti ha chiesto 10 arresti in carcere ed ottenuto 4 arresti domiciliari (poi saliti a 5) e 5 obblighi di dimora, sulla base degli artt. 270 bis e 414 c. p. aggravato dalla finalità di terrorismo, contro compagni e compagne che pubblicano il giornale anarchico “Bezmotivny”. Le misure cautelari sono già state confermate, proprio in riferimento all’accusa di istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo. Questa conferma è un modus operandi del tutto INEDITO per quanto riguarda le inchieste contro redattori di periodici. Si sa bene: l’economia di guerra prevede anche attacchi più mirati e profondi contro il nemico interno. Inutile tornare, per chi già non sappia, sulla vicenda di Alfredo Cospito, come su quelle di lavoratori e lavoratrici attaccati ai picchetti da parte di provocatori pagati, piuttosto che sull’aumento esponenziale dei morti in galera.
Ma la solidarietà di classe può sempre dispiegarsi nelle pratiche internazionaliste autorganizzate che pongano al centro del loro percorso il blocco della produzione, il sabotaggio della guerra, la lotta alla repressione.
Solidali con i compagni indagati per la diffusione del giornale “Bezmotivny”.

Spazio di documentazione Il Grimaldello


Brandizzo: le stragi della guerra nei cantieri di casa nostra
La gravissima strage di Brandizzo, poco prima della mezzanotte del 30 agosto 2023, quando cinque operai della manutenzione ferroviaria, dipendenti della Si.Gi.Fer. di Borgo Vercelli, sono stati travolti e uccisi da un treno in transito, ha visto il solito copione di sempre: raffica di banalità e scemenze amplificate dai media (su tutte quella un treno lanciato a 160 km/h sul cantiere), comunicati-fotocopia, sciopero poco più che simbolico dei sindacati concertativi (4 ore per la sola RFI, neanche un’ora per morto), lacrime di coccodrillo, diffusione di notizie senza alcun fondamento razionale e normativo su cause e concause.
Nel caso di Brandizzo è evidente che sia avvenuto un grave cortocircuito nelle procedure che regolano la comunicazione tra il Gestore Infrastruttura (Rete Ferroviaria Italiana RFI) e il Cantiere; le indagini si concentrano sulla congruenza dell’orario di inizio lavori, ovvero se siano iniziati prima del nulla osta necessario che deve essere dato dal regolatore della circolazione; sul perché gli operai si trovassero su un binario ancora in esercizio; sulla sorveglianza da parte del preposto di RFI sul posto; sull’osservanza delle procedure. Noi che scriviamo queste note abbiamo condotto molti treni di notte affiancando i cantieri che operavano sul binario attiguo. Sulle linee con Blocco Automatico a Correnti Codificate in prossimità dei cantieri viene captato un codice restrittivo a bordo che impedisce di superare i 110 km/h, cui in molti casi si aggiungono rallentamenti segnalati sul posto e gestiti dal Sistema Controllo Marcia Treno, che impedisce ogni sfondamento di velocità. Si tratta di situazioni assai delicate in quanto si transita a pochissima distanza dai lavori, a volte in galleria e con forti rumori. I tratti di linea vengono chiusi parzialmente (si circola su unico binario) o totalmente con deviazioni di percorso. Le squadre che operano sui binari appartengono quasi sempre a ditte esterne, RFI sorveglia lo svolgimento regolare dei lavori.
E qui c’è un punto. La denuncia dei sindacati di base (i concertativi hanno condiviso tutti i passaggi della ristrutturazione ferroviaria) parte da lontano, dalla fine degli anni Novanta quando venne separata la gestione Infrastruttura-Trasporto. È chiaro che col passaggio da un’impresa centralizzata a più gestori il flusso delle comunicazioni si complichi; la liberalizzazione senza regole ed il progressivo ricorso a ditte in appalto e subappalto hanno moltiplicato negli anni le problematiche, la progressiva precarizzazione del mondo del lavoro ha fatto il resto. Probabilmente non è un caso isolato delle ditte in appalto e subappalto quello denunciato da un ex dipendente della Si. Gi. Fer: lavoratori spesso con contratti a tempo determinato, sottopagati o pagati in nero, con alle spalle ore di straordinario e che affrontano il lavoro notturno senza l’adeguato riposo, che effettuano i corsi di legge per la sicurezza solo sulla carta (vedi «Il Fatto Quotidiano» del 1° settembre, pag. 2). Una giungla dove l’esasperata ricerca del profitto sta alla base di tutto, dove appaltare all’esterno il controllo sulla sicurezza significa innescare un meccanismo infernale fatto di precarizzazione e morte.
In questi anni gli incidenti nella manutenzione ferroviaria sono stati costanti, caratterizzati da picchi di casi concentrati in poche settimane seguiti da mesi di relativa “calma”. Nel 2022 sui binari italiani sono morti due operai (Ponticelli e San Remo) e sette sono rimasti feriti: tutti, tranne un ferito, erano dipendenti di ditte in appalto e subappalto.
Il 2023 non ha registrato eventi fino all’inizio di maggio, per poi registrare tre episodi con cinque feriti fino alla terribile serata di Brandizzo.Tutti dipendenti di ditte in appalto e subappalto. Oggi il sangue di cinque operai coperto da una colata di calce si aggiunge a quello dei tre morti quotidiani sul lavoro in una vera e propria guerra sotterranea che semina morte e disperazione tra i lavoratori. A fine luglio 2023 le vittime di questa guerra del capitale contro i lavoratori erano 559 (di queste 129 mentre si recavano a lavorare). Un incremento del 4,4% in un anno. Il record di questa strage è nel settore trasporti e immagazzinaggio, seguito dall’edilizia, manifatturiero e commercio. I lavoratori immigrati che hanno pagato con la loro vita l’incremento dello sfruttamento sono stati 79.
L’aspetto legale non lascia molti margini. Se i controlli sull’applicazione delle norme di sicurezza sono al minimo a causa di una cronica carenza di personale negli organi ispettivi delle ASL, se le battaglie di singoli Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza slegati dalle logiche sindacali concertative finiscono contro un muro di gomma, sul fronte legale e giudiziario il rischio è quello di vedere ancora una volta condannati gli ultimi anelli della catena lasciando incolumi o prescritti i vertici delle aziende coinvolte. Di far passare anche tra i lavoratori concetti come “fatalità” ed “errore umano”, che portano a frustrazione, passività e rassegnazione.
Il punto è proprio questo: solo una forte mobilitazione dei lavoratori che abbia al centro delle rivendicazioni i temi legati alla sicurezza può dare una spallata ad un sistema che produce precarietà e morte.
1 settebre 2023, da combat-coc.org

