indice n.146

Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso
Sullo sciopero della fame al femminile di Torino
proteste nell’AS di Vigevano (PV)
sulle battiture nel femminile del carcere di Trieste
Al fianco di chi lotta nelle galere
Lettera dal carcere di Reggio Emilia
grecia: SCIOPERO DELLA FAME CONTRO IL CARCERE SPECIALE
la Spagna brucia in solidarietà a Pablo Hasel
Lettera dal carcere di Busto Arsizio (va)
lettera collettiva dal carcere di Uta (Cg)
Lettera dal carcere di Pavia
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Lettera dal carcere Marassi di Genova
lettera dal carcere di siano (cz)
Lettera dal carcere di San Vittore (Mi)
lettere dal carcere di milano-opera
NOTIZIE DALLE CARCERI
Sullo sciopero del 28-29 gennaio e sulla lotta in Fedex-TNT
No Tap. A che punto siamo?
Signornò!


Della rivolta nella ex caserma Serena a Treviso
non lasciamo solo chi lotta per la libertà
Forse ricorderete le rivolte che hanno attraversato un centro d'accoglienza a Treviso tra giugno ed agosto e i 4 arresti che ne sono

seguiti. Ad oggi uno di loro non c'è più, Chaka, due sono ancora in carcere (a Treviso e Vicenza) e per un'altra persona è stata trovata

un'abitazione a Treviso per i domiciliari. Il primo aprile comincia il processo.
Il collettivo Campagne in Lotta è sempre in contatto con tutti e tre e da qualche giorno, anche in seguito al confronto con loro, hanno

fatto partire una campagna di solidarietà di cui, di seguito, riportiamo il testo seguito da una lettera di un detenuto del carcere di

Treviso, scritta dopo la notizia della morte di Chaka Outtara il 7 novembre nel carcere di Verona.

Il 19 agosto Mohammed, Amadou, Abdourahmane e Chaka vengono arrestati per devastazione, saccheggio e sequestro di persona e portati nel

carcere di Treviso. Il 7 novembre Chaka, 23 anni, viene trovato morto nel carcere di Verona. Secondo le accuse, sono colpevoli di aver

"capeggiato" le proteste che tra giugno e luglio hanno travolto il Cas ex caserma Serena di Treviso.
In un periodo in cui per molti il lockdown sembrava finito, le persone costrette a vivere dentro i luoghi di reclusione continuavano a

restare ammassate, senza che venisse presa nessuna misura di tutela della loro salute.
Questo è il caso dell'ex caserma Serena di Treviso, adibita a Cas e gestita dalla cooperativa Nova Facility, dove ancora a giugno, più di

300 persone continuavano a vivere in spazi sovraffollati, senza che venisse loro fornita alcuna informazione sui contagi né alcuna

protezione come mascherina e disinfettante. Molti di loro lavorano sfruttati in diversi settori della zona, dalla logistica

all'agricoltura. Già da ben prima dell'emergenza Covid chi era costretto a vivere in quel luogo aveva denunciato le terribili condizioni

di vita all'interno della struttura: le condizioni igieniche degradanti, le cure mediche assenti, le camere-dormitorio, la rigidissima

disciplina con cui sono applicate le regole dell’accoglienza, la collaborazione tra operatori e polizia, il lavoro volontario all'interno

del centro. Un luogo perfetto per la diffusione del Covid.
L'ex caserma Serena, infatti, nel giro di 2 mesi diventa un focolaio e i contagiati passano da 1 a 244. E' proprio per questo che prima a

giugno, poi a fine luglio e infine ad agosto si susseguono proteste da parte degli ospiti della struttura. Le ragioni sono molto chiare,

nonostante le notizie sui giornali e le inchieste giudiziarie vogliano storpiarle in tutti i modi possibili: si protesta perché non viene

fornita nessuna informazione sugli aspetti sanitari, né alcuna misura di tutela della salute, perché da un giorno all'altro viene

comunicato a tutti l'isolamento, ma senza che venga data alcuna spiegazione.
Solo dopo due giorni di vero e proprio sequestro degli ospiti si scopre che la ragione è il contagio di un operatore. Si protesta perché

molti perdono il lavoro senza poter nemmeno comunicare coi propri padroni; perché vengono fatti a tutti i tamponi, ma poi positivi e

negativi vengono rinchiusi insieme e quindi l'isolamento si rinnova continuamente. Si protesta perché chi lavora lì continua ad entrare e

uscire, mentre i contagiati all'interno aumentano di giorno in giorno, ad alcuni vengono fatti anche 4 o 5 tamponi ma nessuno, tra

operatori, personale sanitario e polizia, si interessa di fornire informazioni a chi dentro la caserma ci vive e di virus si sta

ammalando. Ad alcuni è anche impedito di vedere l'esito del proprio tampone. Si protesta anche perché gli ospiti chiedono di parlare coi

giornalisti per raccontare le loro condizioni, e polizia e operatori glielo impediscono.
Nel frattempo, già dopo le prime manifestazioni di giugno, la prefettura preannuncia 3 espulsioni e almeno una ventina di denunce pronte

per quando finirà l’isolamento. L'annunciata repressione si avvera il 19 agosto, quando quattro persone che vivono dentro l'ex caserma

vengono arrestate. Altre 8 risultano indagate. Le accuse sono pesanti, ed è molto chiaro che l'intento è punire Abdourahmane, Mohammed,

Amadou e Chaka in modo esemplare, per dare un segnale a tutti gli altri. Per trovare dei colpevoli, dei capi, degli untori, per spostare

la responsabilità dal Ministero dell'Interno, dalla Prefettura, dalla cooperativa e dal comune agli immigrati. Tutti e 4 vengono portati

nel carcere di Treviso. Mohammed viene ricoverato in urgenza allo stomaco proprio per l'assenza di cure, Amadou si ammala di Covid in

carcere.
Dopo un mese circa - per ordine del Ministero dell'Interno - vengono trasferiti in 4 carceri diverse e messi in regime di 14bis

(sorveglianza particolare). Il 7 novembre il più giovane di loro, Chaka, viene trovato morto nel carcere di Verona. Su di lui viene spesa

qualche parola in qualche articolo di giornale, si parla di suicidio e poi, come per tantissime altre morti, cala il silenzio.
Le ragioni di questa protesta, la repressione che ne è seguita e la morte di Chaka sono un'espressione molto chiara di quanto è accaduto

nell'ultimo anno e dell'ordine assassino a cui vogliono sottoporci. Se abbiamo conoscenza di questa storia è soltanto grazie al fatto che

delle persone continuano a lottare. E per questo ora stanno pagando, rischiando di rimanere isolate e sole.
Dall'inizio della pandemia nei centri di accoglienza di tutta Italia si sono susseguite proteste scatenate da ragioni del tutto simili a

quelle di Treviso: la mancanza di informazioni chiare, l'ammassare positivi e negativi insieme in una tendopoli, in un centro o su una

nave, le quarantene continuamente rinnovate, la mancata tutela della salute. Le proteste, le fughe, gli scioperi della fame non si sono

mai interrotti, contro uno Stato che nei mesi ha noleggiato 5 navi-prigione, ha inviato militari a presidiare i centri di accoglienza, ha

stretto accordi di rimpatrio con la Tunisia, ha denunciato ed espulso centinaia di persone, avallato da fascisti e rappresentanti locali

che gridavano all'untore, all'espulsione, agli sgomberi.
A marzo, in seguito alle lotte per i documenti che le persone immigrate soprattutto nelle campagne portano avanti con coraggio, lo stesso

governo ha varato una sanatoria che ha coinvolto solo poche persone, lasciandone tantissime altre in condizione di irregolarità o semi-

irregolarità. Eppure di questa sanatoria le istituzioni si sono fatte vanto, così come della modifica dei decreti sicurezza di Salvini

(in realtà questi prevedono ancora misure per favorire la repressione dei reati commessi dentro i cpr, mentre è stata lasciata

completamente intatta tutta la parte relativa alla criminalizzazione delle lotte in generale).
Così nelle carceri, dove dopo le rivolte di marzo e le morti, si è cercato di imporre in tutti i modi un muro di silenzio. Mentre le

prigioni continuano ad essere focolai, i contagiati raddoppiano (come ad esempio il carcere di Vicenza dove tuttora è rinchiuso Amadou),

e aumentano i morti di Covid tra i detenuti, sulle rivolte di marzo e sui 14 detenuti morti nelle galere di Modena, Bologna e Rieti si

cerca in tutti i modi di far calare il silenzio; levando di torno le persone e mettendo a tacere in qualsiasi modo la voce dei detenuti e

dei testimoni delle violenze e torture che si sono consumate in questi mesi nelle galere. Non a caso proprio le persone straniere che

hanno partecipato alle rivolte di Modena sono state espulse.
Ma per quanto si voglia liquidare tutte queste morti, da quella di Salvatore Piscitelli a quella di Chaka Outtara, come dovute a overdose

o suicidi, sono proprio le denunce, i racconti e le lotte di questi mesi ad aver permesso di non farne dei casi singoli. Per quanto si

voglia dividere e isolare chi ha lottato nei campi, nei centri di accoglienza, nei cpr, sulle navi, nelle carceri con enorme coraggio in

tutti questi mesi, i legami di solidarietà e di lotta non smettono di intrecciarsi.
La morte di Chaka, come quella di tanti altri, non deve essere dimenticata, perché quello di Chaka è un omicidio e gli assassini sono

l'accoglienza, le leggi razziste che governano la vita delle persone immigrate, lo sfruttamento, il carcere.
Attualmente Mohammed e Amadou sono nelle carceri di Treviso e Vicenza, mentre Abdourahmane è agli arresti domiciliari. Invitiamo a

scrivere loro e a far sentire la nostra vicinanza in tutti i modi possibili, perché continuare a lottare significa anche non lasciare

solo nessun davanti alla repressione, e non lasciare che la morte di Chaka si aggiunga solo ad una lista ormai troppo lunga.
Per Chaka. Mohammed, Amadou e Abdou liberi! Tutti e tutte libere!
Sanatoria per tutti, repressione per nessuno!

Per scrivere loro:
Mohammed Traore, Via S. Bona Nuova 5/b - 31100 Treviso (TV)
Amadou Toure, Via B. Dalla Scola 150 - 36100 Vicenza (VI)

***
Morto suicida a causa dei rappresentanti della nostra istituzione. Non è così che deve essere. Scrivo come rappresentante dal carcere

nonché come amico di Chaka Outtara, perché tutto questo abbia un senso. Colpevoli, il direttore della caserma Serena, gli abusi delle

forze dell'ordine, e alcuni assistenti penitenziari, che preferiscono fare abusi di potere nonché psicologici per poi con semplice nota

disciplinare castigare i detenuti, per poi lavarsene le mani e lasciare il colpo finale ai giudici, anche loro colpevoli a loro volta.

Rappresentanti della nostra istituzione ma irrispettosi delle persone. Disinteressati e noncuranti della nostra documentazione e

situazione, infliggendoci pene alte e assurde, senza lasciarci parlare e non dandoci credibilità. Io vi ho scritto tempo addietro a nome

di Chaka, Mohammed, Amadou perché avevano bisogno di aiuto sia per mancanza di conoscenza della scrittura ma soprattutto perché avevano

bisogno di qualcuno che li ascoltasse. Tutti risiedevano in caserma serena nella prima ondata del covid. Chaka lavorava presso il

Roadhouse a Treviso come cuoco, Amadou come sicurezza in negozio sempre a Treviso, Traore e Signate disoccupati perché nonostante

presentavano al direttore della caserma un contratto di lavoro, gli veniva negata la possibilità di iniziare a lavorare. Nel frattempo

sono stati rilevati dei contagi all'interno della caserma (almeno così dicevano) e tenevano tutti bloccati all'interno nonostante nessuno

fosse positivo di loro. Non permettevano di andare a lavorare, e invece quando Traore aveva subito un'operazione allo stomaco e aveva

bisogno di medicinali gli venivano negati perché gli dicevano che se li doveva andare a comprare lui di sua tasca. Incredibile ma vero!

Non li lasciano lavorare ma si devono comprare i medicinali. Un giorno ci fu una protesta per la malasanità e per la mancanza di pulizia

della caserma e ci furono degli scontri dove nessuno di loro ne faceva parte, dimostrabile anche dalle telecamere all'interno della

caserma, ma che non sono mai state visionate. Chaka era in possesso di prove schiaccianti ovvero di foto e video del malfunzionamento e

lo voleva rendere pubblico come la sua negatività al covid. Un brutto giorno alle 5 del mattino la questura è entrata nella caserma

serena portando in carcere Traore e Signate per poi convocare Toure e Outtara con la scusa del permesso di soggiorno, e dopo un po' di

percosse sono stati portati anche loro in carcere. Premetto che Signate non abitava neanche in caserma serena. Una volta dentro qui dopo

un paio di giorni è venuto il giudice in carcere per confermare il loro arresto senza lasciare loro spazio visto che non erano in grado

di parlare italiano, ma scrivendo poi nelle carte che Outtara e gli altri erano pericolosi e che Chaka Outtara non aveva mai lavorato da

quando era in italia, nonostante le sue numerose buste paga. Passano i giorni in carcere e dopo la quarantena obbligatoria per tutti i

detenuti, Outtara e gli altri cercano in tutti i modi di essere ascoltati tramite i loro avvocati, e sinceramente Outtara mi riferiva che

gli continuava a chiedere soldi tramite la zia e, nonostante li ricevesse, per loro non si faceva nulla. Il tempo continua a trascorrere

e Traore Mohammed comincia a stare male con lo stomaco per lo stress. E' nervoso e pure gli altri psicologicamente, perché non si davano

pace per quello che stavano vivendo. Traore comincia a stare sempre più male con lo stomaco e Outtara e Signate insistono, facendo

domandine e verbalmente, di essere ascoltati dagli assistenti. Gli assistenti non danno peso e credibilità alle loro continue lamentele.

Purtroppo un bel giorno Traore si sente male e sono costretti a chiamare l'ambulanza e gli verrà riscontrata una gastrite acuta. Torna

dopo 2/3 giorni di ricovero e ospedale, gli prescrivono medicine e alimentazione corretta da fare.
Outtara chiede le carte e le prescrizioni da seguire per Traore e gli assistenti ( uno in particolare già artefice di altre disgrazie qui

a Treviso, visto che già due persone non molto tempo indietro erano morte qui all'interno del carcere di Treviso) si lamentano di essere

stanchi di loro e che avevano ormai "rotto i coglioni". Nei giorni, dopo lo stress psicologico per tutti loro, la depressione si fa

sentire e anche l'amarezza per essere considerati meno di zero, fino a quando una mattina alle 8 e 30 si alzano con la notizia da

un'assistente che Ouattara e Amadou uscivano perché scarcerati. Contenti hanno cominciato a farsi la borsa e salutarci tutti. Purtroppo

era stata solo una bugia perché io stesso vidi Ouattara con le manette e caricato nel [...] del carcere per essere trasferito a verona.

Amadou non l'ho più visto. Dopodiché Signate e Traore li vidi messi in isolamento con cancello e blindo (porta chiusa senza possibilità

di vedere le persone) e il giudice scriveva per loro due che dovevano essere messi in isolamento per non meno di 3 mesi a causa del loro

continuo casino. Premetto che il giudice ha dato questa sentenza perché a sua volta ha ricevuto rapporti disciplinari dagli assistenti.
Oggi 11/11/20, letto il giornale della disgrazia di Ouattara, Traore è stato tolto dall'isolamento e messo in sezione. Signate pure lui

trasferito e messo in un altro carcere credo quello di Vicenza. Sono stato la persona più vicina a loro e purtroppo sto vivendo anche io

un abuso della polizia locale e desidero di cuore che questa mia lettera possa fare tutta la luce possibile perché sia fatta giustizia

vera e le regole siano giuste per noi detenuti e anche per l'istituzione. E soprattutto perché non si paghi per ciò che non si ha

commesso.


Sullo sciopero della fame al femminile di Torino
Il 21 gennaio 2021 tre detenute hanno cominciato lo sciopero della fame, costrette dalla grave situazione che stanno vivendo all’interno

del carcere delle Vallette di Torino.
Sono importanti le motivazioni che le hanno spinte a questa forma di protesta:
- La diminuzione delle ore di colloquio previste per legge (anche in videochiamata).
- Le sei ore mensili che ogni detenuta ha a disposizione per legge per effettuare colloqui in presenza che, sospesi per via della

pandemia Covid-19, sono stati sostituiti da video chiamate che però non mantengono mai il monte ore complessivo, ma al contrario lo

diminuiscono se non direttamente dimezzato. Questo mancato mantenimento delle ore di colloquio familiare previste per legge, colpiscono

duramente il diritto all’affettività garantito dal Ministero di Grazia e Giustizia, ma non solo, vanno a calpestare la dignità delle

detenute e dei detenuti.
Il secondo punto delle motivazioni dello sciopero tratta il tema dei colloqui in presenza in tempi di restrizioni dettate dai DPCM

emanati dal Governo. Dal momento in cui il carcere ha riaperto la possibilità di effettuare le visite familiari, tantissimi parenti si

sono recati al carcere per effettuare le prenotazioni, solo che una volta presentatisi in loco, a tutti quelli provenienti da fuori

Torino è stato vietato l’accesso al carcere con la scusante della Zona Arancione. Come se non fosse un motivo di primaria necessità

quello di incontrare i propri parenti detenuti. Ma non solo, sono stati respinti e colpevolizzati per essersi presentati, nonostante non

sia giunta a loro alcuna comunicazione da parte della Casa Circondariale. A fronte di questa immotivata privazione, il carcere delle

Vallette non prevede ad oggi alcuna forma sostitutiva che garantisca le 6 ore di colloquio anche sottoforma di video chiamata.
Per queste ragioni Dana, S. Calabria e M.E. Piazza hanno iniziato lo sciopero della fame che porteranno avanti ad oltranza fino a che non

saranno nuovamente garantiti i loro diritti. Le loro istanze invocano alla possibilità che vengano immediatamente riammesse le

videochiamate, la telefonata ordinaria e anche quella aggiuntiva introdotta proprio durante la sospensione dei colloqui in presenza. Ma,

siccome il problema del taglio delle ore non è solamente per chi non ha ancora accesso alle visite in presenza, viene richiesto che tutti

i detenuti e le detenute abbiano possibilità di integrare con videochiamate le ore in presenza così da raggiungere comunque il monte ore

complessivo settimanale.
Altra importante richiesta si riferisce alla necessità di ristabilire al più presto le prenotazioni dei colloqui via mail, che ancora

oggi è in disuso. Questo certamente renderebbe più agevole e più sicuro, a livello sanitario, la possibilità per le famiglie di

effettuare la prenotazione alla visita.
Inoltre, viene richiesto che la chiamata con il proprio legale non rientri nell’elenco delle telefonate ai familiari, evitando così che

quella chiamata ne sottragga una con i propri cari. D’altronde le visite in presenza degli avvocati sono certamente escluse dal monte ore

settimanale. Pertanto la logica vorrebbe che lo stesso avvenisse con le telefonate.
Il Covid-19 in carcere è già stata fonte di paura e enorme stress per tutte le detenute e i detenuti, basti pensare alle rivolte che si

sono scatenate lo scorso marzo, pertanto al centro di questo sciopero c’è anche la richiesta urgente di ricevere reali misure di tutela

sanitaria che il carcere di Torino ancora non ha previsto. E quindi, di ricevere notizie in merito al vaccino e alla sua

somministrazione, di mettere in atto in tempi brevi un’indagine medica accurata su tutti i detenuti così da riuscire ad effettuare una

reale mappatura dei contagi e poter prevenire terrificanti scenari.
Apprendiamo che il 22 gennaio anche Fabiola ha comunicato all’ispettrice di essere entrata in sciopero della fame a tempo indefinito

raggiungendo Dana e altre due detenute della Vallette contro le restrizioni che Fabiola ha dovuto subire, tra l’altro, in prima persona

visto che le è stato negato il primo pacco con i generi di prima necessità su pretesto che chi l’aveva portato veniva da fuori del comune

di Torino.
Il 29 gennaio, “a seguito dell’impegno dell’amministrazione carceraria di Torino di garantire, ad effetto immediato, la possibilità di

usufruire delle 6 ore ministeriali previste per i contatti con i propri familiari e a seguito delle notizie pubbliche rispetto al piano

prevenzione Covid che da marzo riguarderà tutta la popolazione detenuta”, Fabiola, Dana, Stefania ed Emanuela hanno sospeso lo sciopero.
Il 30 gennaio sono stati organizzati presidi sotto le carceri di Roma, Vicenza, Pisa, Padova, Treviso, Venezia, Pavia e Milano, in

solidarietà a chi lotta nelle prigioni e a sostegno al movimento No Tav sempre sotto attacco della repressione.
Milano, gennaio 2021
***
In data odierna, a seguito dell’impegno concreto da parte dell’Amministrazione carceraria di garantire, ad effetto immediato, la

possibilità di usufruire delle 6 ore ministeriali previste per i contatti con i propri familiari e a seguito delle notizie pubbliche

rispetto al piano prevenzione Covid che da marzo riguarderà tutta la popolazione detenuta, decidiamo di sospendere lo sciopero della fame

giunto oggi al 6° giorno.
Nonostante siano innumerevoli le evidenze del fallimento del sistema carcerario, siamo soddisfatte oggi del piccolo ma importante

risultato raggiunto.
Abbiamo oggi, in presenza della Garante dei detenuti del Comune di Torino, stilato un elenco di tutto ciò che con urgenza dev’essere

affrontato al fine di garantire una detenzione almeno dignitosa.
Gli argomenti esposti sono stati i seguenti:
- carenza dei percorsi rieducativi di formazione all’interno del carcere e di reinserimento lavorativo e abitativo all’esterno di esso;
- eccezionalità del Tribunale di Sorveglianza di Torino, ma a livello nazionale per la severità dei provvedimenti presi circa le misure

alternative;
- gravi carenze strutturali e igieniche all’interno della Casa Circondariale;
- assenso totale di un percorso di sostegno alle donne vittima di violenza;
- dotazione a tutte le detenute in ingresso e già presenti in carcere di un regolamento penitenziario;
- miglioramento del vitto quotidiano;
- rimozione griglie strette oltre le sbarre delle finestre;
- acqua calda in cella;
- ristrutturazione docce comuni;
- maggiore garanzia serale di rapido intervento in caso di criticità;
- garanzia circa il rispetto delle regole della sezione aperta (ore di apertura).
Concludiamo auspicando che si possa al più presto rendere ammissibile la proposta di scarcerazione anticipata (75 gg retroattivi) a tutte

le tipologie di reato compreso il 4-bis.
Ringraziamo tutti coloro che ci hanno sostenute in questi giorni faticosi, non facendoci sentire sole e dando voce alla nostra protesta.

Dana, Fabiola, Stefania, Emanuela
26 gennaio 2021, da notav.info

***
Nel pomeriggio del 31 dicembre i carabinieri sono andati a prendere Fabiola in casa e l'hanno tradotta nel carcere delle Vallette di

Torino. Da ottobre stava infatti scontando una condanna definitiva di 2 anni per il processo relativo all'iniziativa No Tav "Oggi paga

Monti" del marzo 2012 in cui il casello di Avigliana dell'autostrada Torino-Bardonecchia fu per qualche ora reso gratuito, e per il quale

anche altri e altre si trovano in carcere, agli arresti domiciliari o con misure restrittive. A questa, per lei si sono aggiunte altre

due condanne a causa delle quali il cumulo pena ha superato i 2 anni e così il magistrato di sorveglianza ha disposto il suo

trasferimento in carcere.
Ancora una volta, giudici e magistrati non perdono occasione per accanirsi e rendere la vendetta dello Stato il più dura possibile contro

chi nella propria vita ha scelto di lottare.

1 gennaio 2021, liberamente tratto da ilrovescio.info

proteste nell’AS di Vigevano (PV)
All’inizio di dicembre si sono riscontrati diversi casi di contagio nella sezione femminile che ha causato l’ulteriore restringimento

degli spazi di socialità e dei contatti con l’esterno. Inoltre, dal giorno 2 di gennaio il telefono del carcere di Vigevano ha smesso di

funzionare, senza che le detenute e i detenuti sapessero quale fosse il problema né quanto potesse durare. Le chiamate in ingresso

sembravano però funzionare dato che era stato detto loro che i parenti chiamavano di continuo per avere chiarimenti.
La prima settimana era trascorsa con proteste individuali sporadiche poiché i primi giorni non tutti si erano accorti del problema, non

avendo telefonate quotidiane. Da parte del carcere c'era stata la promessa di mandare un messaggio ai parenti per avvisarli degli orari

dei colloqui whatsapp ma questo non è accaduto e una goccia in più ha fatto traboccare il vaso. Dal mese di maggio le lavatrici sono

rotte e per un periodo le facevano fare solo a chi ha più di 60 anni, ma attualmente l'area delle lavatrici è in ristrutturazione dunque

nessuna le può usare. Nelle celle non c'è l'acqua calda e il bucato si fa con l'acqua fredda in cella o si fa nelle docce, ma anche nelle

docce non sempre c'è l'acqua calda. Da quando sono accesi gli impianti di riscaldamento, infatti, le docce sono calde a intermittenza.

Ulteriore momento di tensione si è dato quando durante la chiusura pomeridiana è saltata la corrente: la battitura è partita subito. Sono

quindi arrivate in sezione la sorveglianza e la comandante che hanno raccolto le lamentele delle detenute, assicurando che di alcune non

fossero neanche al corrente.
Nella mattinata di domenica 10 quindi, mettendo da parte i problemi delle lavatrici e dell'acqua calda, le detenute hanno deciso che se

la situazione delle telefonate non si fosse risolta, il giorno seguente avrebbero continuato con la battitura e avrebbero iniziato lo

sciopero del carrello.
Di seguito una lettera collettiva del 14 dicembre, le lettere collettive delle stesse del 13 gennaio e una lettera che racconta delle

giornate di protesta che hanno coinvolto le donne detenute nella sezione AS.

Siamo alcune detenute della sezione AS3 femminile del carcere di Vigevano e vogliamo raccontare come il nostro quotidiano viene

attualmente sconvolto dal Covid.
Da marzo scorso siamo anche noi sottoposte a misure anti-contagio ma la situazione ha preso una svolta una decina di giorni fa quando

sono stati scoperti dei casi di contagio nella sezione comune del femminile. Ne siamo venute a conoscenza solo quando era diventato

impossibile nasconderlo in quanto le detenute che lavoravano in cucina sono state chiuse e messe in quarantena, di conseguenza sono stati

distribuiti solo pranzi al sacco rendendo visibile a tutte ciò che stava accadendo.
A parte ripeterci di stare tranquille e di non preoccuparci non ci è mai stato comunicato niente di formale riguardo la situazione e

tutt'ora facciamo fatica a sapere il numero delle persone affette dal virus e quali misure sono state adottate. L'unica cosa che sappiamo

è che da sezione aperta che era, ora le compagne della sezione comune sono chiuse nelle loro celle e sono stati sospesi i momenti di

socialità. Tutti i lavori e le attività da loro effettuati vengono adesso svolti dalle detenute dell'AS. L'unica precauzione presa nei

nostri confronti è che quando si ricordano ci viene misurata la temperatura.
Da tanti mesi siamo costrette a subire le varie restrizioni dovute al Covid: sospensione delle rare attività e dei corsi esistenti,

divieto di far entrare il prete e la suora, complicazioni nel seguire udienze e processi in corso dato che vengono svolti quasi tutti in

video conferenza, difficoltà a sentire i nostri parenti perché a volte loro stessi sono affetti da Covid, sospensione dei colloqui in

presenza, crescenti difficoltà di curare le nostre patologie preesistenti avendo sospeso quasi tutte le visite in ospedale. Ora però la

situazione sta giungendo al culmine mettendo a dura prova le nostre capacità di affrontare la situazione con lucidità. Dopo qualche

giorno di quarantena, per la disperazione, una detenuta della sezione comune ha incendiato il suo materasso provocando anche molti disagi

e tanta paura.
Tutta questa situazione ha fatto emergere le gravi lacune nel gestire la situazione da parte dell'amministrazione penitenziaria che a

distanza di un anno dall'inizio della pandemia si trova ancora impreparata. Ci troviamo ancora una volta davanti all'accanimento da parte

di chi ha il potere e si rifiuta di scarcerare i detenuti con pene basse o con patologie, non applicando neanche le misure contenute

nell'ultimo decreto svuota carceri.

***
Siamo le detenute della sezione di Alta Sicurezza del femminile di Vigevano e vogliamo raccontare la situazione di isolamento in cui ci

troviamo in questo momento.
Dal 2 gennaio ha smesso di funzionare l’impianto telefonico del carcere, impedendoci di sentire i nostri familiari e gli avvocati, se non

tramite colloquio video una volta a settimana, se ci va bene. Nel contesto di pandemia in cui ci troviamo attualmente, i legami con i

parenti sono già fortemente compromessi e questo ennesimo problema ci lascia ulteriormente isolate.
Dopo 10 giorni di promesse quotidiane di ripristino da parte del carcere, oggi abbiamo smesso di credere in queste promesse senza seguito

e abbiamo deciso di protestare. Cosi, alle 13 abbiamo cominciato una battitura e abbiamo inoltrato la comunicazione in allegato firmata

da tutte. Alle 15 abbiamo deciso di non rientrare in cella per la chiusura pomeridiana. Dopo circa un’ora di fuoricella e l’arrivo di un

ispettore, ci è stato comunicato che la direzione stava valutando la possibilità di farci fare una chiamata di qualche minuto. La

decisione dovrebbe esserci comunicata domani alle ore 11 e se sarà negativa ripartiremo con la protesta.

Vigevano, 13 gennaio 2021
Le detenute dell’AS femminile di Vigevano

***
Al Direttore e al Magistrato di Sorveglianza,
Le detenute della sezione femminile AS informano le autorità competenti che a seguito del protrarsi del guasto telefonico e non avendo

notizia alcuna da 12 giorni, iniziano a partire dal giorno 13 corrente mese una protesta pacifica con: battitura 3 volte al giorno (8-12

-20); rinuncia del carrello; rinuncia del carrello della terapia farmacologica; fuoricella; sciopero lavoranti.
Avendo fatto battitura e non avendo avuto riscontro alcuno, continueremo ad oltranza pacificamente.

Vigevano, Le detenute

***
[…] Dopo un tira e molla durato una decina di giorni la situazione era diventata inaccettabile per noi. Già si diceva a mezza voce che,

se non ci avessero dato delle risposte concrete, sarebbero partite le proteste. L’ispettrice saliva ogni giorno a farci un punto della

situazione e aspettavamo lei per cominciare. Quando è salita, ci ha comunicato che non solo il telefono non sarebbe stato ripristinato

quel giorno stesso ma in più, mentre il maschile e la sezione femminile comune avrebbero fatto una chiamata a casa con il cellulare che

si usa solitamente per whataspp, a noi dell’AS veniva negata la possibilità perché questa modalità impedisce di registrare le chiamate.
Cosi dopo esserci consultate molto velocemente, abbiamo deciso che appena fossero salite le nostre compagne che lavorano in sartoria,

avremmo cominciato la battitura. Appena sono arrivate abbiamo fatto partire la battitura verso le 12.45, nel corridoio e anche in saletta

nella speranza che il casino si sentisse anche al maschile.
La battitura è durata 45 minuti intensi ed è stata ripresa dalla sezione femminile comune e dal maschile ma non sappiamo in quante

sezioni. Nessuna figura del carcere si è presentata, allora abbiamo deciso di fare una pausa e di prepararci per fare un fuoricella alle

15, ora della chiusura pomeridiana di 3 ore. Intanto abbiamo scritto la comunicazione firmata da tutte e l’abbiamo presentata. Alle 14.15

abbiamo ripreso la battitura per altri 45 minuti e ci siamo fermate alle 15, ora in cui abbiamo comunicato che avremmo attuato il

fuoricella. Abbiamo socchiuso i cancelli delle celle e siamo rimaste tutte in corridoio.
Dopo pochi minuti è salita l’ispettrice del femminile accompagnata da un ispettore della sorveglianza. Lui ci ha detto che sarebbe

rimasto a distanza perché era stato nella sezione maschile chiusa per covid ma nella discussione si è ritrovato più volte in mezzo a noi.

Ci ha detto che potevano avvisare le famiglie del guasto del telefono ma abbiamo risposto che volevamo chiamare di persona perché ormai

le nostre famiglie della situazione erano al corrente ma noi avevamo bisogno di sentirli personalmente. Se n’è andato dopo circa mezz’ora

dopo averci detto più volte che facendo il fuoricella stavamo oltrepassando il limite. Quando è andato via, l’assistente ha riproposto la

chiusura ma noi abbiamo ribadito la nostra volontà di portare avanti il fuoricella.
Dopo neanche 15 minuti è tornato lo stesso ispettore dicendoci di aver parlato con il direttore e che questo avrebbe chiesto al DAP se

andava bene farci chiamare 4 minuti a testa con il telefono cellulare. Ci ha promesso una risposta per l’indomani alle 11 e abbiamo

accettato di rientrare in cella ripromettendoci di continuare con la protesta se la notizia fosse stata negativa.
Questa mattina alle 8 ci è stato comunicato che la linea è stata ripristinata e abbiamo ripreso a fare le chiamate dopo 12 giorni

d’interruzione. Non sappiamo se la nostra protesta c’entri con questo ripristino. Aggiungo che a memoria di chi sta in questa sezione da

tanti anni, una protesta che arrivasse fino al fuoricella non si era mai vista. Ci sono spesso tensioni fra detenute di questa sezione ma

in questo caso la protesta è stata partecipata da tutte. Una cosa strana è stata che abbiamo ricevuto l’approvazione delle guardie e a

mezza voce anche dell’ispettrice che ci dava ragione. Sospettiamo che c’entrino intrighi di potere interno al carcere. Voilà, credo di

aver raccontato tutto! [...]


sulle battiture nel femminile del carcere di Trieste
Lunedì 15 febbraio si è svolta la seconda battitura delle detenute del carcere di Trieste. Sia il 1 febbraio che lunedì 15 sotto al

carcere si sono trovate una trentina di persone, per supportare anche loro con pentole e altre cose, alla battitura sotto il carcere. In

entrambe le occasioni il dispositivo di polizia era folto, e c’era la presenza – come richiesto dalle detenute – dei giornalisti.
Alle detenute è stato comunicato che in tanti fuori sono andati sotto le carceri a comunicare la loro proposta, che sono state fatte

dirette radio e che la città è stata riempita di manifesti riguardo la loro lotta. Le detenute hanno comunicato con noi e hanno

ringraziato per il lavoro fatto di comunicazione e presenza.
Una cosa interessante da dire è che sul giornale locale Il Piccolo del 2 febbraio nel tentativo di screditare alcune richeiste delle

detenute, c’era scritto, riguardo alla questione vaccinale, che probabilmente le detenute non avevano ben capito visto che molte di loro

sono straniere e quindi non in grado di comprendere il problema, accennando anche che dentro al carcere forse è mancata la giusta

comunicazione sul piano vaccinale. Sta di fatto che il giorno della seconda battitura ci è pervenuta un lettera di una detenuta in cui

spiega che le donne lì presenti sanno tutte l’italiano, e che ribadiscono i loro punti di rivendicazione e che anzi ne aggiungono altri.
Le detenute non hanno rilanciato altri momenti di lotta, ma ci terranno aggiornate su cosa avviene dentro e sulle future possibili

iniziative.
Una cosa negativa da osservare è che i detenuti del maschile non hanno partecipato alle battiture, cercheremo di capirne i motivi.
Da parte nostra continueremo a seguire la situazione, a mandare rassegne stampa alle detenute in modo tale che possano da sole farsi

un’idea sui temi come vaccini o simili. Inoltre a marzo si terrà un’iniziativa in piazza a Trieste per parlare della strage di marzo 2020

nelle carceri, per ricordare il compagno Pedro ucciso l’otto marzo 1985 dalla polizia, ma anche per parlare di quello che avviene

tutt’ora nelle carceri italiane.

Gennaio 2021, Assemblea contro carcere e repressione (liberetutti@autistiche.org)

Di seguito riportiamo le rivendicazioni delle detenute, scritte il 9 Febbraio, in cui dicono inoltre di aver ricevuto dei rapporti

disciplinari per i cori e le grida che avevano accompagnato la loro prima battitura, così come fanno notare un trasferimento senza

preavviso e non motivato di una detenuta, dal carcere triestino a quello veneziano, tre giorni dopo la battitura del 1 Febbraio.

- Indulto
- Domiciliari o messa alla prova per chi ha scontato 1/3 della pena
- Più ore di apertura delle celle, invece che le 17.45 posticipare la chiusura alle 19.30
- Controllo del vitto (il cibo è crudo, immangiabile)
- Apertura giornaliera della bibloteca, non solo quando hanno voglia loro, cioè 1 giorno a settimana (se va bene)
- Corsi, corsi e corsi, qui non c’è nè neanche uno, non c’è lavoro, non ci stiamo riabilitando ma stiamo peggiorando
- Sert ed educatori almeno una volta a settimana, invece di passare una volta al mese come succede ora, rallentando così tutti i processi
- Riabilitazioni dal GOAP-Centro antiviolenza di Trieste per le donne violentate
- No vaccini ma più sanità e controlli medici


Al fianco di chi lotta nelle galere
Tra il 31 gennaio e il 7 febbraio si sono svolti presidi sotto le carceri in cui sono ora rinchiusi i 5 prigionieri che, con un esposto

alla Procura di Ancona, hanno raccontato cosa è realmente accaduto l’8 marzo scorso nel carcere di Modena e la verità su Salvatore

Piscitelli, brutalmente picchiato e poi lasciato morire dopo il trasferimento nel carcere di Ascoli Piceno in cui anche loro 5 erano

stati spostati.
Domenica 31 gennaio in una quarantina di persone abbiamo raggiunto il prato dove avevamo deciso di posizionarci e per circa due ore siamo

rimaste in presidio intervallando interventi in italiano francese ed arabo con musica. Buona è stata la comunicazione con i detenuti

della media sicurezza che, con determinazione e senza paura, hanno sfidato le guardie che, ci han detto, li stavano minacciando di

ritorsioni (come la perquisizione della cella) e intimando loro di stare zitti. Hanno raccontato di un detenuto quasi ammazzato di botte

sabato 30 gennaio, di 5 detenuti morti di covid negli ultimi 5-6 mesi sebbene la versione ufficiale parli di morte per infarto, e di un

altro detenuto molto malato e poco assistito. Hanno anche ricordato un detenuto morto nel 2010. Hanno confermato una realtà fatta di

abusi da parte delle guardie con la complicità della direzione del carcere, di problemi con la corrispondenza e nello specifico hanno

provano a scriverci ma la posta viene strappata e noi additati come delinquenti dalle guardie, questo a confermare che la solidarietà fa

paura a chi detiene il potere.
Sempre domenica qualche decina di solidali si è recata sotto al carcere di Ferrara. Un caloroso saluto è stato mandato a Francesco (che

ha sentito e ringrazia per la solidarietà). La risposta da dentro le mura è stata forte e numerosa, l'attenzione alta nell'ascoltare gli

interventi che raccontavano un po' di quanto sta accadendo fuori e nelle altre carceri e forte e chiara la richiesta di indirizzi a cui

poter scrivere. Proprio a Ferrara, tre secondini e un'infermiera sono finiti recentemente sotto accusa per le torture nei confronti di un

detenuto, per averlo spogliato e picchiato ripetutamente. Un saluto infine è stato mandato ad Alfredo, compagno anarchico da molti anni

rinchiuso tra quelle mura, per aver lottato contro lo Stato e per la libertà. Di certo non hanno funzionato i tentativi intimidatori,

rispetto al presidio, della controparte, che il giorno prima ha fermato tre compagnx (poi rilasciatx in giornata), tenendolx diverse ore

in caserma, perquisendolx pretestuosamente e recandosi a casa di una di loro per ricerca di armi ed esplosivi con un 41tulps.
Un veloce saluto è stato portato nella stessa giornata anche ai detenuti del carcere della Dozza a Bologna, dove da pochi giorni è stato

trasferito il compagno anarchico Beppe.
Sabato 6 febbraio in una quindicina di persone abbiamo portato un saluto ai detenuti del carcere di Montacuto, ad Ancona. Con l’aiuto di

una cassa abbiamo potuto comunicare con l’interno della struttura, dalla quale abbiamo subito ricevuto una forte risposta: alle nostre

voci si sono sommate le loro grida di “libertà”. L’incursione è stata per forza di cose breve, ma dati i problemi di corrispondenza

interno/esterno (le guardie controllano la posta e strappano le lettere da/per OLGa) abbiamo fornito un nuovo indirizzo a cui speriamo

scrivano in tanti. Faremo presto un volantinaggio per far entrare in carcere il report di tutte le iniziative di solidarietà di queste

settimane, così da far sentire l’appoggio da tutta Italia sia ai detenuti che alle loro famiglie/amic_. Abbiamo avuto conferma da

familiari di Mattia che il saluto è arrivato forte e chiaro. Ci siamo lasciat_ al rimbombo dei fuochi d’artificio, mentre da dentro

gridavano ancora “libertà”.
Nella tarda mattinata di domenica 7 febbraio un’ottantina di persone si sono date appuntamento sul retro del carcere di Reggio Emilia,

con l’impianto di amplificazione di fronte alle celle che si affacciano sul prato. Fin da subito i detenuti si sono sbracciati tra le

grate sventolando bandiere e magliette, hanno gridato saluti e urlato. Il primo intervento ha comunicato loro solidarietà con chi si è

rivoltato di fronte al contagio Covid-19 nel marzo scorso e contro la decisione del governo di sospendere i colloqui. Si è parlato delle

verità che stanno emergendo rispetto alle rivolte scoppiate nel marzo scorso in decine di carceri italiane e della responsabilità della

polizia. Parte dei partecipanti al presidio si è spostata verso un altro blocco per raggiungere altri detenuti con urla e saluti, e anche

qui la risposta da “dentro” è stata immediata e particolarmente rumorosa. Si sono susseguiti interventi e canzoni, dediche e racconti

delle proteste che tutt’ora ci sono in diverse carceri.
Ci si è quindi spostati sotto il carcere di Piacenza. C’erano già una quindicina di sbirri in antisommossa schierati lungo l’unica

stradina per avvicinarsi al carcere. Ci si è divisi per raggiungere più lati della struttura penitenziaria e gli sbirri sono retrocessi

nel tentativo tanto goffo quanto inutile di fermarci. Si è quindi montato l’impianto di amplificazione davanti le celle della sezione

maschile e della sezione AS femminile che però è piano terra e rimane quindi invisibile da fuori. Un intervento iniziale ha raccontato

l'appuntamento della mattina e i presidi del fine settimana precedente e ha salutato Cavazza e tutti i detenuti e le detenute. Si sono

susseguiti interventi e musica, si è raccontato quello che sta accadendo nelle altre carceri e si è ribadito l’appoggio e la solidarietà

verso i detenuti che non abbassano la testa. Urla e saluti di risposta da dentro, si è provato a comunicare anche con Natascia, compagna

detenuta in Alta Sicurezza, sperando che il caloroso saluto riuscisse a raggiungere lei e le sue compagne di detenzione
Durante il presidio arriva la notizia di una macchina, con dentro 2 compagne e 2 compagni, fermata mentre tentava di raggiungere il

presidio. Dopo un paio d’ore, ci si è mossi tutti insieme alla volta della caserma dei carabinieri dove, da ormai più di due ore, si

trovavano i compagni fermati nel pomeriggio, ufficialmente in attesa di notifiche. E sono bastati una ventina di minuti di urla e

battiture per richiedere il pronto rilascio dei compagni, a convincere i carabinieri a muovere il culo e accelerare le procedure di

notifiche.

***
Mattia, uno dei 5 detenuti dell’esposto e compagno di cella di Sasà Piscitelli nel carcere di Ancona, il 21 gennaio è stato sottoposto a

nuovo interrogatorio da parte della Procura di Ancona. Vogliono che ritratti la sua versione, lo minacciano di denuncia per mancato

soccorso, quando furono le guardie a non soccorrere Sasà. Gli dicono di non parlare di questo secondo interrogatorio, gli bloccano la

posta, soldi, pacchi, gli vietano le cure mediche di cui ha bisogno. Mattia non abbassa la testa.
Per scrivere e portare solidarietà ai 5 detenuti che hanno fatto l’esposto:
Mattia Palloni, via Montecavallo 73 A - 60129 Ancona
Claudio Cipriani, strada Burla 57 - 43122 Parma
Ferruccio Bianco, via Luigi Settembrini 9 - 42123 Reggio Emilia
Belmonte Cavazza, strada delle Novate 65 - 29122 Piacenza
Francesco D’Angelo, via Arginone 327 - 44122 Ferrara

***
Presidi al carcere di Modena, a un anno di distanza
Nasce a Modena il Comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna. Dalle parole della portavoce in un’intervista a Radio Città

Fujiko di Bologna:
L’8 e il 9 marzo scorsi nel carcere “Sant’Anna” di Modena si registrarono forti proteste. L’istituto penitenziario fu uno dei primi di

una lunga lista in cui i detenuti diedero vita a rivolte a causa dell’emergenza Covid che stava avanzando nel Paese. Le istituzioni

imposero restrizioni, ad esempio sulle visite dei famigliari, e non offrirono garanzie alle persone recluse sulla salvaguardia della loro

salute. Alla fine della situazione di caos che si generò il bilancio fu pesante: ben 9 detenuti persero la vita. Le prime versioni

ufficiali parlarono di morti per overdose, in quanto alcuni detenuti avrebbero forzato gli armadietti coi medicinali. A distanza di mesi,

però, a Modena e in altre carceri italiane sono partite inchieste giudiziarie che hanno lo scopo di far luce su quanto realmente

accaduto. Tra i punti da chiarire nella vicenda ci sono anche i trasferimenti di quattro detenuti in fin di vita in altri istituti di

pena, dove poi hanno trovato la morte. Sono infatti 5 le persone morte direttamente a Modena e 4 quelle che hanno perso la vita nei

giorni successivi in altre prigioni. Le ricostruzioni ufficiali si sono incrinate nel momento in cui 5 detenuti hanno denunciato pestaggi

e violenze, al punto che è stato aperto anche un fascicolo per accertare quanto realmente sia accaduto in quelle ore drammatiche.
È in questo contesto che, a Modena, è nato il Comitato Giustizia e Verità. L’input per dare vita al comitato è nato in seno al Consiglio

Popolare di Modena. La versione ufficiale non ci convince e, anche prendendola per buona, anche credendo che ci sia stato un suicidio di

massa col metadone, in Italia comunque non esiste la pena di morte e rimane in piedi la questione dell’omissione di soccorso. Il comitato

si sta muovendo in diverse direzioni. Da un lato c’è la solidarietà, con la fornitura di pacchi per i detenuti che sono stati trasferiti

e hanno perso i contatti che avevano su Modena. Abbiamo creato una rete perché tutti sappiamo che, se non ricevi i pacchi da famigliari e

amici, il carcere non ti passa nulla.
Un’altra attività rilevante prevede la realizzazione di un dossier che metta insieme le informazioni sulla vicenda con raccolta di

testimonianze, alcune anche inedite.
Il Dossier sarà disponibile da domenica 7 marzo dalle 10.30 in occasione di una grande manifestazione davanti all’entrata del carcere di

Modena.

***
Da Assemblea nazionale di solidarietà “Prigioniere e prigionieri”
Mentre le strade si svuotavano a causa delle prescrizioni governative che imponevano a tutti il “Restate a casa!”, all’interno delle

galere in Italia, e in tantissimi Paesi del mondo, le persone detenute hanno urlato la loro rabbia e paura. Tante le rivolte e le forme

di protesta. La risposta dello Stato è stata brutale: 14 i detenuti morti ad oggi accertati. Tredici di loro dentro i corridoi dei

penitenziari di Modena, Alessandria, Verona, Ascoli, Parma, Bologna, Rieti; un altro morirà successivamente dopo il ricovero

nell’ospedale di Rieti. Torture a suon di pestaggi e umiliazioni. E poi le denunce, i processi avviati nei confronti delle persone

detenute: a Bologna, Modena, Frosinone, Milano Opera, Milano San Vittore, Roma Rebibbia, Foggia, Pavia. Eppure è solo grazie a quelle

rivolte che ci si è dovuti ricordare delle condizioni di chi in quei posti vive la sua quotidianità. Posti in cui la pandemia ha solo

peggiorato una situazione già precedentemente al collasso. Luoghi fatiscenti, sovraffollati e con un sistema sanitario assolutamente

inefficiente. Lo Stato, con le sue propaggini, come unica risposta ha reso le carceri dei veri e propri fortini, chiusi a tutto e tutti,

tranne alle guardie e a quelli che ci lavorano e che veicolano all’interno il contagio. Prova ne sono i numerosi casi positivi nelle

sezioni di 41bis a regime di totale isolamento. Sono stati tolti i colloqui con i propri affetti e quelli con gli avvocati, sospesa

qualsiasi attività, incluse quelle lavorative e scolastiche, mentre i prigionieri continuano a essere stipati dentro le celle. In questo

lungo anno la voce di chi vive sulla propria pelle tutte queste vessazioni e la condizione di persona sacrificabile non ha mai smesso di

farsi sentire. Testimonianze, proteste e un esposto fatto da cinque coraggiosi detenuti hanno fatto emergere quanto realmente accaduto

durante e dopo le rivolte a Modena e in altre galere e così non venisse infangata la memoria dei 14 reclusi morti. Morti velocemente

liquidate con un vago “Per lo più dovute ad assunzioni di farmaci”, parole del ministro Bonafede. Al di là di quello che strillano le

trombe del potere sappiamo bene di chi sono le responsabilità di queste 14 morti. A un anno dalla strage commessa nelle carceri vogliamo

portare tutta la nostra solidarietà a chi si è ribellato e a chi ha scelto di esporsi parlando pubblicamente di divise sporche di sangue,

di manganelli e di spari. Lo Stato difende se stesso, le sue strutture, i suoi funzionari e burocrati. Li vorrebbe rendere impuniti e

inattaccabili.
A noi la scelta di non dargli tregua. Stragista è lo Stato!
6 marzo, ore 15 – Presidio al carcere di Modena.

***
8 marzo ore 11 – Presidio al MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, VIA ARENULA, ROMA
Le decisioni per attuare la mattanza nelle carceri sono state prese dall’alto, dal Ministero di Giustizia. È lì che vogliamo far arrivare

la nostra rabbia, raggiungendo quel luogo da ogni città per far ritornare al mittente le sue responsabilità.

***
ROMA: APPELLO ALLA CITTA’ VERSO L’8 MARZO 2021
È passato quasi un anno dalle rivolte scoppiate nelle carceri di questo paese, proteste collettive che si sono espanse a macchia d’olio

in tutto il mondo. Le persone prigioniere che si sono ribellate sapevano e sanno bene che nessun governante avrebbe mosso un dito per

mettere in salvo dal contagio chi è rinchiuso: da sempre le galere escludono e vessano migliaia di vite, anche prima del Covid. Le

proteste di chi era dentro hanno fatto scendere in strada anche chi ha i propri affetti rinchiusi, soprattutto le donne, che hanno deciso

di non stare ad aspettare in silenzio, portando fuori con forza le rivendicazioni di salute e libertà che venivano dai prigionieri e

dalle prigioniere.
A Roma il tempo della rivolta è stato il 9 marzo, sia a Rebibbia che a Regina Coeli, la rabbia è esplosa e diverse forme di protesta sono

continuate durante il corso dell’anno. Quel 9 marzo iniziavano a circolare le notizie della morte di alcuni detenuti durante le rivolte

del giorno precedente a Modena e Rieti.
A Rebibbia 55 detenuti sono accusati di pesanti reati, tra cui devastazione e saccheggio, in seguito alla sommossa. Sono centinaia i

detenuti che andranno a processo per le rivolte in tutto il paese. Possibile che lo stato abbia avuto il coraggio, dopo le stragi e le

torture di marzo e aprile che hanno tracciato una lunga scia di sangue, di mandare a processo centinaia di detenuti che hanno gridato la

loro rabbia indicando l’unica soluzione possibile, ovvero lo sfollamento delle galere, per salvarsi dal contagio?
È la necessità di scongiurare nuove proteste a scatenare questa pesante vendetta. Le giuste rivendicazioni vengono messe a tacere con la

violenza più feroce.
Sì, lo stato ci tiene alle sue galere, a quelle mura e a quelle sbarre così alte, che hanno un effetto su milioni di esistenze, anche

quelle “libere”.
Le morti durante le rivolte parlano chiaro, raccontano quello che lo stato è disposto a farci per governare con la paura, per ribadire il

suo potere se alziamo la testa, per impedire la solidarietà.
Il carcere non può restare una bolla separata da chi abita la città, non lo è e non possiamo permetterci di girare le spalle a chi è

imprigionato/a.
Invitiamo tutte le realtà e le persone interessate a partecipare il giorno 27 Febbraio alle ore 16,30 in P.zza Perestrello per un momento

di confronto e aggiornamento sulla lotte nelle carceri e per parlare della mobilitazione nazionale dell’8 marzo sotto al ministero della

giustizia. Marzo 2020, quella nelle carceri è una strage di Stato.
NON LASCIAMOLI SOLI/E


Lettera dal carcere di Reggio Emilia
Compagni dell’opuscolo Olga, ieri, per il tempo che avete presidiato questi luoghi, mi erano tornati in mente i vecchi tempi. Vorrei

ringraziarvi a nome di tutte e tutti i reclusi della Pulce per la vostra preziosa presenza. Le guardie, in verità, si sono cagate nei

pantaloni e per tutto il pomeriggio alla 6° sezione ho spiegato chi eravate e quello che fate a chi ne ha voluto sapere di più. Molti

hanno chiesto l’indirizzo di Ampi Orizzonti e io glielo ho fornito. È stato molto bello e intenso e lo racconterò ai compa di Cuneo delle

Alpi Occidentali. Ci avete regalato la forza della speranza e consapevolezza che chi lotta non sarà mai solo quindi grazie di esistere e

di resistere.
Ora passiamo allo status qua di questo inferno. Dal primo di dicembre hanno bloccato gli arrivi degli accrediti bancari online. Perché?

perché a Gianluca Condiano, ex direttore, hanno tolto le credenziali dell’IBAN dell’istituto. Roba da matti. E quindi molti reclusi non

possono fare spesa pur avendo i soldi nel c.c. postale di questo cesso. Una cosa così, in tanti anni di istituzioni totali, non l’avevo

mai vista. Poi c’è l’ex Opg, una vera tragedia, 2 sezioni, all’incirca 50 reclusi, che vengono trasformati in zombi con le

benzodiazepine. L’ho potuto constatare di persona in quanto lavorante in quei reparti. Una indecenza che assomiglia di più al trattamento

dei campi di sterminio. Per non parlare dei ratti che hanno raggiunto le dimensioni di canguri. Insomma, un vero schifo totale. Nessun

organo ministeriale interviene per porre fine a questo schifo. La Pulce non è una galera è un delirio cosmico che persisterà finché

qualcuno deciderà di abbatterlo.
Care compagne e compagni grazie ancora. In quelle 2 ore con voi qualcuno ha ritrovato la voglia, la forza e il coraggio di combattere. A

pugno chiuso.

8 febbraio 2021
Marco Ricci, via Settembrini, 8 - 42123 Reggio Emilia


grecia: SCIOPERO DELLA FAME CONTRO IL CARCERE SPECIALE
Dimitris Koufondinas, militante incarcerato da 18 anni sotto il regime di detenzione speciale, è dall’8 gennaio in sciopero della fame

contro il rifiuto delle autorità ad applicare le loro stesse leggi, che prevedono un’attenuazione di questo regime dopo tanti anni.

Rifiuto basato sul ricatto del pentimento e della dissociazione. Come qui col 41 bis e l’alta sicurezza.
Dimitris Koufondinas è un militante molto riconosciuto, un punto di riferimento: protagonista nell’organizzazione comunista “17 Novembre”

della lotta armata contro il fascismo “democratico” del regime greco e contro i suoi padroni, gli imperialisti USA ed europei: non si è

arreso e in carcere continua a rapportarsi attivamente alle tendenze rivoluzionarie nel movimento di classe. Perciò prigionier* e

organizzazioni rispondono alla sua lotta, la fanno propria dall’Europa alla Turchia, al mondo arabo. Contributo ancor più prezioso da

quando la Grecia è sprofondata nella crisi provocata dal capitale finanziario internazionale, con conseguenze sociali devastanti. La

resistenza popolare dal 2008 è molto forte e trova in questi combattenti indomiti, nelle loro precedenti esperienze organizzative, nel

filo rosso ideologico e operativo, una prospettiva per la lotta odierna e per il suo necessario sbocco rivoluzionario. La “17 Novembre”

ha combattuto contro la NATO e le truppe di occupazione USA, il FMI e il direttorio dell’UE, gli stessi che oggi stanno gestendo e

utilizzando la crisi sanitaria, all’interno della crisi del capitalismo, per schiacciarci ancor più nella miseria.
Sostegno ai prigionieri della guerra di classe.
Contro le carceri speciali e la repressione dei movimenti.
Facciamo fronte unito internazionalista e per la rivoluzione.

Febbraio 2021, Soccorso Rosso Internazionale


la Spagna brucia in solidarietà a Pablo Hasel
La settimana scorsa, l'Alta Corte spagnola ha ordinato a Pablo Hasel – rapper ed attivista comunista catalano – di entrare

volontariamente in prigione per scontare due condanne per “apologia di terrorismo” e “vilipendio della Monarchia e delle istituzioni

dello Stato” per un totale di due anni, nove mesi e un giorno.
Un vero e proprio reato di opinione, dal momento che in realtà si parla dei testi delle sue canzoni e delle sue prese di posizione

pubbliche contro il Re, lo Stato spagnolo e la brutalità della polizia. Sentenze che dimostrano che lo Stato spagnolo vuole “punirlo” in

modo esemplare per i tanti anni di lotta attraverso la musica e di sua militanza durante le manifestazioni di strada.
Ma se il pubblico ministero spagnolo gli aveva ordinato di consegnarsi alle autorità, Hasél ha dichiarato che non si sarebbe presentato

volontariamente, nemmeno sarebbe andato in esilio né avrebbe chiesto scusa, poiché non si rammarica dei tweet per i quali è stato

condannato che, dice, “hanno denunciato e combattuto contro le ingiustizie di questo Paese e della società in cui viviamo”.
Dunque martedì 16 febbraio Hasel ed altre compagne/i e sostenitrici/ori del rapper si sono barricati all’interno dell’Università di

Lleida cercando di resistere all’incursione violenta dei Mossos d’esquadra (polizia spagnola) ma data la sproporzione di mezzi e forze,

la mattinata si è conclusa con l’arresto del rapper. Appena ammanettato Pablo ha ripetuto “Morte allo stato fascista” e “L’ho fatto, lo

sto facendo ora e lo farò di nuovo”.
Già nel 2014 Hasel era stato condannato a due anni di prigione per alcuni dei suoi testi delle canzoni. Secondo la sentenza i testi di

Hasel “lodano le azioni e i membri di gruppi terroristici come GRAPO, ETA e Terra Lliure, oltre a giustificare la loro esistenza”. Di

fatto, nelle sue canzoni, Hesel accusa la monarchia spagnola di essere protagonista di un sistema oppressivo: le sue accuse arrivano ad

attaccare Juan Carlos I e il governo spagnolo. Per il suo sostegno a gruppi armati indipendentisti, come ad esempio l’Eta nei Paesi

baschi, Hasel è stato condannato a nove mesi di carcere, sei anni di inabilitazione e una multa di 30mila euro per incitamento al

terrorismo. Sono molte le canzoni finite sotto la lente d'ingrandimento delle autorità spagnole e tante sono state pubblicate ormai più

di dieci anni fa. Le denunce del rapper spagnolo parlano di impunità per la monarchia di fronte a violenze nei confronti di prigionieri

politici e puntano il dito contro la brutalità delle azioni della polizia.
Dalla sera stessa del suo arresto, in solidarietà con Pablo Hasel, decine di manifestazioni antifasciste si sono svolte in tutta la

Spagna, da Barcellona a Tarragona e Valencia e sono continuate ininterrottamente sino ad oggi. Scontri e incendi per le strade delle

città e a Barcellona, dove le proteste si sono intensificate, i manifestanti hanno lanciato pietre e petardi contro la linea formata dai

reparti antisommossa dei Mossos d’Esquadra che protegge il Ministero dell’Interno della Generalitat (il governo regionale). I

manifestanti si sono poi recati da Plaza Tetuán alla sede del dipartimento diretto dal ministro Miquel Sàmper dove anche in quel luogo si

sono registrati forti scontri con la polizia che stava per caricare. Successivamente si sono diretti alla sede del quotidiano El

Periódico, dove hanno attaccato le finestre delle redazioni e hanno proseguito poi per il resto della città. Durante i cortei gli slogan

urlati erano "Libertà per Pablo Hasel" e "la nostra migliore arma è la solidarietà".
Ma Hasel non è l’unico ad essere accusato per ciò che esprime attraverso il rap. Nell’ultimo decennio decine e decine di persone sono

state perseguitate da norme sempre più repressive del codice penale spagnolo, come l’articolo 578, che prevede che le persone considerate

responsabili di “apologia del terrorismo” o che avrebbero “umiliato le vittime del terrorismo o i loro parenti” siano passibili di

sanzioni pecuniarie, divieto di assunzione e persino di reclusione. Ne hanno fatto le spese, oltre ai cantanti, anche studenti,

attivisti, giornalisti e persino burattinai (artisti di strada) che si sono espressi pubblicamente contro lo Stato spagnolo e le sue

autorità.
Pablo non è il primo rapper catalano ad aver avuto problemi legali: solo per citarne un altro, ha fatto discutere anche il caso di

Valtonyc che, condannato per le stesse accuse, si è autoesiliato in Belgio mentre sul suo capo pende una richiesta di estradizione da

parte dei magistrati iberici. Potremmo rivedere, in quello che sta accadendo in questi giorni, quanto successe quasi 40 anni fa negli

Stati Uniti, quando i testi espliciti dei rapper diventarono un caso nazionale, e le autorità più alte presero provvedimenti contro il

“Fuck The Police” urlato dagli Nwa. E nella nostra Sardegna è in corso il processo al rapper nuorese Bakis Beks, e l’oggetto del

contendere sono proprio i suoi testi che criticano duramente il militarismo e l’occupazione armata dell’isola con basi ed esercitazioni

terrestri e marittime, un’opposizione peraltro condivisa da buona parte della popolazione locale. Ciò che sta succedendo a Nuoro merita

attenzione e solidarietà, anche perché – incredibile ma vero – ad essere denunciato non è stato solo l’artista ma anche una parte del

pubblico presente ad un suo concerto, “colpevole” di aver fatto il coro delle liriche incriminate.
Milano, febbraio 2021


Lettera dal carcere di Busto Arsizio (va)
Buongiorno a tutti voi, come prima cosa vorremmo ringraziarvi per la vostra lettera, ci ha tirato molto su di morale sapere che là fuori

c'è qualcuno che ha molto a cuore le nostre condizioni e la nostra causa.
Vorrei come prima cosa scusarmi in anticipo per il mio italiano non perfetto, e spiegarvi i motivi per i quali si è arrivati alla

protesta nel carcere di Varese.
Il primo episodio avviene ai primi di ottobre dove un uomo viene trovato morto suicida nella sua cella singola, non voglio entrare in

merito ai motivi i quali lo hanno spinto a questa estrema decisione, ma sappiamo per certo che alcuni sintomi c'erano, non chè la

mancanza di sorveglianza. Quello che vorremmo far notare è che la notizia non è uscita, almeno per ciò che sappiamo, né sui giornali o

altro, e anche che il carcere se ne è ben presto dimenticato.
Il secondo episodio riguarda (Pasquale Siciliano) un uomo e amico di 50 anni che muore precocemente dopo appena un giorno dalla notizia

di essere diventato nonno. (Siamo ai primi di settembre). Premetto che a Varese, essendo un carcere piccolo, il sistema sanitario

funzionava in questo modo che: alle 18.00 il medico finisce il suo turno lavorativo e fino alle 08:00 del mattino non c'è personale

sanitario.
Sono le 21.00 circa, e Pasquale si sente poco bene lamentando dolori all'addome all'altezza del cuore ed un formicolio al braccio, per

questo gli viene data la medicina magica che secondo loro cura ogni cosa e che viene data veramente come cura ad ogni malessere, a questo

punto, dopo aver preso la TACCHIPIRINA viene rimandato in cella.
Verso le 24:30/01.00 non si sente bene chiede aiuto e viene portato dalle guardie in infermeria, e dopo un'attenta valutazione medica di

un'ora e mezza, dalle guardie viene rimandato in cella, sono le 02:30 circa. 10 minuti più tardi dalla sua cella si leva un grido di

aiuto suo e del suo concellino al quale si sente rispondere dal capoposto di turno (FINISCILA DI SCASSARE). Sembra una storia da film, ma

qui al carcere di Varese è realtà perchè sotto atroci dolori Pasquale muore verso le 03:00 del mattino. Lo chiamano infarto o morte

naturale, ma non è così: Pasquale muore per la negligenza e l'omissione di soccorso delle guardie di turno, situazione che per noi non si

può chiamare morte naturale ma assassinio senza ancora un colpevole.
Il giorno dopo tutti i detenuti ci siamo recati fuori all'aria dove al grido di “SIETE ASSASSINI” chiediamo spiegazioni, chiediamo di

poter parlare con il magistrato di sorveglianza e ci rifiutiamo di entrare. Bhè non avevamo fatto i conti che era domenica e come normale

che anche il magistrato ha di meglio da fare. A quel punto arriva il comandante che dà rassicurazioni: che avrebbe preso le nostre

testimonianze e che non avrebbe più fatto rientrare in sezione il capoposto, rientriamo. Quel giorno abbiamo richiamato l'avvocato di

Pasquale e ci siamo messi a disposizione per qualsiasi cosa, inoltre sappiamo che era presente a quell'ora anche un parente di Pasquale.

Se avete possibilità di contattare la sua famiglia, siamo di nuovo a disposizione per ciò che necessitano e di fare le nostre più sentite

condoglianze alla famiglia.
L'ultimo episodio, il quale ha portato poi alla rivolta, riguarda Longo Francesco.
Longo è colpevole di essere andato dal capoposto a chiedere la sostituzione del televisore perchè rotto, viene invitato ad entrare

nell'ufficio del capoposto dove era presente anche l'ispettore del MOF, chiudono la porta e viene malmenato selvaggiamente a calci e

pugni. Premetto che Francesco entra senza segni in un ufficio chiuso e senza telecamere, e dopo le grida che vengono da dentro, lo

vediamo uscire con segni sulla faccia e sulle costole.
Frastornati da ciò ed essendo l'ora di rientrare nelle celle per la conta, ci rifiutiamo di rientrare perchè pretendiamo risposte e

spiegazioni. Si sussegue un via vai di agenti, ispettori e comandante che vengono a parlare con noi negando e cercando di insabbiare ciò

che è successo, promettendo che avrebbero fatto chiarezza e giustizia. Longo viene portato in infermeria e scrivono che non ha segni, che

stà bene e che il fatto non sussiste.
Passa mezz'ora nel trambusto di chiunque ha qualcosa da dire e pensieri e richieste diverse, a quel punto Longo si accascia al suolo,

chiediamo l'intervento dell'ambulanza a gran voce, ci vediamo arrivare il medico dell'istituto (il quale aveva detto che non avesse

nulla) e delle guardie che vogliono portarlo in infermeria, non glielo permettiamo perchè ha segni alle costole e può essere nocivo e che

vogliamo l'ambulanza. Aspettiamo 5-10-20-30 minuti ma l'ambulanza non arriva.
Dovete pensare che le carceri sono come le leggi massoniche, che tutto deve rimanere tra loro insabbiato, non deve uscire, perchè nessuno

deve pagare. E pensare che la nostra richiesta è semplice, ossia che Francesco venga portato in ospedale curato e refertato per i danni

provocati dall'ispettore. A quel punto sentendoci presi per il culo inizia la rivolta del carcere di Varese.
Qualcuno allaga l'istituto con gli idranti e qualcuno spacca le telecamere, luci, reti, porte, finestre, blindi, ufficio capoposto,

gabbiotto blindato delle guardie, quadri elettrici. A questo punto arriva una squadretta. La chiamano squadretta, ma entrano in 30 armati

con manganelli, armi, caschi, scudi, lacrimogeni. (Polizia penitenziaria, carabinieri, polizia), mancava la forestale. Non essendo in

grado di entrare fanno uso di lacrimogeni e gas di estintori, essendo presenti in sezione e nell'istituto anziani, persone con problemi

di ansia ecc., decidiamo di rientrare. In tutto ciò rimane ferito per modo di dire un detenuto che dentro la cella, avendo aspirato i

gas, ha problemi respiratori e si accascia al suolo, soccorso dopo 10 minuti da una guardia folgorata dalla presenza di acqua e cavi di

corrente aperti.
Da questa situazione ci arrestano in 6 i quali siamo tutti stati portati in carcere a Busto Arsizio, sappiamo che ci sono stati altri 31

trasferimenti a Como-Monza-Sondrio-Pavia-Vigevano, ma purtroppo di loro non sappiamo nulla e non abbiamo notizie.
Possiamo dire di noi 6: nessuno fino ad oggi ha subito problemi fisici, torture o altro, anche perchè hanno fatto abbastanza, essendo che

ci contestano reati di danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e devastazione (che prevede pena minima di 8 anni).
Per quanto riguarda noi a Busto Arsizio, nei nostri confronti c'è un clima ostile da parte delle guardie: è 3 settimane che siamo qui e

c'è ancora chi non riesce a parlare con la famiglia, siamo in Sezione Covid dove tutti fanno 14 giorni e dopo il secondo tampone negativo

li spostano in sezione, per noi no. Ci hanno dato 10 giorni di isolamento da fare che faremo più avanti perchè siamo ancora pieni.
Noi siamo gli arrestati per la rivolta di Varese e vogliamo anche firmarci su chi siamo:
Lenkstakas Enrik (Albania); Younas Waqar (Pakistan); Vyzas Rudin (Albania); Tutino Stefano (Italia); Abubakar Mustapha (Ghana); Konrad

Lofti (Tunisia).
Per quanto riguarda i problemi di altri detenuti qui a Busto, che vogliono rimanere anonimi, posso dirvi: l'area trattamentale non

funziona anche se continui a iscriverti nessuno ti chiama.
- Ti segni in sorveglianza ma funziona uguale o non ti chiamano o dopo molto tempo;
- Fai le richieste tramite domandine (mod.393) e spariscono, questo sia per quelli già qua che per noi che veniamo da Varese;
- Chiedi di lavorare, ma le condizioni sono due o devi cominciare a fare l'infame o devi stargli simpatico. Hanno un criterio tutto loro

per decidere;
- Le linee telefoniche non vanno e il centralinista non c'è mai per recuperare una chiamata;
- Il mangiare addirittura a volte è arrivato con la muffa, per non parlare della frutta sempre marcia di routine.
E con questo vi ringrazio per le lettere (buste) e per volerci dare voce, vi prego di risponderci se mai questa lettera vi arriverà, se

non sarà cestinata, letta da loro (ma non mi interessa) o chissà.
Vi ringraziamo e vi mandiamo un caloroso abbraccio, i detenuti di Varese e Busto Arsizio.

11 febbraio 2021


lettera collettiva dal carcere di Uta (Cg)
Di seguito pubblichiamo una lettera dello scorso ottobre ma giunta a destinazione solo all’inizio di quest’anno e pubblicata sul blog

maistrali.it

Siamo un nutrito numero di detenuti che scrive dal carcere E. Scalas di Uta, per denunciare la nostra condizione di murati vivi in questo

triste posto. Una condizione di vita in catene che è/sta ulteriormente peggiorata/ando con il partire dell'epidemia da Covid 19.
Già prima del Covid 19 la nostra “libertà” interna era messa a dura prova dalle continue chiusure degli spazi di socialità, quali la

biblioteca che da Agorà aperta, è stata chiusa a doppia mandata, impedendoci di relazionarci fra di noi.
Ormai è da più di un anno che l'opportunità di usufruire del servizio di biblioteca è compartimentato da quando, sembrerebbe, che il

comandante delle guardie è entrato insieme ad alcuni scherani, ed ha trovato una trentina di detenuti che con fare serafico giocavano a

scacchi, a dama, giochi di società, a carte, oppure guardavano film, ascoltavano musica, sceglievano o leggevano un libro, oppure

discutevano di tutto quello che può interessare la vita carceraria.
Ebbene troppa gente allegra, spensierata, questo non va per niente bene, perché il carcere non può, e non deve essere visto come luogo di

penitenza e resurrezione, ma un luogo di punizione, sofferenza e coercizione, senza con questo poter vedere una benché minima, flebile

luce di reinserimento.
Con questo tipo di atteggiamento, trattamento la vita in questo carcere è paurosamente degradata nel tempo, con la completa complicità

del direttore, dell'area educativa nonché di quella sanitaria e psicologica.
La popolazione detenuta è superiore ai 560 detenuti/individui, “viviamo” in celle dove in origine erano presenti due brande, ed ora

invece sono presenti tre ed anche quattro brande, senza che si siano allargate le celle (non più di 10m² di calpestabilità), pertanto la

vivibilità è molto precaria e questo comporta purtroppo anche dei momenti di tensione all'interno delle celle.
Tensione che porta anche a momenti di attrito con gli agenti della Polizia Penitenziaria (P.P.), che non ci mettono un nonnulla nel

contestare rapporti disciplinari che ci precludono alla concessione di misure alternative al carcere, nonché all'accoglimento dei giorni

di liberazione anticipata (45 giorni di liberazione anticipata ogni sei mesi di carcere scontati), questo succede anche perché nel

tribunale di sorveglianza di Cagliari l'atteggiamento dei giudici nei nostri confronti è quello notarile, dove non entrano sulle

motivazioni che ci fanno, ma si limitano a “leggere” gli atti (molto spesso artatamente falsi) redatti dagli agenti della P.P. e decidere

su quello che hanno, cosa, tra l'altro, fatta propria anche dal direttore Marco Porcu che senza pudore afferma: -Quello che scrivono gli

agenti per me è oro colato-.
Da questa malata complicità sono venuti e vengono fuori miserie umane, angherie e pestaggi nei confronti di noi detenuti: nella primavera

2019 ci fu il pestaggio di un detenuto maliano da parte di tre agenti per una mera devianza razzista, il ragazzo chiedendosi del perché

fosse stato pestato fece un atto di autolesionismo, e da questo atto (l'autolesionismo) tutti noi detenuti in un nonnulla ne venimmo a

conoscenza, e pertanto aspettammo le eventuali punizioni per gli agenti, ebbene niente di tutto ciò avvenne, perché il “nostro” caro

direttore chiamò a se il ragazzo maliano offrendogli un posto di lavoro, per evitare che potesse denunciare gli agenti de P.P.; sempre

nello stesso periodo nella sezione di isolamento fu pestato un detenuto sardo cardiopatico, quando arrivò un medico, che si rifiutò di

fargli una visita medica, se ne andò via perché il detenuto chiedeva di essere visitato sul pestaggio che aveva subito.
Anche i rapporti disciplinari sono affibbiati con estrema disinvoltura, qua si può essere puniti perché in cella ti viene trovato un

fornelletto da campeggio smontato per pezzi di ricambio, perché non ne puoi avere più di uno per detenuto, e quindi si conservano per far

funzionare quello che abbiamo in dotazione, anche perché un fornelletto di tal fatta ci costa quasi 15 euro, quando fuori il suo costo è

intorno ai 5 euro.
Tra l'altro con questi fornelli, numerosi detenuti si sono ustionati rovesciandosi addosso acqua bollente e/o cibi molto caldi, perché

essendo molto piccoli sono alquanto instabili, ed a chiunque qui dentro capita almeno una volta all'anno di rovesciare pentole, tegami

con dei cibi, bollenti dentro.
Nel mentre l'amministrazione ha stipati nei magazzini centinaia di fornelli elettrici più grandi e più stabili, e quindi più sicuri, però

a noi non ce li danno e li lasciano a rovinarsi nell'umidità, anche perché non ci sono le prese nella cucina della cella, malgrado la

struttura sia relativamente giovane.
Uno dei problemi che riscontriamo giornalmente, è il forte ricarico che viene fatto alle merci in vendita nel sopravvitto, che

settimanalmente acquistiamo. Sovente inoltre ci capita di comprare confezioni (biscotti, caffè, merendine...) dove c'è scritto confezione

non vendibile singolarmente oppure confezione omaggio, comunque si dica tutte o quasi le merci acquistate hanno un ricarico di prezzo del

100%, rispetto a quelli praticati in libertà.
Ora vista tutta questa “idilliaca” vita da carcerato nell'era pre Covid 19, potete immaginare come sia “evoluta” la nostra vita con

l'arrivo dell'epidemia Covid 19.
A marzo scorso furono, dall'oggi al domani, in un men che non si dica eliminati i colloqui con i nostri parenti, a detta del direttore:

-per tutelare la salute di tutti noi detenuti, in quanto il virus poteva entrare dentro il carcere tramite i colloqui con i nostri

parenti-, tutto questo ce lo diceva senza nessun tipo di protezione (vedasi mascherina) insieme ad una decina di scherani in divisa,

anche loro privi di mascherina, e quando qualcuno gli presentò il problema fece pure l'offeso.
Comunque tutto ad un tratto ci troviamo isolati dal resto del mondo, e dopo un po' di giorni (bontà loro) furono attivate le

videochiamate con notevoli difficoltà burocratiche per poterle fare, nonché iter farraginosi, infatti prima facevano un ora di colloquio

visivo con i parenti, poi sostituito da una videochiamata di 15 minuti, senza tra l'altro poter decidere chi chiamare e tanto meno poter

scegliere il giorno e l'ora.
Anche qui sono sorti dei problemi con una serie di agenti della P.P., in quanto qualcuno decideva di chiamare un numero invece che un

altro (questo per chi aveva ed ha due numeri da chiamare: genitori col primo numero e mogli, fidanzate, conviventi e figli con l'altro),

oppure pretendeva e ancora pretende di esser presente nella saletta ove è appeso e sigillato il videotelefono per ascoltare e/o vedere il

tutto, alla faccia della privacy.
Ora con la seconda ondata Covid 19, che ha colpito anche il carcere di Uta con almeno 3 agenti contagiati, non sappiamo con certezza

quanti detenuti lo siano stante il nostro stringente isolamento, ci viene imposto l'utilizzo obbligatorio della mascherina ogni volta che

stiamo fuori dalle nostra celle, pena una sanzione disciplinare.
Il tutto come si può capire è una finzione, una farsa in quanto con la forzata convivenza fra di noi il virus avrà facile diffusione nel

carcere, e non saranno delle mascherine anti polvere a prevenire il tutto, tra l'altro con l'aggravante delle decine e decine di detenuti

che soffrono di gravi patologie medico-sanitarie, tra cui molti ultrasessantenni che vivendo con tutti noi sono a rischio della loro

vita.
Diverso tempo fa in carcere è entrato un signore che avrebbe truffato sessanta milioni di euro, ebbene il tipo ha fatto 15 giorni di

carcere ed è uscito ai domiciliari, se facciamo un po' di conti fra tutti noi detenuti (un po' meno di 600), in tutti noi siamo riusciti

a fare tanti danni economici alla società, però nel mentre noi stiamo in carcere (il più delle volte per danni economici risibili, di

pochi euro) mentre gli altri stanno fuori, pertanto, senza augurare il carcere a nessuno, ci chiediamo: o la legge non è uguale per

tutti, e dunque ci sta bene stare chiusi a doppia mandata, oppure se la legge è uguale per tutti sarebbe auspicabile che chi ha diritto a

misure alternativa al carcere fosse avviato senza se e senza ma a un piano di reinserimento nella società. Per non parlare degli

ergastolani che anche con quasi 40 anni di carcere scontato non riescono ad uscire da questo inferno. Sia chiaro il carcere non rieduca

mai, ed il carcere scontato in quel di Uta peggio che mai.
Di tanto in tanto fanno entrare qualcuno dall'esterno per visitare il carcere, però se queste visite sono vincolate all'accompagnamento

del direttore o del comandante delle guardie, e tra l'altro non prevedono il passaggio nelle sezioni, il tutto diventa una gita nel

carcere dove si visitano le “bellezze” e le parti pulite, ma qui c'è ben altro da vedere e da ascoltare, vero Monsignor Baturi? Oppure i

giornalisti dell'Unione Sarda e di Videolina?
Se non altro una volta un parlamentare ha fatto visita al carcere, ed è pure entrato in sezione, in quel momento chiusa a doppia mandata,

per visitare le “belve” chiuse in gabbia accompagnato dal direttore e dal comandante delle guardie. Lui, il parlamentare, aveva anche il

suo portaborse e non era certo venuto a chiederci come stavamo, ma faceva il tour in una delle cajenne sarde per dare solidarietà alle

guardie. Vero Signor Sasso Deidda?
Per sgombrare ad eventuali equivoci siamo consci che non tutti gli agenti di P.P. sono mele marce come teste descritti, però ci fa

specie l'assordante silenzio degli altri agenti che passivamente girano lo sguardo davanti alla cose descritte prima, come ci fa

sorridere l'atteggiamento dei sindacati e dei sindacalisti degli agenti, che urlano al lupo al lupo per ogni problema, violenza

perpetrata ai loro assistiti, ed invece dolosamente zittiscono di fronte all'arroganza, l'arbitrio delle mele marce (che loro tutelano

sindacalmente) che sono presenti dentro il loro corpo di polizia.
Chiudiamo con il non chiedere nulla, se non la difesa della nostra dignità di fronte ai nostri soprusi, anche se di cose da dire e da

chiedere ne avremo tante, siamo anche consapevoli che questo scritto solleverà un vespaio di polemiche, ma siamo anche consapevoli che se

continuiamo a stare zitti le cose potrebbero precipitare velocemente.
Questo scritto potrà inoltre creare non pochi problemi ad alcuni di noi, visto che ogni volta che abbiamo intrapreso delle proteste

pacifiche, siamo sempre stati minacciati di trasferimenti punitivi, di punizioni esemplari come l'isolamento sanzionatorio del 14bis ed

altre amenità.
A chi arriverà questo scritto fate in modo che il nostro urlo alla luna non sia fine a se stesso. In questo scritto ci sono decine di

sottoscrittori, per ovvi motivi verranno spedite se richieste con un'altra lettera.

Uta, 22 ottobre 2020


Lettera dal carcere di Pavia
Ciao a tutti/tutte, ieri mi hanno consegnato la busta con l'opuscolo di OLGa e il minimo che posso fare è ringraziarvi, per il prezioso

lavoro che fate nel dar voce con le lettere a chi è sepolto nell'oblio di un carcere, a chi viene trasformato in un numero di matricola e

spesso la sua esistenza è caratterizzata dal silenzio tombale sistematico di un isolamento psico-fisico o dal deserto che gli viene

costruito attorno a sè.
Il Covid a mio parere ha contribuito semplicemente a evidenziare situazioni da sempre esistenti nel sistema carcere in alcuni più o meno

evidenti, in altri da sempre presenti con il beneplacito degli addetti ai lavori… La logica dello scarto, riduce tra le altre cose il

detenuto/ta tenuta in uno stato “vegetativo” con le tre parole: “ordine e sicurezza”, che si traducono in concreto a: silenzio, mangiare

e cagare (defecare) come in un allevamento intensivo di “maiali”.
Se fuori dal carcere gli individui vengono ammaestrati al PRODURRE, CONSUMARE e CREPARE dentro alla galera si viene “rieducati” con il

motto: zitto, mangia e caga. Pavia con me ha adottato questa linea, molto sottile.
Marx spiega molto bene il concetto di “situazione reale concreta materiale” che determina le scelte degli undividui. Se si riduce un

individuo al silenzio con l'isolamento a oltranza in cella e inserendolo in una sezione completamente incompatibile per la caratteristica

specifica della popolazione detenuta lì, con il passare del tempo non è TORTURA psicologica? Ovviamente per istinto di sopravivenza si

reagisce a tale condizione se non si vuole impazzire cercando di relazionarsi comunque con ciò che ci circonda e con ciò che si è

costretti a fare (i conti) giorno dopo giorno, mesi dopo mesi … Adattamento forzato! La violenza psicologica si sa è più difficile da

dimostrare in tutti i campi figuriamoci in galera!
Si è creato un sottile equilibrio tra me e i secondini in quei pochissimi momenti comunicativi che si presentano in: telefonate? Sì,

ARIA? NO, Saletta? NO…
Sanno bene che il più viene dal disagio concreto reale con le tipologie dei detenuti presenti, il più è fatto! Le altre figure di

“supporto”? Educatori, infermieri, medico, psicologo… basta leggere ciò che hanno scritto! Presente nella mia cartella sanitaria in quei

pochissimi incontri avuti, anche un bambino delle medie se ne può rendere conto che le condizioni “reali, obiettive e concrete” sono

favorevoli a incrementare l'isolamento psico-fisico!
Se a Rossano le educatrici, psicologhe avevano colto e spinto per un mio trasferimento da quel carcere a Pavia si doveva assolutamente

evitare il coinvolgimento di tali figure, ecco fatto! Lo ha espresso bene il “dottore” nella relazione finale che ha fatto il 04/07/20

non testimoniata!! E' tutto lì l'obiettivo non avere testimoni!! E ciò riguarda ogni aspetto.
Arrivare a fare carte false dichiarando trattamenti sanitari inesistenti facendoti arrivare dopo 1 anno e 9 mesi di detenzione

“cautelare” alle prime udienze in uno stato depressivo? Udienze con tablet o dispositivi obsoleti dove salta di continuo il collegamento

e non si capisce nulla di ciò che si dice nonostante che il giudice ha decisio “udienze in presenza”, non è pura causalità! (in un

circuito AS2 sono ben organizzati come si è visto negli ultimi processi a distanza). Forse miravano a dei processi sommari? Con la scusa

del Covid? Penso proprio di sì, visto che uno dei motivi che abiano messo per un trasferimento in AS2 era proprio la possibilità di

partecipare alle udienze a Genova! Ridurre al minimo ogni contatto umano sfruttando gli stessi detenuti incompatibili, tanto con un 280

c.p. che pende sul collo e dopo una massiccia campagna di puro “terrorismo” mediatico da parte di giornali e TV prima di un “dignitoso”

processo con informazioni fornite a hoc completamente false e manipolate è troppo facile avere carta bianca dall'opinione “pubblica”.
Il vecchio metodo ma sempre attuale: sbattiamo i mostri anarchici in prima pagina, creiamo steriotipi nelle menti e poi li processiamo e

vediamo che succede anche se non ci sono prove concrete! Avete mai visto il film di Sordi “Imputato in attesa di giudizio”? L'ho visto

qui in galera. Poi c'è del “miracolistico” dove la “mistica” teologica avrebbe tutti i motivi di nominare dei periti!!
Se in Galilea Gesù ha tramutato l'acqua in vino nel mio caso l'alcool si sarebbe tramutato in benzina a loro dire, poi c'è la

“materializzazione” di oggetti in un arco di tempo indefinito tipo guanti, poi la “bilocazione” alla Padre Pio da una città in un altra

nello stesso arco di tempo, ma non si è capito se non il corpo materiale o quello trascendentale tipo essere a Genova e allo stesso tempo

essere km distanti dalla propria abitazione! Bilocazione mistica!! Poteri sopranaturali inspiegabili!!
Allora prende fuoco di notte il tribunale di Milano, cade un soffitto nel'aula dell'udienza di Torino per Scripta Manent, muore un perito

dell'accusa a Genova… Scoppia la pandemia per Covid 19, cade il ponte di Morandi… Polvere di petardi che si trasforma in tritolo, perizie

che gli stessi periti del'accusa non riconoscono come proprie. Questo è un caso per don Gabriele Amort il noto esorcista deceduto pure

lui qualche anno fa.
La risposta alla domanda che il mio avvocato ha fatto al maggiore dei ROS che era venuto in galera per in secondo mandato di arresto il

17/12/19 se esiste un verbale dell'interrogatorio in cui mi voleva costringere per più di 1 ora in una stanza qui in galera, ha risposto

che non c'è perchè aveva un “colloquio”!! Praticamente mi hanno sospeso le telefonate, i colloqui con i miei cari e lui da buon cristiano

con altri 3 era venuto a visitare i prigionieri come ha comandato il buon Gesù!!
Mi fermo qui anche se ci sarebbe molto altro da di re, devo ringraziare Fabio Sommovigo che non mi fa mancare la sua vicinanza anche

umana ogni fine settimana ci vediamo o in video o di presenza!! Ringrazio tantissimi compà di ogni dove che con lettere non mi fanno

sentire mai solo completamente. Ringrazio Giovanni il mio compagno che mi è vicino nonostante tutto e in particolare anche dopo la morte

di suo papà per Covid qualche settimana fa… Poi i compà di Genova: tutti/tutte, il Grimaldello, il vero faro in quella città…
Il collettivo redazionale Eeluthera per le lettere solidali! Il giornalista del TG3 che oltre avermi spedito il suo libro su Gaetano

Bresci mi ha scritto delle belle lettere.
E tutti/tutte di ogni dove che con i loro sacrifici e la loro solidarietà concreta mi fanno gustare un pasto dignitoso preparato da me

stesso!
(OSARE) OSTINATAMENTE, TUTTO IL CORAGGIO IN GOLA
PER LA PROPRIA DIGNITA'… E LA LIBERTA'

20 dicembre 2020
Giuseppe Bruna, via del Gomito, 2 - 40127 Bologna


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, ho ricevuto vostre notizie, come l''opuscolo e i libri, come sempre è un piacere leggere tutto quello che scrivete,

vi ringrazio tanto per il vostro sostegno e la vicinanza che manifestate ai prigionieri, sopratutto in questo momento e di molte

difficoltà. Questo non solo per noi carcerati, ma anche per la gente fuori che deve fare tanti sacrifici per vivere e andare avanti e non

dimenticando le famiglie dei carcerati che non possono dare aiuto e sostegno alle persone care che si trovano in questi posti di

sofferenza. La stessa cosa è per noi carcerati che non possiamo essere vicini alla famiglia e dare il nostro aiuto morale alle persone

che ci sono più care, perchè anche una parola d'affetto è molto importante. Per i detenuti il colloquio nelle carceri è la sola cosa che

ci porta un momento di serenità e d'affetto famigliari, quindi per questo vale la pena sempre lottare.
Purtroppo da quando è iniziato il Covid 19 non è stato possibile fare i colloqui e vedere le proprie famiglie; è solo tramite video-

chiamata di 30 minuti, che possiamo fare solo una alla settimana, come possiamo fare 4 telefonate alla settimana di 10 minuti.
Qui, al momento, hanno fatto le sezioni, ci hanno divisi, positivi e negativi, mi trovo in una sezione dove siamo tutti negativi, quindi

mi hanno cambiato sezione, ma siamo tutti da soli, e per poter tenere le distanze ci hanno autorizzato di andare ai passeggi solo 2 ore

al giorno e solo poche persone per ogni passeggio, con la mnascherina e tenendo la distanze da altre persone.
La situazione è molto brutta, come in libertà, ancora di più per noi carcerati che siamo costretti a vivere in una condizione di poco

spazio e con poca assistenza e non sappiamo ancora quanto possa durare questa situazione del Corona-virus. Purtroppo non si vede nessun

miglioramento. Le cose sono di tanta sofferenza dentro le carceri come in libertà. Spero tanto che tutti voi state bene, e vi raccomando

pensate alle vostre persone e alle persone che vi sono care.
Vi unvio un caro abbraccio a tutti voi con affetto. Antonino.

18 gennaio 2021
Antonino Faro, P.le Vittime del Dovere - 67037 Sulmona (L'Aquila)


Lettera dal carcere Marassi di Genova
Cari compagni e compagne, prima di tutto un saluto solidale a voi e a tutti quelli che come me hanno avuto per l’ennesima volta, la forza

e l’interminabile coraggio di far uscire al di fuori dei carceri in cui si vive un totale stato di abbandono, questo urlo di dissoluzione

umana. Io sono con voi sempre pronto alla lotta, anche se siamo in pochi l’importante è non sentirsi mai come dei pezzi di manzo appesi

nelle celle frigorifero, a differenza nostra che stiamo in veri e propri conservatori di carne umana. La lotta però continua sempre.
Sono molto arrabbiato e mi sento impotente come non mai. Si parla di tutto e di tanto, i governatori mi sembrano dipendere da quelle fila

che non si usurano mai e sono sempre pronti a dare spettacolo, sotto le luci dei riflettori impavidi pur di accaparrarsi un seggio o una

poltrona, ma questo è cosa che parte da molto in alto e per arrivarci ci vogliono gesta estreme come è successo qui a Marassi qualche

giorno fa che una ennesima vittima e questa volta non centra la pandemia o se gli fosse stato inflitto un ergastolo. No, niente di tutto

questo. E’ stato trovato appeso alla sua grata della sua cella senza vita purtroppo. Erano giorni che a modo suo chiedeva un aiuto pur di

farsi notare, ma gli è stata data come risposta l’ennesimo, stai bravo o ti faccio rapporto e ti denuncio per procurato allarme. Si è

dovuto arrendere alla morte, aveva solo 37 anni. Oggi a distanza di tre o quattro giorni fa mi sembra che non è successo nulla. Ho pianto

credetemi, anche se lo conoscevo da poco. Non era un mio congiunto ma un compagno di sventura e per me è stato come vedere un fratello, o

meglio, un figlio visto che ho il doppio della sua età. Dicevo, sembra non sia successo nulla, eppure c’è tanto abbandono e tanto

disagio. Oramai per affrontare le giornate è diventata un’impresa. Non ci passano mascherine, igienizzante, il vitto non lo mangiano

nemmeno i porci, nonostante lo stato incassa il nostro eterno mantenimento di circa 70/80 euro al giorno, ma intendo in fondo se allo

stato costiamo 5 euro o al massimo dieci euro al giorno è tutto grasso che cola. Ma il punto non è solo questo amici miei perché qui si

contano svariati contagiati tra detenuti ed agenti. Il personale civile ha paura di continuare il lavoro in cui si erano protratti.

Qualcuno ha coraggio e ci viene a dare manforte ma a livello istituzionale conta poco perché sono colloqui fatti di parole. Come stai,

come va, qualcuno conforta i nostri parenti con una chiamata. Non sono arrabbiato solo per questo ma anche per la massa che non risponde

a nessuna provocazione, anzi ci tengono a dirti: fai il bravo sennò perdi i giorni. Ma chi se ne frega di questi 45 giorni al semestre,

tanto lo stato mi ha già condannato a dieci anni e non basta perché parlano di aprire altri carceri, di ristrutturare quelli chiusi. Sono

centinaia di migliaia di euro se non milioni e milioni. Ma perché questi soldi non li usano per aprire cooperative o dando dei bonus alle

aziende che sono disposti ad assumere anche uno dei più duri galeotti perché è quello che oggi lo stato non mette in pratica, ma pensa a

maggiori restrizioni. Forse per qualcuno questo mio ragionamento è lontano milioni e milioni di anni luce, ma detto in parole povere

stiamo, anzi stanno diventando sudditi ma non se ne accorgono. Allora cosa si dovrebbe fare, si chiederà qualcuno che sta dalla nostra

parte, segnare le cose essenziali sul sopravvitto. Sono i due punti cardine di ogni carcere perché dove c’è merce ci sono fiumi e fiumi

di soldi. Allora chiudiamo le chiuse, lasciamo i rubinetti chiusi e se si ha un po’ di coraggio iniziamo una sorta di petizione per il

miglioramento sennò siamo alla frutta visto che eravamo già all’osso, ma pure quello ci hanno tolto cari compagni. Sono forme di

restrizione, forme di reprimere ancor di più di quanto lo siano.
Stiamo di nuovo come le sardine, uno su l’altro ma non ce ne rendiamo conto. Non aspettiamo che qualcuno smuova le istituzioni per noi

perché non lo farà nessuno. C’è in palio una bella fetta di torta per ognuno che è dipendente dal ministero di grazia e giustizia, e

quella fetta di torta la vuole, non pensare mai che la molla o la vuole dividere con qualcun altro, è sua e basta.
Ma ci rendiamo conto che più si va avanti e più repressione c’è. Non dico di ritornare agli anni ‘70 ma almeno stiamo al passo e dove c’è

da operare si opera con bisturi e anestesia perché qui mi pare che stiamo tutti sotto anestesia da oltre dieci anni e non è tollerabile

gli abusi che si sentono nel 2021. Stiamo nel 3° millennio, il millennio che dovrebbe essere quello dell’emancipazione, dell’evoluzione e

della rivoluzione, non in quei termini, ma una rivoluzione, ma qui si regredisce e si finisce per essere inghiottiti da un pozzo senza

fondo. Ci passano forniture scadenti, abbiamo ancora i materassi di spugna che sono zeppi di acari, polvere e tante altre schifezze e

questo viene ignorato. Sul sopravvitto ci sono generi che fuori hanno un prezzo che tutti vediamo per le t.v. e i quotidiani, mentre qui

costano il doppio, se non il triplo. Prezzi stellari, da star, da Vip ed invece cadiamo nella solita trappola dello spandi e spendi. Chi

si arricchisce è quella macchina infernale che di noi ha fatto il suo profitto, il suo pane quotidiano.
No, non ci sto. Perché qui ci portano il vitto che mi sembra il rancio dei soldati. In poche parole è il sistema di questo carcere che la

direttrice controllava. Non ci danno mascherine non ci danno igienizzante, ma la lotta che dovremmo fare è quella di far valere i nostri

diritti.
Viviamo una situazione di degrado assoluto specialmente alla 6° sezione dove spesso veniamo vessati e ci provocano, ci sbattono i

cancelli in faccia e ci vessano. Pertanto cari compagni dovete seguire la nostra se vogliamo ottenere un miglioramento perché non

possiamo vivere ammassati come sardine. Io ho fatto un colloquio con la direttrice per essere avvicinato verso la campania dove ho due

figlie minori che non vedo da circa due anni. Anche se chiedo un lavoro devo aspettare circa un anno ma come ho detto che ho un disagio

in famiglia ma mi hanno fatto solo problemi. Io so come ragionano: ti dicono, si ma, poi la cosa sai che resta così per mesi e mesi. Io

intraprenderò uno sciopero della fame della sete e della terapia e poi vogliamo vedere cosa fanno e come si guardano il crumiro.
Credetemi ci troviamo come animali nel recinto e questo non è il modo più consono. Non ci fanno fare i colloqui che ci servono, educatore

SERT interno, assistente sociale dell’UEPE. In poche parole hanno blindato tutto. Io sono campano ma cosa ci faccio più qui e per giunta

ho una pena da espiare di circa sette. Il personale ci evita come appestati e spesso ci criticano con vessazioni, insulti, denigrazioni

ci chiamano tossici per chi lo è e questo non lo possono fare ma è tutto uno scarica barile, nessuno pensa ai problemi che sono

abbastanza.
Come vi ho detto nella scorsa lettera precedente che viviamo in una cella angusta. Non abbiamo giochi di diversivo, non abbiamo uno

spazio per l’ora d’aria, abbiamo la Tv che ha circa 30 anni. Ma la direttrice e il comandante che fa. Io sono davvero desolato e non me

ne vogliate se dico che a qualcuno piace stare più in carcere che in libertà. Comunque qui a Marassi non funziona niente di niente e voi

sapete dovremmo essere tutelati e salvaguardati. Ma questo non esiste perché ti mandano a quel paese e un agente se sta qui non solo deve

redimere e vigilare ma ci vedono come bestie e ci fanno un sacco di provocazione di ogni genere. Io non mi arrendo perché ci tengo alla

minima incolumità personale. Poi ci sono tanti altri problemi. Io per esempio sto a 1.000 km dalla Campania, sono definitivo, perché non

mi mandano in uno di questi istituti dove posso intraprendere un percorso trattamentale ed essere monitorato perché ho chiuso con il mio

passato ma non danno un segno di solidarietà. E’ come fossi un appestato ed io non ci sto perché voglio i miei diritti. Ripeto non ci sto

e vorrei iniziare una petizione che faccia scalpore perché muoiono persone, non siamo seguiti dagli organici addetti che dovrebbe essere

così ma si parla di recovery found, del Mes, ma di noi? Siamo gli ultimi degli ultimi e se non si fa qualcosa i carceri scoppieranno e

ritorneremo agli anni ottanta, poi voglio vedere perché pure noi in un certo modo ci siamo preparati come abbiamo potuto ma viviamo una

situazione che ci fa sentire gli ultimi. Figli di un dio minore. Io ho potuto anche commettere reati che pagherò ma la dignità dove sta.

Pubblicatemi questa lettera perché la voce muta deve uscire dalle carceri e i politici se ne fregano come solito.

6 gennaio 2021
Rosario Mazzone, Piazzale Marassi, 2 - 16139 Genova


lettera dal carcere di siano (cz)
Carta della consapevolezza (parte terza). Quanto valiamo noi reietti in termini economici per il paese Italia e l’occupazione che

determiniamo in termini numerici.
Cari amici e amiche detenuti e no. Io e il mio amico di questa avventura che abbiamo intrapreso, in questa terza tappa della carta della

consapevolezza vogliamo affrontare l’impatto economico che la criminalità ha in questo paese, sia esso numerico, che puramente e

squisitamente monetario.
Rammentate e ricordate che si parte da un presupposto molto preciso, noi siamo, rimaniamo e veniamo considerati i brutti, sporchi e

cattivi della situazione.
Ci rendiamo conto che stiamo usando termini un po’ pesanti, tanti si sentiranno offesi, ma perché nascondere la testa sotto la sabbia, se

non accetti con consapevolezza ciò che gli altri pensano di te, non farai mai nulla per migliorarti e di conseguenza essere migliore di

quello che ti vogliono sempre rappresentare, cioè, il male assoluto.
Dopo tale premessa, affrontiamo il tema che ci siamo prefissati e poi faremo le dovute considerazioni dei diritti negati e del

trattamento sanzionatorio che ci viene riservato.
I costi della giustizia e i relativi costi delle forze di polizia in questo paese sono più o meno quantificabili in trentanove miliardi e

mezzo di euro (dati ministeriali).
Poi ci sono da aggiungere gli introiti che si presume la criminalità faccia girare in questo paese, si aggirano sui trenta miliardi di

euro l’anno. Ci sono poi le spese sostenute per gli avvocati, ma quelle non le conosciamo. Poi ci sono le spese che i detenuti sostengono

all’interno dei penitenziari per mantenersi. C’è l’impatto economico che un carcere procura al territorio dove è ubicato. Ed infine le

vittime a cui sono stati sottratti dei beni e che sono costretti a riacquistarli.
In totale e in termini squisitamente economici, noi reietti, movimentiamo tra i novanta e i cento miliardi di euro, la più grande

industria di questo paese.
Aggiungiamo a tutto ciò l’occupazione che produciamo e che può quantificarsi tra le settecentomila-ottocentomila unità.
Un business economico da capogiro, eppure rimaniamo i brutti, sporchi e cattivi della situazione. Mancanza dei diritti processuali e

penitenziari, calpestamento della dignità, umiliazioni, abbandono, mancanza di cure adeguate, vittime di pestaggi ecc. Perché tutto ciò?
Iniziamo ad analizzare l’aspetto economico, un detenuto costa all’incirca quattro mila euro al mese, ora pensate a quei detenuti che si

trovano in carcere per vere sciocchezze e immaginate lo stato che gli procura un lavoro socialmente utile e gli versa uno stipendio della

metà di ciò che spende per tenerlo in carcere. Risparmierebbe metà di ciò che spende e ha un delinquente in meno che fa danno alla

società. Perché ciò non succede?
Il motivo è molto semplice, perché noi siamo credito redditizio perenne, nelle patrie galere ci sono circa la metà dei detenuti che deve

scontare una pena sotto i 5 anni, adottare una linea del genere significherebbe decongestionare le carceri e snellire l’intero apparato

giudiziario. Abbattere il muro dell’ignoranza è semplice, basta dare all’ignorante un libro per acculturarsi, abbattere il muro della

stupidità è come scontrarsi con un carro armato a mani nude.
Una massa di persone che movimenta dai 90 ai 100 miliardi di euro è una macchina da soldi, fare qualcosa per far sì che questa macchina

da una Ferrari divenga una Cinquecento è come chiedere ad un alcolizzato se é meglio il vino o l’acqua, sono certo che la risposta

saprete darvela da soli.
Se togli un osso ad un cane quello ti morde, se togli l’acqua ad un assetato quello ti aggredisce, se tenti, ripeto, se solo tenti di

togliere il rendiconto materiale morale e pubblicistico ai fautori della legalità immediatamente diventi camorrista, mafioso, terrorista,

anche se di criminalità non ne capisci un cazzo.
La colpa è loro? No! Amici miei, la colpa è nostra e solo nostra, fin quando non ci sveglieremo dal letargo in cui siamo piombati la

colpa sarà sempre e solo nostra.
Ora affrontiamo l’aspetto occupazionale che ne deriva dalla criminalità del nostro paese.
Siamo il terzo paese al mondo più militarizzato, il rapporto numerico tra abitanti e forze di polizia è di 467 poliziotti ogni 10.000

abitanti, solo la Russia di Putin, la Turchia di Erdogan ci superano, due nazioni che di democrazia hanno ben poco.
Comunque, non siamo qui per affrontare la tematica democratica di alcuni paesi questo lo faremo a tempo debito, in tal modo potremo

confrontare anche quanta democrazia c’è nel nostro paese.
Ora affrontiamo la tematica occupazionale come stavamo dicendo, il numero degli occupati che produce la criminalità in questo paese si

aggira tra le 700 e le 800 mila unità. Immaginate per un momento l’abbattimento del 50% per 100% della criminalità nel paese, cosa

farebbero queste persone? Lavorerebbero nelle fabbriche? Farebbero imprenditoria, oppure gli industriali, i grandi finanzieri, i

banchieri o i bancari, i notai, i commercialisti, i preti, gli attori, i cantanti, i giornalisti, i professori, i medici, gli infermieri

oppure i dentisti. Dispiace i posti sono quasi tutti occupati e dubito fortemente che vorrebbero fare altro, sono troppo affezionati al

loro lavoro per riciclarsi in altro, pertanto l’alternativa è il niente, altri disoccupati.
Ecco amici cari, noi siamo coloro che danno lavoro a gogo, siamo un esercito di carne viva che deve essere governata con il bastone e la

carota, rammentate le morti nelle caserme per pestaggi? Rammentate le morti in carcere? Rammendate le dichiarazioni fatte da alcuni

magistrati, giornalisti e politici concernente la sicurezza dal Covid19 per chi era ed è detenuto?
Tutti esperti in materia, tutti scienziati, tutti facendo parte dell’istituto superiore della sanità, poi sappiamo come è finita,

famiglie che non sapevano nemmeno che loro cari erano ricoverati in ospedale per Covid19.
Amici e amiche cari, noi siamo moneta sonante noi siamo l’occupazione sicura noi siamo lo scarico dove si possono far defluire tutte le

nefandezze di questo paese, noi siamo il parafulmine di ogni male, noi siamo lo sfogo alle frustrazioni, alle inefficienze e ai

fallimenti degli altri. prendete ad esempio questo periodo storico che si sta vivendo con questo maledetto Covid19.
Tanti personaggi conosciuti e meno ci si sono infilati dentro e stanno facendo soldi a palate, eppure, ogni qualvolta scoppia uno

scandalo, si mette in mezzo la criminalità, perché? Semplice la criminalità fa comodo, la criminalità non ha il microfono, non fa

conferenze stampa per dire che non c’entra nulla.
Oggi va di moda il metodo mafioso, quando si arresta qualcuno al sud dell’Italia, si parla di metodo mafioso, non importa se vendeva la

bustina all’angolo della strada, oppure rapinava le vecchiette, il modus operandi è mafioso perché è successo in Campania, in Calabria,

in Sicilia oppure in Puglia pertanto hai agito in modo mafioso.
Questo è ciò che accade da noi in Italia, due pesi e due misure, allora io dico, perché non togliete quella scritta dalle aule

giudiziarie e scrivete una frase più coerente? Anzi, voglio darvi un’idea migliore, perché non scriverci la verità? Le legge è uguale per

tutti, ma non tutti sono uguali d’innanzi ad essa.
Una frase semplice e accessibile a tutti, grandi e piccini, intellettuali e no, stupidi e intelligenti, un qualcosa che quando lo leggi

ti senti rassicurato, senti l’anima in pace, ed invece NO! C’è da far credere che la legge degli uomini è giusta, l’avete mai visto un

uomo oppure una donna che non sbaglia mai? Che Iddio ci scampi da tanta perfezione, ai suoi occhi saremmo tutti colpevoli di qualcosa.
La legge è amministrata da esseri umani, gli esseri umani hanno la tendenza a commettere errori non perché sono cattivi a prescindere, ma

solo perché sono esseri umani.
Il grave problema è che ci sono esseri umani consapevoli di poter commettere errori e ci sono esseri umani che si fanno accecare dalla

loro arroganza e se ne fregano se fanno del male a chi si è affidato a loro nella speranza di ottenere giustizia.
Ho scoperto qualche mese addietro una chicca che voglio raccontarvi, lo sapete che noi detenuti paghiamo personalmente le malattie e le

convalescenze degli agenti penitenziari? Come lo facciamo? Semplice, con gli acquisti dei tabacchi, infatti, le accise sui tabacchi vanno

a coprire tali spese. Ora dico io, vi diamo lo stipendio, vi paghiamo le convalescenze, almeno trattateci un po’ meglio!
Adesso voglio parlavi di un’altra tematica che ritengo importante, la figura e il ruolo del magistrato di sorveglianza. Il magistrato di

sorveglianza è, e dovrebbe essere il garante dei diritti dei detenuti, colui o colei che si frappone nelle diatribe tra i detenuti e le

direzioni degli istituti, tra i detenuti e le circolari DAP.
Oggi la figura di questi magistrati (esclusi quei pochi valorosi) è andata a sminuirsi sempre di più, quando inoltri qualche ricorso

sembra quasi che conosci già la risposta, una volta ti affidavi a questa figura e sapevi che la sua terzietà era una certezza, oggi tutto

ciò è pura fortuna.
Perdere la fiducia in colui o colei in cui credi che faccia valere un tuo diritto, è come perdere una luce di speranza, ciò però che non

riesco a comprendere, è perché una persona che si assume una responsabilità poi perda la sua stella polare, e se ciò avviene, perché non

decide di cambiare ruolo, così penso al discorso di prima, integrità e interessi, quando prevalgono gli interessi tutto si complica,

tutto diventa difficile.
Per coloro che non lo sanno, vorrei spiegarvi un particolare di noi ex 41 BIS. Quando si è declassificati dal 41, si inizia un percorso a

ritroso, passi all’as1, per poi man mano giungere in as3. Ci sono persone qui con me che sono in as1 da 12-13 anni, hanno posto alle

spalle il loro passato e si sono costruiti un percorso nuovo, tutto inutile, quando cerchi di ragionare con chi non vuole ascoltare è

come ragionare col muro, ti considerano sempre colui che eri una volta, non guardano agli anni che ti sei messo alle spalle e con essi il

tuo passato illegale.
A volte le persone sfogano i loro fallimento sugli altri e colpevolizzano sempre coloro che non hanno la possibilità di dire la loro

versione, prendiamo ad esempio i fatti che si sono verificati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, i detenuti protestano, la

penitenziaria locale li lascia protestare, il giorno dopo arrivano agenti di altri luoghi (quelli che noi detenuti chiamiamo squadretta

ministeriale) e mentono in atto il loto solito comportamento: bastonate, offese, acqua fredda addosso, denudamento, ecc. ecc.
Poi li vediamo davanti alle telecamere a farsi riprendere con la divisa strappata e il sangue, (quello non deve mancare, fa tendenza) la

gente li vede in tv e pensa, ma guarda questi che devono subire per guadagnarsi un pezzo di pane, mica qualcuno si chiede il perché sia

accaduto tutto ciò.
Vi assicuro e vi garantisco che i vertici penitenziari queste cose le sanno da anni, cosa hanno fatto per cambiare la situazione? Un bel

niente.
Quando ti accorgi dell’inerzia e del menefreghismo degli altri, non devi darti per vinto non devi cedere all’apatia, non è in questo modo

che si risolvono i problemi.
Combatti, combatti e combatti ancora, se le tue idee sono giuste, se le tue idee sono sane, se le tue idee possono essere un faro per gli

altri, allora continua a combattere perché è l’unico modo per non sentirti uno sconfitto a prescindere.
Amici e amiche cari, anche per questa volta ci fermiamo qui, ma non demordiamo, non ci arrendiamo, non ci facciamo prendere dall’apatia,

siamo e saremo sempre vivi e reattivi.
Un caro saluto e abbraccio a voi e un ringraziamento a tutti coloro che si spendono per noi, come le associazioni e coloro che fuori da

queste quattro mura ci considerano ancora degli esseri umani. Alla prossima.

Catanzaro, gennaio 2020
I due perseveranti


Lettera dal carcere di San Vittore (Mi)
[...] Sono d'accordo con voi che sarebbe giusto abolire le galere, dopo tutto se non ci sono le condizioni di reinserimento, credo, anzi

sono certo, che il carcere non fa altro che peggiorare le persone, le “imbarstardisce”, incattivisce e se un ragazzo metti caso entra qui

per la prima volta, diciamo per un reato minore, esempio un furto, puoi stare certo che qui dentro conosce spacciatori, rapinatori, ladri

d'ogni genere e qui ha la facoltà di scegliere o di specializzarsi in vera criminologia (si fa per dire), perchè ad oggi i veri

delinquenti non sono più quelli di una volta – parola di uno che ne ha fatti ben 24 di calendari… e qui dentro è diventato un

contenitore sociale malfunzionante.
E per l'appunto, qui dentro si vive una tensione non indifferente, perchè siamo chiusi 23 ore al giorno. Dal 14 dicembre hanno riaperto

i colloqui che da radio carcere si dice che durerà ben poco sta “grazia” di far colloquio con un parente che vedi a 3 metri di distanza

ove in mezzo, 1,50 metri, c'è un vetro in plessiglass alto 1,20 metri, quindi c'è da urlare per farsi sentire, perchè si svolge in una

saletta di 20mq e ti puoi immaginare cosa puoi sentire, quando tutti urlano pur di farsi sentire dal parente che stà dall'altra parte del

tavolo.
Mi chiedi di zeromail? Sì una cosa buona ma costosa. Esempio (vero) 30 email sia che entrano o escono le paghi 12 euro; 30 mail 25 e se

non le consumi tutte nel mese corrente vanno perse, diciamo che è un altro losco business dove ci speculano a più non posso. Sì che ne

possono usufruire tutti, basta pagare…
Tornando al vivere qui dentro, devo pensare che secondo il direttore non c'è un'emergenza, dopo che 140 guardie e detenuti ne sono stati

contagiati. La prova fumante è che è pure morto un commissario, tale de Michele. E non c'è il virus in carcere?
Guarda ne avrei da dire di cose che non vanno ma per adesso mi fermo quà. A presto.

Milano, 18 dicembre 2020


lettere dal carcere di milano-opera
Dalla mia ultima di novità ce ne sono state e sono di vera catastrofe, siamo tutti chiusi nelle proprie celle, già da 15 giorni; qui il

virus si è infiltrato da per tutto, ogni giorno fanno pullman e potano carcerati a S. Vittore e a Bollate dove hanno aperto siti di

COVID. Ci sono stati molti sacrifici da parte nostra subendo scelte scellerate da parte del DAP. Rinviando colloqui e ogni attività, ma

non è servito a nulla.
Pensa che solo sul primo piano dove mi trovo io 2 sezione as1 (50 persone) e una as3 (40 persone), 60 sono risultati positivi, del resto

nel carcere poi è una catastrofe, facciamo tamponi ogni 10 giorni e ora ci ritocca farli in settimana. Per causa di questa valanga di

contagi il DAP ci ha tolto ogni diritto e non solo il DAP, anche il ministro della sanità e quindi sono 15 giorni che ci troviamo in

balia delle decisioni prese da persone che non conoscono assolutamente il carcere. Siamo chiusi in cella si esce solo per la doccia che

ci tocca ogni due giorni e per 15 minuti. […] Per quanto riguarda il servizio zero mail, c’è anche qui da qualche mese, ma come puoi

immaginare nessuno si è abbonato per quanto riguarda dove mi trovo io. A prescindere che non è un servizio funzionante così come funziona

lì fuori (ha i suoi ritardi di due giorni). A parte questo non credo che qualcuno di noi dia una lettera in mano a loro per fargliela

vedere. Certo lo possono fare anche quando imbusti, ma almeno così li fai lavorare devono scollare la busta per leggerla. Lunga vita alla

lettera. Per fortuna quest’anno tremendo sta andando via non credo che il nuovo sarà migliore e comunque è sempre la stessa canzone

cambiano solo i musichieri, ma poi è sempre la stessa cosa. In ogni caso spero che l’anno nuovo ci porta a noi qualche soddisfazione in

più.

14 dicembre 2021

***
[…] L’ultima trasmissione di Report non ha per nulla portato a riflessioni più garantiste i vertici del DAP. In uno stato canaglia non

può che avere un’anima infame e contorta che ha il potere di amministrare dopo tutto quello che è successo, stanno ancora a rompere i

coglioni con restrizioni; come se non è successo nulla a Modena, Sollicciano, Ascoli, S Maria ecc.. ecc… Un’arroganza pazzesca

evidentemente si sentono protetti dalla magistratura dalle inchieste, alla fine, anche se sin dall’inizio sapevano benissimo che non

c’erano magie dietro alle proteste e ne tantomeno i morti sono dipesi dal metadone, ci sarò comunque chi sarà il capro espiatorio di

tutto quello che è successo loro ne usciranno sempre immacolati. È il sistema che è cambiato negli anni, questi hanno preso il vero

potere in Italia.
[…] Anche se non fa parte dei miei principi, vedo comunque positivo che in questi processi i carcerati stanno chiarendo tutto quello che

tortuosamente hanno subito, ma alla fine non cambierà nulla e tantomeno pagherà qualcuno di importante, sono troppo potenti questi del

Dap che proteggono a loro volta i direttori delle carceri e i commissari che a loro volta sono protetti dall’intera magistratura. […]
Pensa che il ministro della giustizia in Italia è un Bonafede qualunque. I marpioni magistrati se li mangiano vivi a queste mozzarelle.

In ogni modo la speranza c’è sempre che possa cambiare qualcosa in questo paese e può darsi che inizierà proprio da questi processi.

Milano-Opera, 25 gennaio 2021


NOTIZIE DALLE CARCERI
Segue una rassegna di notizie e informazioni sulle carceri riportate da diversi giornali nazionali e locali. Chiediamo a tutti i

prigionieri di portare contributi diretti sui fatti riportati, in modo tale da liberarci dalla stampa dei sindacati di polizia

penitenziaria e dei governi di turno.

16 febbraio, Roma. Rivolte in carcere e presidi di protesta: le nuove linee guida del capo della polizia. Pianificazione a monte, a

livello provinciale. Attivazione diretta dei comandanti della polizia penitenziaria, scavalcando i direttori delle carceri, da parte dei

questori. Impiego dei reparti Mobili, gli ex celerini, da schierare in caso di rivolte e di manifestazioni di protesta, con una

attenzione particolare alle iniziative organizzate da anarchico-insurrezionalisti. Elicotteri e idranti, protezione aerea e navale.

Coinvolgimento delle Direzioni investigative antimafia, delle teste di cuoio di Nocs e Gis e pure dei militari dell’operazione Strade

sicure. Lo Stato risponde con un atto amministrativo, che codifica procedure e sinergie per prevenire e soprattutto per reprimere future

sommosse e azioni di supporto. Con una circolare datata 29 gennaio, tenuta riservata e destinata a far discutere, il capo della polizia

Franco Gabrielli stabilisce le modalità di pianificazione dei servizi e gli interventi da attuare in caso di agitazioni e ribellioni

dietro le sbarre e di proteste interne o esterne. La declinazione in sede locale delle direttive del capo della polizia è demandata ai

prefetti, chiamati a mettere a punto Pianificazioni generali provinciali con il supporto dei Comitati provinciali per l’ordine e la

sicurezza, «sentite le competenti autorità penitenziarie (direttore di istituto e comandante della polizia penitenziaria locale)» e con

il contributo informativo e propositivo del Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e dei magistrati di sorveglianza.

Le manifestazioni di protesta sotto le mura delle carceri, «specie se di matrice anarchico-insurrezionalista», vengono considerate

«eventi tali da incidere sull’ordine e sulla sicurezza della struttura penitenziaria» e faranno scattare contromisure ad hoc. Il questore

potrà avviare contatti con il comandante della polizia penitenziaria (e non anche il direttore dell’istituto coinvolto, o almeno questo

non è stato esplicitato nella circolare), mettere in campo il reparto Mobile, far levare elicotteri, disporre l’utilizzo di mezzi dotati

di idranti. Viene anche facilitata la possibilità di disporre poliziotti e carabinieri dentro le carceri su decisione dei soggetti

indicati precedentemente. [A chi fosse interessato possiamo inviare la circolare integrale a cui fa riferimento questo articolo].
12 febbraio, Roma. Marta Cartabia, nuova ministra della Giustizia. È stata al vertice della Consulta e professoressa universitaria. Da

costituzionalista e cattolica Marta Cartabia è orientata alla ricerca di una giustizia sociale "dal volto umano" che si fondi sulla

"funzione rieducativa della condanna" e che rispetti i tempi dei giudizi "perché i processi troppo lunghi si tramutano in un anticipo di

pena". Pochi anni fa, sempre a firma della Presidente emerita della Corte Costituzionale, è stato confermato il divieto di acquistare

libri dall’esterno in 41 bis, secondo la allora giudice: “il possesso del libro determinerebbe una posizione di privilegio rispetto agli

altri detenuti".
13 febbraio 2021. Libero Pasquale Zagaria. La sua "scarcerazione" per Covid fece scandalo, la Cassazione ricalcola la pena, Pasquale

Zagaria aveva di fatto già scontato la pena e può, quindi, tornare in libertà.
13 febbraio, Airola (Bn). "Botte a un detenuto", indagati sei poliziotti penitenziari. Chiusa l'inchiesta del pm Tillo su vicenda del

2019 che sarebbe accaduta, nell'Istituto di Airola in provincia di Benevento. Secondo gli inquirenti, durante l'interrogatorio al quale

sarebbe stato sottoposto il 26 aprile, il giovane, che si era assunto la responsabilità del possesso dei due apparecchi, sarebbe stato

costretto a rivelare i nomi di ulteriori responsabili dell'introduzione dei telefonini nel carcere. Mentre era seduto, sarebbe stato

colpito ripetutamente; poi, quando aveva tentato di fuggire, sarebbe stato inseguito lungo il corridoio, messo in un angolo, aggredito e

picchiato. Nel mirino, inoltre, quanto sarebbe avvenuto a distanza di qualche giorno: il 1 aprile, quando al recluso sarebbe stato

intimato di non riferire ciò che gli sarebbe capitato, altrimenti avrebbe rischiato una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale.

Nella stessa circostanza - sostiene l'accusa - gli sarebbe stato detto che se li avesse un po' aiutati, loro avrebbero fatto altrettanto:

il tutto per costringerlo a presentare una dichiarazione orale di rinuncia al diritto di querela.
11 febbraio. Sovraffollamento in carcere, finito l'effetto del decreto Ristori. Nell'ultimo mese il sovraffollamento carcerario è

diminuito di 35 unità, mentre la diffusione del Covid resta stabile. Esaurito l'effetto delle misure deflattive varate dal decreto

Ristori. Nel decreto di gennaio, sono usciti solo 35 detenuti. Al 31 dicembre del 2020, erano presenti 53.364 ristretti, mentre

nell'aggiornamento al 31 gennaio ne risultano 53.329.
9 febbraio. Detenuti: il diritto alla salute prevale sulla detenzione. Per la Cassazione non c'è obbligo di notifica alla persona offesa

in caso di sostituzione della misura detentiva per motivi sanitari (sentenza n. 165/2020). Non sussiste obbligo di notifica alla persona

offesa, in caso di sostituzione della misura detentiva per motivi legati alla salute del detenuto. [Per chi fosse interessato possiamo

inviare il testo della sentenza a cui fa riferimento questo articolo].
6 febbraio 2021. Sconta 6 anni di galera e poi viene assolto: nessun risarcimento per "Cattive frequentazioni". Giulio Petrilli, ex

presidente dell'azienda regionale edilizia e territorio dell'Abruzzo: "Ho scontato sei anni di galera, poi sono stato assolto e non mi

hanno risarcito perché avevo cattive frequentazioni con estremisti di sinistra". "Per aver stabilizzato cinque dipendenti e aver ridotto

l'indennità del direttore da 110.000 euro annui a 39.000 - spiega - volevano farmi fare per abuso d'ufficio otto mesi di carcere e mi

hanno condannato a pagare 160.000 euro.
6 febbraio, Milano. Rivolta nel carcere di Opera, 13 dei 22 detenuti imputati chiedono il patteggiamento. Il 9 marzo, all'inizio del

lockdown, anche nel carcere milanese ci fu una rivolta con danneggiamenti, incendi e minacce al personale. Cinque dei detenuti non hanno

partecipato all'udienza perché positivi al Covid. Sono stati chiesti riti alternativi per 13 dei 22 detenuti imputati per le rivolte al

carcere di Opera avvenute il 9 marzo scorso, subito dopo l'annuncio del lockdown totale a causa della pandemia Covid. Nell'udienza

preliminare che si è tenuta oggi davanti alla gip Daniela Cardamone 8 detenuti hanno chiesto il rito abbreviato e 5 il patteggiamento. La

media delle pene concordate è di un anno e un mese. Le accuse erano a vario titolo di resistenza e minacce a pubblico ufficiale,

danneggiamento e incendio. Da quello che si è saputo, all'udienza preliminare di oggi - che si è tenuta nell'aula Bunker di via Uccelli

di Nemi - non hanno potuto partecipare 5 detenuti, perché positivi al Covid. Altri 4 non hanno fatto richieste di riti alternativi, e

quindi andranno a processo ordinario; per uno di loro, che è straniero, c'è stato un difetto di notifica. Tra le contestazioni a carico

di alcuni detenuti anche quelle di aver tentato di "sfondare" un cancello di una sezione del carcere e di aver "minacciato di morte"

alcuni agenti della polizia penitenziaria. Inoltre, avrebbero provocato un incendio "dando fuoco ai materassi", per distruggere tavoli e

sedie. In quei giorni di emergenza Covid varie rivolte erano scoppiate in diverse carceri italiane. La fase dell'udienza preliminare

dovrebbe concludersi con l'appuntamento previsto per l'11 febbraio, durante il quale la giudice dovrebbe esprimersi in merito alle

richieste.
4 febbraio 2021. Il 54° rapporto del Censis sciorina dati per certi versi sconfortanti se non avvilenti. C'informa, fra l'altro, che sono

quattro su dieci gli italiani favorevoli alla pena capitale. Un dato che inquieta e invita alla riflessione, se si pensa che dieci anni

fa erano la metà.
3 febbraio 2021. La Cedu esaminerà il caso Uva: ammesso il ricorso della famiglia. Nel 2020 la Cassazione aveva confermato l'assoluzione

di due carabinieri e sei poliziotti, accusati della morte di Giuseppe Uva. La Corte Europea dei Diritti Umani (Cedu), ha ammesso il

ricorso presentato dagli avvocati e dalla famiglia di Giuseppe Uva, dopo che nel 2020 la Cassazione aveva confermato l'assoluzione di due

carabinieri e sei poliziotti. Questi i fatti. Nella notte tra il 13 e il 14 giugno 2008 Giuseppe Uva, operaio 43enne di Varese,

probabilmente in stato d'ubriachezza, s'era messo a spostare delle transenne in Via Dandolo, nel centro cittadino. Uditi gli schiamazzi,

i residenti avevano chiamato le forze dell'ordine. Sul posto erano accorse tre volanti, una dei carabinieri, due della polizia. Uva era

stato fermato e tradotto in caserma, secondo i verbali vi era arrivato alle 3.50 insieme all'amico Alberto Biggiogero. Sempre secondo i

verbali, alle 4.11 sul posto era arrivata la Guardia medica, allertata dai carabinieri, la quale aveva deciso di sottoporre Uva a un

trattamento sanitario obbligatorio. Alle 5.45 l'uomo veniva trasferito in ospedale. Verso le dieci del mattino, Giuseppe Uva moriva. Per

la sorella Lucia il suo corpo era quasi irriconoscibile - Lucia Uva ha sempre sostenuto che il corpo del fratello Giuseppe restituito ai

familiari era quasi irriconoscibile, presentava tumefazioni e ferite, aveva i testicoli tumefatti e l'ano presentava tracce di sangue. In

seguito alla denuncia da loro sporta, fu istituito il primo processo, dove sei poliziotti e due carabinieri vennero imputati con l'accusa

di omicidio preterintenzionale e sequestro di persona.
1 febbraio 2021. 41bis: i detenuti al "carcere duro" sono 759, tra i quali 304 sono ergastolani. Sono sparsi in carceri con sezioni

apposite in tutta Italia, ma con una concentrazione massima a L'Aquila, dove sono 152, e ad Opera, dove se ne contano 100. A Sassari sono

91, a Spoleto 81. Emerge dall'ultima relazione sullo stato della giustizia italiana presentata dal ministero della Giustizia Alfonso

Bonafede. Sono 304 quelli hanno ricevuto la sentenza di ergastolo. E tra questi solo per 204 si tratta di una sentenza definitiva.
28 gennaio, Foggia. Detenuto racconta: "Dopo la rivolta picchiati brutalmente da un centinaio di agenti". Si tratta di un'altra inedita

testimonianza, ma il detenuto vuole rimanere anonimo per paure di potenziali ritorsioni. A freddo, qualche giorno dopo la rivolta, e più

precisamente il 12 marzo mattina presto, nel carcere di Foggia avrebbe fatto irruzione un centinaio di agenti con caschi blu, con volto

coperto, scudi e manganelli. "Mentre stavo dormendo - racconta il detenuto a Yairaiha - non mi hanno dato neanche il tempo di alzarmi dal

letto, 2 agenti mi hanno tirato giù dal letto e mi hanno sbattuto con la faccia a terra, mi mantenevano allungato a terra e con la faccia

al pavimento, tenendo un piede in testa e l'altro sul corpo con tutto il loro peso". A quel punto, prosegue il racconto "gli altri 2

pensavano a darmi una scarica di manganellate su tutte le parti del corpo, mentre il quinto agente aveva il ruolo di prendere le fascette

in plastica bianche, tenermi le braccia dietro la schiena con forza e legarmi i polsi, stringendo le fascette in modo di non far

circolare neanche il sangue. In questo modo non potevo neanche coprirmi sia il volto che il corpo dalle scariche di manganellate, calci e

pugni". Poi avrebbero fatto alzare lui e il suo compagno di cella, e l'avrebbero fatti uscire dalla cella facendolo passare in mezzo al

"tunnel". "Lo chiamo così - racconta il detenuto all'associazione Yairaiha - perché tutti e 300 gli agenti erano posizionati nelle

sezioni in 2 file, una fila di fronte all'altra per poi farci passare in mezzo a loro", e dalla sezione fino a verso l'uscita, avrebbero

continuato a dare scariche di manganellate. "Per 10 secondi - prosegue il detenuto nel racconto - ho visto tutto nero sotto quelle

manganellate, ho perso i sensi, ma nonostante ciò non si sono mai fermati con i manganelli, i pugni e i calci, che aumentavano sempre di

più". "Manganellato anche durante il trasferimento" - Dopodiché il detenuto sarebbe stato messo su un furgone, dove avrebbe ricevuto

altre manganellate, e l'hanno trasferito in un altro carcere scalzo e solo con il pigiama e da lì l'avrebbero trasferito in un altro

carcere. La testimonianza prosegue: "Mi hanno chiuso in una stanza blindata dove non c'era niente, era vuota, neanche lo sgabello per

sedermi e mi hanno tenuto una giornata senza bere, mangiare e non mi hanno fatto andare neanche in bagno, minacciandomi che se chiedevo

qualcosa mi avrebbero continuato a picchiare, peggio di quanto avevo già avuto". Testimonia sempre il detenuto all'associazione che per

40 giorni avrebbe convissuto con dolori in tutto il corpo, soprattutto la testa dove avrebbe preso più colpi. "Avevo troppi dolori

durante la notte - racconta sempre a Yairaiha - non riuscivo neanche a dormire, e quando chiedevo di essere visitato, mi facevano

attendere".
28 gennaio 2021, Siena. Torture nel carcere di Ranza, chieste 10 condanne. Il video dell'aggressione in alula. L'avvocato del Garante

nazionale dei detenuti: "Le immagini ricostruiscono quanto accaduto in carcere". Dieci condanne per concorso in tortura. A chiederle è

stato il pm Valentina Magnini, declinando in quasi tre ore il comportamento degli agenti della penitenziaria che quell'11 ottobre 2018

presero parte a una sorta di spedizione punitiva, questa la convinzione della procura, nei confronti di un detenuto tunisino dentro per

droga e una serie di furti. Tutti hanno optato per il rito abbreviato: per otto il pm ha chiesto la condanna a 3 anni, per un assistente

capo (l'unico difeso dall'avvocato Stefano Cipriani, gli altri vengono assistiti da Manfredi Biotti) a 2 anni, per un agente scelto ad un

anno e 10 mesi.
28 gennaio 2021. Cisco Italia: "Pronti a dotare di sale per videoconferenza tutte le carceri italiane". Sale videoconferenze in tutte le

carceri italiane, per permettere a tutta la popolazione detenuta, in particolare modo le donne, di potere mantenere collegamenti audio

video con i propri cari, nel perdurare delle maggiori restrizioni alla socialità imposte da quasi un anno di Covid ai detenuti e alle

detenute. È questa l'offerta di Cisco Italia al sistema penitenziario nazionale, totalmente gratuita, in quanto inclusa nel programma di

responsabilità sociale dell'azienda leader nel settore del networking e intelligenza artificiale. L'azienda è già oggi impegnata in 55

carceri con Cisco Academy, il progetto di formazione a distanza destinato alla popolazione detenuta. Con la proposta dell'Ad Santoni

l'iniziativa potrebbe coprire il fabbisogno di contatti e relazioni virtuali delle altre 128 case di reclusione italiane.
29 gennaio 2021, Ferrara. Detenuti picchiati, agenti in aula. Si è aperto ieri mattina, con l'udienza filtro, il processo a carico di un

ispettore di Polizia penitenziaria al tempo dei fatti e dell'allora collega Sovrintendente della stessa Penitenziaria. I fatti che

vengono loro contestati sarebbero accaduti tra la fine del 2016 e giungo 2017 nei confronti di un detenuto nel carcere di via Arginone.

Secondo le contestazioni che sono mosse dal pubblico ministero Isabella Cavallari, i due in concorso sono accusati di aver percosso e

minacciato un detenuto, in modo tale da indurlo a raccontare fatti relativi ad altri carcerati "il tutto aggravato dall'odio razziale",

secondo la tesi sostenuta dal pm Cavallari. Sempre in concorso abusavano del loro potere di controllo sui detenuti con eccessive 'misure

di rigore reiteratè, che comprendevano anche le percosse.

Milano, febbraio 2021


Sullo sciopero del 28-29 gennaio e sulla lotta in Fedex-TNT
L’annuncio del piano di ristrutturazione di FedEx arriva in periodo già caldo dal punto di vista sindacale. Prima della comunicazione dei

tagli di personale in Europa, il sindacato di base SI Cobas aveva già avviato una mobilitazione nazionale, che è scaturita con uno

sciopero di due giorni dei lavoratori dell’intera filiera iniziato la notte del 18 gennaio 2021 e che è proseguito nelle due giornate di

sciopero generale del 28 e 29 gennaio lanciate dal “patto d'azione anticapitalista - per il fronte unico di classe” che ha nel SI Cobas

la sua forza trainante.
I principali impianti di FedEx e TNT hanno aderito allo sciopero e ci sono stati scioperi nelle piattaforme di Milano, Bologna, Parma,

Piacenza, Roma, Fidenza, Modena e Napoli con differente intensità a seconda della forza maturata dai lavoratori dei singoli magazzini.
A Piacenza si è registrata la forza maggiore con una adesione totale che ha bloccato l'ingresso dei camion per oltre 10 giorni resistendo

anche ad una imponente carica della polizia che ha poi preferito ritirarsi di fronte all'arrivo di centinaia di lavoratori accorsi da

altri magazzini logistici della zona. I facchini di Piacenza sono stati i primi, nel 2011, a rivoltarsi contro questo sistema di

sfruttamento, contribuendo con i loro scioperi ad aprire una straodinaria stagione di avanzamenti e di conquiste in termini salariali e

di tutele sui luoghi di lavoro; oggi sono il magazzino che sta rispondendo colpo su colpo e in maniera più radicale all'attacco

padronale.
La notte dell'8 febbraio, in un incontro in Prefettura, i dirigenti di Fedex-TNT accettano le richieste avanzate dal sindacato che

riguardano l'attuazione di veri protocolli di prevenzione dei contagi da Covid sui luoghi di lavoro e il pagamento dei premi di risultato

del 2020 ma svincolati dalla produttività e come riconoscimento ai lavoratori per aver continuato ad operare durante il periodo in

condizioni proibitive.
Va tenuto conto che dopo aver acquisito TNT, FedEx si è sfilata dalla principale associazione padronale delle aziende del settore

logistico (Fedit) che in anni di scontri con il SI Cobas si era trovata costretta a negoziare e dunque a riconoscere quel sindacato come

interlocutore e che nelle lotte dei mesi precedenti aveva invece rifiutato ogni confronto.
I lavoratori di FedEx hanno scioperato anche nello hub dell’aeroporto di Liegi, in Belgio. In questo caso soprattutto contro il piano di

ristrutturazione europeo annunciato dalla statunitense FedEx, che prevede tagli fino a 6.300 unità, confermando il suo piano per

eliminare 671 posti di lavoro dalla sua operazione all'aeroporto di Liegi, su un totale di 1.700. Sono attesi, ma ancora da confermare,

fino a 50 tagli di posti di lavoro presso FedEx all'aeroporto di Bruxelles a Zaventem, nonché una revisione dell'orario di lavoro di 861

dei lavoratori rimanenti a Liegi.
In Italia la situazione è ancor più confusa infatti i licenziamenti a cui fa riferimento la multinazionale sarebbero indirizzati verso i

lavoratori diretti. E le migliaia di lavoratori assunti in appalto, ovvero la stragrande maggioranza dei lavoratori magazzinieri e

driver? Nessuna risposta certa.
FedEx ha rilevato l'olandese TNT nel 2016, riunendo due importanti reti di trasporto, sia in aereo che su strada. All'epoca la nuova

società madre aveva affermato che ci sarebbe stato un effetto limitato sui posti di lavoro, poiché prevedeva nuove opportunità per le

consegne di pacchi. Ora, con l’esplosione della pandemia, tutto diventa lecito.
FedEx ha anche deciso di mantenere il suo hub principale per l'Europa, il Medio Oriente e l'Africa all'areoporto di Parigi-Charles-De

Gaulle, frustrando le speranze che l'acquisizione di TNT potesse invece vedere il passaggio all'hub a Liegi.
Parigi è il principale hub in Europa dal 1999 ma ha trasferito la sua sede europea a Hoofddorp, a due passi dall'aeroporto di Schiphol

nei Paesi Bassi, dove aveva sede TNT.
La perdita di posti di lavoro a Liegi, come dicevamo, fa parte di una ristrutturazione che comporterà la perdita da 5.500 a 6.300 posti

di lavoro in tutta Europa. FedEx inizierà quindi la procedura di negoziazione sui licenziamenti collettivi, nota come “legge Renault”.
Il 20 gennaio i lavoratori di Liegi hanno iniziato uno sciopero di 48 ore che non ha permesso agli aerei del trasporto merci di

raggiungere la destinazione.
Sono dunque state giornate roventi per i lavoratori della FedEx-TNT in Italia come in Europa. La decisione dell’azienda comunque non è

arrivata inaspettata, da quando FedEx ha acquisito la TNT si è parlato spesso di riduzioni di personale e ristrutturazioni aziendali e

già in Italia c’è stata una prima ondata di questo genere quattro anni fa.
Per quanto riguarda lo sciopero nei confini nazionali si può dire che sia riuscito, tanto che l’azienda ha dovuto diramare un comunicato

in cui si dichiara che i servizi nazionali e internazionali di ritiro e consegna sono momentaneamente sospesi nelle filiali servite dai

magazzini di Bologna, Brescia, Modena e Napoli. Ovviamente la responsabilità viene scaricata ancora una volta, e non è la prima, sui

lavoratori in sciopero.
Su quest’ultimo punto in particolare è necessario fare una riflessione molto importante. Mesi fa, di fronte al licenziamento di 60

lavoratori interinali nel magazzino di Peschiera Borromeo a Milano e il conseguente blocco nazionale indetto dal sindacato, FedEx

accusava le sigle sindacali combattive per eventuali tagli al personale scaricando tutta la crisi sull’ultima ruota del carro: gli

operai. Oggi, a mesi di distanza, magari FedEx vorrebbe raccontare ancora la storia secondo cui una ristrutturazione continentale che

porterà al licenziamento di migliaia di lavoratori e lavoratrici sia dovuta agli scioperi di un paio di organizzazioni sindacali in un

paese dell’Unione Europea? Sarebbe ovviamente ridicolo.
In realtà la multinazionale da anni, dopo l’acquisizione di TNT, perde posizioni verso la concorrenza sempre più spietata degli altri

giganti del settore, Amazon in testa, e questa crisi la vuole scaricare su migliaia di lavoratori che fino a qualche anno fa non si

vedevano riconosciuti nessun diritto per quanto basilare, spesso stranieri (almeno in Italia), sempre ipersfruttati con il sistema di

appalti e subappalti affidati a cooperative quantomeno ambigue. Da allora i tempi sono cambiati e molti di quei diritti negati i

lavoratori se li sono guadagnati con giorni e giorni di sciopero e blocchi, resistendo alla repressione e alle minacce.
Rispetto alle due giornate di sciopero e moblitazione del 28-29 gennaio si è resistrata l’adesione di un segmento dei lavoratori della

scuola, del comparto multiservizi, della sanità, delle poste, di diverse fabbriche metalmeccaniche, del tessile, dei porti e del

trasporto ferroviario. Un dato, anche se minoritario, che non è passato inosservato ai piani alti del padronato e delle istituzioni, così

come non sono passate inosservate le mobilitazioni studentesche e le iniziative di piazza indette in decine di città a supporto delle

ragioni politiche, sindacali e sociali alla base della mobilitazione e, soprattutto, l’ennesima dimostrazione di forza messa in campo dai

lavoratori della logistica, protagonisti del terzo sciopero nazionale in soli 4 mesi.
Oltre alla manifestazione in P.za del Duomo a Milano del 29 gennaio, una buona partecipazione si è registrata anche a Torino, a Brescia e

nella piazza studentesca promossa dalla FGC a Roma, mentre a Napoli la lotta dei lavoratori si è saldata fisicamente con quella dei

disoccupati con un blocco a oltranza dei Terminal portuali che ha paralizzato la città per oltre 10 ore e l'8 febbraio i disoccupati

organizzati nel "Movimento di lotta 7 novembre" hanno occupato gli uffici locali dell'ispettorato del lavoro con l'intento di "far

partire immediatamente attività e progetti utili per i quartieri, le città e i territori, che diano un salario ai proletari che lottano".

A Bologna si è svolto un presidio nel pressi dell’ufficio immigrazione per porre l’accento sulla condizione di doppia oppressione dei

lavoratori stranieri.
Infine va detto che queste mobilitazioni si inseriscono in un contesto molto caldo in tema di occupazione e, soprattutto, di

discoccupazione, mancanza di reddito e precarietà.
Nel 2020 i siti coinvolti dalla cassa integrazione straordinaria (aziende in crisi) hanno conosciuto un incremento del 721% sul 2019. Sei

milioni di lavoratori e lavoratrici hanno subito la cassa con relativo taglio del salario (perdendo complessivamente 11 miliardi di

reddito). Banca d’Italia parla di 500.000 licenziamenti “sospesi” che scatterebbero immediatamente con lo sblocco dei licenziamenti

previsto per il 31 marzo. Inoltre i licenziamenti non saranno limitati alle aziende cosiddette decotte o “zombie”, per usare i termini

padronali. Anzi: Confindustria è disponibile ad un ulteriore rinvio dello sblocco per le aziende coperte dalla cassa Covid (per loro

gratuita), mentre chiede libertà di licenziare per le aziende “sane” che devono ristrutturare. Già il governo Conte aveva aperto a questo

scenario, a maggior ragione lo farà Draghi. Dunque, centinaia e migliaia di aziende, anche di grandi o medie dimensioni, saranno

investite da questo processo. La bomba sociale è di tale dimensione che padroni e burocrazia sindacale cercano in tutti i modi di

disinnescarla attraverso la gestione degli ammortizzatori sociali. Lo stesso rinvio concordato della data di sblocco a fine marzo

riflette una preoccupazione comune circa la governabilità del conflitto.
Milano, febbraio 2021


No Tap. A che punto siamo?
Tap (Trans Adriatic Pipeline) fa parte del corridoio energetico che dovrebbe trasportare
gas dall’Azerbaigian al nord Europa passando per l’Italia, dove approda sulle coste più
meridionali della Puglia. Costruttore dell’opera è un consorzio multinazionale di imprese fra cui British Petroleum, Socar e Snam.

L’opera è considerata strategica per l’interesse comunitario e nazionale anche se il gas trasportato in questa condotta non sarà mai

usufruito dall’Italia che, di fatto, rimane nulla più che una servitù di passaggio.
Il punto di approdo in Italia ricade nella marina di Melendugno in provincia di Lecce, precisamente a San Foca, un piccolo centro che

vive di turismo estivo e pesca. Si tratta di un’area priva di impianti industriali, con un ecosistema piuttosto vario, con spiagge, costa

rocciosa, uliveti e macchia mediterranea.
La notizia del progetto, giunta nel 2010, ha da subito messo in allarme la popolazione che, attraverso un comitato cittadino supportato

da alcuni amministratori locali, ha intentato varie iniziative legali contro il progetto. Sebbene il lavoro del comitato sia servito a

informare e allertare un gran numero di abitanti, non è riuscito a fermare l’iter autorizzativo dell’opera che nel 2017 è entrato nella

sua fase costruttiva. Il consorzio però non aveva considerato l’opposizione popolare all’opera: la sua valutazione d’impatto socio

ambientale, infatti, descriveva gli abitanti del luogo come gente mansueta e accondiscendente che avrebbe accettato l’impianto senza

creare problemi.
Che gli arguti consulenti di Tap si sbagliavano sarebbe diventato evidente con l’inizio dei lavori di espianto degli ulivi. In quei

giorni e in quelli successivi, le ruspe di Tap avrebbero trovato le strade barricate o presidiate da cordoni di manifestanti. Il lavoro

di espianto degli ulivi, poi circondati da una cintura di jersey e filo spinato, sarebbe proseguito nei mesi successivi con molti

rallentamenti e comunque sempre protetto da ingente dispiegamento di forze dell’ordine.
Intanto, di fronte al cantiere di San Basilio era nato un presidio costantemente abitato, dove si organizzava la resistenza al cantiere,

si tenevano assemblee, pranzi, cene, feste e discussioni. Per due anni l’impegno dei Notap è stato costante nell’intento di inceppare i

lavori: dai disturbi sotto le stanze degli alberghi che ospitavano maestranze e forze dell’ordine, all’occupazione degli alberi per

impedirne espianti e potature; dalle manifestazioni per le strade di Lecce e Melendugno, ai blocchi delle betoniere sulle strade

provinciali. Tutto è servito a dare filo da torcere a Tap e ai suoi protettori in divisa.
Poi, quando la stanchezza ha cominciato a farsi sentire e la repressione poliziesca a presentare il conto in termini di multe

salatissime, manganellate, fermi e pure l’arresto di un compagno, è stata la politica a dare una bella mano a Tap, grazie ai suoi falsi

oppositori: i rampanti paladini delle Cinque Stelle. Promettendo il blocco dell’opera non appena saliti al potere, questi miserabili

hanno immediatamente tradito ogni impegno, lasciando sgomenti i tanti ingenui elettori da cui avevano ricevuto una valanga di voti.
Oggi la conduttura sottomarina del gasdotto è arrivata a San Foca dove è stata costruita la centrale di ricezione del gas: 12 ettari di

impianti industriali a pochi chilometri da quattro centri abitati. In realtà, la centrale non è ancora operativa essendo ancora in fase

di collaudo e non essendo ancora stato realizzato il collegamento con la rete nazionale Snam. Molti dubitano che Tap entrerà mai davvero

in funzione, forse a causa dell’instabilità geopolitica che influenza gli accordi internazionali sull’energia, forse a causa delle

perversioni della burocrazia italiana, oppure a causa della reale scarsità dei giacimenti azeri nel Caspio.
Quello che sappiamo di sicuro è che stanno per arrivare a sentenza i molti processi a carico dei Notap. Circa un centinaio di imputati,

accusati di reati come violenza e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, manifestazione non autorizzata, violazione del foglio

di via e violazione dell’ordinanza prefettizia che aveva vietato l’avvicinamento ai cantieri, stabilendo una vera e propria “zona rossa”.

La questura di Lecce si è adoperata in un lavoro certosino di raccolta di materiale su cui fondare l’incriminazione degli oppositori,

non risparmiandosi in zelo e sprezzo del ridicolo, fino a testimoniare in tribunale di oltraggi contro le forze dell’ordine compiuti

esibendo il dito medio ad un elicottero in volo! Se ne può ridere a crepapelle ma non c’è da stare allegri.
Intanto, tre dei procedimenti penali più corposi, celebrati nell’aula bunker del carcere di Lecce, dovrebbero concludersi a metà marzo.

Uno di questi, riguarda la presunta violazione della “zona rossa” quando una cinquantina di manifestanti si avvicinarono al cantiere per

essere inseguiti, fermati e ammanettati dalla polizia, in piena campagna, per poi essere portati in questura. Il reato contestato in

questo procedimento è formalmente la violazione di un’ordinanza prefettizia, un reato punito con una contravvenzione. Anche per questo fa

specie che il PM titolare del procedimento sia un Procuratore Antimafia. Sembra proprio che le prerogative dell’Antimafia si attaglino

sempre di più e sempre meglio alle faccende di ordine pubblico, così confermando la liceità dell’acronimo D.D.A.A., con cui alla vecchia

denominazione della direzione distrettuale antimafia si aggiunge la parola “antiterrorismo”. Naturalmente, questa non è un’altra storia ma

avrebbe bisogno di molto altro spazio per essere analizzata.

Lecce, 26 gennaio 2020
Compagne/i Notap

Signornò!
Da un interessante dossier prodotto dal Centro di documentazione contro la guerra – intitolato La guerra che verrà… – riprendiamo questa

lettera con cui una sessantina di studenti israeliani di diciotto anni dichiara di non voler prender parte, accettando la coscrizione

militare, all’oppressione del popolo palestinese.

Siamo un gruppo di diciottenni israeliani a un bivio. Lo stato israeliano chiede la nostra coscrizione nell’esercito. Si presume una

forza di difesa che dovrebbe salvaguardare l’esistenza dello Stato di Israele. In realtà, l’obiettivo dell’esercito israeliano non è

difendersi da forze armate ostili, ma esercitare il controllo su una popolazione civile. In altre parole, la nostra coscrizione

all’esercito israeliano ha un contesto politico e molte implicazioni. Ha implicazioni, in primo luogo, sulla vita del popolo palestinese

che ha vissuto sotto l’occupa­zione violenta per 72 anni. In effetti, la politica sionista di brutale violenza ed espulsione dei

palestinesi dalle loro case e dalle loro terre è iniziata nel 1948 e da allora non si è più fermata. L’occupazione sta anche avvele­nando

la società israeliana: è violenta, militarista, oppressiva e sciovinista. È nostro dovere opporci a questa realtà distruttiva unendo le

nostre lotte e rifiutando di servire questi sistemi violenti, primo fra tutti quello mili­tare. Il nostro rifiuto di arruolarci

nell’esercito non significa voltare le spalle alla società israeliana. Al contrario, il nostro rifiuto è un’assunzione di responsabilità

delle nostre azioni e delle loro ripercussioni.
L’esercito non è solo utile per l’occupazione, ma è l’occupazione. Piloti, unità di intelligence, impiegati amministrativi, soldati

combattenti, stanno tutti mettendo in atto l’occupazione. Uno lo fa con una tastiera e l’altro con una mitragliatrice a un posto di

blocco. Nonostante ciò, siamo cresciuti all’ombra dell’ideale simboli­co del soldato eroico. Gli abbiamo preparato cesti di cibo durante

le festività, abbiamo visitato il carro armato in cui ha combattuto, abbiamo fatto finta di essere il soldato nei programmi preparatori

alla leva militare al li­ceo e abbiamo venerato la sua morte nel giorno della commemorazione. Il fatto che siamo tutti abituati a questa

realtà non la rende apolitica. L’arruolamento, non meno che il rifiuto, è un atto politico. Siamo abituati a sentire che è legittimo

criticare l’occupazione solo se abbiamo preso parte attiva nel farla rispettare. Come dire che per protestare contro la violenza

sistemica e il razzismo, dobbiamo prima essere parte del sistema stesso di oppressione che stiamo criticando?
Il percorso su cui ci imbarchiamo dall’infanzia, di un’educazione che insegna violenza e rivendicazioni sulla ter­ra, raggiunge l’apice

all’età di 18 anni, con l’arruolamento nell’esercito. Ci viene ordinato di indossare l’uniforme militare macchiata di sangue e di

preservare l’eredità della Nakba e dell’occupazione. La società israeliana è sta­ta costruita su queste radici marce, ed è evidente in

tutti gli aspetti della vita: nel razzismo, nell’odioso discorso politico, nella brutalità della polizia e altro ancora.
Questa oppressione militare va di pari passo con l’oppressione economica. Mentre i cittadini dei territo­ri palestinesi occupati sono

impoveriti, le élite ricche diventano più ricche a loro spese. I lavoratori palestinesi vengono sistematicamente sfruttati e l’industria

delle armi utilizza i Territori palestinesi occupati come banco di prova e come vetrina per sostenere le sue vendite. Quando il governo

sceglie di sostenere l’occupazione, agisce contro il nostro interesse di cittadini: grandi porzioni di denaro dei contribuenti stanno

finanziando l’industria della “sicurezza” e lo sviluppo di insediamenti invece di welfare, istruzione e salute.
L’esercito è un’istituzione violenta, corrotta e corruttrice fino al midollo. Ma il suo peggior crimine è imporre la politica distruttiva

dell’occupazione della Palestina. I giovani della nostra età sono tenuti a prendere parte a far rispettare le chiusure come mezzo di

“punizione collettiva”, arrestare e incarcerare minori, ricattare per reclutare “collaboratori” e altro ancora – tutti questi sono

crimini di guerra che vengono eseguiti e insabbiati ogni giorno. Il governo militare violento nei Territori palestinesi occupati è

applicato attraverso politiche di apartheid che comportano due diversi sistemi legali: uno per i palestinesi e l’altro per gli ebrei. I

palestinesi sono costantemente messi a confronto con misure antidemocratiche e violente, mentre i coloni ebrei che com­mettono crimini

violenti – in primo luogo contro i palestinesi ma anche contro i soldati – sono “ricompensati” dai militari israeliani che chiudono un

occhio e nascondono queste trasgressioni. I militari impongono l’assedio a Gaza da oltre dieci anni. Questo assedio ha creato una

massiccia crisi umanitaria nella Striscia di Gaza ed è uno dei principali fattori che perpetua il ciclo di violenza di Israele e Hamas. A

causa dell’assedio, a Gaza non c’è acqua potabile né elettricità per la maggior parte delle ore della giornata. La disoccupazione e la

povertà sono pervasive e il sistema sanitario è privo dei mezzi più basilari. Questa realtà è la base sulla quale è interve­nuto il

disastro del COVID-19 che ha peggiorato le cose a Gaza.
È importante sottolineare che queste ingiustizie non sono un evento occasionale o un allontanamento dalla via maestra. Queste ingiustizie

non sono un errore o un sintomo, sono la politica e la malattia. Le azioni delle forze armate israeliane nel 2020 non sono altro che una

continuazione e il sostegno dell’eredità del massa­cro, dell’espulsione di famiglie e del furto di terre, l’eredità che ha “consentito”

l’istituzione dello Stato di Israe­le, come un vero stato democratico, per Soli ebrei.
Storicamente, l’esercito è stato visto come uno strumento al servizio della politica del “crogiolo”, come un’istituzione che intreccia le

divisioni di classe sociale e di genere presenti nella società israeliana. In realtà, questo non potrebbe essere più lontano dalla

verità. L’esercito sta attuando un chiaro programma di “canalizza­zione”; i soldati della classe medio-alta sono incanalati in posizioni

con prospettive economiche e civili, mentre i soldati provenienti da contesti socioeconomici inferiori sono incanalati in posizioni ad

alto rischio mentale e fisico e che non forniscono lo stesso vantaggio nella società civile. Allo stesso tempo, la rappresentanza femmi­

nile in posizioni violente come piloti, comandanti di carri armati, soldati di combattimento e ufficiali dell’intel­ligence, viene

pubblicizzata come un’impresa femminista. Che senso ha che la lotta contro la disuguaglianza di genere sia raggiunta attraverso

l’oppressione delle donne palestinesi? Questi “risultati” eludono la solidarietà con la lotta delle donne palestinesi. I militari stanno

cementando questi rapporti di potere e l’oppressione delle comunità emarginate attraverso una cinica cooptazione delle loro lotte.
Chiediamo ai senior delle scuole superiori (shministiyot) della nostra età di porsi una domanda: cosa e chi stiamo servendo quando ci

arruoliamo nell’esercito? Perché ci arruoliamo? Quale realtà costruiamo serven­do nell’esercito dell’occupazione? Vogliamo la pace e la

vera pace richiede giustizia. La giustizia richiede il ri­conoscimento delle ingiustizie storiche e presenti e della continua Nakba. La

giustizia richiede riforme sotto forma di fine dell’occupazione, fine dell’assedio di Gaza e riconoscimento del diritto al ritorno per i

profughi palestinesi. La giustizia richiede solidarietà, lotta congiunta e rifiuto.

17 febbraio 2021, da ilrovescio.info