indice n.152

notizie dai campi di internamento per immigrati senza documenti
Sciopero della fame nelle carceri israeliane
Comunicato delle prigioniere in lotta dal carcere di torino
LETTERA DAL CARCERE DI CREMONA
IL CAPITALISMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE
Lettera dal carcere di siano (cz)
LETTERA DAL CARCERE DI SULMONA (aq)
lettere dal carcere di Ariano Irpino
sulle condotte della Polizia penitenziaria nel marzo 2020
Lettera dal carcare di Massama (OR)
Lettera dal carcere di Terni
Da una lettera dal carcere di Badu e Carros (Nuoro)
Morti di carcere
LA CALDA ESTATE DELLE CARCERI
Aggiornamenti repressivi
ancora repressione contro le lotte nella logistica

notizie dai campi di internamento per immigrati senza documenti
A Gradisca si muore: sappiamo chi è Stato. Due giorni fa, il 31 agosto 2022, un ventottenne pakistano del quale non
sappiamo il nome si è ammazzato nel Cpr di Gradisca d’Isonzo. Era entrato un’ora prima. Si è ammazzato in camera;
l’hanno trovato i suoi compagni di reclusione. Da dietro le mura del CPR ci gridano che il ragazzo pakistano «ha fatto
la corda» subito dopo l’incontro con il Giudice di pace di Gorizia che aveva confermato la sua permanenza nel centro per
tre mesi. Ci chiedono di dire che si è ucciso dalla disperazione per quella scelta sulla sua vita. Ci dicono che era
nella zona blu, dove tolgono i telefoni e dove vanno le persone appena entrate. I detenuti ci dicono che gli operatori
del centro tengono loro nascosto il nome del ragazzo, nonostante le loro richieste. Ci raccontano che molti, dopo le
udienze con il Giudice di pace, si sentono male e altri hanno provato a impiccarsi, salvati poi dai compagni di stanza.
Raccontano che in quei momenti si sta molto male e si perde la testa. Ci raccontano che è peggio di qualsiasi carcere e
che nel cibo vengono messi psicofarmaci. Ci chiedono che parlamentari e giornalisti raccontino quello che succede
realmente nei CPR ed entrino. Chi ci parla ci dice di temere per la sua incolumità per quello che ci sta raccontando. Ci
dice che si sta esponendo per tutti ma che i militari lo stanno guardando. Ci fornisce il suo nome e indirizzo perché
teme per la sua vita, per il solo fatto di raccontare quello che succede. E noi lo sappiamo bene, ricordiamo come fosse
ieri le deportazioni seriali e il sequestro immediato dei telefoni di tutti i detenuti che avevano testimoniato la notte
della morte di Vakhtang.
La sera del 1° settembre, alcuni solidali sono passati davanti al Cpr per mostrare solidarietà ai reclusi e ascoltare le
loro voci sulla morte del ragazzo pakistano. Mentre stavano lì, è arrivata una volante dei carabinieri, chiamata dal
personale del Cpr insospettito dalla presenza di alcune persone fuori da quelle mura. Da una delle volanti, è uscito un
carabiniere che ha cominciato a correre, non molto velocemente, puntando la pistola contro uno dei solidali. Le persone
sono state perquisite e i cellulari sequestrati momentaneamente. Dopo un po’ di tempo, i solidali sono stati portati in
caserma per essere identificati, dove hanno avuto la convalida del fermo di dodici ore. In caserma, uno dei solidali è
stato costretto a una perquisizione integrale e a spogliarsi completamente. L’esistenza del Cpr necessita del silenzio:
la sola presenza di qualcuno nelle sue vicinanze origina sospetto e si tramuta in fermi, perquisizioni e, come successe
ad altri solidali nel 2019, fogli di via dal territorio comunale. Il Cpr è istituzionalmente un luogo del quale bisogna
ignorare l’esistenza, anche nei giorni in cui ammazza qualcuno. La violenza dell’arma puntata non ha alcuna
giustificazione: la reazione poliziesca spropositata di fronte a un ragazzo bianco che non stava commettendo nessun
reato ci interroga su quale sia il livello di soprusi al quale sono costrette ogni giorno le persone che non hanno la
tutela della cittadinanza. Gli abusi di potere e la violenza razzista istituzionale tengono in piedi i Cpr ogni giorno.
La Garante per i diritti delle persone recluse del comune di Gradisca, Giovanna Corbatto, commenta sul Messaggero
veneto: «Non sappiamo se e quali fantasmi si portasse dietro, se la sua drammatica decisione sia stata pianificata o
improvvisata, se avesse patologie. Avendo trascorso solo un’ora al Cpr sarei prudente nel citare le condizioni di vita
all’interno come causa o concausa di un gesto così estremo». Il meccanismo messo in atto da Corbatto è quello della
colpevolizzazione della vittima (victim blaming): di fronte a un ragazzo che si è ammazzato dentro una struttura sulla
decenza della quale lei stessa dovrebbe sorvegliare, Corbatto si rifiuta di riconoscere le responsabilità istituzionali
e dà letteralmente la colpa alla vittima. Il Cpr è uno spazio letale: si tratta di un dato innegabile, confermato dal
susseguirsi delle morti. Chi muore lì dentro, in qualunque modo muoia, è un morto istituzionale, cioè un morto di Stato.
Nel lager di Gradisca d’Isonzo, sono già morte troppe persone.
7 dicembre 2021: Ezzeddine Anani, uomo marocchino di 41 anni, si toglie la vita nella cella in cui era recluso in
isolamento per quarantena Covid.
14 luglio 2020: Orgest Turia muore in seguito a un’overdose e un suo compagno di stanza scampa alla stessa sorte. Mentre
il prefetto di Gorizia Marchesiello dice che tutto va bene, dapprima la stampa locale diffonde la voce di una nuova
morte per rissa, poi la sindaca Tomasinsig e rappresentanti della polizia ripropongono la narrazione infame dei detenuti
tossici e dello spaccio di sostanze all’insaputa dei carcerieri. In realtà, Turia non è tossicodipendente, è un uomo di
origini albanesi portato in Cpr perché trovato senza passaporto.
18 gennaio 2020: Vakhtang Enukidze, cittadino georgiano trentottenne, viene ammazzato, secondo i testimoni, dalle botte
ricevute dalle guardie armate della struttura. A seguito della sua morte tutti i testimoni vengono deportati, i loro
cellulari sequestrati, la famiglia di Vakhtang Enukidze in Georgia subisce forti pressioni per non prendere parte a un
processo penale e, ad oggi, non è stato comunicato alcun esito ufficiale dell’autopsia sul corpo.
30 aprile 2014: Majid el Khodra muore in ospedale a Trieste, dopo mesi di coma, dopo una caduta dal tetto dell’allora
Cie di Gradisca, ad agosto dell’anno precedente. Ai suoi familiari viene negata per mesi la possibilità di vederlo. Dopo
la sua morte, il Cie chiude, per riaprire qualche anno dopo con il nuovo nome di Cpr.
L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci ricorda che ad ammazzare non sono mai «i fantasmi»: sono le
leggi, le istituzioni, i rappresentati razzisti dello Stato. L’elenco dei nomi delle persone morte dentro il Cpr ci dice
che quel posto, che è stato voluto da tutti i governi, non è riformabile. Ci richiama a mobilitarci perché, se il Cpr
continuerà a esistere, la gente continuerà a morirci dentro. Migrant lives matter. (da nofrontierefvg.noblogs)

Milano Cpr di via Corelli: tentativi di suicidio, rimpatri, malati, sporcizia e abbandono. Giorni turbolenti all'interno
di via Corelli: il sovraffollamento verificatosi in concomitanza con i tragici fatti degli scorsi giorni (il suicidio di
un agente nei locali del CPR) che hanno sconvolto anche le persone trattenute, hanno fatto dei tre settori attivi dei
veri e propri gironi infernali, nei quali si riflette l'agitazione che comprensibilmente aleggia in questi giorni negli
uffici del gestore e tra le forze dell'ordine di servizio. Resta infatti tutto da chiarire come sia potuto accadere che
un agente sospeso e privato dell'uso dell'arma fosse in servizio quel giorno, come sia stato così facile per lui
accedere al locale armeria che deve rigorosamente restare chiuso (così come le cellette che custodiscono le armi) e
anche cosa o chi abbia indotto il suo tragico gesto, e il perché esso sia stato compiuto proprio lì ed in quel momento.
E se "qualcosa ci dice" che ciò non verrà chiarito né approfondito mai (la notizia, fateci caso, non è circolata quasi
per nulla), sta di fatto che il tutto ha lasciato comunque il segno, insieme alla certezza dell'inadeguatezza della
gestione del centro, e prima ancora delle gravi carenze nella sua stessa sicurezza strutturale: aspetti che dovrebbero
imporne l'immediata chiusura. Mentre quindi negli uffici e nei corridoi c'è altro a cui pensare, resta in queste ore più
ignorato e trascurato che mai quel che accade dall'altro lato delle porte blindate dei settori, letteralmente
abbandonati a loro stessi, dove ci si dimentica siano rinchiuse persone innocenti, ormai anche da diversi mesi. Di
queste, molte sono malate per antecedenti malattie croniche (e non avrebbero dovuto essere dichiarate idonee al
trattenimento) e altre hanno progressivamente subito un crescente degrado psicofisico, come è inevitabile che sia,
dovendo avere tutti i giorni - e tutte le notti - a che fare, oltre che con il trauma di un'inaspettata detenzione, con
"corde", crisi di astinenza, arti feriti con cutting, blitz notturni a sorpresa per le deportazioni (ci sono state anche
"rastrellate" di cinque persone in una notte), sempre con il costante sottofondo di urla (di dolore, di richieste di
aiuto o di protesta) e all'occorrenza con mini TSO fai da te per chi si lamentasse più di altri. Questo, fino allo
spegnersi nell'unanime rifugio serale della "terapia" per tutti, con Lyrica e Rivotril dispensati in abbondanza per
tutti. Tra ieri e ieri l'altro, una persona ha inghiottito un coccio di vetro, e un'altra, avendo avuto notizia del suo
imminente rimpatrio (nonostante i vari procedimenti in quel momento pendenti per dichiararne il precario stato di salute
ai fini del rilascio) ha prima avuto una grave crisi d'asma (per la quale non aveva ricevuto cure da quando entrato nel
centro) - che gli ha comportato anche una consistente fuoriuscita di sangue dalla bocca -, e poi ha ingerito un flacone
di bagnoschiuma. I soccorsi sono arrivati solo dopo molto tempo che i suoi compagni di settore davano calci alla porta
implorando aiuto per lui. Tutto questo ha come scenario ambienti sporchi, pieni di spazzatura (due persone sono
saltuariamente addette alle pulizie, per una struttura abitata da 60 persone rinchiuse h 24/24 in pochi metri quadri),
con persone che piuttosto preferiscono dormire nel cortile, sui materassi di gommapiuma spesso pare infestati dalle
pulci anche perché "lì è illuminato, se vengono a prendermi li vedo". Unici incursori esterni a fare visita, i piccioni
costantemente presenti a contendersi in gran numero montagnette di rimasugli di cibo e spazzatura che giacciono chissà
da quanto. Salvo eccezioni (il tempo di accendere la sigaretta e ritirare la mano con il "prezioso" accendino), è raro
che, nel viavai degli operatori (sempre due o tre ogni turno, per 60 persone in quello stato) o degli oltre 50 agenti di
turno, qualcuno scambi con loro due parole attraverso la rete di separazione tra i corridoi e i cortili. Da quando ha
aperto il centro, abbiamo la quasi certezza che non sia praticamente entrato mai nessuno nei moduli abitativi, se non
per motivi di emergenza (di soccorso o di "alleggerimento") o per la consegna fugace delle vaschette coi pasti,
abbandonati subito sul tavolo all'ingresso; e sempre in compagnia di almeno due agenti e per il tempo strettamente
necessario per eseguire il compito.
Unica, anzi doppia eccezione: un senatore e due esperte attiviste, della nostra Rete, per due anni consecutivi lo hanno
accompagnato raccogliendo informazioni su "l'altra faccia del CPR", quella oscura, che dagli accessi agli atti e dalle
interlocuzioni con i responsabili del centro o della Prefettura, certo non emerge. (23 settembre 2022, da mai più Lager-
No Cpr)


Sciopero della fame nelle carceri israeliane
Oltre 4.500 prigionieri palestinesi avviano misure di protesta contro i servizi carcerari israeliani. Secondo la
Palestine Prisoner Society (PPS), “più di 4.500 combattenti per la libertà palestinesi imprigionati in Israele hanno
iniziato lunedì 22 agosto una serie di misure di protesta contro i servizi penitenziari israeliani (IPS) che influiscono
sulla loro vita quotidiana nelle carceri”. Tra due settimane, hanno in programma di entrare in sciopero della fame.
Il Comitato Nazionale di emergenza del movimento dei prigionieri palestinesi nelle carceri sioniste ha emesso un
comunicato in cui si afferma: "l'amministrazione carceraria dell'occupante ha ritrattato tutti gli accordi a cui eravamo
pervenuti lo scorso marzo, a seguito dei quali avevamo momentaneamente sospeso le nostre iniziative." Nel comunicato si
sottolinea che "l'amministrazione sionista ha deciso di ripristinare le modalità con cui ha sempre abusato e continua ad
abusare dei prigionieri e della loro vita, attraverso trasferimenti arbitrari ogni sei mesi, che provocano nei
prigionieri la perdita della stabilità e dell'adattamento al contesto ambientale, conseguiti con il trascorrere molti
anni in prigione: la maggior parte dei detenuti palestinesi è vicina al 20esimo anno di prigionia… in conseguenza di
ciò, abbiamo serrato nuovamente i ranghi per prepararci a una battaglia che potremmo essere costretti a combattere
quanto prima, con lo slogan: ‘se tu torni sui tuoi passi, anche noi torniamo sui nostri passi’ e abbiamo riattivato il
Comitato Nazionale d'emergenza dei prigionieri palestinesi. Abbiamo inoltre deciso alcuni passaggi tattici che
culmineranno tra un periodo massimo di due settimane con uno sciopero della fame a tempo indefinito portato avanti da
tutte le fazioni dei prigionieri reclusi nelle carceri sioniste."
Il Comitato indica che il movimento dei prigionieri "comincerà i prossimi lunedì e mercoledì con il non uscire fuori
dalla propria cella durante la conta mattutina, come primo passo e ultimo monito all'amministrazione carceraria di
smetterla con gli attacchi dovuti al ritrattare le precedenti decisioni." Il Comitato fa appello "a tutto il popolo e
alle fazioni della Resistenza di stare al nostro fianco in questa battaglia, popolo su cui abbiamo sempre contato per il
sostegno, dato che la questione dei prigionieri è di primaria importanza nelle istanze di liberazione nazionale: essa
riguarda la libertà umana, nel percorso che porta alla liberazione della nostra terra."
Attualmente ci sono 4.500 combattenti per la libertà palestinesi incarcerati nelle prigioni israeliane, tra cui 31
donne, 175 minori e 700 detenuti in detenzione amministrativa. Ci sono attualmente 723 palestinesi detenuti nelle
carceri israeliane senza processo, inclusi 11 bambini. Il numero dei prigionieri detenuti senza accusa né processo – la
cosiddetta detenzione amministrativa – è aumentato in modo significativo, la più alta dal 2008.
52 dei detenuti amministrativi sono stati trattenuti durante l’offensiva israeliana contro i palestinesi a Gaza,
all’inizio di questo mese, e durante la repressione contro il movimento del Jihad islamico nella Cisgiordania occupata.
Non vengono portati davanti a un tribunale e ai loro avvocati non sono fornite le prove contro di essi, a parte un breve
riassunto dei principali sospetti. Gli ordini di detenzione sono firmati dal capo del comando centrale delle forze di
difesa israeliane, sulla base di un rapporto d’intelligence riservato. Vengono quindi presentati a un giudice che è
tenuto ad approvare la detenzione, senza che i prigionieri siano presenti. l Servizio penitenziario israeliano (IPS) ha
fornito dati al Movimento per la libertà d’informazione che dimostrano che, a metà giugno, 184 palestinesi, tra cui un
bambino, erano detenuti amministrativamente da oltre un anno. L’IPS tiene i prigionieri palestinesi in condizioni
deplorevoli, privi di standard igienici adeguati. Sono stati anche sottoposti a torture, molestie e repressioni
sistematiche.
Giovedì 1 settembre il Comitato Supremo Nazionale di Emergenza del Movimento Nazionale dei prigionieri nelle carceri di
occupazione sioniste ha deciso di fermare lo sciopero della fame aperto dopo che l’amministrazione carceraria ha
ritrattato la sua decisione di trasferire periodicamente e arbitrariamente i prigionieri a vita. In una dichiarazione il
Comitato ha confermato che il nemico sionista e i suoi strumenti rappresentati nell’amministrazione carceraria si sono
resi conto che i prigionieri erano pronti a pagare ogni prezzo per la loro dignità e diritti. E che dietro di loro c’è
una resistenza e un popolo che è disposto a pagare tutti i costi pur di sostenere i suoi combattenti nelle prioni
sioniste. È per questo che il nemico ha deciso di fermare le sue misure ingiuste e le misure arbitrarie contro i figli
del popolo catturati e quindi rispondere alle loro richieste. Il Comitato ha ringraziato tutta la nostra gente e tutte
le persone libere del mondo che l’hanno sostenuta in questi passi e ha ringraziato le fazioni per la loro grande
disponibilità a sostenere la sua lotta. Il Comitato di Emergenza ha aggiunto che l’arretramento del nemico dalle sue
misure indica che questo nemico non si ritira dalla sua aggressione se non quando vede la nostra fermezza e la nostra
unità che si incarna ogni volta nella forza delle famiglie. Ha anche reso omaggio ai nostri prigionieri per la loro
lunga pazienza e per la loro costante disponibilità ad affrontare l’aggressione, mostrando i più alti livelli di
disponibilità al sacrificio per preservare la loro dignità ed i loro diritti.
Il 22 settembre il Club dei Prigionieri palestinesi (un organismo indipendente con sede a Ramallah) ha reso noto che 30
detenuti amministrativi nelle carceri dell’occupazione hanno deciso di iniziare uno sciopero della fame a oltranza,
domenica 25 settembre, per protestare contro la loro prigionia. Mercoledì, il Club ha diffuso una nota in cui i detenuti
hanno affermato: “Quattro giorni ci separano dal lanciare la nostra battaglia contro la detenzione amministrativa. Siamo
pronti ai massimi livelli, in attesa che venga dato il via, il 25 di settembre”. Due settimane fa, i detenuti hanno
inviato un messaggio in cui hanno sottolineato che la loro detenzione amministrativa continua e che l’amministrazione
delle carceri di occupazione si sta vendicando contro il loro passato militante.
30 detenuti amministrativi del “Fronte popolare per la liberazione della Palestina” hanno annunciato l’intenzione di
intraprendere uno sciopero della fame a oltranza, per protestare contro la loro detenzione amministrativa, l’estensione
ripetuta della carcerazione e le condizioni inadeguate nelle carceri. Lo sciopero avrà il titolo: “La nostra decisione è
libertà, il nostro sciopero è libertà”.

Settembre 2022, liberamente tratto da infopal.it, hadfnews.ps

***
LA LOTTA NEL TEMPO… UN TITOLO PER LE BATTAGLIE DEI PRIGIONIERI
Lo stato di conflitto permanente tra i prigionieri e il carceriere sionista si basa sul principio del controllo e del
controllo del tempo, attraverso il quale persone e luoghi possono essere gestiti e diretti. Il conflitto in questo caso
è tra due programmi e due volontà di controllare il tempo e riempire il teatro sociale dietro le mura, definendo un
programma di controllo da parte del carceriere, in opposizione ad un programma di confronto e contro-mobilitazione da
parte del Movimento prigionieri. Di conseguenza c’è la volontà di morte, di oppressione e di svuotamento politico,
nazionale, sociale e culturale che il carceriere vuole per il prigioniero, per cancellare la sua volontà di vita, di
pazienza e di mobilitazione politica, nazionale, sociale e culturale. La spiegazione della situazione di conflitto
nell’introduzione serve per rispondere a domande che ruotano nella mente di coloro che seguono i problemi dei detenuti,
come ad esempio: che cosa è la prigione? Qual’è l’atmosfera che si percepisce? Che cosa è l’uniforme? Cosa significa la
battaglia per una penna, un cucchiaio o il controllo del cibo? Quali sono gli scioperi, la restituzione dei pasti,
l’astenersi dall’uscire per una pausa o l’interruzione della conta (numero), o i controlli di sicurezza … ecc.? Cosa
sono le procedure e le forme di resistenza che adottano i detenuti?
Alcuni non si rendono conto di cosa si tratta perché non percepiscono di cosa si tratta e perché non non si rendono
conto del significato del tempo in carcere e della necessità di controllarlo. Il TEMPO è la materia da cui “viene
estratta la vita”. La prigionia è uno spazio geografico, modellato e limitato da muri, fili spinati e alte torri di
avvistamento progettate per isolare il prigioniero dalla vita e fargli perdere il significato della sostanza del tempo,
al fine di controllarlo e controllarlo, per trasformarlo in una mostruosità vincolata da esperienze anguste, ordini
imposti e tempi cronometrati. Ciò che è insito in queste due definizioni è: il tempo di prigione. È un tempo parallelo
in cui viene massacrato il valore umano dell’essere umano come individuo, un tempo in cui il palestinese viene spogliato
della sua identità palestinese, del suo arabismo, della sua umanità e lotta e spogliato davanti al carceriere che per
rimuovere tutto questo usa una serie di misure.
1) La conta – (il numero). I carcerieri fanno irruzione nelle celle dei detenuti, a volte indossando elmetti e maschere,
armati di manganelli, bombole di gas e forse anche di più, tutto con il pretesto di controllare il numero dei detenuti
presenti ed assicurarsi che nessuno sia fuggito. Succede con una media di una volta ogni sei ore durante il giorno, che
non ha senso perché i casi di fuga sono in genere di notte; quindi il vero obiettivo è riempire il tempo dei detenuti
con misure repressive.
2) Il controllo di sicurezza. Comprende anche l’intrusione nello spazio vitale dei detenuti, l’interruzione del loro
orario, l’imposizione dell’orario del carceriere al fine di confermare il principio di ansia, fragilità o permissività,
con concetti chiari ed è solitamente accompagnato dagli strumenti di oppressione e si svolge per due volte nella maggior
parte dei giorni. Durante il controllo i carcerieri, come scusa, entrano nelle celle per esaminare pavimenti,
inferriate, finestre e porte, per assicurarsi che non ci sia evasione.
3) Ispezioni. E’ una procedura di routine che non ha un tempo preciso, quindi è improvvisa e semi-periodica senza
limitazioni, volta a creare uno stato di confusione e di preparazione permanente alla possibilità di un attacco.
4) Cibo. Il guardiano mira a distribuire il cibo ad orari regolari in modo da limitare il tempo e collegarlo tra due
pasti, per ridurre l’attenzione e distribuire il tempo del prigioniero, oltre a ricattarlo.
5) Movimenti permanenti. Crea uno stato di instabilità, ansia costante, fragilità e permissività del corpo, del tempo e
del luogo. Queste azioni quotidiane di base sono seguite da centinaia di piccole azioni il cui obiettivo può essere
realizzato solo collegandole tra loro per mostrare la ripetizione di tali azioni e i loro obiettivi come: la presenza
permanente della polizia, i tour di ispezione notturna, le telecamere e la sorveglianza. Ed anche la limitazione dei
movimenti, la prevenzione delle attività, limitando il tempo delle attività sportive o di altro genere, limitando
l’apertura o la chiusura delle porte, con lo scopo di imporre disciplina e obbedienza al carceriere.
Le politiche precedenti sono di confermare che le procedure di routine quotidiana totale servono a stringere la presa
sui prigionieri e il loro tempo, di creare una mentalità del seguace disperso svuotandolo politicamente e trasformandolo
in una persona obbediente. I detenuti hanno capito queste misure e il loro scopo attraverso l’osservazione ed il
controllo contro il carceriere, l’autocontrollo e la regolarità e persino con il controllo degli istinti, dei desideri,
dei bisogni e assicurando una vita collettiva di solidarietà regolata dalla legge dei detenuti contro la legge del
guardiano. La legge sui prigionieri includeva il diritto alla collettività e all’ordine, il diritto di protestare e
imporre la propria volontà togliendo il principio del controllo del tempo, che da allora è diventato una legge di
conflitto; interrompere il numero (la conta-ndr) è una contromisura alla decisione del carceriere di imporre il suo
programma. Quindi con l’interruzione chi è prigioniero dell’altro?? Allo stesso modo mentre viene condotto un controllo
di sicurezza disabilitarlo significa interrompere l’orario del carceriere, minacciarlo di ribellione e ricorrere alla
violenza, organizzare casi di fuga riusciti, tutte cose che intimidiscono il carceriere che interrompe le sue procedure
per controllare il tempo sotto la giustificazione della sicurezza. Il rifiuto di ricevere o restituire il cibo od
insistere per ottenerlo collettivamente, insieme al diritto di ottenere cibo e utensili da cucina, è una resistenza al
tentativo di umiliare e controllare i detenuti. Lo stesso vale per il rifiuto di uscire in carcere che significa
rifiutarsi di controllare l’orario di apertura della prigione e delle porte, contro l’imposizione di una legge e di un
programma speciali per i detenuti, in modo che questi non possano contrattare con altri detenuti per qualsiasi cosa:
anche se è una penna o un cucchiaio per mangiare. Il diritto allo studio e la sua regolarità, l’organizzazione delle
sessioni, i circoli di ricreazione, culto e lettura, il diritto ai libri e alla biblioteca sono contromisure per
affrontare il carceriere e diventano titolo di battaglia. Allo stesso modo, l’astensione dal cibo o lo sciopero è una
minaccia per il carceriere, dato che la vita è troppo a buon mercato perché il prigioniero possa essere rimosso e
controllato, quindi la sua vita è direttamente minacciata oltre che a privarlo della possibilità di fare danni, poiché
la morte è l’arma in questa battaglia. Quanto al diritto alle cure e all’autoconservazione, è una battaglia quotidiana:
se (la presunta umanità e democrazia del carceriere) non permette di ottenerle, allora la minaccia di morte è una
battaglia e un’arma, quindi la battaglia di sciopero (della fame -ndr) è considerata “una battaglia aperta alle
possibilità e ai risultati”. Anche il controllo del ritmo della vita e del movimento è una battaglia, nel senso che il
carcere e il carceriere sono minacciati di interruzione a favore dell’imposizione dell’orario di un prigioniero. Avere
un canale di notizie o un telegiornale è sinonimo di obiettivo del prigioniero. Pertanto il recupero del tempo è
l’obiettivo di tutte le misure che i prigionieri considerano strumenti nelle loro battaglie, per riappropriarsene in
modo coerente con la narrazione della libertà e della verità. L’arma dello sciopero della fame di fronte alla guerra
condotta dall’occupazione contro il nostro popolo e che prende di mira i suoi prigionieri, è respingere l’attacco
iniziato a Gaza, Jenin, Nablus, Lod, Ramla, Galilee e il Negev non finiranno nelle carceri perché il governo e la
comunità sionista hanno sete di sangue e torture, soprattutto dopo che le misure del carceriere non sono riuscite a
prevenire la battaglia del tunnel 2021, né la battaglia per il controllo e la vittoria che i prigionieri ottengono
controllando il loro tempo, in opposizione al fallimento dell’occupazione e del suo braccio: il Servizio Penitenziario.
Un nuovo attacco che sta creando instabilità per i prigionieri con condanne elevate ed ergastoli, oltre al tentativo di
spingere per la distruzione dell’unità del movimento prigioniero e delle sue organizzazioni, attraverso lo spostamento
permanente dei prigionieri, l’imposizione di pene a ciascun detenuto e quello di rendere detenzione e organizzazione un
fatto individuale, tutto questo i prigionieri rifiutano e sono pronti a dare battaglia per raggiungere le richieste:
fermare l’attacco, revocare le sanzioni, migliorare le condizioni di vita, fermare la politica del “rischio di fuga”,
controllare gli insetti, migliorare lo stato di salute, medicine, cibo, aumentare i canali televisivi, consentire il
telefono pubblico e migliorandone le condizioni e ponendo fine all’isolamento, ecc. I prigionieri si preparano per uno
sciopero che include 1.000 prigionieri con una prima fase che vede muoversi il 25-30% della forza del movimento di
prigionia, seguito da altri e da altre tattiche che includono astenersi dall’acqua potabile.

1 settembre 2022
Il prigioniero Munther Khalaf Mufleh, Membro del Comitato Centrale del FPL

***
NESSUNA TECNOLOGIA PER L’APARTHEID
I lavoratori del settore Hi-Tech negli Stati Uniti hanno organizzato azioni in diverse città l'8 settembre scorso,
chiedendo alle multinazionali Big Tech di abbandonare il contratto Project Nimbus con lo stato di polizia dell'apartheid
di Israele. Il Project Nimbus è un contratto da 1,2 miliardi di dollari che Amazon e Google hanno stipulato con il
governo e l'esercito israeliano per il "cloud computing" ovvero un programma di sorveglianza e quindi di persecuzione
del popolo palestinese attraverso l'intelligenza artificiale.
Le azioni si sono svolte a Seattle, New York City, San Francisco e Durham in North Carolina. A Seattle, gli attivisti
hanno parlato delle ragioni per cui i lavoratori non sosterranno il progetto sionista e si opporranno alla cooperazione
delle forze israeliane con il Dipartimento di Polizia di Seattle: “Il popolo palestinese deve affrontare orrori
indicibili di oppressione da parte del governo israeliano. Le persone vengono allontanate con la forza dalle loro case,
molestate e picchiate nelle strade e costantemente spiate da una delle divisioni di cybersecurity più avanzate al
mondo”. Diversi discorsi si sono susseguiti durante il presidio a Seattle sul perché i lavoratori del settore
tecnologico non sosterranno tutto questo. Il tema principale era chiaro: i lavoratori vogliono costruire tecnologie per
unire le persone, non per terrorizzarle. E l'addestramento su Project Nimbus della polizia di Seattle insieme alle forze
israeliane, non solo terrorizzerà ulteriormente la vita dei palestinesi ma alla fine sarà usata anche come tecnologia-
volano contro gli attivisti, chi fa politica a livello locale e contro tutti coloro che si oppongono alle ingiustizie di
questo mondo.I lavoratori di San Francisco "non vogliono che il loro lavoro sia usato per sorvegliare". Circa 150
persone hanno fatto un presidio davanti agli uffici di Google e Amazon in Market Street a San Francisco. Al presidio ,
molti erano giovani dipendenti che hanno preso parola al megafono: "Come lavoratori di questo settore non vogliamo che
il nostro lavoro venga utilizzato per sorvegliare i palestinesi, ampliare gli insediamenti illegali israeliani e
infliggere violenza ai palestinesi che vivono sotto occupazione militare”. "Mi sembra di vivere l'oppressione della mia
famiglia in Palestina", ha dichiarato un dipendente di Google. Un altro ex lavoratore di Google, Ariel Koren, che è
stato costretto a dimettersi dall'azienda dopo aver parlato, ha detto: "Non dimenticate che milioni di ebrei si
oppongono all'oppressione di Israele sui palestinesi e sono contrari anche a questo ennesimo progetto". Aisha, del
Movimento Giovani Palestinesi, ha detto che la sorveglianza del Progetto Nimbus "può essere usata per decidere quali
bambini possono essere autorizzati ad attraversare la strada per andare a scuola... quali giovani saranno mandati in
detenzione amministrativa... o chi sarà mandato in strutture dove si pratica la tortura. Ricordiamo che bambini di soli
13 anni sono stati incarcerati per anni". La tecnologia utilizza il riconoscimento facciale, che ha un margine di errore
notoriamente elevato, e sostiene persino di essere in grado di eseguire "analisi emotive" delle persone sorvegliate.
Breaking the Silence, un gruppo di veterani militari israeliani contrari all'occupazione, ha denunciato attraverso una
dichiarazione ufficiale che "la raccolta di dati sulla popolazione palestinese è parte integrante dell'occupazione"
mentre l'Arab Center for Social Media Advancement ha affermato che la sorveglianza di massa è "utilizzata per creare nei
palestinesi la sensazione di essere sempre osservati, il che potrebbe rendere più facile il controllo della popolazione
palestinese". Sharif Zakout, dell'Arab Resource and Organizing Center, ha sottolineato "il ruolo di Israele nella
repressione mondiale dei movimenti popolari come successo in passato, dove il governo sionista ha venduto armi alle
dittature fasciste in America Latina, supportando Pinochet in Cile e Somoza in Nicaragua.
Il libro "The Unspoken Alliance: Israel's Secret Relationship with Apartheid South Africa", di Sasha Polakow-Suransky,
documenta l’invio di armi, comprese quelle nucleari, da parte di Israele al governo razzista sudafricano negli anni '70
e '80, per combattere il nascente movimento per la libertà sudafricano dell'epoca. Oggi, software moderni come Nimbus
possono essere riesportati da Israele a regimi repressivi. “Come lavoratori, è nostra responsabilità chiedere ai nostri
datori di lavoro di rispondere dei contratti che firmano. Non dovremmo contribuire alle vessazioni e allo sfollamento
del popolo palestinese e non dovremmo costruire tecnologie che vengono utilizzate per opprimere. I lavoratori del
settore tecnologico dovrebbero essere inorriditi nel vedere la tecnologia utilizzata per sottomettere le popolazioni
oppresse in tutto il mondo.”

settembre 2022, da workers.org


Comunicato delle prigioniere in lotta dal carcere di torino
Il vero crimine è stare con le mani in mano.
Scriviamo da una cella della sezione femminile delle “Vallette”… ognuna di noi, dal 24 agosto al 25 settembre, farà
alcuni giorni di sciopero della fame: a “staffetta” ognuna di noi vuole esprimere solidarietà per tutti coloro che sono
morti suicidi, soli dentro una cella bollente… Ognuna di noi, aderendo a questa iniziativa non violenta, vuole esprimere
lo sdegno e il dissenso per il menefreghismo di una certa politica e delle istituzioni!
Per noi e per tutti i reclusi la “cattività” in cui ci vorreste tenere a vita è inaccettabile. Mentre voi non ci
nominate noi vi accompagniamo fino al giorno delle elezioni, poi dopo si aprirà l’ennesimo capitolo… ci negate una
riforma da anni… ciò nonostante noi non ci zittiamo! Chiediamo il supporto e la solidarietà di tutti coloro che si
occupano di diritti di far arrivare le nostre voci ovunque…. serva!
Le voci nostre e dei compagni che non ce l’hanno fatta!
Un abbraccio prigioniero. Le ragazze di Torino.

Torino, 23 settembre 2022

***
Piattaforma rivendicativa dal Carcere Lorusso e Cutugno di Torino
I detenuti e le detenute del carcere Lorusso e Cutugno da mesi lottano per ottenere i diritti basilari a garanzia del
rispetto della dignità umana che all’interno del carcere delle Vallette di Torino non sono garantiti: sovraffollamento e
mancanza dello spazio vitale, docce senza acqua, infestazione da scarafaggi, mancanza di pulizia e igiene, assistenza
sanitaria che funziona a singhiozzo, problemi legati allo smaltimento dei rifiuti.
La capacità dei detenuti e delle detenute di organizzarsi insieme e avere la forza di ribadire i propri bisogni,
all’interno di un sistema violento e mortificante come il carcere, deve essere sostenuta con forza anche dall’esterno,
cercando di diventare cassa di risonanza di queste lotte.
Di seguito pubblichiamo la piattaforma rivendicativa dei detenuti del blocco B del Carcere Lorusso e Cotugno di Torino,
consegnata a Joli Ghibaudi dell’associazione Antigone e ai consiglieri regionali Francesca Freidiani e Marco Grimaldi in
occasione della loro vistita il 13 luglio.

I detenuti del blocco B del carcere Lorusso e Cotugno rilevato che:
- il referendum e la riforma Cartabia sono l’ennesima delusione per tutta la popolazione detenuta;
- il reintegro in servizio dell’ex comandante Giovanni Alberotanza, imputato in un processo per tortura ai detenuti, non
può che destare preoccupazione;
Preso atto di ciò intendono porre all’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, problemi gravi che
affiancano il cronico sovraffollamento della struttura e l’inadeguatezza degli spazi.
- QUESTIONE SANITARIA: l’uso discriminatorio da parte della direzione sanitaria nella prescrizione dei medicinali tra
chi ha la disponibilità economica e chi no. L’estrema burocratizzazione del servizio. La presenza nelle strutture
detentive di detenuti con problemi di natura psichiatrica che non hanno titolo giuridico per restarvi.
- QUESTIONE AMBIENTALE: primo, la totale assenza al blocco B di qualsiasi forma di raccolta differenziata. Ad esempio:
in questi mesi estivi vengono acquistate ogni settimana tra le 400 e le 500 bottiglie di plastica per 12 sezioni, quindi
tra le 4.800/6.000 bottiglie finiscono nei sacchi neri dell’indifferenziata. Inoltre in nessuna sezione e rotonda del
piano sono presenti raccoglitori per le pile, nonostante l’elevato uso per via dell’utilizzo di radio e rasoi (40/50
pile al mese vengono acquistate in ogni sezione). Carta, cartone e organico finiscono anche nei sacchi neri.
- QUESTIONE IGIENICA: in tutte le sezioni e rotonde del carcere è costante la presenza di scarafaggi, afidi e blatte.
Non viene effettuata nessuna opera di prevenzione dalle infestazioni. La fornitura di prodotti per l’igiene e la pulizia
scarseggiano e non vengono distribuiti.
31 luglio 2022, da infoaut.org


LETTERA DAL CARCERE DI CREMONA
Ciao a tutte e tutti, spero che questa mia vi trovi in salute e nel fresco, qui canicola umana e si spera in correnti
d’aria notturne; spero questa sia la mia ultima e di poterci parlare di persona tra poche settimane quando, finalmente,
finirà tutta sta storia qua!

Ad inizio giugno, il tre mi pare, qui c’è stata quella che i pennivendoli dell’informazione hanno bollato come rivolta
ma alla fine tutto si è risolto con una cella bruciata e cinque trasferiti… nessun giornalista si è sognato di indagare
un po’ più in profondità, o almeno di ragionarci, e la spiegazione è stata il semplice taglio, dal carrello della
terapia, di un ansiolitico; ma la cosa è un po’ più articolata e complessa. Tre settimane prima del fatto l’area
sanitaria ha radunato tutti i detenuti che facevano uso del farmaco e ha avvisato che dal primo di giugno avrebbero
sostituito la “Lyrica” con un esavalente ma solubile, allo stesso modo avevano tagliato dalle buste paga delle ore di
lavoro a tutte le posizioni lavorative, piantoni compresi, senza però che le ore effettive siano calate sul serio. I
detenuti che sulla carta facevano uso dell’ansiolitico erano una quarantina, ma ufficiosamente, con il mercato nero
interno per capirci, erano più di 200, la metà della popolazione dell’istituto, molti avevano un piantone, cioè un
aiutante nelle faccende giornaliere, cucinare e pulire, solo perché avevano prescritta molta “Lyrica” giornaliera, è
verosimile pensare che tutta questa bega sia solo dovuta al taglio del budget; i risvolti, però, li noti solo se qui ci
vivi: la normale prassi vuole che nel momento in cui io faccio a te da piantone, il mio stipendio che a volte arrivava a
1.000 euro, lo dividiamo; con il taglio in busta paga e il livellamento ad un’ora percepita giornalmente lo stipendio è
sceso a 210 euro dai quali bisogna levarne poco più di 100 euro per il mantenimento lasciando così piantone e piantonato
con 50 euro mensili (se sono fumatori gli bastano per una sola settimana) e così molte coppie hanno litigato e si sono
divise; il problema è che chi il piantone l’aveva perché costretto in carrozzina o perché impossibilitato da problemi
psichici o ad autogestirsi rientra nel calderone del taglio al budget indiscriminato e, così si sono venute a creare
situazioni al limite, nessuno vuole fare più il piantone, il mercato del lavoro si è spostato su altre figure e il
malessere di quei pochi ai quali un aiuto sarebbe servito è aumentato. L’ansiolitico è stato prescritto con troppa
leggerezza probabilmente per tener tranquillo l’ambiente (terapia sulle masse così le teste restano basse!) e questo è
un film già visto, qualcuno ne ha approfittato e anche questo è un film già visto, il proibizionismo mascherato a
sostituzione non ha funzionato e solo dopo due sere “il cambio” una cella è bruciata, la seconda di riflesso tutto
questo rientra in problemi cronici di gestione di posti come questi, lascia pensare che per il taglio degli stipendi
nessuno si sia fatto sentire. Questo è quanto ringraziandovi dei libri e del supporto i miei piantoni siete voi! Vi
mando i soliti abbracci.

Cremona, 3 luglio 2022

***
Psicofarmaci, piantoni, anarchici-badanti e jihadisti
Quotidiani nazionali riportano la notizia di una rivolta avvenuta in giugno nel carcere di Cremona e la cronaca del
diniego da parte di un prigioniero anarchico a essere “…arruolato come ‘badante’ di un affiliato alla Jihad con turbe
psichiche…”.
Nel primo caso i giornali parlano di lenzuola e suppellettili date alle fiamme e della successiva inagibilità di due
piani dell’istituto penitenziario con il trasferimento di 80 detenuti, a causa della sostituzione di uno psicofarmaco
somministrato a soggetti tossicodipendenti e con disagi psichici.
Si evince dalle parole [della lettera precedente] che le motivazioni della protesta di Cremona sono ben diverse e
articolate rispetto a quelle narrate da chi, nella migliore delle ipotesi, si fa dettare l’agenda dalla questura di
turno, nella più misera, si rivela il più infame dei reazionari. La realtà dei fatti descrive invece il carcere come un
luogo di privazioni, logorante il fisico, la psiche e la dignità. Checchè i pennivendoli dell’informazione si impegnino
a disinformare, tentando di sviare la questione su un terreno terroristico-emergenziale, il fetore di un’istituzione
marcia, che a prescindere andrebbe abolita, non può né essere travisata per quello che non è né tantomeno essere
edulcorata per il luogo di recupero e reinserimento sociale.
Passando alla seconda notizia di cronaca accennata nell’introduzione, ha attirato la nostra attenzione il fatto che un
noto quotidiano nazionale sottolineasse il rifiuto di tutoraggio da parte di un prigioniero anarchico nei confronti di
un detenuto per terrorismo di matrice islamica con disturbi psichici.
Complice forse la misera occasione, dopo il trasferimento di Alfredo Cospito al 41bis, di cavalcare l’onda del tiro
all’anarchico cattivo, si è pensato bene di dare i voti a quella che agli occhi dei media progressisti sarebbe dovuta
essere una scelta umanitaria, per giunta da parte di un anarchico che, per antonomasia, secondo lo stereotipo
ottocentesco, dovrebbe essere l’emblema della bontà e della rettitudine sociale. Aver rifiutato poi del “volontariato
sociale”, nello specifico il ruolo di “…"peer supporter" la cui attività però viene appositamente pagata", deve aver
solleticato le pruderie sarcastiche di chi ritiene di essere pervaso di supposta superiorità morale. La giornalista avrà
visto nella vicenda un’occasione troppo ghiotta per sponsorizzare l’idea del carcere all’avanguardia, modello 4.0,
fondato sul reinserimento del detenuto-cittadino nel nuovo ordine sociale tecno-digitale e delle difficoltà che si
debbano affrontare per scardinare le resistenze di chi, “poverino”, proprio non riesce a capirlo questo nuovo ordine di
mondo.

IL CAPITALISMO NUOCE GRAVEMENTE ALLA SALUTE
“Una buona salute mentale consente alle persone di lavorare in modo produttivo e di realizzare appieno il proprio
potenziale. Al contrario, una cattiva salute mentale interferisce con la capacità di lavorare, studiare e apprendere
nuove competenze. Essa ostacola i risultati scolastici dei bambini e può avere un impatto sulle prospettive
occupazionali future. I ricercatori stimano che solo a causa della depressione e dell'ansia si perdono ogni anno 12
miliardi di giorni lavorativi produttivi, per un costo di quasi 1.000 miliardi di dollari. Questo dato comprende i
giorni persi per assenteismo, presenzialismo (quando si va al lavoro ma non si lavora) e turnover del personale.” (World
Mental Health Report. Tranforming mental health for all; Cap. 4.3.2 Economic Benefits; OMS 2022).
Il 13 e 14 ottobre 2022 si terrà a Roma l’incontro internazionale promosso dall’OMS (Organizzazone Mondiale della
Sanità) in cui si presenterà il World Mental Health Report.
È in questa occasione che nasce la chiamata a scendere in piazza a Roma Giovedì 13 Ottobre.

Occuparsi delle cause non genera profitto. La gestione sanitaria dell’emergenza pandemica ha evidenziato una totale
assenza di interventi diretti ad approfondire le cause che l’hanno determinata, occupandosi esclusivamente dei sintomi.
Focalizzare l’attenzione sulla ricerca delle cause avrebbe significato inevitabilmente attuare una radicale
trasformazione delle politiche sociali, economiche, ambientali, sanitarie, relazionali. Troppo costoso e quindi, poco
produttivo. La psichiatria funziona con le stesse modalità: al presentarsi di una crisi non vengono prese in
considerazione le cause che l’hanno determinata, la persona viene espropriata della possibilità di esprimere i propri
significati e di autodeterminarsi attraverso un potere del tutto arbitrario il cui interesse non é affatto quello
dichiarato della cura, ma piuttosto la progressiva medicalizzazione e cronicizzazione della crisi. Lo Stato in questi
due anni si è comportato allo stesso modo: in nome di una presunta irresponsabilità collettiva ha imposto le sue
direttive dall’alto imponendosi come organo iper¬razionale, una mente che ‘decide’ e sovradetermina il ‘corpo’ sociale,
che in quanto ‘corpo’ è ad esso subordinato secondo un dualismo riduzionista para-psichiatrico appunto. Lo Stato e i
suoi tecnici hanno valutato lo ‘stato di necessità’ secondo le leggi dell'economia, e gestito l’emergenza/crisi con la
contenzione – l’esproprio della salute – esattamente come avviene in psichiatria. Allo stesso modo si è imposto un
trattamento farmacologico col ricatto, impedendo alle persone di esprimere il proprio consenso, assicurando l’immediato
introito per Big Pharma e lasciando solo chi ha subito le conseguenze sulla propria salute degli effetti collaterali del
vaccino.
Per la libertà di scelta, contro l’obbligo di cura. L’attuale prassi nelle istituzioni psichiatriche prevede
l’assunzione obbligatoria di psicofarmaci che a lungo termine risultano il più delle volte essere dannosi e invalidanti.
La progressiva cronicizzazione della sofferenza è funzionale da un lato alla presa in carico a vita dall’altro al
profitto delle multinazionali del farmaco. La parola della persona non viene presa in considerazione o addirittura
giudicata come sintomo della malattia, mentre vivere in una società fondata sulla prestazione e l’individualismo, la
solitudine e l’assenza di una dimensione comunitaria sembra cosa del tutto normale. Si interviene sui sintomi
categorizzandoli come espressione di “malattia mentale” ricorrendo ai Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), alla
contenzione fisica, meccanica e farmacologica. Nei Centri di Igiene Mentale (CIM) i colloqui sono troppo brevi e non c’è
nessuna possibilità di essere ascoltatз o di esprimere dubbi e difficoltà. Crediamo che rivendicare il diritto ad avere
parola e ad autodeterminarsi significhi anche riappropriarsi delle proprie esperienze, delle difficoltà, della
sofferenza e della molteplicità di modi per affrontarla. Siamo convintз che ci siano persone, tra coloro che operano
all’interno delle strutture sanitarie, che si rifiutano di essere complici di questo sistema di oppressione e che
preferiscono slegare piuttosto che contenere, ascoltare piuttosto che mettere a tacere con i farmaci, essere solidali
con chi si sottrae alle logiche di competizione. Sono loro che vorremmo al nostro fianco.
Tecnologie e digitalizzazione: la relazione negata. Si parla di “salute mentale digitale”, un processo che
strumentalizza le retoriche dell’innovazione, dell’accessibilità e dell’inclusione, introducendo invece forme sempre più
specializzate di controllo, disciplinamento ed esclusione. Una “salute” sempre più delegata al dispositivo tecnico,
costruita intorno alle esigenze del mercato dell’industria tecnologica e all’inesorabile sottrazione di reali spazi di
soggettivazione, autodeterminazione e solidarietà dal basso.
Contro il proibizionismo per la riduzione del danno. C’è un’evidente contraddizione nei proclami dell’OMS, da un lato si
promuove il consumo di sostanze “psicotrope” legali con effetti disastrosi, dall’altro si criminalizza l’autoconsumo di
sostanze psicoattive. Al mondo un detenuto su cinque è in carcere per violazioni delle leggi sulle droghe. In Italia
circa un terzo della popolazione detenuta è in carcere per questo motivo. Il proibizionismo non solo ha fallito, ma è
esclusivamente funzionale al controllo sociale e a finanziare narco-mafie e narco-stati utili al riciclo e alla
riproduzione del Capitale. E’ fondamentale dare voce allз consumatorз, attivando politiche dal basso improntate alla
riduzione del danno e al consumo consapevole.
Per l’abolizione della contenzione e dell’elettroshok. Nonostante le belle parole dell’OMS nei reparti psichiatrici si
continua a morire legati nei letti di contenzione. Continuano ad essere praticati dispositivi manicomiali e coercitivi
come l’uso dell’elettroshock, l’obbligo di cura, la contenzione farmacologica, le porte chiuse, le grate alle finestre,
le limitazioni e il controllo della libertà personale. Non c’è salute nei CPR, nelle carceri, negli SPDC, luoghi di
tortura e annientamento delle persone. Non c’è salute dove c’è violenza e discriminazione di genere, senza diritto
effettivo all’aborto e supporto alla genitorialità. Non c’è salute nelle politiche economiche che finanziano armamenti e
guerre, sottraendo risorse alla collettività e ai bisogni delle persone. La salute che vogliamo si basa su percorsi di
solidarietà, autogestione e mutualismo dal basso. E’ il frutto dell’interdipendenza tra corpi, condizioni sociali e
ambientali. Non si può garantire salute per tuttз, senza lavoro, scuola e università, spazi comuni e di socialità
liberati dalle logiche del profitto neoliberista. Crediamo che non ci sia bisogno di uno Stato né di un’organizzazione
Mondiale che si proponga di riorganizzare e che sovradetermini la nostra salute e le nostre vite. Siamo convintз che
ritrovarsi, ricostruire delle relazioni e delle comunità, riprendersi strade e spazi, possa essere un primo passo per
aprire un orizzonte nel quale dar vita a luoghi liberi dalle dinamiche individualistiche, di sfruttamento e
mercificazione.
Presidio comunicativo giovedì 13 ottobre alle ore 11.00 - Piazza del Risorgimento – Roma, INVITIAMO TUTT3 A
PARTECIPARE!
settembre 2022, Assemblea Antipsichiatrica


Lettera dal carcere di siano (cz)
Segue una lettera indirizzata all’Associazione ampi orizzonti, all’Associazione Yairaiha onlus di Sandra Berardi, al
Ministero della giustizia, al Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, al Garante Nazionale dei Detenuti Mauro Palma,
al ministro di giustizia Marta Cartabia.

Cari amici e amiche delle associazioni Ampi Orizzonti e associazione Yairaiha onlus.
Sono il detenuto Luigi Iannaco, ristretto presso il carcere di Siano Catanzaro dal 10.01.22. Come ho avuto già modo di
farvi sapere nei giorni scorsi, grazie alla strafottenza e alla incapacità della sanità di questo carcere sono stato
colpito da due emorragie che mi hanno portato quasi alla morte, un’emorragia all’apparato portale, ed un’emorragia alle
varici esofagee, entrambe dovute al fatto che sono cirrotico dal 2013 e ormai il mio fegato non funziona più fino al
punto che devo essere sottoposto a trapianto. Sono stato 27 giorni in ospedale per fermare la fase acuta dell’emorragia
all’apparato portale e al legamento delle varici esofagee per bloccare il sanguinamento.
Il fatto è che sono stato curato per la fase acuta, ma quella cronica è pericolosissima in quanto coloro che hanno avuto
un sanguinamento alle varici esofagee, nell’arco del primo anno dall’intervento, nel 70% dei casi si ripete il
sanguinamento e nell’80% che ciò avviene la persona muore.
Ora io ho avuto già due emorragie, pertanto quella che verrà sarà la terza, in questo caso, la statistica di
sopravvivere nei miei confronti a quando si è ridotta? Al 10%, al 5%, non si sa. Con il mio legale (Antonio Lodovigo)
abbiamo inoltrato una richiesta di detenzione ospedaliera per avere una possibilità in più di sopravvivere in quanto
all’interno di un ospedale io avrei a disposizione tre strumenti fondamentali che possono salvarmi la vita: un
gastroenterologo, un anestesista e una sala operatoria: agire in modo tempestivo nei miei confronti è fondamentale e
della massima importanza.
In questo momento mi trovo in un C.D.T. carcerario (Catanzaro) dove questi strumenti non esistono e dove addirittura non
c’è nemmeno l’assistenza medica h24, anche se comunque non servirebbe a nulla perché non ci sono a disposizione gli
strumenti necessari. Inoltre, come già accennato poc’anzi, la professionalità, la serietà e la moralità di alcuni di
costoro (ripeto, alcuni) praticamente è andata a farsi fottere. Infatti ho aperto un contezioso penale e civile nei loro
confronti, inoltrando un esposto sia alla procura della repubblica di Catanzaro, sia al tribunale civile dello stesso
distretto, per danni morali e materiali.
Detto questo, ora voglio aprire una parentesi sul comportamento morale di alcune dottoresse che espletano il loro lavoro
all’interno di questo istituto.
Inizierò da una e poi man mano proseguirò con altre, cosicché tanti addetti ai lavori girano la testa dall’altra parte e
fanno finta di niente e addirittura più di qualcuno di essi partecipa a questo puttanaio, dico a questo persone: avete
ucciso Michele Carosiello. Avete ucciso Giuseppe Cozzolino, io non sono morto, non ci siete riusciti, male, molto male,
questa una missione che mi ha dato dio salvandomi la vita ed io questa missione la porterò a termine con caparbietà e
perseveranza:
la dottoressa F.B. è giunta in questo istituto nel mese di gennaio del 2020 […] quando prese servizio qui, subito si
notò la sua spigliatezza, infatti confidenza a gogò con tutti, sia detenuti che guardie, seduta sulla scrivania delle
guardie quando veniva nei piani per le visite mediche e regalini accettati dai detenuti, niente di che, ma accettati.
Poi noi detenuti sentiamo delle voci, però son cose che non ci riguardano e fai finta di niente, praticamente la
dottoressa aveva intrecciato relazioni intime con più di qualche guardia e con una di questi quando c’era il servizio
medico di notte. […] Giunge la notizia che un detenuto a cui la dottoressa aveva dato confidenza aveva tentato un
approccio verbale più intimo con la stessa e lei invece di chiamare la guardia sul piano aveva detto la cosa ad altri
detenuti, i quali avevano minacciato il detenuto.
Stesso e medesimo comportamento in un altro reparto del carcere, un detenuto aveva detto di aver visto la dottoressa in
ambulatorio fare cose poco gradevoli con una guardia (suo amante accertato) lo stesso detenuto non solo veniva
redarguito dagli altri detenuti, ma addirittura minacciato dallo stesso amante della dottoressa.
Ad un certo punto ti rompi gli zebedei, dici basta e decidi di capire chi hai di fronte e a chi parli dei tuoi problemi
di salute. Viene fuori un quadro desolante, parlando con una guardia che non conosco il nome mi dice che la dottoressa
in questione gira voce che faccia WhatsApp con un paio di detenuti che la chiamano dall’interno del carcere sul
telefono, penso che sia una bufala ma decido di informarmi se la cosa abbia un fondo di verità e chiedo a qualcuno.
Viene fuori così che la dottoressa effettivamente nei mesi che vanno da agosto 2021 a marzo-aprile 2022 si sentiva
tramite WhatsApp con un paio di detenuti ai quali aveva dato il suo numero e loro la chiamavano dal carcere.
Ora voglio fare un paio di osservazioni.
Prima osservazione, cosicché in carcere ad esclusione della direttrice nessun altro può usare il telefono se non in modo
illegale, come mai qualcuno della penitenziaria sapeva di questa vicenda e non ha riportato a chi di dovere la cosa?
Verificare la veridicità di tali voci era ed è semplicissimo, bastava stabilire le telefonate in entrata sul telefono
della dottoressa e queste telefonate da dove provenivano, se le stesse provengono dall’interno dell’istituto (cosa
verificabile) e nessun addetto ai lavori può introdurre il telefono in istituto, chi era a chiamare la dottoressa?
Qualcuno potrebbe trovare la scusante che non si può stabilire se le telefonate partivano dall’interno oppure dalla
porta carraia, a questi rispondo semplicemente che i telefoni oggi sono nominativi, pertanto sai benissimo chi è il
proprietario di un telefono e se quelle telefonate partono anche di sera è ancora più facile stabilirlo.
Come e perché non è stato fatto nulla? Perché non è stato avvisato il ministero? Perché non è stato avvisato il D.A.P.?
come mai tutte queste coperture e silenzi? Misteri della vita o volontà di coprire?
Una persona mi ha detto: sembra che questo contenzioso che hai aperto con la sanità di questo carcere sia quasi un fatto
personale: la risposta che do a questa persona e a tutti coloro che volessero farmi la stessa domanda è molto eloquente.
2 emorragie, una cirrosi epatica all’ultimo stadio, 27 giorni di ospedale, ho cacato e vomitato sangue ad iniziare dal
carcere per finire a farlo in un cesso di una stanza di ospedale dove sono stato raccolto da terra nel mio sangue in
shock emorragico e mancanza di ossigeno al cervello, 2 litri e 800 di sangue perso, 5 giorni a continuare a defecare
sangue nei pannolini, trasfusioni di sangue, plasma piastrine, cortisone, protezione per lo stomaco, flebo di
sostentamento, piastrine per il trapianto del fegato e in costante e perenne rischio di vita h24, pensate che sia un
fatto personale? Se non è questo un fatto personale, mi sapete dire quale cazzo lo è?
Chiedo cortesemente e gentilmente a voi associazione che ci date voce di aiutarmi in questa battaglia così ardua, non
lasciate che la mia situazione passi sotto silenzio altrimenti sarò un altro morto inutile all’interno di queste quattro
schifose mura delle carceri italiane.
Vi ringrazio dal profondo del cuore e con tutta l’anima per la vostra vicinanza, disponibilità, umanità. Vostro e
sempre, Luigi Iannaco

13 luglio 2022

A metà settembre abbiamo ricevuto una sua cartolina in cui Luigi ringrazia e ci informa che si trova a casa in
detenzione domiciliare per gravi motivi di salute.

LETTERA DAL CARCERE DI SULMONA (aq)
Carissimi compagni, vi scrivo queste poche righe per farvi avere mie notizie e informarvi che ho ricevuto l’opuscolo e
il giornale, ma soprattutto vostre notizie. Come sempre vi ringrazio per tutto quello che fate e per la vostra
solidarietà e sostegno che date con la vostra vicinanza a tutti i carcerati che lottano per la libertà. Ancora aspetto
per poter fare l’intervento della cataratta. Qui siamo 4 persone con questo problema, e al momento non sappiamo quando
ci fanno operare. Ci dicono che le difficoltà negli ospedali è per il covid. Comunque non ci arrendiamo e con forza
continua la nostra lotta per la vita e per la libertà. Per chi ha problemi di salute in carcere è una grande sofferenza
perché non hai assistenza medica e le difficoltà sono molte, soprattutto in questo momento del covid. E quindi è molto
difficile andare avanti a lottare per i propri diritti e contro le ingiustizie che sono tante e in tutte le carceri. Ci
vuole tanta forza e quella capacità con la misura di controllo di noi stessi per non abbattersi e continuare con tutte
le forze a lottare e andare avanti senza arrendersi mai. Gli uomini vivono e lottano finché sentono che la propria vita
ha un senso e valore e finché ha qualche cosa per cui vivere. Non appena senso e valore e speranza svaniscono dalla sua
esperienza, egli comincia a smettere di vivere. E’ difficile esprimere quello che sentiamo dentro al cuore ma è la forza
per la vita e la libertà la fiducia e la speranza della solidarietà umana che dà forza e aiuta a non abbattersi mai,
andare sempre avanti e non perdere mai la fiducia per la liberà. Saluti cari a tutti, Antonino.

Sulmona, 29 agosto 2022
Faro Antonino, Piazzale vittime del dovere - 67039 Sulmona (AQ)


lettere dal carcere di Ariano Irpino (AV)
Cari ragazzi, è con piacere che ho ricevuto il vostro piego contenente la lettera e il libro.
Vi ringrazio per il pensiero molto gradito, non vi dico che vi rimanderò subito i libri indietro una volta letti, anche
perché la “mia posta” è molto “ballerina”, ma giunto a Secondigliano cercherò di farveli riavere in modo tale che li
possiate ridistribuire. Vi chiedo solo un po’ di pazienza. [per tutti e tutte: i libri teneteli voi che possono sempre
essere regalati ad altri detenuti, ndr]
Qui ad Ariano non ci sono grandi lotte, nel senso che, come accennato ai compas fuori, se non fosse per il muro di
cinta, tutto sembrerebbe tranne che un carcere. Il clima è di quasi totale autogestione, il che rende la detenzione al
pari di un soggiorno vacanze da un lato, e un marasma dall’altro. Di fatto è una C.C. con 200 detenuti, posto nel quale
io con la mia condanna non dovrei neanche stare. Oltre alla cella e al passeggio non offre granché, ecco perché attendo
di essere trasferito al C.R. di Secondigliano, lì potrò portare avanti il percorso universitario, avrò la possibilità di
muovermi di più, il campo da calcio e la palestra fungono da valvole di sfogo come la biblioteca e l’uso – senza
Internet – del PC.
Riguardo la raccolta di firme vi invio un testo che abbiamo scritto tempo fa, ho incominciato a farlo girare nelle
carceri della Campania e in qualche Istituto in Puglia (Foggia e Bari) e ne ho mandate due copie – mai arrivate – a
Parma; è stato inviato a Reggio Emilia e Forlì ma siamo solo agli inizi. Il mio obiettivo prima di procedere con
l’invio, anzi, il mio auspicio è di superare le 50.000 firme. Se ci dovessimo riuscire e se ci dovesse essere bisogno
procederemo con un comunicato chiedendo il supporto di tutti in uno sciopero della “spesa” collettivo. Da quando hanno
saputo che ho scritto ‘ste due righe e ho iniziato a farle girare, la posta si è rallentata ancora di più. Ma noi non
molliamo e anche se a rilento procediamo. [...]
Riguardo Modena ho ricevuto un’altra proroga e sono ancora in attesa di essere ascoltato per Ascoli. So che sono usciti
articoli fuori con dichiarazioni in cui si fa il mio nome da parte di un certo Nello Trocchia. Ci tengo a dire che molte
delle cose scritte da questo signore non sono veritiere (alcune, preciso) non so perché abbia voluto scrivere in quel
modo, ma ciò che scrive non fa riferimento ad alcuna deposizione. [si riferisce ad un articolo apparso il 18 maggio 2022
su Il Domani, ndr]
[...] Sono io che vi mando un abbraccio solidale. Attendo vostre gradite notizie.
Vorrei avanzare una domanda e una richiesta se posso. Qualcuno si trova una copia di “Storia della follia” di Foucault?
Ho già letto “Il governo di sé e degli altri” e “Sorvegliare e punire”, sinceramente li ho trovati molto “illuminanti”.
[...] ho sempre più la convinzione che ad oggi il sistema carceri sia un apparato ben rodato, una macchina che oltre a
“reprimere e disciplinare” serve a macinare fiumi di denaro. Bloccare la spesa interna ha un peso sull’economia delle
direzioni. Sono anche convinto che contrastando il flusso di denaro alle direzioni si possa ottenere qualcosa. Mi
ricordo che il nostro reparto a Rebibbia spendeva quasi 30 mila euro alla settimana, il G9 contava quasi 300 persone
all’epoca, facendo un conto su 1.800 detenuti ci si rende conto di quanti soldi macinano le carceri. Solo se il detenuto
smetterà di essere una fonte di guadagno diventando un peso e gravando in tutto sulle direzioni “forse” otterremo
qualcosa. […]
Per quanto mi riguarda sono sempre in attesa del mio trasferimento c/o l’istituto di Secondigliano dove finamente potrò
dedicarmi allo studio senza tralasciare gli impegni (anche se qui al sud paradossalmente vengono poco capiti) a
malincuore devo ammettere che il detenuto ha subito un’evoluzione regredendo non poco su alcune tematiche… ma ci
proviamo ugualmente (contro il governo mai mollare).
Ora vi lascio con un abbraccio solidale.

25 giugno e 27 agosto 2022

***
Vitto e sopravvitto in carcere
Nel numero 149 dell’opuscolo avevamo riportato notizie riguardanti vitto e sopravvitto nelle carceri con il titolo:
“Quando detenuti diventano un business”. Si parlava di alimenti marci con anomalie e irregolarità nei prezzi e appalti
vinti a ribasso. Il regolamento del Dap prevede che i prezzi di vendita non possano eccedere quelli comunemente
praticati dagli esercizi della grande distribuzione nelle vicinanze dell'Istituto e che per offrire anche prodotti di
basso costo (vista la condizione di totale povertà che vivono quasi tutti i detenuti) il prezzo si fissa in base a
quello degli esercizi hard discount più vicini. Un detenuto ha raccontato che in tanti anni di detenzione non gli era
mai stato possibile acquistare, pagandola a prezzo pieno, carne che non fosse maleodorante.
In ogni carcere è prevista una "Commissione vitto", composta da tre detenuti scelti a sorte mensilmente per controllare,
sotto la supervisione di un incaricato dal direttore, il regolare andamento del servizio, dalla consegna delle derrate
alimentari al controllo della qualità e quantità, ma per un detenuto è rischioso segnalare irregolarità. Ci aveva
provato Ismail Latief a denunciare agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere di Velletri: ha subito
pestaggi e maltrattamenti sia a Velletri, nei giorni successivi alla denuncia per convincerlo a ritirarla, sia a San
Vittore dove era stato trasferito perché non l'aveva ritirata. Esiste una sorta di consorzio chiamato Associazione
nazionale appaltatori degli istituti di pena (Anafip) di cui fanno parte aziende attive nel settore da tempo
immemorabile. Come la Arturo Berselli & C. Spa che opera dal 1930!
Dal bilancio di una di queste, la Saep Spa, società gestita dai fratelli Tarricone, risulta che l'azienda aveva vinto un
appalto facendo un ribasso incredibile a 3,9 euro per colazione, pranzo e cena partendo dalla base d'asta di 5,7 euro
per poi contestare che con il prezzo offerto non avrebbero potuto fornire il servizio come previsto dal regolamento,
salvo però fare 6 milioni di utili su un fatturato di 24 milioni. La Corte dei conti del Lazio il 7 settembre 2021, su
esposto della garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, è intervenuta in riferimento alla Domenico Ventura
Spa, proprietaria anche del circolo canottieri di Napoli, che gestisce le mense di Lazio, Campania, Abruzzo e Molise. La
Corte ha notato che l'aggiudicatario ha offerto un ribasso di quasi il 58 per cento sulla diaria pro capite di 5,7 euro,
impegnandosi a consegnare delle derrate alimentari per il vitto di tre pasti giornalieri a un prezzo di 2,39 euro. E ha
concluso rilevando l'apparente insostenibilità economica del servizio di vitto ove svincolato dai ricavi del
sopravvitto. Siccome accade sempre che la ditta che vince la gara del vitto poi si aggiudica di fatto anche la gestione
del sopravvitto, la Corte ha detto che i due tipi di servizi - vitto e sopravvitto - presentano caratteristiche diverse
e ha invitato a diversificare le procedure di gara per garantire la partecipazione del maggior numero di ditte con
evidente beneficio della qualità e della economicità del servizio.
“Stranamente”, tutte le società che si occupano di forniture di derrate alimentari in carcere hanno un rapporto
utile/fatturato altissimo se comparato a una qualunque azienda di mense. Almeno per queste società i detenuti hanno un
valore enorme. Sono una fonte inesauribile di guadagno perché sono clienti sicuri, in costante crescita e non si possono
neanche lamentare. Dopo la pronuncia della Corte dei conti e, ancora prima, dalle tante sollecitazioni a partire da
quella della garante del comune di Roma Gabriella Stramaccioni e del garante nazionale, è stato indetto un nuovo bando
per il vitto (colazione, pranzo e cena per i detenuti), ma questa volta separato dal sopravvitto. Rilevando che la
questione dei bandi del vitto e del sopravvitto ha dimensione nazionale, il garante ha richiesto da subito, per le
regioni interessate dalla pronuncia della Corte dei conti, e in prospettiva, per tutto il territorio italiano, la
predisposizione di procedure di aggiudicazione distinte tra vitto e sopravvitto e tali da garantire la somministrazione
di una diaria credibilmente adeguata ai bisogni nutritivi di persone adulte, all'occorrenza prevedendo il parere
obbligatorio e vincolante di un tecnologo alimentare indipendente. Altri bandi per il 2022 sono sotto osservazione anche
perché ristretti al gruppo di operatori – Dussmann, Landucci, Sirio, Pietro Guarnieri e Domenico Ventura – che negli
ultimi decenni si è spartito i lotti delle carceri italiane. “Mi auguro che le cose possano migliorare con i nuovi
appalti – commenta la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo – e che ci sia più attenzione per i cibi, in
particolare per coloro che hanno esigenze nutrizionali particolari”.
La fornitura per il vitto, cioè per il pasto che viene fornito nelle carceri preparato e distribuito in genere dagli
stessi detenuti, è affidata generalmente a un’impresa esterna, attraverso una procedura di gara pubblica, con la quale
nella prassi è automaticamente affidato anche il servizio di sopravvitto, i prodotti acquistabili da dentro anche per
far fronte alla scarsità in quantità e qualità di quanto fornito dalle direzioni. E ricordiamo che sono i detenuti a
pagare con una quota mensile per vitto e alloggio.
I profili di illegittimità ravvisati dalla Corte dei conti nel caso sottoposto al suo esame sono sostanzialmente due: da
un lato, l’insufficienza del vitto, dall’altro i costi esorbitanti del sopravvitto. Due elementi intrecciati, essendo
coinvolta la stessa impresa erogatrice. Quindi la Corte, oltre a pronunciarsi sul caso in esame, ha consigliato di
vagliare per il futuro la possibilità di predisporre bandi di gara che diversifichino le procedure e separino i due
servizi in questione, permettendo inoltre la partecipazione di più operatori economici. Il problema è che saranno
comunque le singole direzioni del carcere a decidere, quindi la questione resta molto nebulosa.
Apprendiamo dagli organi di stampa che la notte del 13 settembre nel carcere di Pisa è scoppiata una protesta proprio
per l'irregolarità nella consegna dei generi alimentari. I detenuti avrebbero devastato un'intera sezione al primo piano
del reparto giudiziario del penitenziario. Il segretario generale del Sappe, Donato Capece, sostiene che: "Ogni giorno
nelle carceri italiane succede qualcosa ed è quasi diventato ordinario denunciare quel che accade tra le sbarre". Chissà
come mai in prigione si rivoltano? I motivi non interessano, ma la richiesta di più sicurezza per le guardie sì.
Milano, ottobre 2022


Riguardo alla relazione del Ministero
sulle condotte della Polizia penitenziaria nel marzo 2020
“Ego te absolvo a peccatis tuis”: potrebbe concludersi così la relazione finale presentata il 17 agosto dalla
commissione ispettiva del ministero della giustizia incaricata di far luce su quanto accaduto durante e dopo le proteste
dei detenuti avvenute negli istituti penitenziari nel marzo 2020, “sui comportamenti adottati dagli operatori
penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime”.
Una commissione istituita nel luglio 2021 dall’allora capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo
Petralia, nominato dal ministro Bonafede e succeduto a quel Francesco Basentini che si era dimesso a causa delle
polemiche suscitate dalle scarcerazioni di presunti boss per gravi ragioni di salute, nel pieno dell’epidemia Covid.
Agli inizi del 2022, però, anche Petralia si è dimesso dal suo incarico, e la relazione è arrivata sulla scrivania del
nuovo capo Dap, Carlo Renoldi, accompagnata da un documento di due pagine nelle quali si elencano alcune iniziative
messe in atto dal Dipartimento dopo i fatti del 2020. Le più rilevanti consistono nel rifornimento dell’equipaggiamento
in dotazione alla polizia penitenziaria per circa ventimila guanti antitaglio, ottomila cinquecento caschi antisommossa,
duemila sfollagente e duemila kit antisommossa, come a sottintendere che la soluzione per il controllo e la gestione
delle carceri non possa che passare per la violenza. Lascia ancor più perplessi in questo senso l’istituzione, in alcuni
provveditorati, dei cosiddetti Gruppi di intervento rapido, gli stessi che (come emerge dagli atti del processo in corso
per i fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere) hanno esasperato un clima di tensione già esistente, fino
a rendersi protagonisti, nel caso del penitenziario casertano, di quella che la stessa procura non ha esitato a definire
come una “mattanza”. L’obiettivo della Commissione era quello di esaminare “da dentro” quanto accaduto durante e dopo le
proteste che i detenuti avevano messo in atto, preoccupati dal clima di paura provocato dallo scoppio della pandemia e
della sospensione dei colloqui in presenza decisa nei primi mesi del 2020. Sono stati ispezionati ventidue carceri,
classificati dallo stesso dipartimento come “sedi di rivolte”. Gli istituti sono stati visitati tra il settembre 2021 e
il marzo 2022 e per ciascuno è stata stilata una relazione dettagliata, includendo anche i verbali delle persone sentite
che, a vario titolo, sono state coinvolte nei fatti (si è scelto di fare eccezione dei detenuti, poiché, secondo quanto
scritto, in molti casi coinvolti in procedimento penali pendenti). Il clima di terrore, diffuso dai media e incrementato
dalle confuse notizie che venivano da fuori, è stato individuato come una delle cause delle proteste dei detenuti, ma un
ruolo viene attribuito anche alla “produzione normativa e para-normativa ‘a cascata’ dettata sull’onda dell’emergenza
continua”. In particolare, la relazione chiama in causa il d.l. 8 marzo 2020 (che avrebbe avuto “un effetto
significativo sulla genesi di quasi tutte le sommosse in esame, fungendo da detonatore di altre consistenti cause di
malessere che già albergavano tra la popolazione detenuta”) e le confuse circolari del Dipartimento - sostituite in
breve tempo da nuove indicazioni - che hanno contribuito a creare uno stato di smarrimento generale tra tutti coloro che
operavano in carcere, compresi, ovviamente, i detenuti. Dall’esame della documentazione utilizzata dalla Commissione si
evince che “tra il 7 ed il 12 marzo 7517 detenuti hanno inscenato manifestazioni di protesta collettive caratterizzate
da battiture, rifiuto del vitto, lancio di oggetti ed atti vandalici che hanno interessato cinquantasette istituti
penitenziari, nonché più violente rivolte caratterizzate da devastazioni delle strutture, atti di violenza nei confronti
del personale penitenziario e sanitario, sequestri di persona, evasioni in massa e altro ancora”. In soli due giorni
(tra l’8 e il 10 marzo) sono decedute tredici persone; settantadue detenuti sono evasi dal carcere di Foggia (in parte
rientrati e in parte riarrestati in seguito); sono stati avviati numerosi procedimenti penali a carico di detenuti
coinvolti nelle proteste e sono stati calcolati - bisognerebbe valutare in che modo, considerando il degrado
preesistente delle strutture - milioni di euro di danni. Non può dirsi, allora, che il fenomeno sia stato casuale, né
che si sia trattato di un’eccezione: è evidente che la gestione dell’emergenza è stata carente, improvvisata, priva di
qualsiasi tipo di lettura che potesse consentire la prevenzione delle reazioni che si sono poi scatenate. Nella
relazione si ricercano, istituto per istituto, le motivazioni che hanno spinto i detenuti a protestare. Per esempio, tra
gli eventi avvenuti nel carcere di Salerno - il primo in cui ci sono state rimostranze - si fa riferimento a un
“papello” consegnato dai detenuti alle autorità durante le trattative per spegnere la protesta. Il documento appare
tutt’altro che pretestuoso, tanto che la Commissione segnala come il “papello” contenga precise richieste di cautela
sanitaria, a cui si aggiungono richieste di attivazione dei video-colloqui e, ancora, la richiesta di aumento del
personale nelle ore notturne. Nonostante i concreti riscontri rispetto al fatto che il documento sia stato redatto dai
detenuti dopo l’inizio delle proteste (a seguito di una interlocuzione con il Garante regionale Samuele Ciambriello), si
è tentato di dimostrare l’ipotesi di un disegno preordinato all’origine delle sollevazioni, salvo poi constatare che “la
diffusione in tempo reale dei contenuti del ‘papello’ sugli organi di informazione […] e all’interno degli istituti di
pena, possa avere avuto l’effetto di provocare un effetto emulativo rinforzando analoghi propositi di rivolta dei
detenuti più facinorosi anche negli altri istituti”. D’altronde, le indagini sono state svolte dal Nucleo investigativo
regionale della polizia penitenziaria che ha analizzato i tabulati telefonici di alcuni cellullari rinvenuti in carcere
senza rinvenire nessun elemento utile ad avvalorare l’ipotesi di una “regia occulta”. La Commissione dà piuttosto atto
della situazione di totale fatiscenza e sovraffollamento degli istituti e in molti casi si riferisce chiaramente che non
può essere sottovalutata l’incidenza sulle proteste delle “poco decenti condizioni di vita dell’istituto e dell’elevato
indice di sovraffollamento”, considerati come fattori destinati ad amplificare la paura del contagio e a influire
negativamente sullo stato d’animo dei detenuti, molti dei quali fragili e con dipendenze da alcool e assunzione di
droghe (una fotografia fedele di quello che accade in molti degli istituti penitenziari e che, da anni, invano, viene
denunciato da più fronti). Le condizioni del carcere di Modena sono considerate per esempio “compromesse” ben prima
dell’inizio delle proteste; anche qui si dà atto di un elevatissimo numero di persone con problematiche di
tossicodipendenza, e i detenuti sono 547 a fronte di una capienza massima di 361. Per quanto riguarda i detenuti che
sono stati trovati morti, ufficialmente a causa dell’ingerimento massiccio di psicofarmaci e metadone, vale per tutti lo
stesso referto: “Accompagnato da agenti in PMA, in arresto cardiocircolatorio, cianotico, assenza di polso e respiro.
Segni esterni traumatismo non evidenti”. Niente di diverso per i detenuti morti durante il trasferimento o una volta
giunti alla nuova destinazione. Nel caso specifico, la Commissione sembra mantenere dubbi “per quanto riguarda l’ipotesi
[…] che da parte della polizia penitenziaria possano esservi state violenze in particolare ai danni di un gruppo di
detenuti nella fase prodromica al trasferimento in altri istituti, mentre si trovavano radunati in un locale della
caserma agenti in attesa di essere identificati e perquisiti”. Epperò, si prende atto del fatto che in mancanza di video
riprese, di verbali di denuncia della polizia penitenziaria o di referti medici, la Commissione non è in grado di
esprimere una autonoma valutazione su quanto accaduto. Tornando al tema delle presunte regie occulte, la Commissione
esclude anche una possibile regia della criminalità organizzata. Per tutti gli istituti analizzati, - ovvero Napoli
Poggioreale, Pavia, Padova, Cremona, Milano San Vittore (tasso di sovraffollamento del 96%), Bologna, Foggia, Matera,
Roma Rebibbia N.C., Termini Imerese, Rieti (dove sono deceduti due detenuti e altri sono stati trasportati in ospedale a
seguito dell’assunzione di psicofarmarci, eventi per i quali pendono dei procedimenti penali contro ignoti), Melfi (dove
pende un procedimento per violenza a danno dei detenuti per il quale è stata richiesta l’archiviazione dalla procura di
Potenza), Ferrara, Alessandria, Isernia, Siracusa, Palermo Pagliarelli e Trapani - le problematiche individuate
all’origine delle proteste sono sempre le stesse: paura del contagio, sovraffollamento, mancanza di comunicazione con i
detenuti, chiusura dei colloqui, omessa fornitura di qualsiasi tipo di strumento di prevenzione del contagio e richieste
di provvedimenti di clemenza o di liberazione da parte della magistratura di sorveglianza. L’affannoso e infruttuoso
tentativo di individuare una “regia occulta”, oltre che cause esogene alle proteste (la presenza di familiari e
attivisti fuori gli istituti penitenziari nei giorni delle rivolte o le richieste da parte di associazioni per
provvedimenti di liberazione anticipata), depotenzia le conclusioni della relazione. Quest’ultima, infatti, con
riferimento ai fatti di Modena e Melfi, fa trasparire dubbi rispetto al corretto operato della polizia penitenziaria, ma
non si spinge oltre in ragione delle indagini ancora in corso o la mancanza di elementi documentali e probatori.
L’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la
presunta esistenza di un piano preordinato palesa piuttosto la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una
lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere. Una deficienza che rende
sterile ogni tentativo di ricostruzione a posteriori di ciò che è avvenuto in quei giorni e incapace di proporre
qualsiasi minimo miglioramento dell’esistente. Certo, è apprezzabile che si faccia riferimento alla situazione
indignitosa di vita dei detenuti, e alla totale impreparazione degli istituti nella gestione dell’emergenza Covid, ma
proprio per questo non può accettarsi il meccanismo autoassolutorio con cui si conclude il documento e che stride,
portando alla luce tutte le loro contraddizioni, con i comportamenti e le parole della ministra Cartabia in visita in
vari istituti penitenziari proprio il giorno di Ferragosto. Infatti, come in un’excusatio non petita, la relazione si
conclude con un riferimento alle condotte violente che gli agenti di polizia penitenziaria hanno tenuto nel carcere di
Santa Maria Capua Vetere, definendole “eccezioni alla regola”, “casi isolati che non possono certamente scalfire la
reputazione dei tanti servitori dello Stato che ogni giorno lavorano negli istituti penitenziari del nostro Paese in
condizioni difficilissime, con spirito di sacrificio e senso di responsabilità istituzionale”. Su quanto la vicenda
campana (con tutta la catena di comando coinvolta, fino ai più alti livelli) possa considerarsi un caso isolato, in un
contesto nazionale che ha coinvolto in pochi giorni quasi sessanta carceri e provocato tredici morti, bisognerebbe
interrogarsi seriamente. Solo in parte, infatti, potrà rispondere a questa esigenza la Corte d’Assise di Santa Maria
Capua Vetere.
23 agosto 2022, da napolimonitor.it


Lettera dal carcare di Massama (OR)
Ciao compagni, ho ricevuto il vostro plico, vi ringrazio come sempre. Finito il Covid, anche se muore ancora tanta gente
ogni giorno, hanno tagliato le video chiamate, due al mese, mentre chi fa i colloqui di persona potrà continuare a
usufruire dei 4 o 6 colloqui che gli aspettano di diritto, una disparità tra poveri e chi può permettersi economicamente
di viaggiare per centinaia di chilometri per fare i colloqui. Questa decisione non è pervenuta dal ministero della
giustizia, ma ogni direzione ha deciso in modo arbitrario; è abusivo come purtroppo succede su tante cose nel panorama
del sistema penitenziario. Nonostante i circa 40 anni di carcere non riesco a farci l’abitudine. Tra un mese e mezzo ci
sarà il responso elettorale, le previsioni dicono che vinceranno le destre, la nostra situazione peggiorerà. Sono ancora
in attesa di avere risposta per la concessione del permesso e la semilibertà, ma credo che siamo agli sgoccioli.
Vi saluto a voi tutti con un abbraccio fraterno. Ciao a presto.

3 agosto 2022
Pasquale De Feo


Lettera dal carcere di Terni
Hola Olga, ho ricevuto gli opuscoli, come al mio solito li ho fatti girare in sezione e sono arrivati anche agli altri
compagni. Qui si va avanti. Ho spedito delle lettere e sempre delle cartoline di conferma. Vi sono arrivate? Mandate
conferma grazie. Vi mando la dichiarazione che ho fatto alla fine della mia udienza l’11 giugno. Se volete pubblicatela
in Olga. A me fa piacere. Vi saluto tuttx. Saluti di anarchia.

24 giugno 2022
Juan Sorroche Fernandez

***
DICHIARAZIONE DI JUAN SORROCHE FERNANDEZ AL TRIBUNALE DI TREVISO
In questa ennesima udienza in videoconferenza e dopo numerose richieste, negate, per comparire e presenziare di persona
e non in assenza a tutte le udienze del processo che mi vede imputato della pesante e infamante accusa di strage mi
tocca affrontare la questione videoconferenza che rientra, o per essere più precisi rientrava, nella infame logica della
differenziazione dei circuiti detentivi, dove l’individuo recluso e imputato viene demonizzato e disumanizzato data la
così detta “notevole pericolosità sociale”. Dico che rientrava perché la videoconferenza, il processo in assenza, sono
stati estesi a tutte le prigioniere e tutti i prigionieri delle carceri italiane, rimaste e rimasti di fatto senza una
difesa reale e con l’emarginazione che ciò comporta per tutte le imputate e tutti gli imputati che subiscono questa
imposizione, attraverso la dinamica liberticida dell’ennesima emergenza, questa volta per l’emergenza Covid19 poi
trasformata in legge. Si sa, è ormai evidente e smascherato – e non parlo solo della contraddizione del problema
specifico di questa legge o quell’altra – come il problema specifico della videoconferenza ha ridotto la difesa a una
farsa, annullando di fatto l’imputato nel processo.
Probabilmente questo tribunale dirà che queste questioni non c’entrano con il processo di oggi. Io invece ritengo di sì,
anzi la ritengo una questione fondamentale. Parlo della contraddizione che gli Stati hanno per loro natura sistemica, il
problema di fondo è quello della disgregazione e della degenerazione che si traveste da emergenzialismo e ha l’obiettivo
di rompere e indirizzare la legalità consolidata e ordinaria a proprio piacimento, trasformandola in legalità. Lo
vediamo nella stessa dinamica dell’emergenza perpetua, e il piano specifico della videoconferenza è uno dei tanti esempi
e di come si estende capillarmente l’autoritarismo sistemico liberticida. È l’eccezione, l’emergenza di oggi a forgiare
la legge di domani, restringendola ogni volta di più. I processi in videoconferenza, in assenza, sono stati creati dalle
continue emergenze nel seno della così detta pericolosità sociale, ormai rientrata nella norma, come il processo in
videoconferenza senza difesa reale per tutte le prigioniere e tutti i prigionieri delle carceri italiane. E non sono
privi sul piano specifico di un danneggiamento reale delle condizioni dell’intero processo, rendendo difficile gestire
la difesa reale degli imputati in contraddizione con quello che il vostro stesso diritto democratico e borghese
sostiene.
Questo processo tecnologico di fatto rende il processo parziale e rivela chiaramente in ogni aspetto delle nostre vite
l’asservimento all’autorità statale capitalista: privando della possibilità di contestare, come una nuova religione da
adorare, le varie innovazioni: DNA, videoconferenza, ecc.
In questo clima creato sulle incessanti emergenze con l’emarginazione e l’annullamento dell’imputato e della difesa
reale, che è ridotta al minimo, soprattutto per quella classe che non è borghese, per la classe degli esclusi; è così
che arriva la videoconferenza con l’emergenza della pericolosità sociale. La colpevolezza è già evidenziata nei modi di
questa forma di “presentarsi e di presenziare”. Ripeto, che le leggi sulla videoconferenza sono un tentacolo che si è
esteso di emergenza in emergenza fino a includere oggi ormai tutte le prigioniere e i prigionieri.
Una dinamica assassina dello Stato che travisa e poi cancella questo contesto politico e sociale emergenziale come se
fosse normale. Questa è la sistemica banalità del male dello Stato, e così è avvenuta la continua emarginazione di
migliaia di prigioniere e prigionieri e l’annullamento degli imputati. È sotto gli occhi di tutti cos’è avvenuto durante
l’emergenza Covid19 con i così detti NO VAX. Lo Stato, per sostenere la sua emergenza continua, ha bisogno di capri
espiatori. Allo stesso modo, nei processi come questo gli è comodo inserire una mole sproporzionata e scorretta di
documentazione inammissibile che serve alle procure per indirizzare il processo verso la colpevolezza degli imputati. È
una vecchia storia che si ripete da secoli.
Sono le condizioni generali della società con l’emergenza Covid19, con una gestione da parte dello Stato stragista e
assassina e come adesso, guarda caso, lo Stato proroga l’emergenza di stato di guerra, sempre con la stessa gestione
stragista e indiscriminata. Perché lo Stato non smentisce mai i propri metodi, semmai li perfeziona: sono le bombe
fabbricate e vendute nel mondo intero a qualsiasi regime da parte di Leonardo-Finmeccanica (anche agli Stati oggi in
guerra e in ottimi affari con lo Stato italiano) a creare innumerevoli stragi per il loro profitto.
Rendendo chiaro a tutti, se ancora ce ne fosse bisogno, la vera natura dello Stato che voi rappresentate. Per cui non
vedo con quale legittimità possiate accusarmi. Torniamo un attimo all’esempio della legge sulla videoconferenza per
vederne lo sviluppo e di come le leggi emergenziali e le conseguenti forzature e travisamenti diventano poi infine norma
e legge. La legge sulla videoconferenza arriva dall’emergenza per la così detta pericolosità “mafiosa” e “terroristica”
dal lontano 1998 per quelle e quelli sottoposti al 41bis; la videoconferenza è stata introdotta mediante la legge n. 11
del gennaio del 1998, ispirata da Luciano Violante (governo Prodi), le prigioniere e i prigionieri sottoposti al 41bis
sono stati costretti a subire questa legge liberticida e non hanno potuto partecipare ai processi, se non a distanza; i
margini della difesa democratica e borghese sono stati ridotti ad una farsa.
Nel 2013-2014 l’ennesima emergenza: questa volta col pretesto delle presunte fughe di massa dalle carceri la
videoconferenza è stata estesa a tutte le prigioniere e a tutti i prigionieri sottoposti al regime di Alta Sicurezza; il
problema della difesa è stato esteso a 10.000 prigioniere e prigionieri. L’emergenza inventata sul momento era che
bisognava prevenire le fughe avvenute, che erano di fatto insignificanti e si potevano contare sulle dita di una mano.
Le motivazioni erano politiche, risultato reale delle forzature e dei travisamenti creati dal pool antimafia e
antiterrorismo. Da ricordare che questi pool sono stati creati a loro volta dallo stato d’emergenza e guarda caso poi
diventati normalità per decenni, auto-alimentandosi in automatico. Le motivazioni sono economiche, inoltre prodotto
dell’ingolfamento della farraginosa e corrotta macchina burocratica dello Stato, come si è palesato con le questioni di
corruzione del CSM, che sono questioni sistemiche, e non di due mele marce.
Poi 2 anni fa, nel 2020, con l’emergenza Covid19, con la gestione stragista all’interno delle carceri, con 15
prigionieri morti, con pestaggi e torture di centinaia di prigionieri, ecco che la videoconferenza è stata estesa infine
a tutte le prigioniere e tutti i prigionieri limitati dalla difesa farsa con l’art. 11 comma 3 del decreto legge n. 137
del 28/10 del 2020 convertito nella L.n. 176/2020. Ecco che si estende a tutte le prigioniere e tutti i prigionieri,
come alcuni prigionieri dell’Alta Sicurezza avevano denunciato nei processi del 2013-14, quando gli era stata imposta la
videoconferenza e come faccio io stesso notare oggi qui a conferma di ciò.
Tutto questo è l’ennesima conferma delle contraddizioni e delle sospensioni dei diritti fondamentali della vostra
democrazia borghese. Uno Stato per sua natura corporativo, che difende solo ed esclusivamente la propria classe, e ciò
viene evidenziato da questi alibi emergenziali, applicati come fosse per il nostro bene e sicurezza.
È palese come lo Stato difende sfacciatamente la sua classe, come dimostra l’esempio dell’assassinio di Youns El
Boussattaoui a Voghera per mano del leghista Massimo Adriatici, un uomo di Stato. Un omicidio di un immigrato, un senza
tetto, un escluso, a colpi di pistola con proiettili esplosivi in mezzo ad una piazza, con il sostanziale silenzio
complice unanime dell’autorità statale e della stampa, con la condiscendenza della magistratura, facendo passare questo
omicidio per legittima difesa. Questo episodio rende bene l’idea di come lo Stato difenda i suoi adepti e ci apre gli
occhi sul razzismo e la corruzione sistemica dello Stato e della società capitalista. Facendo passare tutto questo a noi
poveri imbecilli come una questione minore, un problema di porto d’armi, invece di quello che è: un assassinio razzista
per mano di un uomo politico con la complicità dell’autorità statale, e non un caso individuale a sé. Ripeto, sono
questioni sistemiche nello Stato, non di due mele marce. E oggi la Lega, partito di governo, si presenta qui come parte
civile a farmi la morale. Questa esecuzione come il caso Frapporti a Rovereto, Mastrogiovanni a Napoli, Aldrovandi e
Cucchi, e tanti altri casi mai venuti alla luce prendono di mira, tutti, la classe degli oppressi ed è normale che sia
così, visto il sistema in cui ci tocca vivere.
Un sistema che prende continuamente di mira la totalità degli oppressi da secoli. È palese che il motto “la legge è
uguale per tutti” si applica unicamente alla classe borghese che rappresentate. È per questo motivo che questo processo
e qualsiasi Stato non mi rappresentano, viste le continue stragi della classe degli oppressi di cui io faccio parte, e
le continue falsificazioni e manipolazioni di cui lo Stato è responsabile. Per questo oggi rivendico la mia identità di
anarchico, che ha motivazioni ben profonde, politiche e sociali da un secolo e mezzo di lotta contro lo Stato stragista.
Un anarchismo ribelle di prassi e di lotta, un anarchismo individuale che va al di là delle vostre falsità ipocrite. La
mia consapevolezza di quello che è lo Stato stragista non può essere manipolata, perché da tanti anni la mia
individualità non si rispecchia in quella di nessuna autorità, tanto meno quella della Stato. Ho rinnegato, rifiutato lo
Stato da anni, da quando ho consapevolezza del mio anarchismo non nutro fiducia su quello che si pone al di sopra di me.
L’unico rapporto che ho collo Stato è con la sua forza che m’imprigiona qui, non ho fede in nessuno dei vostri fantasmi
rappresentati dal diritto e dalla ipocrita frase che la legge è uguale per tutti, non sono uno stupido.
Oggi in modo assoluto rifiuto questa farsa statale, rifiuto questo tribunale e qualsiasi verdetto, sia esso di
colpevolezza che di innocenza. Oggi dichiaro che per me questo processo è finito e non vedrete più la mia immagine.

***
Lo Stato condanna Juan a ventotto anni di carcere
Il 9 luglio il nostro amico e compagno Juan è stato condannato in primo grado a 28 anni di reclusione, e successivi tre
anni di libertà controllata, per l’accusa di 280 bis (attentato con finalità di terrorismo) per l’attacco esplosivo che
nel 2018 ha danneggiato la sede della Lega di Treviso. Una condanna evidentemente già scritta, che recepisce interamente
le richieste del PM nonostante la ricostruzione dell’accusa sia stata puntualmente smentita nel corso del dibattimento
(in particolare per quanto riguarda la presunta “prova” del DNA), e sfacciatamente finalizzata a seppellire vivo Juan
sotto decenni di carcere, anche in assenza dell’imputazione per strage, ritirata dallo stesso PM durante la
requisitoria. Juan si trova recluso da ormai tre anni nella sezione di Alta Sicurezza del carcere di Terni, da cui ha
sempre continuato a far sentire la propria voce all’interno del dibattito anarchico, con scritti, contributi ad
assemblee ed iniziative, scioperi della fame in solidarietà con altri prigionieri, e rivendicando, anche nel processo di
Treviso, il proprio anarchismo e il proprio sostegno alle pratiche di attacco e di azione diretta. Al momento del suo
arresto doveva scontare un cumulo di pene di 8 anni, e attualmente, dopo l’archiviazione del procedimento che lo vedeva
indagato per 280 bis per l’azione contro la scuola di polizia POLGAI di Brescia, è imputato per un’ulteriore accusa di
280bis per un attacco risalente al 2014 contro il tribunale di sorveglianza di Trento. Nello stesso procedimento altri
due compagni sono accusati di aver favorito la latitanza di Juan negli anni precedenti il suo arresto e un terzo
compagno, Massimo, si trova in custodia cautelare ai domiciliari con l’accusa di estorsione per il tentativo di far
leggere durante una trasmissione radiofonica un testo sulla strage nelle carceri del marzo 2020. È evidente che la
sproporzione delle accuse (strage e terrorismo, per Juan, estorsione per Massimo) rispetto a quanto materialmente
accaduto non è l’azzardo di qualche PM affetto da manie di grandezza, ma una scelta finalizzata a levare dalla
circolazione, per un periodo di tempo indefinito (nel caso di Juan sostanzialmente a vita) compagni con cui da decenni
lo Stato voleva farla finita, per il loro contributo alle lotte e perché determinati a fare dell’anarchismo una forza
viva e pericolosa per il potere, lontani da ogni pacificazione e da ogni rinuncia sulle proprie idee e le proprie
pratiche, convinti che il momento di agire sia qui e ora e che la prospettiva rivoluzionaria non sia un sogno da
rinviare ad un futuro indefinito ma un tentativo concreto da mettere in atto nel presente.
Lo stesso trattamento sta venendo riservato ad Alfredo e Anna, imputati nell’operazione Scripta Manent: non solo Alfredo
è stato trasferito in regime di 41 bis (isolamento totale, definito come forma di tortura persino da istituzioni non
certo rivoluzionarie come la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo), ma la corte di cassazione ha ridefinito una
precedente condanna per strage in “strage politica”, che prevede come pena base l’ergastolo. Nello stesso processo
alcuni compagni hanno ricevuto condanne fino a due anni e mezzo con l’accusa di istigazione a delinquere per la
redazione di giornali e siti: al tentativo di farla finita con le pratiche di attacco si affianca quello di zittire la
propaganda; anche il trasferimento di Alfredo in 41 bis può essere interpretato, fra l’altro, come finalizzato a
interrompere il contributo di scritti, libri, interviste, corrispondenza che il compagno ha sempre continuato a far
uscire dal carcere.
Dietro condanne che non trovano precedenti degli ultimi decenni di storia del movimento anarchico si cela un piano
complessivo definito esplicitamente a partire dall’istituzione della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo:
oltre ad estendere l’uso del 41 bis, chiudere la partita con un’area, quella anarchica, che, al di là della forza
effettiva, non si è mai prestata a compromessi o ravvedimenti, e che decenni di inchieste per 270 bis (associazione con
finalità di terrorismo) o per associazione a delinquere non sono riusciti a disarticolare: le operazioni per reati
associativi continuano ad essere prodotte a ciclo continuo (solo negli ultimi anni: Bialystok, Sibilla, Panico, Lince,
Scripta Manent, Prometeo, Diamante, Scintilla, Renata, Ritrovo…) e comportano lunghi periodi di custodia cautelare, ma
raramente arrivano a condanna, proprio perché la strutturazione rigida prevista dalla definizione dei reati associativi
mal si adatta all’informalità e all’orizzontalità dei rapporti di affinità tra compagni anarchici. Meglio allora, per
farla finita con quei compagni che, nonostante tutto, ancora si ostinano a parlare di conflitto, di insurrezione, di
rivoluzione (e agiscono di conseguenza), usare imputazioni che prevedono pene smisurate: garanzia che un pugno di
sovversivi per alcuni decenni non vedrà la luce del sole, monito per chi, rimasto a piede libero, intendesse continuare
sulla strada della lotta e dell’attacco, prevenzione del “contagio” anarchico tra gli sfruttati (chi ti si avvicina più
se le pratiche che hai sempre rivendicato comportano l’ergastolo?).
Il tentativo di farla finita con l’anarchismo rivoluzionario e conflittuale non è una trovata tutta italiana, ma
piuttosto una tendenza europea, viste le numerose inchieste e detenzioni che vedono coinvolti compagni anarchici in
Inghilterra, Francia, Germania, Grecia, ed è evidente che l’attacco verso gli anarchici non può essere compreso se non
nel contesto di emergenza permanente e di guerra dispiegata in cui siamo immersi da ormai due anni. Anni di
rafforzamento dello Stato, della sua presa sul territorio e del suo controllo sulla popolazione, di aumento dei poteri
della polizia e dell’uso dell’esercito sul fronte interno, di sperimentazione di zone rosse, lasciapassare verdi e
divieti di manifestare, di dura repressione di piazza (dalle cariche contro chi protestava contro il green pass alle
misure cautelari verso gli studenti scesi in piazza dopo le morti in alternanza scuola-lavoro) e sui posti di lavoro, di
aumento del controllo tecnologico e dei prezzi dei beni essenziali, sull’orlo di una crisi economica e di un generale
impoverimento le cui conseguenze, anche in termini di conflittualità, sono difficilmente immaginabili, ma rispetto alle
quali lo Stato sta già preparando le proprie contromisure, e in cui gli anarchici potrebbero avere qualcosa da dire, e
la possibilità di incontrare la rabbia di altri sfruttati e impoveriti. Meglio allora rinchiuderli e buttare via la
chiave: saranno anche pochi e disorganizzati, ma non c’è altro modo di levarli di mezzo.
Quanto all’accusa di terrorismo, non abbiamo molto di più da dire di ciò che ha già detto Juan nella sua dichiarazione
al tribunale di Treviso: la violenza rivoluzionaria sa scegliere i propri obiettivi, la violenza indiscriminata
appartiene allo Stato, che, proprio nei mesi in cui veniva attaccata la sede della Lega, causava migliaia di morti nel
Mediterraneo e alle frontiere, che inaugurava la gestione terroristica dell’epidemia con una vera e propria strage di
Stato (14 morti) nelle carceri.
Il dolore e la rabbia causati dal sapere un nostro compagno colpito da una condanna ad una pena di cui non riusciamo a
intravedere la fine non fanno che rafforzare le nostre convinzioni: continueremo sulla strada della lotta, della
conflittualità permanente, dell’azione diretta. Come sempre, ma da oggi con un motivo in più. Per l’ennesima volta lo
Stato ha fatto male i propri conti.
SOLIDARIETÀ CON JUAN - SOLIDARIETÀ CON ANNA, ALFREDO E GLI IMPUTATI DELL’OPERAZIONE SCRIPTA MANENT. LIBERTÀ PER TUTTI -
TERRORISTA È LO STATO

anarchiche e anarchici di Trento e Rovereto
15 luglio 2022, da ilrovescio.info


Un anarchico al 41bis
Ma non dicevano che al 41bis ci stanno i mafiosi? Quei non-umani contro i quali tutto è lecito? Anche seppellirli vivi
fino alla morte? Ma si sa che quando un provvedimento è preso per “alcuni” questi “alcuni” si allargano nel tempo. Già
nel 2005 quattro brigatisti vi erano stati rinchiusi, in quel regime di tortura normato per legge. Una di loro, Diana
Blefari, si era tolta la vita nel 2009.
Il 5 maggio 2022 l’anarchico Alfredo Cospito è entrato a far parte dei seppelliti vivi. Dal carcere di Terni, dove era
detenuto dal 2021, è stato trasferito in una delle carceri della colonia penale “italiana”, la Sardegna. Il carcere è
quello di Bancali, in provincia di Sassari, e a detta di chi si vanta di questo abominio è l’unico 41bis davvero
“idoneo”: alcune celle sono sottoterra.
Alfredo era detenuto dal 2012. Catturato con un suo compagno, rivendica il ferimento dell’Amministratore Delegato di
ANSALDO NUCLEARE. In un’intervista pubblicata sul giornale anarchico “Vetriolo”, spiega molto semplicemente che “lo
abbiamo fatto perché non volevamo capitasse qui da noi quello che avete visto accadere in questo film” (sulla tragedia
di Chernobyl), “per erigere un muro invalicabile davanti al cinismo tecnologico ed assassino di scienziati e politici
senza scrupoli”: “non riporterete il nucleare in Italia, altrimenti ci opporremo con tutti i mezzi”.
Dopo 10 anni di detenzione in sezioni di Alta Sicurezza, regimi speciali al servizio della “differenziazione” (cioè del
divide et impera) con censura della posta in entrata e in uscita, processi in videoconferenza, e condanne per altri 20
anni, Alfredo non aveva ancora deciso di “tacere”.
La Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo non l’ha rinchiuso in 41bis perché mandava fuori “pizzini”, ma perché
non ha mai smesso di sentirsi ancora vivo e pensante e capace di contribuire al dibattito sulla necessità della
distruzione della società tecnologica e sulla costruzione di una società libera dallo Stato.

18 luglio 2022, da ilrovescio.info

***
25 e 26 giugno 2022, iniziative a Sassari, Bancali e Alghero
Sabato 25 giugno una quarantina di compagne/i hanno aperto con lo striscione “41bis = tortura di Stato” un volantinaggio
itinerante che ha attraversato il Centro storico della città di Sassari. Si sono alternati cori e interventi durante i
quali sono stati volantinati diversi contributi: il portato del processo Scripta Manent, il regime di 41 bis e il ruolo
della Sardegna nel panorama penitenziario italiano. Molte delle persone incontrate si sono fermate ad ascoltare gli
interventi e a dialogare con interesse.
Domenica 26 un partecipato presidio si è svolto sotto le mura del carcere di Bancali, dove Alfredo è rinchiuso in
regime di 41bis. Dalle sezioni comuni i prigionieri hanno risposto calorosamente, anche se la distanza dalla struttura
rendeva talvolta di difficile comprensione le loro parole.
Tuttavia chiare e forti sono arrivate le rivendicazioni di “ore d’aria, acqua e vitto”, così come è stato ben visibile
un lenzuolo bruciato e ben udibili i cori contro la celere, cori continuati anche quando il presidio si era sciolto.
Dopo essere state/i oltre un’ora sotto la sezione dei comuni, ci si è addentrate/i nel campo che costeggia il carcere
con la speranza di farci sentire anche da Alfredo. Durante il presidio sono stati fatti numerosi interventi e sono stati
letti alcuni estratti di lettere scritte da prigionieri rinchiusi in 41 bis a Bancali e una parte dell’intervista ad
Alfredo rispetto all’azione contro Adinolfi. Il filo conduttore che ha legato gli interventi è stato quello della
solidarietà a tutte le prigioniere e tutti i prigionieri. La necessità di opporsi al 41 bis, la più brutale espressione
della privazione della libertà e di annientamento della persona, è stata inserita all’interno di un bisogno più ampio:
quello di opporsi ad un sistema basato su sfruttamento, nocività e guerra.
Sulla via del ritorno dal presidio sotto il carcere di Bancali, in una ventina ci si è diretti ad Alghero per proseguire
nella diffusione, in contesti cittadini, dei temi portati nel pomeriggio sotto le mura di Bancali. Abbiamo deciso di
intervenire durante il concerto di Ginevra di Marco e, poco prima dell’ inizio, ci siamo messi davanti al palco con due
striscioni con scritto “Nessun carcere è giusto” e “Il 41bis è tortura di Stato”. Con un megafono abbiamo scandito un
intervento in cui, oltre a ribadire il ruolo del sistema carcere in questa società, si è detto chiaramente di quali
azioni sono accusati i/le compagni/e anarchici/e attualmente in carcere e si è espressa ancora una volta la nostra
solidarietà nei loro confronti e verso chiunque diffonda e pratichi l’azione diretta. Le numerose persone presenti
hanno, sorprendentemente, risposto con applausi di sostegno. Se lo Stato vuole che cali il silenzio su chi viene
seppellito vivo in quelle gabbie di cemento, quantomeno è necessario prendersi degli spazi di interruzione della
normalità per dar voce a chi viene negata.
In questi due giorni compagne e compagni di diverse provenienze geografiche si sono incontrate costruendo una
mobilitazione territoriale, pur non conoscendosi, ma mossi da un comune e sincero sentimento di solidarietà verso tutte
le persone indagate nel processo Scripta Manent e tutte le prigioniere e i prigionieri. Auspichiamo che iniziative di
questo e altro tipo si moltiplichino, convinte/i che la determinazione e la voglia di mettersi in gioco siano una linea
tagliafuoco all’avanzare della vendetta di Stato contro i suoi nemici e disertori.
Il 29 ottobre 2022, a Sassari, ci sarà un Corteo in solidarietà con Alfredo e tutt
i/tutte i prigionieri e, a seguire, una presenza davanti alle mura del carcere di Bancali.

***
Il regime del 41bis, di cosa si tratta
L’isola sarda oltre a essere invasa dalle servitù militari ha anche un carcere, a Bancali, con un reparto di 41bis
situato sottoterra, dove non arriva mai la luce del sole.
Il regime di detenzione conosciuto con il nome di 41bis è un regime di tortura. Una tortura legalizzata.
Democraticamente, il parlamento italiano ha votato e approvato una legge che consente di mantenere in uno stato di
pressoché totale isolamento e deprivazione sensoriale i prigionieri e le prigioniere destinate a quel reparto. Il
grimaldello per istituire il 41bis è stata la lotta alle organizzazioni mafiose, così che esprimere opposizione a questo
trattamento detentivo è sempre stato un tabù. Fu introdotto nel 1992 dopo la strage di Capaci in particolare per quei
detenuti per reati di “mafia” che, per motivi di sicurezza, non avrebbero dovuto avere contatti con l’esterno e con
altri carcerati. Inizialmente ritenuto temporaneo, nel 2002 divenne definitivo ed esteso agli accusati di reati con
finalità di terrorismo ed eversione. Non poteva essere inferiore all’anno e non superare i due, le proroghe successive
erano limitate a un anno. Nel 2009 cambiò ancora, il provvedimento può ora durare 4 anni e le proroghe 2 anni ciascuna.
Si tratta di una sospensione delle regole di trattamento disposta con decreto del Ministero di Giustizia il cui giudizio
è legato al parere del pubblico ministero incaricato delle indagini, alle informazioni fornite dalle forze di polizia e,
con forza sempre più determinante, dalla Direzione nazionale antimafia. Il regime speciale è applicabile anche a chi è
in attesa di giudizio e persino a coloro che non abbiano neppure assunto la qualità di imputato o, semplicemente, a chi
commette reati che favoriscano le cosiddette organizzazioni criminali pur senza appartenervi.
Con una circolare di 52 pagine, nel 2017, il Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria, in accordo con la procura
Antimafia e il Garante per i detenuti, regolamenta la vita delle prigioniere e dei prigionieri entrando in ogni istante
della loro giornata: la cella deve essere dotata esclusivamente degli arredi essenziali: letto, tavolo, armadio, sedia o
sgabello, specchio in plexiglass e televisore agganciato a muro, le pentole devono avere dimensioni prestabilite e non
più di due, non si possono ricevere dall’esterno generi alimentari che prevedono cottura, ci sono limiti di spesa e di
invio di denaro ai familiari, la TV può trasmettere solo canali nazionali, niente calzature che possano nascondere
oggetti, si regolamentano le foto che possono essere appese e gli oggetti che si possono portare con sé, sono previste
solo due ore di aria in non più di quattro e in totale isolamento, in cella non si possono tenere più di 4 libri da
prendere solo in biblioteca od ordinandoli dal carcere, è vietato riceverli da altri all’esterno, non sono ammessi
quotidiani nazionali dell’area da cui si proviene, non sono concessi gli incontri con i garanti salvo il garante
nazionale, sono vietate le iscrizioni ad associazioni e partiti. Il gruppo di socialità, di massimo quattro persone, è
scelto dalla direzione del carcere che decide quindi con chi avere rapporti e quando eventualmente reciderli. Al di
fuori dal gruppo assegnato è vietato l’accesso a spazi comuni e qualsiasi forma di contatto, persino il buongiorno. Il
prigioniero e la prigioniera sono costantemente sorvegliati dal reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria GOM
che non può avere contatti con gli altri agenti penitenziari. Oltre a essere tristemente noto per i feroci pestaggi alla
caserma Bolzaneto di Genova nel 2001.
I colloqui con i familiari sono limitati a uno al mese e il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio, solo per i
parenti di primo grado sotto i 12 anni il colloquio può avvenire senza tale separazione. Esclusivamente per coloro che
non effettuano colloqui, e dopo sei mesi di reclusione, può essere autorizzata una telefonata mensile della durata di
dieci minuti con i familiari e conviventi che, per effettuarle, devono recarsi nel carcere più vicino al luogo di
residenza. I colloqui sono video e audio registrati. La posta in entrata e in uscita è sottoposta a visto di censura. La
partecipazione ai processi è prevista esclusivamente a distanza in video conferenza creando enormi difficoltà alla
difesa e una progressiva scomparsa della presenza attiva dell’imputato e dell’imputata in aula.
Tutto questo per anni e anni. L’unico modo per uscire dal 41bis è la collaborazione e il pentimento, il trascorrere del
tempo – ci sono persone condannate all’ergastolo - non è un requisito sufficiente neanche per l’ottenimento di benefici
penitenziari come permessi e lavoro all’esterno. Unica prova di redenzione, e quindi di uscita da questa tortura
normata, è quella di fare i nomi di altre e altri. Non c’è altra via.


Da una lettera dal carcere di Badu e Carros (Nuoro)
[…] Quest’inverno è uscito dal carcere un tipo di una quarantina d’anni che con me aveva legato in maniera fraterna, era
(purtroppo ne parlo al passato) un tipo molto problematico con un recente passato di tossicodipendenza da cocaina (non
spaccio)… un bel po’ di grammi (oltre 300) per uso personale.
Durante la sua “permanenza” qua a Baddh’e Karros, mi aveva raccontato le sue “peripezie” ch lo avevano portato qui nel
carcere di Nuoro e mi aveva chiesto che non ne parlassi in maniera approfondita con nessuno, questa promessa viene meno,
in quanto il tipo è morto in maniera tragica, nella sua azienda di trasporti a Cheremule in provincia di Sassari a
inizio aprile.
Ebbene lui prima di finire a Nuoro era stato nel carcere di Bancali (Sassari) dove, dopo il suo ingresso, era finito in
isolamento covid con un altro prigioniero che durante la loro convivenza di tanto in tanto piangeva. Al che il tipo che
ho conosciuto io era riuscito a farsi raccontare dall’altro tipo perché si lamentava così tanto. Ebbene, il tipo – dopo
molte titubanze – raccontò che fu infilato in una cella, dove c’era un altro tipo spregevole che lo aveva sodomizzato.
Quando il tipo che ho conosciuto finì la sua parte di isolamento, nel momento in cui doveva finire in sezione, invece di
essere messo con un amico in una sezione, fu portato nella cella del tipo spregevole, e lì i secondini con risa
sarcastiche cercarono di far entrare il tipo, che ovviamente opponeva resistenza a tale abuso. Poi, vista la malaparata,
scappò… però dove scappi in carcere?
In fatti una volta catturato fu pestato ben bene, gli ruppero un dente e fu salvato dal prete di Bancali che si frappose
fra il cocainomane ed i secondini; alla fine fu rinchiuso in una cella in attesa di una nuova destinazione, e qui in un
impeto d’ira scagliò una sedia in plastica in terra ed un piede della sedia rompendosi colpì nella fronte un secondino…
e giù di nuovo botte. Pensa che non fu portato nemmeno davanti al giudice che doveva decidere sulla sua sorte, perché
era “impresentabile”.
In seguito trasferito a Nuoro per punizione ha incrociato me e mi ha raccontato tutte le sue “peripezie” e ci eravamo
lasciati che ci saremmo incrociati una volta che fossi uscito fuori. Purtroppo la sua tragica morte ha posto fine a
questa sana amicizia, il tipo non mi ha mai voluto dire chi fossero stati sia i secondini che gli ufficiali che lo
avevano pestato a Bancali, né tanto meno il nome dell’essere spregevole, ma penso che dentro Bancali qualcuno sappia
tutto.

Morti di carcere
La notte tra venerdì 16 e sabato 17 settembre muore in carcere a Forlì un ragazzo arrestato poche ore prima. Senza fissa
dimora razzializzato (nato in Albania), insomma, uno degli ultimi di questa società infame, uno che non merita più di
due righe su un giornale se viene trovato impiccato nella cella della Rocca.
A prescindere dalla cronaca, una morte in carcere è una morte DI carcere: ricordando chesolo negli ultimi 10 mesi sono
state 62 le morti in carcere di cu 7 in Emilia Romagna.
Per urlare questo alle infami guardie carcerarie e per far sentire vicinanza ai relcusi, un gruppetto di nemiche delle
galere ha fatto un saluto sotto al carcere, ieri: botti, cori, striscioni, urla. Purtroppo nessuna risposta da dentro.
Basta tacere, basta rassegnazione!
Presidio sotto al carcere di forlì (ritrovo davanti al maschile, viale corridoni), domenica 25 settembre, alle 16:00.
Per spezzare l'isolamento che le mura impongono. Fuoco alle galere! Libere tutti

***
Apprendiamo dalla stampa locale, con i soliti articoli vomitevoli in difesa dei secondini e del sistema-carcere, che
mercoledì 10 agosto un ragazzo di 24 anni, Mohamed, si è tolto la vita nel carcere di Monza. Sembra inoltre che Mohamed
fosse sottoposto a un regime di "grande sorveglianza" poiché incline ad atti di autolesionismo.
Quando il giorno dopo si è sparsa la voce all'interno della casa circondariale, i suoi compagni si sono rifiutati di
rientrare nelle celle iniziando, con una forte battitura sul cancello della sezione, una protesta per la mancanza di
un'adeguata assistenza sanitaria ed educativa. Sempre i giornali ci informano invece che stamattina un altro detenuto ha
appiccato il fuoco a un materasso dell'infermeria, mentre ieri un ragazzo recluso nel reparto psichiatrico ha provato a
impiccarsi per richiedere i suoi medicinali. Mentre i secondini si lamentano per un "carcere senza regole", sappiamo che
è proprio l'arbitrarietà la base di istituzioni totali in cui, lontano dagli occhi di tutti, si praticano i peggiori
abusi sulle persone costrette a passare anni della loro vita dietro le sbarre. Ricordiamo che a Monza è in corso un
processo (in origine per reato di tortura) contro 5 agenti della polizia penitenziaria imputati per lesioni aggravate e
violenza privata contro un detenuto.
Quello di Mohamed è il terzo suicidio del 2022 a San Quirico, dopo quelli di gennaio e febbraio di due uomini di 46 e 33
anni. Ad oggi le carceri italiane hanno indotto al suicidio già 51 persone. Come dopo ogni tragedia, l'ipocrisia delle
istituzioni non si è fatta attendere: così il capo del DAP (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) Carlo
Renoldi, ad estate inoltrata, ha riunito i suoi per discutere del problema del caldo che rende ancora più invivibili le
condizioni dei detenuti e delle detenute,organizzando inoltre delle visite in alcuni istituti penitenziari a Ferragosto
con tutti i vertici del dipartimento.
Anche a Monza, un politicante locale, facendosi portavoce della Polizia penitenziaria, ha proposto al sindaco una
"Commissione straordinaria" per arginare la situazione "fuori controllo" di San Quirico.
Senza scomodare tutta la storia delle carceri italiane, ci sono bastati gli ultimi due anni di pandemia per capire che
lo Stato non è interessato in alcun modo a risolvere le drammatiche condizioni in cui sono costrette a vivere migliaia
di persone all'interno degli istituti penitenziari, garantendo a tutti e tutte benessere e sicurezza. Come ci insegnano
le detenute e i detenuti, l'unica sicurezza è la libertà! (da FB Cordatesa, Monza)

***
Strani frutti e defenestrazioni
“Gli alberi del sud hanno uno strano frutto… appeso dagli alberi di pioppo”, gridava di dolore Billie Holiday nel ‘59,
raccontando quello che tutti facevano finta di non sapere: i linciaggi seguiti dalle impiccagioni degli uomini di colore
nelle regioni del Sud degli Stati Uniti.
Un padre, attorniato da 14 carabinieri, il pomeriggio del 3 gennaio del 2021 si trova di fronte il corpo del figlio,
Simone Mattarelli, 28 anni, penzoloni in un capannone industriale, il collo riverso, stretto nella cintura dei
pantaloni. Suicidio archivia il caso il GIP, sotto richiesta del Tribunale di Busto Arstizio. Nella notte tra il 2 e il
3 gennaio, in pieno coprifuoco da lockdown, Simone non si ferma a un posto di blocco. Ha assunto droga e nella sua BMW
ha dosi di cocaina. Incomincia un inseguimento per le strade della Brianza che dura ore. Il ragazzo chiama il padre,
dice di averla fatta grossa. Si ferma ad Origgio. Sono le 2 e mezza di notte. Prosegue a piedi nei campi, inseguito dai
militari, come testimoniano le riprese di una loro bodycam, spenta poco dopo. Vengono spariti 8 colpi di pistola a
terra, sentiti anche dal padre per telefono. La perizia nelle mani del GIP dice che qui viene interrotta la ricerca,
facendo perdere il giovane le sue tracce. Ma è da questo frangente che i legali della famiglia riscontrano più di
un’incongruenza rispetto alla versione ufficiale. Il padre , grazie al segnale GPS del cellulare del figlio, riesce a
rintracciare le scarpe di Simone ai bordi della recinzione di una vetreria. Non rispettando il diniego dei carabinieri,
riesce così a trovare Simone, il cui corpo presenterebbe due ferite al volto e un’emorragia addominale compatibili con
una “dinamica di aggressione premortale”. Altro particolare importante, il nodo della cintura dei pantaloni, troppo
semplice e ritrovato sotto il mento, quindi difficilmente in grado di reggere il peso del corpo. “Simone Mattarelli –
conclude la perizia di parte- non si è suicidato e prima di morire ha subito una aggressione ad opera di terzi,
aggressione parzialmente osteggiata dalla stessa vittima”.
Anche in Brianza, oggi, ci si può imbattere in strani frutti che pendono dai macchinari dei capannoni industriali.
Altro fattaccio, altro uomo privo di vita circondato da poliziotti. 25 luglio, siamo a Primavalle, quartiere popolare di
Roma. Hasib Omerovic, disabile di etnia Rom, è attualmente ricoverato in coma con fratture ed ecchimosi in varie parti
del corpo. La sua famiglia, terrorizzata, non è più rientrata in casa. Attualmente dorme in strada.
Fino al giorno precedente, gira su Facebook il post, poi rimosso, “perché Hasib ha importunato alcune ragazze del
quartiere e lo vogliono mandare all’ospedale. Fate attenzione a questa specie di essere, perché importuna tutte le
ragazze, bisogna prendere provvedimenti”. Agenti in borghese, senza mandato, entrano nell’appartamento popolare. In casa
c’è anche la sorella disabile, testimone oculare. Come preludio del film dell’orrore in atto, la poliziotta presente
abbassa le tapparelle, vengono chiesti i documenti e scattate delle fotografie ad Hasib. Calci, pugni e un bastone si
abbattano sul ragazzo che scappa in camera, chiudendosi a chiave. La serratura è letteralmente divelta e la porta
strappata via. Viene sdradicato dal muro il tubo di un termosifone. Hasib è preso per i piedi e buttato giù. La furia
assassina lascia il lenzuolo macchiato di sangue e un uomo di 37, sordomuto, agonizzante sul selciato di un
pianerottolo.


LA CALDA ESTATE DELLE CARCERI
Riportiamo liberamente alcuni dati commentati che fanno parte del rapporto di Antigone di fine luglio 2022. Per chi
fosse interessato è possibile ricevere il rapporto completo scrivendo alla nostra casella postale (Ampi Orizzonti).

Sovraffollamento: Secondo i dati DAP aggiornati al 30 giugno 2022 sono 54.841 le persone detenute negli istituti di
pena. Di questi 2.314 sono donne e 17.182 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un
tasso di affollamento del 107,7% (112% se si considerano i posti non disponibili che però vengono conteggiati). In 25
carceri il tasso di sovraffollamento supera il 150%. Latina e Milano San Vittore superano il 190%. Seguono con tassi tra
il 167% e il 190% Busto Arsizio, Lucca e Lodi. Confrontando i dati a livello europeo l’Italia si conferma tra i paesi
con le carceri più affollate dell’Unione Europea, seconda solo a Romania, Grecia, Cipro e Belgio.
Specificità della popolazione detenuta: uno dei dati che spicca è il numero di detenuti per violazione della legge sugli
stupefacenti. Si tratta del 34.8%, il doppio rispetto alla media europea. Ben il 28,1% dei detenuti è tossicodipendente.
Al 31/12/2021, erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti tossicodipendenti (28,1% del totale), per la quasi
totalità di genere maschile (96%) e per un terzo di nazionalità straniera (33%). In calo gli stranieri in carcere. in 4
anni sono diminuiti di poco meno di 2 mila unità. Nel 2008 erano il 37,45% del totale dei detenuti, oggi sono il 31,3%.
Le Regioni con l’incidenza più alta sono la Valle D’Aosta, con il 61,9% dei presenti, e il Trentino Alto Adige con il
59,8%, ma anche grandi regioni come la Lombardia (45,7%), l’Emilia Romagna (47,8%) e la Toscana (47,2%).
Tra gli stranieri detenuti in Italia al 30 giugno 2022, le nazioni più rappresentate, sul totale degli stranieri
detenuti sono il Marocco con 3.437 (20%), la Romania con 2.022 (11,8%), l’Albania con 1.852 (10,8%) e la Tunisia con
1.709 (9,9%). Per quanto riguarda le donne tra le nazionalità in modo particolare sono rappresentate quella rumena e
quella nigeriana. Si è assistito negli anni ad un progressivo invecchiamento della popolazione detenuta. Sempre secondo
i dati DAP dei 54.841 detenuti presenti 10.254 hanno un’età compresa fra i 50 e i 59 anni, il 18,7% del totale dei
detenuti. Subito dopo, la fascia 30-35 anni è quella che conta il numero più alto, con 7.830 detenuti, ovvero il 14,3%
della popolazione ristretta.
Durata delle pene, condanne definitive e detenuti in attesa di giudizio: Al 30 giugno 2022 sono 38.959 le persone
detenute condannate in via definitiva. Tra queste, 7.658 sono state condannate ad una pena inferiore ai tre anni. Negli
ultimi anni si è fatto meno ricorso al carcere per pene brevi. Le persone condannate all’ergastolo sono 1.840. Rispetto
a dieci anni fa, quando gli ergastolani erano 1.581, i condannati alla pena perpetua sono aumentati del 16,4%. Nel 2002
erano 990, nel 1992 erano 408. Una crescita enorme, nonostante il costante calo degli omicidi in Italia. Dei 1.822
ergastolani, ben 1.280 sono ostativi. La percentuale dei detenuti definitivi - pari al 71% - è in aumento rispetto al
semestre precedente. A maggio del 2022 è stata presentata la relazione del Ministero della Giustizia in materia di
misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione: “1 misura su 10 è stata emessa in un procedimento che
ha avuto poi come esito l’assoluzione o il proscioglimento”. Crescono le presenze nelle carceri minorili. Sono 381 i
giovani reclusi nei 16 Istituti Penali per Minorenni d’Italia attualmente attivi dopo la chiusura di Treviso (il 2,8%
dei 13.718 ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile). Erano 316 all’inizio dell’anno.
Sullo staff penitenziario: Dall’analisi delle schede trasparenza sui 190 istituti penitenziari italiani emerge come
attualmente tutte le figure professionali previste siano sotto organico. Gli agenti di polizia penitenziaria (la maggior
parte proviene dall’esercito) effettivamente impiegati nei vari istituti sono 31.680 (-5.765 rispetto a quelli
previsti), gli educatori 681 (-227), gli addetti all’area amministrativa 2.919 (-1.150). Ci sono regioni come Piemonte o
Sardegna dove un direttore gestisce due o tre carceri.
Misure alternative: Osservando l’andamento storico, vediamo come il totale di persone in misura alternativa sia
significativamente aumentato nel tempo. Dieci anni fa erano quasi 20.000 persone, 5 anni fa erano intorno a 25.000. Alla
fine di quest’anno potrebbero essere circa 10.000 in più. Guardando invece alle singole tipologie di misura, vediamo
come negli ultimi dieci anni il numero degli affidamenti in prova sia più che raddoppiato (9.989 nel 2012). Alla
generale crescita dell’esecuzione penale esterna non corrisponde però un calo della popolazione detenuta che anzi,
rispetto all’anno scorso, conta circa un migliaio di persone in più.
Carceri speciali: 41 bis e alta sicurezza: numeri stabili. Il Garante Nazionale riporta il dato dei reparti ex art. 32
OP in cui vengono ristretti i detenuti che abbiano un comportamento che richiede particolari cautele. Alla fine di
aprile 2022 i reparti ex art 32 erano 49 per gli uomini e 3 per le donne e vi erano ristretti 966 uomini (in lieve calo
rispetto ai 1.042 dell’anno scorso) e 42 donne (in forte aumento rispetto alle 25 dell’anno scorso).
Suicidi: In carcere ci si leva la vita ben 16 volte di più rispetto alla società fuori. Nel primo semestre del 2022, si
sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena 35 persone. A queste si aggiungono altre 3 persone decedute nel
mese di luglio. Oltre uno ogni 5 giorni. Il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da
dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un
massimo di 27. Solo nel 2010 e nel 2011 tale numero si avvicinava a quello di oggi, rispettivamente con 33 e 34 suicidi.
[Ad oggi (19/09) il numero aggiornato dei suicidi dell’anno corrente è di 61, più di quelli dell’intero anno 2021 (57)].
Su 38 suicidi, 18 sono stranieri, quasi il 50%. due le donne che si sono tolte la vita. ben 14 suicidi di giovani tra i
20 e i 30 anni.
I “disturbi psichici” rappresentano la metà delle patologie rilevate nella popolazione detenuta. Antigone, raccogliendo
i dati direttamente dagli operatori sanitari delle singole carceri visitate nell’ultimo anno, ha rilevato che il 13% del
totale della popolazione detenuta ha una diagnosi psichiatrica grave, in numeri assoluti significa oltre 7 mila persone.
Secondo i dati del Garante nazionale delle persone private della libertà le persone con “disagio psichico accertato”
sono 381, meno dell’1% del totale della popolazione detenuta. Si tratta tuttavia di un dato “giuridico”, che riguarda
tutti quei casi per cui dalla diagnosi psichiatrica derivi una qualche decisione dell’amministrazione penitenziaria o
della magistratura, ad esempio la disposizione dell’osservazione psichiatrica o di una “infermità mentale sopravvenuta”
ex art. 148 codice penale. Se si considera invece il dato dal punto di vista sanitario e non giuridico, i numeri come
abbiamo visto crescono enormemente.

***
Da una lettera dal carcere di Secondigliano
Davide Delogu, detenuto a Napoli nel carcere di Secondigliano, sottolinea le croniche dinamiche di invivibilità delle
carceri italiane, riportando alla nostra attenzione articoli di quotidiani del capoluogo campano.
È rievocata la manifestazione organizzata in giugno dai garanti dei detenuti che, tra i tanti problemi, ha denunciato
soprattutto il sovraffollamento di Poggioreale. A percorrere la cinta muraria del carcere napoletano è stato un nutrito
drappello di familiari dei detenuti che ha cercato di sensibilizzare la cittadinanza e l’opinione pubblica su dinamiche
disumane che vedono anche 12 persone vivere in una stanza, la 55bis, per giunta con una sola finestra. Le cronache
parlano poi di aggressioni agli agenti all’ordine del giorno, soprattutto da parte di detenuti fragili, con problemi
psichici e di tossicodipendenza. È tristemente ricordato il record di tentavi di suicidio nel 2021, ben 155, dei quali
purtroppo 6 concretizzatisi in morti, 17 volte maggiori rispetto a quanto accade fuori. Inoltre si contano mille
detenuti in più nelle carceri campane, tra le più affollate d’Europa, rispetto al periodo prepandemia e lockdown.
Inevitabili le lamentale sulla mancanza di agenti e personale qualificato da parte dei sindacati di Polizia
penitenziaria, che vedono scendere addirittura in sciopero della fame un loro dirigente. In ultimo, il dato scioccante
dei 30.231 innocenti finiti in carcere negli ultimi 30 anni in Italia. Solo a Napoli, dal 2012 al 2021, 1291 le persone
ingiustamente detenute.
Davide chiude dicendo che: “… quello che dicono gli articoli di giornale rispetto alla tensione che si taglia a lamette
nelle galere italiche, è vero. Il pensiero dei detenuti è che devono fare i decreti attuativi, prima che subentri il
nuovo governo. Sulla riforma aspettano che ci risarciscano dei 2 anni di Covid, facendoci uscire di galera come ha fatto
tutto il mondo!”


Aggiornamenti repressivi
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una recrudescenza da parte degli apparati repressivi con schedature, sospensioni
licenziamenti e arresti di lavoratori, cariche e arresti di studenti scesi nelle strade contro l’alternanza scuola-
lavoro che era costata due morti, fogli di via e denunce per le attiviste di Extinction Rebellion, idranti e lacrimogeni
CS contro manifestanti NoMuos, arresti di sindacalisti di base per le lotte nella logistica, caccia di armi, non al
porto, ma tra i lavoratori portuali del Calp di Genova, persecuzione di chiunque si opponga criticamente all’unico
pensiero ammesso su pandemia e guerra.
In questo clima la repressione selettiva verso chi ha ancora l’ardire di lottare fa a sua volta un salto di “qualità”
aprendo le porte del 41bis per un anarchico e seppellendo sotto condanne spropositate lui e altri due compagni. La Corte
di Cassazione di Roma, il 6 luglio 2022, ha rimandato a un secondo Appello la sentenza per Anna e Alfredo nel processo
Scripta Manent. Il reato di strage è stato riqualificato dalla Corte in quello di “strage politica” (art. 285), che
prevede la condanna all’ergastolo. Reato che non è stato contestato nemmeno per la strage di piazza Fontana, ma che
viene ora riconosciuto per un attacco esplosivo che non ha provocato alcun ferito. La Corte d’Appello dovrà limitarsi a
ridefinire la condanna secondo la nuova qualificazione. Anche quando cade l’accusa di “strage”, il risultato sono 28
anni di carcere, come nella recente condanna di Juan per l’azione contro la sede della Lega di Treviso. E lo Stato
italiano non si scorda di chi come Vincenzo, condannato per il famigerato reato di “devastazione e saccheggio” per i
fatti di Genova 2001, si è sottratto alla cattura. Il Mandato di Arresto Europeo non deve ammettere ostacoli. L’11
ottobre si saprà la decisione della Francia. Nel frattempo, a 11 anni di distanza dalla manifestazione del 15 ottobre
2011 a Roma, il MAE è stato accordato per Dayvid, condannato a 6 anni. L’8 settembre è stato rimpatriato in Italia dalla
Grecia.
Intanto per gli immigrati e le immigrate in file estenuati davanti all’Ufficio Immigrazione di Milano, sotto il caldo
soffocante la polizia interviene e… distribuisce Daspo.
Così va, per ora.
Le emergenze, lo stato d’emergenza da sempre utilizzato dal potere per potersi liberare dalle forze che gli si oppongono
specie in momenti in cui il conflitto sociale rischia di riesplodere, sono continue. Dalla pandemia si passati alla
guerra, ma la possibilità che si ritorcano solo contro chi si ribella potrebbe non durare a lungo.

***
No all’estradizione del compagno Dayvid
Il 24 maggio è arrivata la sentenza di Cassazione di uno dei tronconi del processo per la giornata del 15 ottobre 2011 a
Roma. La Cassazione ha reso definitive 6 condanne con esecuzione immediata; tra i reati contestati c’è devastazione e
saccheggio. La pena più alta è per l’imputato che si è prodigato con scuse e proposta di risarcimento danni alle
guardie: 6 anni e 6 mesi. Una condanna a 6 anni, una a 5 anni e 11 mesi e le altre a 5 anni e 4 mesi.
Dayvid, arrestato in Grecia e finora detenuto nel carcere di Korydallos ad Atene, l’8 settembre è stato rimpatriato in
Italia. La richiesta italiana di Mandato di Arresto Europeo è stata accolta dal giudice greco che gli ha negato la
possibilità di scontare la pena in quel paese. È ora detenuto nel carcere di Civitavecchia. Per scrivergli: Dayvid
Ceccarelli, via Aurelia nord km 79,500, SNC - 00053 Civitavecchia (Roma).
Segue un volantino distribuito sotto il Consolato greco di Milano.

Il nostro compagno Dayvid è stato arrestato mercoledì 29 giugno ad Atene. Era in Grecia da meno di un mese, la
Cassazione aveva appena confermato le condanne con l’accusa di Devastazione e saccheggio per il corteo del 15 ottobre
2011 a Roma, quando è avvenuto l’arresto con evidente celerità. La condanna per Dayvid è di 6 anni, con un residuo pena
da scontare di 5 anni e 1 mese. Durante il processo, Dayvid ha sempre rivendicato la giustezza di quella giornata di
rivolta in cui, per un breve momento, alcune vie del centro di Roma furono inondate da migliaia di manifestanti che,
invece di sfilare come volevano gli organizzatori e con i Cobas del pubblico impiego a fare da supporto agli sbirri,
decisero di attaccare e dar battaglia. Diverse camionette furono danneggiate, un blindato dato alle fiamme e fu impedita
per qualche ora la manovra di accerchiamento in Piazza San Giovanni. Dayvid oggi è rinchiuso nel carcere di Korydallos,
è stato in isolamento fino a lunedì 4 luglio, e ora è in sezione. La richiesta per la conferma del Mandato di Arresto
Europeo, con conseguente consegna all’Italia, ha visto una prima udienza il 13 luglio. È stato deciso un rinvio di una
quarantina di giorni per dare il tempo all’avvocata greca di produrre documentazione tradotta in greco. Il termine per
la consegna del materiale è il 13 agosto. La nuova udienza è stata fissata per il 18 agosto, rimandata poi al 19. I
punti su cui opporsi alla consegna in Italia verteranno sulla richiesta di Dayvid di scontare la condanna in Grecia e
riguarderanno la sproporzione della pena e il reato di Devastazione e saccheggio previsto in Italia, ma non in Grecia. A
distanza di 11 anni da quella giornata, ribadiamo la giustezza di ogni spinta all’attacco contro lo sfruttamento, al
capitale, allo Stato e a chi li sostiene.

***
GENOVA 2001/PARIGI 2022: SE LA LEGGE È UN ELASTICO LA SOLIDARIETÀ SIA UNA FIONDA
A tre anni dal giorno della sua cattura in Francia – e a più di vent’anni dalle manifestazioni contro il G8 di Genova
per cui è ricercato – Vincenzo è nuovamente a forte rischio “estradizione”.
Se nel 2020 i giudici di Corte d’Appello di Anger avevano deciso di non consegnarlo all’Italia per il controverso reato
di Devastazione e saccheggio, lo scorso 14 luglio la Corte di Giustizia Europea si è espressa a favore della sua
consegna, nonostante le evidenti incompatibilità tra questo particolare articolo di reato e codice penale francese.
La decisione definitiva spetta ora alla Corte di Cassazione di Parigi convocata per il prossimo 11 ottobre, ma gli spazi
per una decisione contraria si sono notevolmente ridotti se non azzerati.
In sintesi il ragionamento alla base del verdetto europeo è questo: la regola della Doppia Incriminazione – quella che
permette lo scioglimento di un mandato d’arresto europeo quando si è perseguiti per reati che non esistono nel paese
ospitante – è da considerarsi un’extrema ratio, da applicare solo in casi davvero eccezionali; questo perché il
meccanismo della giustizia comunitaria funziona solo se esiste “mutuo riconoscimento” tra paesi dell’Unione, cioè solo
se gli uni si fidano degli altri, in quanto alleati e in quanto “paesi democratici”. Parafrasando: in questo caso la
Francia dovrebbe fidarsi del sistema penale italiano e non indugiare troppo sulle sfumature autoritarie della
legislazione a cui attinge. Dunque – a dar retta alla Corte di Lussemburgo – poco importa se l’Italia impiega norme
ereditate dal fascismo per reprimere il dissenso di piazza, poco importa che la natura stessa di questo anomalo
“attentato all’ordine pubblico” sia incompatibile con il codice penale francese, poco importa se in Francia gli stessi
episodi contestati a Vincenzo avrebbero comportato meno della metà della condanna e poco importa persino se alcuni di
questi episodi in Francia non avrebbero neppure portato a un’incriminazione; secondo la Corte di Giustizia Europea
l’applicazione della regola della Doppia Incriminazione è da considerarsi facoltativa e, in ogni caso, deve essere
valutata con grande cautela e interpretata in maniera molto restrittiva.
Siamo alle solite: quando si tratta di decidere se condannare qualcuno per un reato come la Devastazione e saccheggio –
come avvenuto in Italia da Genova 2001 in poi – i giudici sono pronti a estendere l’interpretazione di vecchie norme
(ideate in tempo di guerra per punire sommosse e razzie) per applicarle anche a contesti completamente diversi (un
corteo, un centro di identificazione, uno stadio, un carcere) e a comportamenti di scala infinitamente minore
(danneggiamento di vetrine, incendio di uno pneumatico o di un materasso…); con la stessa elasticità accettano poi di
estendere il “concorso morale” fino a permettere attribuzioni che superano abbondantemente i confini della
responsabilità individuale; quando invece si tratta di decidere se consentire l’applicazione di una regola europea che
permette di stoppare mandati d’arresto iniqui, ecco che l’elastico della legge torna a stringersi a strozzo, e da
estensiva – dove si tratta di comminare pene – l’interpretazione diventa restrittiva – quando si tratta di concedere
diritti.
La legge – ne abbiamo conferma anche ora – non è materia immobile e lineare: piuttosto somiglia a un elastico che segue
le tendenze dell’epoca e i rapporti di forza interni alla società. I comitati di sostegno a Vincenzo e gli avvocati
della difesa, hanno provato ad agire nel mezzo di queste contraddizioni e, a modo loro, sono riusciti ad aprire una
fessura di libertà dentro una spirale repressiva – quella del post Genova 2001 – che a distanza di decenni ancora non
trova fine; quella fessura torna ora a chiudersi e da strettoia legale rischia di diventare vicolo cieco.
Si avvia così alla conclusione una storia che intreccia giustizialismo all’italiana e garantismo all’europea; se il
primo ha armato la repressione verso i manifestanti che a Genova protestavano contro il nuovo Ordine globale, il secondo
disarma ora le difese per garantire una “serena” collaborazione tra Stati in materia di “estradizione”.
Non è stata una buona notizia neppure per Dayvid, arrestato ad Atene proprio lo scorso mese di luglio, con lo stesso
capo d’imputazione di Vincenzo, ma ricercato dalle autorità italiane per fatti che risalgono alla manifestazione del 15
ottobre romano del 2011; il 19 agosto, anche a seguito del “parere vincolante” della Corte di Giustizia Europea sulla
situazione di Vincenzo, il tribunale greco ha deciso a favore dell’applicazione del MAE, ordinando il suo rimpatrio. Un
altro nome che si aggiunge alla lista dei “fuggitivi” agguantati per questo infausto reato in giro per l’Europa. Come
Luca Finotti, arrestato nel 2018 a Zurigo e solo oggi vicino al fine pena (scontata per buona parte nel carcere di
Cremona di Cà del Ferro). O Francesco Puglisi (detto Jimmi) preso a Barcellona nel 2013 e solo da poco finalmente
libero. O ancora quel ragazzo arrestato in Francia al momento della sua iscrizione a una scuola di musica perché
ricercato per il 1 maggio milanese del 2015 (poi assolto).
Se una sentenza diversa poteva segnare una discontinuità, quella appena formulata nel caso di Vincenzo difende lo status
quo ed evita un precedente che avrebbe costituito un appiglio utile a chi in futuro si fosse trovato inseguito
oltreconfine da una condanna per Devastazione e saccheggio.
Si confermano dunque le impressioni ricavate dall’osservazione degli ultimi anni: lo strumento del mandato d’arresto
europeo – introdotto nel 2004 – tende nella prassi a spianare la strada verso un sistema di riconsegne rapide e
frettolose tra paesi alleati, aggirando ciò che resta delle precedenti tutele in materia di estradizione. Se il caso di
Vincenzo ha così a lungo inceppato questo automatismo è stato solo grazie alla sua particolarità e alla solidarietà che
si è mobilitata tempestivamente in sua difesa.
Oggi come ieri quella tenace cerchia di amici e solidali è l’unica vera incognita che ancora si frappone tra Vincenzo e
la prigione. Per questo lo scorso 8 agosto a Rochefort en Terre – paesino di poche migliaia di abitanti in cui Vincenzo
vive da dieci anni – si sono radunati in quattrocento per ricordare i tre anni esatti dal suo arresto e rilanciare la
mobilitazione in suo sostegno.
È arrivato il momento di tornare a far sentire la nostra vicinanza anche dall’Italia.
Come commentava un esponente dei comitati di sostegno francesi di ritorno dalla prima udienza a Lussemburgo: “qui fanno
le vacanze insieme, mangiano, ridono, discutono, costruiscono l’Europa. Noi cosa facciamo?”
Appuntamento a Milano il 18 settembre dalle ore 16 al Cox18 di via Conchetta, 18.

Assemblea “Sosteniamo Vincenzo” di Milano


ancora repressione contro le lotte nella logistica
Il 19 luglio 2022 la Procura di Piacenza ha richiesto e ottenuto l’applicazione di alcune misure cautelari che hanno
portato agli arresti domiciliari 6 esponenti nazionali e locali delle due organizzazioni sindacali Si Cobas ed Usb. Il
giorno 3 Agosto 2022 il Tribunale del Riesame di Bologna si esprimerà sulla richiesta di revoca delle pesantissime
misure “cautelativamente imposte” ai due sindacati.
Gli arresti sono stati richiesti dalla procura piacentina nell’ambito di un’inchiesta iniziata nel 2016 che contesta
diversi reati e ipotizza due diverse “associazioni a delinquere” per le due organizzazioni sindacali che negli anni
hanno avuto l’ardire non solo di far rispettare lo stesso Ccnl firmato dai sindacati confederali ma addirittura di porre
in essere una “non necessaria contrattazione di secondo livello”. Un teorema giudiziario estremamente pericoloso che si
concretizza in un attacco senza precedenti all’esercizio del diritto di sciopero e ai diritti e alle libertà sindacali
nel nostro paese.
Un’operazione repressiva che intende infangare e screditare il sindacalismo conflittuale nel suo insieme,
strumentalizzando singoli episodi, evitando di contestualizzare e narrare le pessime situazioni di lavoro esistenti nel
settore logistico. L’ampia rappresentatività sindacale viene letta dalla Procura quale “elemento ricattatorio, gli
scioperi e le proteste negli anni poste in atto sono letti come richieste estorsive”.
Assenti dalle 22.000 pagine dell’inchiesta analisi e considerazioni che permettano di ricostruire il contesto delle
pessime condizioni di vita e di lavoro precedentemente imposte a migliaia di lavoratori e lavoratrici, dei diritti
basilari precedentemente negati.
Le lotte operaie sviluppatesi nel piacentino, così come in altri importanti luoghi considerati crocevia fondamentali
della logistica, hanno portato in centinaia di aziende e magazzini ad un miglioramento di queste condizioni,
ripristinando una legalità prima inesistente.
Assente dall’inchiesta qualsiasi forma di approfondimento sugli effetti che la capacità di autorganizzazione dei
lavoratori ha saputo produrre permettendo il superamento di un sistema di vero e proprio caporalato attraverso il quale
finte cooperative spesso legate alla criminalità organizzata hanno infiltrato i “paradisi non solo fiscali della
logistica”.
Assente qualsiasi cenno alle milionarie evasioni fiscali perpetrate per anni a danno dello stato e dei contribuenti,
assenti gli omessi contributi previdenziali, assenti le finte buste paga con cui gli stipendi venivano pagati, assenti
gli straordinari mai pagati, assenti gli improvvisi e continui cambi appalto, i programmati fallimenti di cooperative
destinate a breve vita e dei loro prestanomi fantasma, assenti le centinaia di denunce presentate da parte dei
lavoratori e mai prese seriamente in considerazione dalle istituzioni, assenti le mancate condizioni di sicurezza che
hanno prodotto le conseguenze più gravi per la salute e la vita di migliaia di lavoratori e lavoratrici.
Assenti le motivazioni reali che hanno determinato lo sviluppo di questo ciclo di lotte.
Assente la capacità di saper leggere un contesto nel suo complesso.
Assente la conoscenza approfondita di un settore come quello della logistica nato e cresciuto con una velocità
impressionante senza essere sottoposto ad alcun controllo e in cui lo sfruttamento di lavoratori perlopiù immigrati è
stato non solo tollerato ma ritenuto necessario senza scrupolo alcuno.
Per le ragioni fin qui sinteticamente esposte e per molte altre appena accennate il SI Cobas proclama l’apertura di uno
stato di agitazione e sciopero e si impegna a fare si che si sviluppi la massima convergenza ed unità d’azione con
l’insieme delle forze sindacali, sociali e politiche di classe e antigovernative, a partire da Usb che è come noi
bersaglio di questo squallido teorema accusatorio.

***
L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE È CADUTA… E SI È FATTA PURE MALE!
Nelle scorse ore sono state rese pubbliche le motivazioni con le quali il Tribunale del riesame di Bologna ha deciso,
agli inizi di agosto, la revoca degli arresti domiciliari per Aldo, Arafat, Carlo e Bruno del SI Cobas e due
sindacalisti di Usb.
In quasi 40 pagine i giudici di Bologna hanno letteralmente fatto a pezzi, fin quasi ridicolizzandolo, il teorema della
procura di Piacenza e del PM Grazia Pradella, e con esso la farneticante accusa di associazione a delinquere a carico
dei nostri compagni.
Al netto degli aspetti più tecnico-legali, che non è nostra competenza valutate, il giudizio del riesame assesta un
colpo durissimo al tentativo di equiparare il sindacalismo conflittuale e soprattutto la pratica dei picchetti opera, ad
un vero e proprio sodalizio criminale, e ribadisce più volte come il sindacato (quello vero, non asservito ai padroni)
ha ne conflitto e nelle lotte rivendicative la sua ragion d’essere.
Degna di nota anche la sottolineatura della notevole differenza, anche sotto il punto di vista del diritto penale, tra
“reato-mezzo” e “reato-fine”, laddove la condotta del SI Cobas viene annoverata nella prima fattispecie (reato di
violenza privata che però ha come fine il conseguimento di obbiettivi e rivendicazioni del tutto lecite) mentre nel caso
dell’associazione a delinquere il reato non è un mezzo, bensì il fine stesso di una determinata attività ritenuta
illecita.
Non è un caso se nelle pagine dell’ordinanza, il caso di Piacenza venga esplicitamente equiparato alle inchieste che
hanno colpito altri movimenti di lotta, su tutti i movimenti per il diritto all’abitare, anch’essi vittime di un teorema
finalizzato ad equipararli ad un’associazione sovversiva e i cui presunti reati sono stati anch’essi successivamente
riclassificati dal Tribunale come “reati-mezzo”.
Si tratta di un sonoro schiaffo anche per quella stampa prezzolata e al servizio dei padroni, la quale ha immediatamente
sbattuto il SI Cobas in prima pagina avallando le tesi della Procura di Piacenza, per poi non menzionare neanche l’esito
del riesame, e per gli stessi giornali locali, ansiosi di vedere i dirigenti del SI Cobas agli arresti e poi costretti a
riportare il giudizio del Tribunale di Bologna. Il crollo delle tesi accusatorie della Procura, del GIP e della Questura
di Piacenza non può però mettere in secondo piano il carattere ambivalente (e quindi ambiguo) della pronuncia del
Tribunale di Bologna, laddove, nonostante l’ampia ed articolata censura delle tesi della Procura di Piacenza, giunge
alla fine ad ammorbidire soltanto le misure cautelari senza revocarle, con la previsione dell’obbligo di firma per i
nostri compagni.
In sostanza, sembra che i giudici di Bologna si siano fermati a metà del guado, riconoscendo l’enormità dell’accusa di
associazione ma tirarne le somme fino in fondo, anzi nei fatti legittimando il ricorso a misure cautelari per il solo
reato di “violenza privata”, ovvero di semplice blocco delle merci durante uno sciopero.
Questo esito parziale e “incompiuto” dell’ordinanza è a nostro avviso il frutto di un clima politico di “caccia alle
streghe” che da anni accompagna l’attacco concentrico che stato è padroni conducono, senza esclusione di colpi, contro
il SI Cobas e contro il pieno esercizio del diritto di sciopero.
Esprimiamo dunque viva soddisfazione per il colpo assestato ai disegni repressivi della Questura e della Procura di
Piacenza, e ringraziamo i nostri avvocati per l’eccellente lavoro svolto sul terreno, quello della legge borghese, a noi
meno congeniale.
Portiamo a casa questo importante (per quanto parziale) risultato: un risultato che non riguarda i singoli individui
sotto processo, ma l’insieme della classe lavoratrice.
E siamo ancora più consapevoli e convinti, oggi più che mai, che la battaglia per emancipazione dei proletari dal giogo
dello sfruttamento e dagli effetti devastanti della crisi e della guerra non si giocherà tanto nei Tribunali, quanto nel
vivo degli scioperi e dello scontro di classe.
16 settembre, da sicobas.org


***
Con la scusa del Pnrr… Padroni e governo Draghi all’attacco dei lavoratori (non solo della logistica)
Provo ancora a scrivere due cose rispetto alla gravissima modifica legislativa che il governo Draghi e il Parlamento
hanno introdotto la settimana scorsa senza alcun pudore né vergogna al Codice Civile. Una modifica decisamente sui
generis e dalla dubbia legittimità: si è cambiato l’articolo 1677 del Codice Civile utilizzando un decreto, il PNRR2. Di
cosa parliamo concretamente?
Si colpisce in modo durissimo uno dei diritti fondamentali dei lavoratori italiani: quello di recuperare eventuali
mancanze in busta paga.
Contestualizziamo ciò che sto dicendo: tutti voi saprete sicuramente che una delle attività principali che hanno
permesso alla classe operaia di difendere i suoi diritti in questi anni, a fianco delle vertenze, degli scioperi e dei
picchetti, è stato il rivalersi in sede legale tramite la responsabilità in solido del committente per le mancanze
dovute a furti del datore di lavoro appaltante.
Nessun lavoratore della logistica, ne facchino ne driver, è infatti assunto dalla committenza (Amazon, Fedex, GLS…), ma
dai consorzi di cooperative/SRL che lavorano nei loro magazzini in appalto. Errori e mancanze in busta paga sono la
regola, e quando si intenta una causa legale per richiederne il saldo, regolarmente i consorzi alzano le mani
dichiarando di non avere abbastanza liquidità. A quel punto, interveniva la “responsabilità in solido” del committente.
Solo a Piacenza, abbiamo centinaia di sentenze all’anno che ci consentono questo recupero, nell’ordine astronomico di
20-50mila euro per ciascun lavoratore.
Grazie alla modifica inserita dal senatore di Forza Italia Nazario Pagano (ma votata da tutto il Parlamento), ora si
sostiene che “se l’appalto di manodopera ha per oggetto servizi relativi alla ricezione, custodia o spedizione di merci
si applicano le norme relative al contratto di trasporto, e non a quello di appalto”. Ciò significa che si interrompe la
tutela dei lavoratori in caso di mancato pagamento di contributi e TFR.
Una tutela fondamentale sradicata e un enorme regalo fatto a Sacra Corona Unita, Ndrangheta, Camorra (è noto che tanti
dei consorzi che lavorano in appalto sono loro terreni di riciclo…) e a tutto il tessuto padronale italiano, in quanto
fornitore, e a quello multinazionale, in quanto committente.
Una modifica peraltro strampalata in quanto interviene solo su uno specifico settore, quella logistica la cui centralità
tecnica e politica nell’attuale modo di produzione capitalista era già confermata dalla violenza repressiva con cui il
S.I. Cobas è stato attaccato a Piacenza e in tutta Italia, a dimostrazione di quanto fondamentale sia il controllo di
quel nodo per determinare diversi rapporti di forza in seno alla società del capitalismo “4.0”. La responsabilità della
committenza rimane per tutti i CCNL, tranne per quello della logistica. Ma per favore… farebbe ridere se non fosse
drammatico.
Quindi quando cambiano i fornitori che cosa sono i “tender” se non delle gare di appalto (fatte peraltro al ribasso sul
costo del lavoro)?
Anche dal punto di vista prettamente giuridico, che si intervenga su uno e un solo specifico CCNL introducendo
surrettiziamente una norma che ne stravolge le dinamiche proprie passando per il Codice Civile è tutt’altro che scontato
e appare una volta di più come infida furberia padronale.
Assologistica ha ringraziato pubblicamente il parlamentare di Forza Italia Nazario Pagano e la ministra Cartabia, ebbene
che si ringrazino fra di loro: a noi invece spetta il compito di lottare e convocare immediatamente uno sciopero
generale che abbia nella logistica il suo fulcro e che blocchi tutte le filiere per pretendere immediatamente il
ripristino di questo basilare diritto, che urli a gran voce che lo stato e le istituzioni democratiche sono ormai
ridotte a meccanismo criminogeno, che di fatto incentiva e legalizza il furto in tasca ai lavoratori. [...]

18 luglio 2022
Un lavoratore e militante S.l. Cobas Piacenza