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Dopo la strage operaia di Brandizzo… tutto come prima
A sole due settimane dalla strage di Brandizzo, ieri alle 12.30 la cittadina di Casalbordino (Chieti) è stata scossa da un boato. Alla Sabino Esplodenti – ditta che tratta esplosivi – muoiono Fernando Di Nella, Gianluca De Sanctis e Giulio Romano. Non è la prima volta che sangue operaio scorre proprio lì: a giorni dovrebbe cominciare il processo che vede i vertici della società accusati di “cooperazione in omicidio colposo” per un incidente avvenuto nel dicembre 2020 in cui morirono altri 3 operai che stavano spostando una cassa di razzi.. La fabbrica fu fermata ma ricevette l’autorizzazione a riaprire addirittura senza la procedura di valutazione d’impatto ambientale. E non è tutto: nel 1999 i vertici aziendali, insieme ad alcuni ufficiali dell’esercito, furono accusati di aver venduto illegalmente a terzi – invece di inertizzarlo - 10 tonnellate di T4, esplosivo che finì nelle mani di organizzazioni criminali. I proprietari patteggiarono e i militari furono assolti.
La Sabino lavora sia per l’Esercito Italiano che per la Nato, smaltisce (o dovrebbe farlo…) munizioni, bombe, missili, mine. Gli operai che ieri sono morti lavoravano proprio su materiale della Difesa.
Ma non è tutto. Oggi a Napoli è morto Giuseppe Cristiano, operaio dell’azienda Asia, schiacciato dal camion che raccoglieva i rifiuti. A Bologna un operaio che lavorava al rifacimento del manto stradale della pista dell’aeroporto Marconi è stato travolto da un mezzo della sua stessa ditta. Ieri, ad Arzano, Giuseppe Lisbino è precipitato dal tetto di un capannone dove stava installando dei pannelli fotovoltaici. L’11 settembre, a Manerbio, Mirko Serpelloni stava sistemando la copertura esterna di un capannone quando un lucernario ha ceduto è il giovane è precipitato. Il 31 agosto un lavoratore è morto schiacciato da un carrello elevatore a Padova, nel macello. E poche ore dopo, a Castel di Sangro, un altro lavoratore ha perso la vita folgorato dai cavi dell’alta tensione nello stabilimento di imbottigliamento di pomodori dove lavorava.
Il presidente della repubblica, istituzioni varie, politici, sindacalisti venduti ecc. ecc. hanno versato in questi giorni fiumi di lacrime di coccodrillo– ma solo sulla scia della strage di Brandizzo perché le morti operaie fanno notizie quando le vittime muoiono in gruppo. Tutti a invocare maggiore sicurezza ma nessuno nomina mai i colpevoli della guerra quotidiana ai lavoratori, quella guerra che fa più di 1.500 vittime e centinaia di migliaia di feriti all’anno.
Da anni – noi che contiamo i “nostri” morti per amianto di cui nessuno parla anche se sono quasi 6.000 all’anno ma muoiono soli, a casa loro e quindi non fanno notizia- siamo costretti a ripeterlo: i morti sul lavoro sono la faccia più brutale ma più sincera dello sfruttamento capitalistico. Sono la carne da macello perché la ricerca del massimo profitto non può tollerare “lacci e lacciuoli”, anche se il costo sono le migliaia e migliaia di vite spezzate dei proletari.
La lunghissima scia di sangue operaio ci insegna una cosa: solo noi proletari– uniti e organizzati - possiamo difenderci, nessun altro lo farà. E se la battaglia per un salario decente, la lotta al carovita, l’eliminazione della precarietà sono fondamentali per poter sopravvivere, la difesa della nostra vita di lavoratori deve venire per prima, prima delle compatibilità, prima dei bilanci e soprattutto prima dei profitti dei capitalisti.

Sesto S. Giovanni, 14 settembre 2023
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio