indice n.132

Appello per la manifestazione NO MUOS di Ragusa del 19 maggio
Milano: corteo contro Eni, devastazioni e guerre
CPR e HUB: RIVOLTE, RISTRUTTURAZIONI, DEPORTAZIONI
ARRESTI E OMICIDI DI STATO ALLA FRONTIERA FRA ITALIA-FRANCIA
Con il compagno Musa Asoglu in carcere in Germania
L’AQUILA, 4 MAGGIO 2018: ANCORA AL FIANCO DI CHI LOTTA
lettera dal carcere di spoleto (pg)
lettera dal carcere di carinola (ce)
lettera dal carcere di agrigento
Lettera dal carcere di monteacuto (An)
9 giugno: Presidio al carcere di Monza
Iniziative sotto le carceri del Piemonte
lettera DAL CARCERE DI TRIESTE (ts)
lettera dal carcere de l’isola Gorgona
Lettera dal carcere di Massama (or)
lettere dal cacere di lucca
Quali alternative alla pena della schiavitù?
da una lettera dal carcere di San Vittore (Mi)
Lettera dal carcere di Teramo
lettera dal carcere di sulmona (aq)
lettera dal carcere di nuoro
La primavera francese 2018


Appello per la manifestazione NO MUOS di Ragusa del 19 maggio
Il Movimento NO MUOS prosegue la mobilitazione con la prima delle due manifestazioni dislocate nei territori, organizzate per rafforzare il percorso verso il campeggio dal 2 al 5 agosto e la manifestazione nazionale contro la base della Marina militare degli Stati Uniti.
Il recente pronunciamento del tribunale di Caltagirone, che ha assolto 4 dei 7 imputati del reato di abusivismo edilizio, non ha scalfito la nostra volontà di opposizione alla struttura militare satellitare americana. I venti di guerra che soffiano sempre più forti, e che vedono la Sicilia assumere un ruolo fondamentale nella campagna militare dell’imperialismo USA, grazie alle basi di Sigonella, Augusta e Niscemi, si vanno ad intrecciare con le politiche dello Stato italiano, improntate alla subalternità verso le scelte guerrafondaie degli “alleati” e a un’economia di guerra che sperpera 64 milioni di euro al giorno a scapito delle classi più deboli, del Meridione, dei servizi essenziali.
La lotta contro il MUOS oltre a contrastare le politiche di aggressione militare degli USA: è anche un impegno contro la distruzione del territorio e della sua popolazione mediante immissione di nocività in loco e bombardamenti altrove, contro l’arroganza con cui la democrazia borghese calpesta le sue stesse regole, soprattutto è una mobilitazione internazionalista condotta insieme a chi in ogni angolo del Mondo, combatte e resiste contro i regimi dittatoriali, gli imperialismi, i progetti distruttivi del capitale. Lottiamo per l’autodeterminazione dei popoli e per il diritto di tutte e di tutti a una vita libera fatta di uguaglianza con giustizia sociale.
Per questo il movimento NO MUOS nell’alzare le proprie bandiere sa di innalzare anche quelle dei movimenti NO TAV, NO TAP, NO Grandi Navi, NO Dal Molin e di ogni realtà grande e piccola che, in maniera autorganizzata mediante la pratica della democrazia partecipativa e dell’azione diretta, rivendichi il diritto delle popolazioni a decidere sul proprio destino.
Per tutte e tutti coloro che in questi anni, hanno ostacolato la costruzione del MUOS di Niscemi e altri progetti militari come Punta Izzo (Augusta), o la base di Sigonella, combattere il militarismo rappresenta l’impegno contro una strategia colonialista che assegna alla Sicilia un ruolo di portaerei al centro del Mediterraneo, di frontiera armata contro i paesi che si affacciano su questo mare e trincea dalla quale respingere i migranti che fuggono dalle loro terre a causa delle guerre, delle carestie, della miseria provocata dalle medesime politiche imperialiste che hanno condannato la nostra isola a questo ruolo infame. La micidiale agenzia europea Frontex determina le politiche di respingimenti e di morte di donne, uomini e bambini armando la guardia costiera libica e criminalizzando le Ong delle navi umanitarie come Open Arms e Juventa.
Lottare contro il MUOS, per la smilitarizzazione della Sughereta di Niscemi, della Sicilia e del Mediterraneo significa costruire una società libera dallo sfruttamento patriarcale e dalla devastazione ambientale. Le logiche capitalistiche che ci condannano alla disoccupazione e alla precarietà, che ci impongono una industrializzazione selvaggia e devastante, che fondano sui sistemi di potere mafiosi il mantenimento dell’ordine sociale, determinando emigrazione, razzismo, guerra fra poveri, sono le stesse che prevedono una Sicilia militarizzata a difesa dell’ordine imperialista degli interessi privatistici e delle Multinazionali.
No alle guerre, al capitalismo e all’imperialismo. Per la smilitarizzazione del Mediterraneo! Invitiamo i movimenti e tutte le realtà in sintonia con questo appello ad aderire alla manifestazione di Ragusa del 19 maggio, alla successiva di Caltagirone del 30 giugno e al campeggio NO MUOS del 2/5 agosto con la manifestazione nazionale.
Concentramento il 19 maggio alle ore 15 in via Zama (stazione bus) a Ragusa. Corteo per le vie cittadine; conclusione in piazza S. Giovanni con un’assemblea popolare.
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COMUNICATO NO MUOS – SULLA GIORNATA DI MOBILITAZIONE A SIGONELLA DEL
Come movimento No MUOS ci siamo mobilitati arrivando fino alla Base Militare U.S.A. di Sigonella in risposta alla grande escalation bellica che ha visto come protagonista principale la Sicilia (col mortifero triangolo di basi militari di Sigonella, Niscemi e Augusta) nell’ultimo attacco in Siria orchestrato dal governo americano.
Nonostante la macchina della repressione, nonostante le disastrate condizioni di strade e autostrade di una Sicilia al collasso per favorire un’economia guerrafondaia e nonostante i tempi brevi che disponevamo per dare una significativa risposta, sono state presenti centinaia di manifestanti da tutta l’isola (e non solo).
Da anni denunciamo pubblicamente i grandi pericoli connessi alle politiche militariste e imperialiste rompendo la narrazione menzognera di un Italia neutrale impiegata in innocue missioni di “pace”. Tali missioni militari tolgono puntualmente le risorse territoriali e sociali, impoverendo la nostra economia e la nostra dignità, incidendo drammaticamente sul destino di popolazioni lontane che sono poi costrette a scappare dalle loro terre, dove i governi occidentali invece di portare democrazia vanno a portare guerra, morte, distruzione e ingiustizia.
Uno dei pericolo più grandi oggi, oltre alla rassegnazione, è la totale deviazione delle informazioni che subiamo dai vertici dei mass media. Da anni proviamo a smascherare questo apparato di menzogne mostrando la vera immagine della occupazione militare U.S.A in Sicilia.
Andando a Sigonella abbiamo ancora una volta dimostrato che non è vero che “Le basi militari sono sacre e intoccabili”, portando simbolicamente la nostra solidarietà a quelle popolazioni della Siria, del Rojava, della Palestina e di tutte quelle altre parti del mondo dove si subiscono attacchi interni o esterni che impediscono reali processi di autodeterminazione. Crediamo nella possibilità di costruire percorsi aperti, affinché l’ostilità ad ogni base militare diventi popolare e si trasformi in azione concreta, incoraggiando la sana diffidenza che ogni popolo oppresso prova nei confronti di ogni divisa, recinto e confine.
Come movimento NO MUOS reputiamo quindi la giornata del 21 aprile un ulteriore passo avanti di una mobilitazione ampia, che vede protagoniste diverse realtà e individui che si coordinano in una lotta di resistenza, facendo di ogni diversità di pratiche e visioni una ricchezza, credendo fermamente che solo unendo la nostra lotta con quella dei No TAV, NO TAP, NO SNAM, delle compagne e dei compagni nelle ZAD in Francia, e di chi in tutto il mondo lotta contro lo sfruttamento dei territori e l’oppressione dei popoli, si possa uscire dall’immobilismo.
Teniamo vivo in questo Sud del mondo un importante riferimento, che ha dimostrato essere sia popolare e sia pronto a portare avanti un percorso radicale con spirito di solidarietà internazionalista, in difesa di ogni popolazione colpita da guerre e interessi transnazionali, multinazionali, capitalisti. No Muos! No Sigonella! No War! La lotta non si arresta!

Movimento NO MUOS
aprile 2018, da nomuos.info

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Resoconto sull’ultima notte contro Tap
Nella notte tra il 10 e l’11 di aprile 2018 Tap ha iniziato a preparare le basi per l’ampliamento dell’opera, lungo gli 8 km di tracciato tra il pozzo di spinta sito a San Basilio e l’area designata per il terminale di ricezione. Nelle prime ore della notte si è riunita quindi una quarantina di oppositori a Tap.
Celere e digos in forze erano già piazzati per garantire il transito degli autotrasporti, che portavano nuove tonnellate di jersey. I convogli sono stati il bersaglio di continui blocchi nel mezzo della strada provinciale, con spargimenti e lanci di pietre per rallentare le cariche della polizia contro i manifestanti.
La nottata di lotta ha proseguito tra la provinciale e l’entrata di Melendugno, fino a quando un’ennesima carica dei celerini ha portato al fermo di due compagne e un compagno. Quest’ultimo, dopo le identificazioni, è stato l’unico ad essere trattenuto, condotto prima in questura, poi posto in stato di arresto. I capi d’accusa di cui la stampa locale starnazza sono resistenza, violenza, lesioni aggravate, getto pericoloso e violazione del foglio di via dal comune di Melendugno.
Saverio è ora recluso nel carcere di Lecce, dove nel pomeriggio di giovedì 11 tantissimi solidali si sono radunati urlando di rabbia e d’affetto per il nostro compagno, in un presidio animato da musica, cori, saluti amplificati e omaggi pirotecnici.
Seguiranno giornate ancora più intense, l’occupazione militare di Tap sul Salento aumenta il passo, la ferocia della polizia è sempre più asfissiante. Le nostre forze devono riversarsi senza risparmio di colpi. Allo stesso tempo fondamentale è la solidarietà a Saverio, la sua tenacia batte forte nel cuore della nostra lotta, che non sarà mai piegata dalle intimidazioni dello Stato. Nessuna rete, nessun blocco, nessuna gabbia potrà fermare la nostra opposizione.
Martedì 8 maggio 2018 si è concluso il processo per direttissima in cui Saverio era accusato di resistenza, lesioni, lancio di oggetti e violazione del foglio di via, per i fatti dell’11 aprile scorso a Melendugno (LE) contro TAP. Il compagno è stato condannato a 9 mesi e gli sono stati tolti i domiciliari, sostituiti però con il divieto di dimora da Melendugno e Lecce.

maggio 2918, da comunellafastidiosa.noblogs.org

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2 giugno: manifestazione davanti alla base nato di camp darby
Con dovizia di particolari gli organi di stampa locali ci hanno informato da mesi dell’enorme potenziamento della base statunitense di Camp Darby.
Un nuovo tratto ferroviario dedicato al trasporto di armi e munizioni da e per la base nord americana. La costruzione di un ponte girevole sul canale dei Navicelli per agevolare il trasporto delle stesse verso il porto di Livorno. L’abbattimento di 1.000 alberi per realizzare il progetto.
Tutto questo accompagnato dalla insopportabile ipocrisia di una classe politico/amministrativa (locale e regionale) che racconta di essere rimasta allo scuro del progetto per lungo tempo.
In questi anni le Giunte PD Filippeschi e Rossi hanno costruito “ponti d’oro” per il Pentagono, coadiuvando in tutti i modi il potenziamento di quella base di guerra, che dal dopoguerra ad oggi ha contribuito alla morte di milioni di persone nell’immenso raggio d’azione delle truppe USA/NATO dislocate in Italia. La lista dei paesi e dei popoli colpiti dalle micidiali armi di distruzione di massa che partono da quella base è così lunga che occorrerebbe un documento specifico. Le ultime vittime in ordine di tempo (centinaia di migliaia) sono libiche, siriane, yemenite, che dopo le aggressioni militari continuano a morire nei deserti e nei mari attraversati per fuggire alla miseria creata dalle guerre di riconquista coloniale.
La strategia di guerra e di morte della NATO e degli USA non cambia da una amministrazione all’altra. Obama e Trump in questo pari sono. Cambiano le forme, non la sostanza. L’amministrazione Trump è l’espressione della debolezza di un sistema imperialista in declino, che usa la forza militare per tentare di perpetuare una centralità persa sul terreno economico e dell’egemonia a livello internazionale.
Le basi militari come camp Darby sono strumenti di guerra e controllo territoriale, di ingerenza diretta statunitense non solo della coalizione emersa dal voto del 4 marzo, quel duo Salvini/Di Maio prono ai voleri sovranazionali, ma anche contro l’Unione Europea, che si sta emancipando economicamente e militarmente dagli USA. La cosiddetta “Cooperazione Strutturata Permanente sulla Difesa” firmata da 23 paesi UE il 12 novembre 2017 a Bruxelles è un ulteriore tassello nella costruzione di un esercito europeo che aumenta la distanza e lo scontro tra i due colossi imperialisti.
Le popolazioni locali (non solo di Pisa e Livorno ma di tutto il paese) subiscono da decenni la presenza di camp Darby, che mette in costante pericolo la nostra incolumità fisica, oltre ad essere un onere costante per le casse dello Stato, nonostante le chiacchiere sul finanziamento in dollari statunitensi di questa ultima ipotesi di ampliamento.
Il movimento contro la guerra deve reagire, come ha fatto in questi anni, a questa ulteriore opera di potenziamento militare e di distruzione dell’ecosistema di Tombolo, territorio che deve tornare sotto il controllo della sovranità popolare locale, allontanando definitivamente le truppe e le armi USA dai nostri territori.
Il PD e il nuovo asse Lega/M5S vanno indicati come nemici della pace, smascherando le ipocrite campagne mediatiche e pre elettorali che nascondono l’evidenza del loro ruolo.
Per la chiusura immediata della base USA di camp Darby e la sua riconversione a scopi civili, per l’uscita dell’Italia dalla NATO, contro l’imperialismo USA e l’imperialismo della Unione Europea.
Su questi obiettivi il 2 giugno la Rete dei Comunisti scenderà in piazza contro la base USA di camp Darby, insieme a tutte le forze politiche, sociali e sindacali coerentemente schierate contro la guerra.
Fermare il potenziamento della base USA di camp Darby.
Smascherare il ruolo delle amministrazioni locali PD al fianco del Pentagono.
Lottare sia contro l’imperialismo statunitense sia contro quello della UE.

maggio 2018, da retedeicomunisti.org


Attacchiamo i padroni (prima gli italiani)
Milano: corteo contro Eni, devastazioni e guerre
Guerra all’esterno e militarizzazione della società segnano sempre di più il nostro presente. Per mantenere pacificate le “retrovie” mentre governi e multinazionali si lanciano nel saccheggio dell’Africa come prolungamento della loro concorrenza in Europa, i padroni soffiano sul vento razzista della guerra fra poveri. Vento che alimenta la proliferazione dei gruppi neofascisti, sempre più legittimati e protetti.
Il governo italiano finanzia i campi di concentramento in Libia e le milizie che li gestiscono, l’ENI e le altre imprese di bandiera cercano di preservare e allargare i loro affari, ricorrendo a qualunque signoria della guerra locale, jihadisti compresi. Intanto il capitale locale, con l’individuazione di nuove sacche di gas, riapre scenari con Paesi direttamente coinvolti nella guerra di Siria, facendo presagire un ruolo ancor più incisivo della Turchia nel contenimento dei profughi, nonché di Israele come cane da guardia del Mediterraneo.
La manodopera di emigrati provenienti da terre depredate assicura un esercito di lavoratori e lavoratrici sotto ricatto e terrore, garantisce profitti a basso costo e rende possibile assoggettare anche i proletari indigeni a condizioni di vita sempre più precarie.
Il razzismo di Stato afferma apertamente che per salvare la democrazia bisogna rinchiudere i migranti a casa loro (eccezion fatta per quelli da selezionare per il capitalismo nostrano).
Mentre la politica internazionale di rapina sversa anche qui i suoi prodotti, dallo sfruttamento alle devastazioni ambientali (vedi TAP), in Niger si allarga il conflitto sociale contro le missioni occidentali.
È sempre più urgente confrontarci sul tempo che fa, rilanciare la pratica della solidarietà internazionalista e schierarsi con le ragioni di chi lotta contro il colonialismo italiano.
Per questo invitiamo tutte e tutti coloro che vogliono riaprire il conflitto sociale fuori e contro ogni compatibilità istituzionale, a due iniziative che si terranno a Milano.
Sabato 5 Maggio: Corteo ore 15 davanti alla stazione centrale, contro l’ENI, le sue devastazioni e le sue guerre. Il corteo terminerà in via Imbonati angolo via Bovio.

aprile 2018, da roundrobin.info

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Brevi note sul corteo del 5 maggio a Milano contro l'ENI
Si ricorderà che, nelle prime assemblee per confrontarsi sulla solidarietà in vista dei futuri processi per la manifestazione al Brennero del 7 maggio 2016, si era proposto di declinare l'iniziativa contro le frontiere affrontando la questione degli accordi Italia-Libia e il ruolo dell'Eni. Dopo la giornata comune del 12 dicembre scorso, in cui in varie città ci sono state delle iniziative che collegavano la memoria della strage di piazza Fontana con le attuali stragi che lo Stato italiano compie in Libia e nel Mediterraneo, si era cominciato a ragionare su due giornate di mobilitazione a Milano, città dell'Eni. Arrivarci ha richiesto tempo e confronti. Dopo l'assemblea-convegno internazionalista del 21 aprile, a Milano, in cui si è spaziato dalla Libia alla Somalia, dalla Nigeria alle metropoli italiane, dalla logistica al TAP, al rapporto università-guerra, analizzando sia le politiche neo-coloniali (con i loro arsenali militari e giuridici) sia le pratiche di resistenza che incontrano, il 5 maggio si è svolto il corteo. Un corteo su chiare basi anticapitaliste e antistituzionali, un'iniziativa autonoma su temi su cui grava un complice silenzio generale. Lo scopo dichiarato era quello di una manifestazione «comunicativa». Spesso questo aggettivo è inteso per lo più in negativo, per sottrazione, come sinonimo di «tranquillo», cioè «senza scontri». Vedendola in prospettiva, come primo passaggio e non certo come punto di arrivo, volevamo invece dedicare molta attenzione a ciò che avremmo detto, come, e a chi. Per questo l'idea di partire dalla stazione centrale ("vetrina" della città, zona di grande passaggio, ma anche teatro di continue retate contro gli immigrati) per arrivare in un quartiere a forte presenza proletaria e immigrata come Imbonati. Un corteo senza musica, con interventi continui e in più lingue che riportassero in piazza i temi affrontati il 21 aprile. Usando un termine volutamente «antiquato», una serie di comizi itineranti. Per la città e il tema scelti, la Questura ha predisposto uno schieramento ingente di forze, con un elicottero che ha sorvolato su tutto il percorso del corteo. Per via del clima mediatico preparato nei giorni precedenti, un corteo di modeste proporzioni (circa 400 persone) ha avuto una singolare ripercussione su giornali e telegiornali nazionali. Digos e giornalisti di varie città erano presenti a grappoli, il che ha reso impegnativo tenerli lontani e ha imposto alle prime battute della manifestazione un clima da assedio. Quando, lungo il percorso, abbiamo incontrato i primi esseri umani, invece, l'assedio si è spezzato, e abbiamo trovato attorno a noi interesse e persino complicità (molta gente era decisamente più incazzata con la polizia ‒ la quale aveva chiuso intere vie ‒ che con i manifestanti). La curiosità delle persone ai lati si è trasformata in partecipazione attiva quando siamo arrivati in via Imbonati. Qui, in particolare dopo un intervento in arabo contro gli Stati, le guerre e le devastazioni che costringono centinaia di migliaia di persone ad abbandonare le terre in cui sono nate e cresciute, il corteo si è ingrossato quantitativamente, ma soprattutto è diventato molto più contagioso. Sia per i contenuti (dalle guerre democratiche all'operazione "strade sicure", le donne sono spesso le prime a subire le conseguenze dell'ordine militare e patriarcale e ad organizzarsi per resistere e contrattaccare) sia per la preparazione collettiva di interventi, manifesti, slogan e scritte in più lingue, particolarmente significativo lo spezzone femminista, che ha dato una bella idea di come corteo «comunicativo» non voglia affatto dire «smorto».
L'assemblea del 21 aprile e il corteo del 5 maggio hanno coinvolto qualche centinaio di compagne e compagni, rimettendo al centro la guerra e la prospettiva internazionalista. Affinché questo piccolo – ma, ci pare, significativo e controcorrente – passaggio non rimanga chiuso in se stesso, l'iniziativa deve proseguire ora autonomamente nei diversi territori. Per fare un più attento “bilancio” (queste sono delle prime note, scritte da alcuni soltanto) delle due giornate milanesi e per ragionare su come continuare, ci incontreremo di nuovo domenica 17 giugno, alle ore 10,30 alla Panetteria occupata di via Conte rosso a Milano.
Invitiamo compagne e compagni indagati nel primo troncone del Brennero, cioè i 63 per cui è già stato chiesto il rinvio a giudizio, a venire perché ci sono alcune cose di cui discutere con una certa urgenza.

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Resistenze, evasioni e morti nei lager libicI
Da quando si sono riaccesi i riflettori sui lager libici – in particolare con gli accordi presi dall’Italia con la Libia affinché la guardia costiera del paese africano fermi le barche in partenza verso l’Europa – la narrazione che ci viene proposta di questi (non) luoghi rafforza ogni giorno di più l’idea che le persone rinchiuse (per volontà espressa dei governi europei) in questi centri siano vittime, persone “in condizione di fragilità” che come unica possibilità di “salvezza” devono aspettare la mano gentile e misericordiosa delle agenzie internazionali UNCHR, OIM, delle ONG, delle associazioni antirazziste ecc., che come andiamo dicendo da tempo propongono come soluzione alle condizioni di vita disumane di questi lager “corridoi umanitari”, i rimpatri assistiti nei paesi di provenienza dai quali le persone sono fuggite, le ispezioni periodiche per garantire standard di vita accettabili (come se in un lager potessero esistere queste condizioni).
Manca quasi completamente il racconto delle proteste, delle fughe e delle rivolte che le persone che vivono in questi lager pongono in atto con determinazione a rischio della loro stessa vita. In generale il discorso politico e pubblico è incentrato esclusivamente sul modo migliore per gestire, da parte dei paesi europei, il movimento delle persone, senza che queste ultime abbiano voce in capitolo.
A partire dai recenti fatti di cronaca, proviamo a raccontare brevemente quello che è successo in alcuni campi di concentramento libici dall’inizio dell’anno, sottolineando come queste proteste trapelate attraverso i media non rappresentano di certo tutte le resistenze praticate dalle persone recluse in Libia.

Lo scorso 23 maggio almeno 25 migranti di nazionalità africana sono stati feriti a colpi di arma da fuoco durante il tentativo di evasione dal luogo in cui erano reclusi nella città di Bani Walid, 170 km a sud-ovest di Tripoli, un importante punto di transito per i/le migranti provenienti dal sud del deserto libico verso la costa occidentale. “Decine di migranti hanno tentato di fuggire dal luogo in cui erano detenuti alla periferia della città: mentre stavano scappando, i trafficanti di esseri umani hanno aperto il fuoco, ferendone 25” ha dichiarato Salim Bin Dalla, funzionario del dipartimento di polizia di Bani Walid, “circa 50 migranti sono riusciti a scappare e sono venuti da noi; li abbiamo ospitati e abbiamo fornito loro del cibo”. I migranti feriti sono stati portati all’ospedale di Bani Walid. Un medico ha dichiarato che alcuni dei feriti sono gravi, mentre le persone fuggite hanno raccontato che ci sarebbero anche dei morti. I sopravvissuti hanno detto a Medici Senza Frontiere che almeno 15 persone sono morte, e almeno 40, in maggioranza donne, sono rimaste indietro, e di essere stati trasferiti, il 24 maggio, in centri di detenzioni governativi a Tripoli.
Solo pochi giorni prima, il 15 maggio a Gharyan, 94 chilometri a sud est di Tripoli, 8 migranti erano stati uccisi e 20 feriti durante il tentativo di fuga dalla prigione controllata dal Governo libico. Di seguito il racconto dell’accaduto.
E’ iniziato tutto prima dell’alba del 15 maggio. Verso le cinque, una grossa banda di uomini armati ha dato l’assalto al campo. Cercavano giovani da rapire, sia ragazze che ragazzi, e sono andati a colpo sicuro: sapevano che c’erano oltre 400 profughi, in buona parte trasferiti a Gharyan nell’ottobre del 2017, dopo essere stati liberati, a Sabratha, dalle prigioni di Amu Al Dabashi, il trafficante che si è riciclato come “gendarme anti immigrazione” in cambio, a quanto pare, di 5 milioni di euro. “Erano in tanti – hanno riferito alcuni testimoni al Coordinamento – sono arrivati su alcuni pick-up e anche mezzi più grandi. Tutti ben armati, ma non in divisa militare o in tuta mimetica”. Verosimilmente, dunque, sgherri di una organizzazione di trafficanti di uomini. Le guardie del campo sono state colte di sorpresa. Gli assalitori le hanno sopraffatte in pochi minuti e poi hanno occupato prima di tutto il comando, tagliando tutte le comunicazioni, distruggendo i computer e devastando gli uffici. Altri miliziani hanno contemporaneamente fatto irruzione nei capannoni e nei container adibiti ad alloggi, catturando a quanto pare almeno 200 persone: circa 90 eritrei e oltre 100 somali, uomini e donne. Mitra puntati, li hanno costretti a salire su vari pick-up e un camion chiuso. Sono riusciti a salvarsi solo i prigionieri che erano nei container più periferici del centro di detenzione: allarmati dalla sparatoria, dalle urla dei compagni e dal trambusto esploso durante e dopo la conquista del campo, hanno avuto il tempo di nascondersi e poi di allontanarsi nell’oscurità, prima dell’arrivo dei predoni. Poco dopo l’autocolonna di pick-up carichi di ragazzi sequestrati si è allontanata velocemente verso il deserto. Nella confusione iniziale più di qualcuno dei ragazzi catturati è riuscito a saltare giù dal pick-up e a fuggire lontano dalla pista: il buio li ha salvati dalle raffiche dei rapitori.
A giorno fatto le guardie hanno ripreso il controllo del campo e poco dopo pare siano arrivati anche dei soldati di rinforzo. A quel punto, però, la banda di predoni era ormai lontana. E’ cominciata la conta per verificare quanti prigionieri fossero rimasti. All’inizio, a quanto pare, poco più di un centinaio, ma nelle ore successive sono tornati quelli che erano riusciti a sottrarsi alla cattura e i pochi evasi dall’autocolonna in corsa. In tanti hanno pensato, a quel punto, che non potevano più restare lì a Gharyan: temevano che i miliziani/trafficanti potessero tornare per un’altra retata. “A Gharyan – ha detto uno di loro al Coordinamento Eritrea – siamo stati detenuti in condizioni di vita disumane. Dopo l’assalto ci siamo convinti che il campo era anche esposto a ogni genere di razzie e che le guardie non si sarebbero esposte a rischi per difenderci da rapimenti di massa come quello che avevamo vissuto. O che, comunque, non erano in grado di farlo. Abbiamo atteso per un po’. Ci aspettavamo che arrivassero dei funzionari civili del Governo, magari anche dell’Unhcr, per garantirci aiuto e assistenza e, soprattutto, per trasferirci, portarci via da questo posto. Per rassicurarci e darci fiducia, insomma. Invece è stata rinforzata la sorveglianza tutt’intorno al campo. Guardie e militari hanno circondato la struttura per un largo raggio. Magari lo avranno fatto per motivi di sicurezza, ma noi ci siamo sentiti ancora di più in trappola”.
La maggioranza si è rassegnata ed è rimasta. Paura, sconcerto, preoccupazione hanno però spinto altri a tentare la fuga per raggiungere Tripoli o, in ogni caso, allontanarsi da Gharyan. Erano forse una cinquantina. “Ci siamo mossi tutti insieme – hanno poi raccontato alcuni di loro – sperando di cogliere di sorpresa i soldati, in modo da riuscire a passare in quanti più possibile. Dopo ciò che avevamo subito, pensavamo che i militari di guardia capissero almeno in parte che cosa ci spingeva. E invece no: hanno cominciato a sparare e ad inseguirci anche con le jeep. Sembra che qualcuno dei nostri sia stato travolto. Molti sono caduti sotto i colpi”. Alla fine – secondo i fuggiaschi e alcuni dei profughi restati al campo – sul terreno sono rimasti otto giovani senza vita: tre eritrei e cinque somali. Dei tre eritrei il Coordinamento ha saputo il nome: Efrem Hailé, Okbai e Andit. Tutti sui vent’anni. Almeno 29 i feriti, dei quali 12 in condizioni gravi. Per quanto ne sanno i compagni, sono stati trasportati inizialmente all’ospedale di Gharyan e poi trasferiti in quello di Tripoli. Soltanto pochi ce l’hanno fatta a superare indenni il fuoco di sbarramento delle guardie e a dileguarsi, gettandosi tra i cespugli e cercando riparo in qualche anfratto. Poco più di una decina. Quando è tornata un minimo di calma, verso l’imbrunire, hanno ripreso la fuga. Dopo un giorno e mezzo di marcia, aiutandosi anche con mezzi di fortuna, sono arrivati a Tripoli. Alle porte della città li ha intercettati e fermati una pattuglia della polizia, che li ha condotti in un centro di detenzione dell’Agenzia ministeriale anti immigrazione, in Airport Road. Sono stati loro a ricostruire la strage e il sequestro in massa che l’ha preceduta.
Sempre a Gharyan il 2 febbraio centinaia di persone recluse avevano dato vita a una protesta nel centro di detenzione statale Al-Hamra, durante la visita di Mabruk Mohammad al-Targui, il ministro del turismo del governo di unità della Libia. “Questo gesto è un appello alla libertà”, ha detto Saddam, della regione del Darfur del Sudan, che teme di essere costretto a tornare in una patria devastata dalla guerra. “Siamo stati in questo centro di detenzione per quattro mesi”, ha detto. “Per più di un mese nessuna organizzazione è venuta a trovarci”.
Il 6 febbraio più di un centinaio di migranti, per lo più cittadini somali, hanno raccontato di essere fuggiti da un campo dove erano stati trattenuti da trafficanti di esseri umani, vicino alla città delle oasi di Tazirbu in Libia riuscendo a raggiungere la città di Kufra. I migranti, tra cui le donne, sono stati poi fermati e reclusi nel centro di detenzione statale di Kufra.
Per concludere vorremmo spendere ancora due parole sui lager libici e sulla differenziazione che viene proposta; esistono infatti due tipi di centri di detenzione in Libia: quelli ufficiali gestiti nominalmente dal Governo libico (ricorrendo a milizie e gruppi armati) e quelli “illegali” gestiti da altre milizie locali meno legate al governo. Nei fatti, come affermano anche responsabili delle ONG che operano nel paese, “c’è una certa porosità tra i due tipi di lager, a volte i migranti vengono rivenduti ai contrabbandieri”, così come chi riesce a fuggire dalle milizie si ritrova nei lager di stato.
Ad esempio le 20.000 persone tenute prigioniere dalle milizie nei dintorni di Sabratha, nell’autunno 2017 sono poi state trasferite nei centri di detenzione ufficiale. Secondo i media e le agenzie internazionali le condizioni di vita nei centri del primo tipo “sono leggermente migliorate negli ultimi 6 mesi” (soprattutto per la riduzione del fenomeno di sovrappopolamento di questi centri, attraverso le deportazioni) ma a causa dei maggiori controlli e dell’aumentare del numero di persone fermate durante il viaggio, in realtà è aumentato sia il numero totale di persone recluse sia la durata della detenzione. Anche il racconto riportato mostra in modo significativo che le persone migranti non vogliono stare nei centri di nessun tipo, che quando scappano da un centro illegale finiscono spesso in un centro legale (e viceversa) e che le condizioni disumane caratterizzano entrambi questi campi di concentramento come dimostrano le testimonianze sulla prigione di Ghayran, che viene descritta dai detenuti come un autentico lager dove solo nelle ultime settimane si sono registrate almeno 6 vittime: cinque ragazzi morti per malattie, maltrattamenti, fame, stenti e un sesto, un giovane eritreo, che non ce l’ha fatta più a resistere ed ha scelto di farla finita.

24 maggio 2018, da noblogs.org/hurriya

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Il governo algerino, in accordo con l’UE, deporta e uccide.
In Mali esplode la rabbia dei deportati
Da mesi ormai, il sistema educativo e sanitario dell’Algeria è stato paralizzato da un’ondata di scioperi. L’alto tasso di disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, la svalutazione del dinaro algerino, stanno ora presentando grossi problemi alla popolazione. Un numero sempre maggiore di giovani algerini si vede costretto a tentare l’emigrazione verso l’Europa, malgrado gli accordi bilaterali prevedano l’immediato respingimento o la reclusione nei centri di detenzione per la successiva deportazione, per chi proviene da questo paese.
Per due anni i sindacati indipendenti si sono mobilitati contro le politiche sociali e del lavoro del governo, ma da novembre 2017, innumerevoli sindacati indipendenti nel servizio pubblico stanno portando avanti mobilitazioni sempre più conflittuali contro il governo. Oltre alla compagnia aerea pubblica Air Algerie, gli operatori dei trasporti locali e il servizio postale, le società statali di elettricità e gas hanno proclamato scioperi e proteste.
Ahmed Ouyahia, primo ministro e leader del partito di governo “Rassemblement National Democratique” (RND), mentre reprime violentemente queste proteste e perseguita sindacalisti indipendenti e militanti dei movimenti sociali, ricorre alla propaganda populista contro gli immigrati africani per distogliere l’attenzione, creare un capro espiatorio e garantire gli accordi con l’Unione europea sul controllo dei flussi migratori.
Continuano infatti i rastrellamenti e le espulsioni di massa di persone migranti provenienti dalla regione subsahariana. Nelle ultime settimane sono più di 1.500 le persone che sono state arrestate e deportate alla frontiera sud per essere poi abbandonate nel deserto tra Mali e Niger. Secondo delle testimonianze, una volta catturati “les black” vengono detenutx in campi di fortuna per qualche tempo e successivamente sotto minaccia vengono caricate su camion e abbandonate nel deserto, senza acqua né viveri, non prima di essere spogliati di tutti i loro averi (soldi, cellulari e altro). In queste condizioni sono costretti a marciare decine di chilometri verso la frontiera più vicina, che nella maggior parte dei casi non corrisponde a quella del paese di provenienza.
Alcune cifre ufficiali parlano di 28.000 espulsioni dal 2014. Le autorità algerine continuano a ripetere che queste espulsioni avvengono “in concertazione con i governi dei paesi coinvolti”, ma si tratta di una pura menzogna. A parte il programma “di rimpatrio volontario” firmato con l’OIM, organismo che si rende complice di tutte quelle violenze che le autorità algerine mettono in atto per spingere le persone a firmare la richiesta di rimpatrio, la Lega dei diritti umani algerina sottolinea che ad ora esiste solo un accordo “opaco” con il Niger concernente prima di tutto donne e bambini. Del resto la stampa locale accenna ad accordi sotterranei con i paesi europei ma nessuno ne parla in maniera ufficiale.
Così dal 2014, e specialmente nei primi mesi di quest’anno, continue retate vengono compiute a più riprese ad Algeri, Orano e in tutte le altre città del paese in un crescendo di discriminazione e di persecuzione razziale. In effetti, già nel 2017 diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani affermavano che gli arresti delle persone “sono basate sul profilo etnico, poiché poliziotti e gendarmi non cercano di sapere se i migranti soggiornano legalmente in Algeria, non verificano i loro passaporti, né altri documenti”. Il governo dal canto suo non fa altro che ripetere i consueti discorsi sui migranti in quanto causa maggiore della disoccupazione nel paese, nonché di essere i principali fautori di ogni sorta di crimine e delle spaccio di droga.
Proprio in questi giorni e per la prima volta in questi anni diverse organizzazioni non governative algerine, militanti dei diritti umani e attori della società civile hanno reso pubblico un appello per la protezione dei diritti umani in Algeria chiedendo apertamente la “fine delle deportazioni di massa”. Nel testo dell’appello si denunciano “le operazioni arbitrarie che prendono di mira migliaia di migranti subsahariani, tra cui anche persone altamente vulnerabili”. I firmatari, inoltre, chiedono al governo di provvedere in tutta urgenza alla creazione di “un quadro nazionale in rispetto dei diritti dei lavoratori migranti e di una legge sull’asilo che permetta l’accesso anche allo statuto di rifugiato”.
Cresce intanto la rabbia tra le persone deportate che hanno subito maltrattamenti, torture, detenzione in Algeria e hanno rischiato la morte per disidratazione dopo essere state abbandonate nel deserto. “Per protestare contro questi trattamenti disumani”, come raccontano i giornali locali, lo scorso 12 marzo diverse centinaia di persone, tra le quali molte che recentemente avevano subito la deportazione dall’Algeria, hanno manifestato davanti all’ambasciata algerina a Bamako in Mali. Con pneumatici, pietre, tronchi d’albero, hanno barricato la strada bloccando il traffico. La polizia presente sulla scena, in minoranza numerica e intimorita dalla determinazione dei manifestanti, in un primo momento è fuggita per cercare rinforzi. Prima del loro ritorno, i manifestanti hanno dato fuoco al giardino che si affaccia sull’ambasciata. Le barriere di ferro sono state distrutte, così come i vetri delle finestre, le lampadine e le telecamere di sorveglianza. Solo il successivo intervento in forze dei plotoni antisommossa che hanno attaccato i dimostranti con gas lacrimogeni, effettuando circa 12 arresti, ha impedito che la rabbia delle persone deportate irrompesse nei locali dell’ambasciata.
“Sono venuti in gran numero. Il loro obiettivo era chiaramente attaccare l’ambasciata e il suo staff. Sono persone espulse dalla Libia e dall’Algeria. Loro vogliono, attraverso questo evento, far pagare all’Algeria ciò che hanno vissuto quando erano in questo paese”, ha affermato un commissario di polizia. Secondo le testimonianze raccolte sul posto, i manifestanti hanno detto di aver voluto inviare un forte segnale alle autorità algerine che impone loro condizioni di vita disumane sul suo territorio e persino al momento del loro rimpatrio. In diverse occasioni il Consiglio superiore della diaspora maliana (CSDM) ha denunciato le condizioni in base alle quali i maliani sono trattati sul suolo algerino e il modo in cui vengono espulsi: cioè “gettati” nel deserto.

23 maggio 2018, da noblogs.org/hurriya

CPR e HUB: RIVOLTE, RISTRUTTURAZIONI, DEPORTAZIONI
Incendio dopo incendio, danneggiamento dopo danneggiamento, e l’Hotspot di Lampedusa è di nuovo chiuso grazie alla rabbia di chi ci è stato imprigionato. Un veloce svuotamento per ristrutturarlo, hanno asserito dal Viminale il Capo Dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione, il Direttore Centrale dell’immigrazione e della Polizia delle frontiere del Dipartimento di Pubblica Sicurezza ed il Sindaco di Lampedusa.
Si vedrà se riusciranno a essere realmente così celeri. Insieme a Lampedusa anche l'hotspot di Taranto avvia a fine marzo lavori di ristrutturazione. Tali ammodernamenti che lo stato sta portando avanti serviranno per rendere queste strutture più efficienti nei loro compiti e, insieme alla prevista apertura di 3 nuovi hotspot, preparano un aggravamento della repressione che si scatenerà in primavera, con il rafforzamento della blindatura delle frontiere a nord e a sud della penisola e i conseguenti internamenti di chi proverà a valicarle. Le persone recluse a Lampedusa vengono quindi smistate nei vari CPR della penisola, alcuni, altri vengono deportati direttamente in Tunisia, altri ancora imprigionati nel carcere di Agrigento.
Nel CPR torinese sono arrivate parecchie persone di origine tunisina, fino a riempire completamente la struttura, tanto che a fine aprile si diffonde la scabbia, sintomo delle cattive condizioni igieniche in cui vengono costretti gli imprigionati. I tentativi di lotta cercano di rafforzarsi, prendere piede, scandire il passo, in mezzo alla neve o nella resistenza alle espulsioni. Così è successo a fine aprile, quando venti poliziotti accompagnati dai lavoranti della ditta di gestione (la multinazionale francese Gepsa, specializzata nel fare profitto con i luoghi detentivi) sono entrati nell’area bianca per prendere tre ragazzi, ma hanno avuto da faticare perché nessuno di loro voleva dargliela vinta tanto facilmente: uno è salito sul tetto con una corda minacciando di impiccarsi, il secondo si è cosparso di merda per non farsi toccare, il terzo ha ingoiato lo shampo. Quello della merda è stato portato in carcere dopo essere stato avvolto con una telo di plastica, gli altri due pestati e portati all’ospedale. Gli altri detenuti mentre era in corso l’operazione hanno fatto casino lanciando quello che potevano contro i militari. A inizio maggio, per l'ennesima volta, un ragazzo senegalese, dopo otto mesi di detenzione amministrativa è stato prelevato dall’area rossa per una deportazione delle più difficili da digerire, quella a pochi giorni dalla data di liberazione imposta dalle carte. David nel 2017 è finito dentro al Cpr e un avvocato scellerato, uno dei tanti che si intascano i soldi senza premurarsi troppo della situazione giuridica dei detenuti, gli ha consigliato di fare domanda di protezione internazionale nonostante sia quasi impossibile ottenerla se vieni dal Senegal. Per questo motivo la sua detenzione è stata di sei mesi (invece che di novanta giorni) per poi ricevere il diniego. Alle porte della data per il suo rilascio, scatta il tentativo di espulsione coatta, David viene portato a Malpensa ma resiste, si dimena, urla così tanto che il pilota del volo verso l’Africa ha deciso di non prendersi in carico la situazione. I poliziotti che lo accompagnavano gli hanno dato pugni, schiaffi e calci cercando di fargli salire uno dopo l’altro i gradini della scaletta dell’aereo, ma la sua resistenza è stata più forte ed è quindi stato riportato indietro al CPR torinese. Recentemente, qualcuno è riuscito a far arrivare ai compagni e solidali alcune foto, che ritraggono materassi buttati a terra, sui quali le persone sono costrette a dormire, ma anche il cibo marcio (fornito da Sodexo, multinazionale francese che rifornisce diverse strutture, non solo detentive, in tutto il mondo) condito dei soliti sonniferi per far stare tutti tranquilli. Fuori le mura, i solidali non mancano e portano un po' di calore umano fatto delle urla, degli slogan e della musica che animano i presidi e passaggi notturni improvvisati.
E visto il grande numero di persone da imprigionare, lo stato italiano non si fa mancare l'iniziativa di aprire nuove strutture, come annunciato a Modena a fine aprile. Con l’arrivo dell’estate, e conseguentemente di aumentati sbarchi di migranti sulle coste italiane, i temi della gestione e del controllo tornano prepotentemente a farsi sentire. Nel tentativo di rispedire sulle coste africane un surplus umano problematico e non schiavizzabile, e per mostrare che la situazione è sotto controllo, diventa necessario aumentare il numero di strutture che rinchiudono migranti.
Il CPR, oltre a segregare le vite di migliaia di migranti, risponde anche alla necessità di lucro di diversi enti. Tra questi ricordiamo coloro che da tempo si occupano delle varie strutture del sistema sprar nel modenese, “Caleidos” e “L’Angolo”; il Comune di Modena con l’impiego dei migranti in attività di manodopera a costo zero e in attività di affiancamento alla polizia municipale. Per quanto riguarda la proprietà dell’ex Cie, dall’anno di chiusura ne è stata protagonista la società finanziaria Finint (con sede a Conegliano, Treviso), e, a seguito della recente revoca, la gestione è passata in mano a un’altra società finanziaria chiamata “Alba Leasing” (Bper ne è uno dei soci di maggioranza).
“Freedom from jail”, “We want home”, “Transfer”, “C3 Interview”, “Respect humanity” sono alcune delle scritte riportate sui cartelli esposti da chi vive nell’hub di via Mattei a Bologna, durante la recente protesta del 26 marzo. Nel pomeriggio, fuori dall’hub si è tenuto un partecipato presidio, formato da una ventina di compagn*, presto raggiunti da circa 50 persone che vivono nell’hub e che sono uscite dalla struttura formando un piccolo corteo, raggiungendo le/i solidali.
Il 7 marzo scorso c’era stato un altro presidio fuori dalla struttura, durante il quale era stato possibile scambiare contatti e ascoltare le storie di chi resta bloccato nell’hub da diversi mesi. Nelle settimane successive i contatti sono stati mantenuti e insieme è stato organizzato un nuovo momento di lotta per portare l’attenzione su quello che era emerso dai racconti di chi vive nel centro. I motivi che hanno spinto molti migranti a protestare contro quella che loro stessi chiamano PRIGIONE riguardano soprattutto le scarse condizioni igieniche/alimentari (mosche nel cibo, pasti freddi e cattivi, il divieto di cucinare, servizi igienici rotti, sovraffollamento delle stanze, topi nei letti, scarsa assistenza medica), oltre all’attesa infinita dei documenti che li costringe a restare in una struttura fatiscente come quella di Via Mattei, dove viene persino richiesto loro di lavorare al mantenimento della struttura – un altro aspetto importante della loro denuncia. Queste condizioni non si verificano soltanto all’interno dei locali della struttura dell’ex Cie, ma anche nel container costruito circa un anno fa – sotto il solito strumentale vessillo dell’emergenza – sullo spiazzo interno dell’hub (quello che un tempo veniva utilizzato come campo da calcio) nel quale il livello del sovraffollamento e delle condizioni igienico/abitative è portato ancor più all’estremo. Anche all’interno del campo vengono così riprodotte quelle stesse logiche di un turnover interno, di divisione e di differenziazione che caratterizzano l’intero sistema dell’accoglienza e delle politiche migratorie, dove le condizioni di sopravvivenza vengono trasformate in strumenti di continuo ricatto e disciplinamento.
La rabbia provocata da questo limbo è stata spesso riportata da chi vive nel centro all’attenzione degli operatori, i quali in molte occasioni hanno rimbalzato il problema con false promesse oppure dicendo di non avere soluzioni mentre, al contempo, hanno frenato le esplosioni di rabbia di chi è costretto a stare alle loro regole con la minaccia del peggioramento del processo burocratico riguardante commissioni, permessi e documenti. Dopo il 7 marzo, un richiedente asilo che aveva raggiunto il presidio si è visto togliere il riscaldamento dalla stanza, e indica questo gesto come una vera e propria ritorsione nei suoi confronti per aver partecipato alla protesta. Le minacce si sono ripetute anche il 26 marzo, sempre in occasione di un presidio di solidali, quando chi è rientrato nella struttura è stato intimidito dallo staff del centro che ha affermato che “in futuro il nuovo governo avrebbe potuto deportare chi avrebbe partecipato a proteste e presidi”. Un trattamento simile è stato riservato solo ad alcuni, in maniera evidentemente selettiva. E’ la forza di una protesta comune che spaventa chi vorrebbe mantenere la calma e la rassegnazione dentro le mura di quella prigione chiamata hub. Dopo i presidi e altre iniziative, diverse assemblee e un pomeriggio di merenda e musica in un parchetto nelle vicinanze, il 14 maggio c'è stato un corteo tra le vie del quartiere con striscioni e cartelli. Dall’impianto sono stati lanciati molti interventi per spiegare, a chi ha voluto ascoltare, cosa è costretto a subire chi viene “accolto” in Italia in questo genere di centri. C’è chi è libero di viaggiare dove, come e quando vuole e chi invece, provenendo da paesi in cui il ricco mondo occidentale fa incetta di risorse, esporta guerre e affama le popolazioni, deve chiedere il permesso per muovere i propri passi. Queste persone sono uscite dal centro riprendendosi le strade per raccontare le loro condizioni di vita a chi abita nel loro stesso quartiere. La cosiddetta accoglienza, prima o seconda che sia, sta fruttando profitti enormi per le associazioni, le cooperative, gli enti vari che si sono lanciati a man bassa in questo giro d’affari. Solo nel 2016 ha fruttato 4 miliardi di euro. La risposta della polizia si è fatta sentire pochi giorni dopo la camminata per il quartiere, quando all'HUB di via Mattei arriva una volante dalla questura a notificare l’espulsione a sette persone. Non è difficile pensare che espulsioni e tentativi di trasferimento vengano usati per minare sia il coraggio di chi finora si è esposto che i legami di solidarietà tra gli “ospiti”, e come monito per chi finora non si è ancora unito alla protesta. Il potere mette sempre in campo una dismisura e l’apparato sbirresco-cooperativo usa ogni mezzo per applicarlo in maniera capillare e quotidiana. Chi è confinato in questa prigione di regole e relazioni umilianti e autoritarie ha solo il proprio coraggio per non finirne schiacciato. Ed è un coraggio enorme. Accanto a questo ci mettiamo la nostra solidarietà, la nostra complicità e anche la nostra rabbia.
Al CPR di Ponte Galeria, Roma, la situazione non è molto diversa da tutte le altre prigioni, che siano per migranti o meno. Al momento ci sono una 30ina di donne di nazionalità varie. Da quel che si può capire prosegue la tattica del divide et impera. Operatori e guardie alimentano i conflitti fra le recluse e cercano di terrorizzare chiunque provi a interagire con i/le solidali all’esterno. “Se parli con loro vieni espulsa” un messaggio chiaro e diretto, nemmeno si prendono la briga di velare le loro minacce. Inoltre continuano i giochetti snervanti alle detenute con le promesse mai mantenute su visite specialistiche (che praticamente non vengono mai concesse) e date di uscita. Nel frattempo gli episodi di resistenza individuale proseguono faticosamente, i conflitti con gli operatori a mensa non mancano, alcune non si piegano e continuano a inveire e lanciare oggetti contro gli aguzzini che lavorano in quel lager. Gli sbirri si prendono persino la libertà di innervosirsi quando qualcuno non nomina le due avvocate che normalmente vengono assegnate alle recluse. Probabilmente c’è timore che qualcuno segua veramente i casi delle recluse invece che limitarsi a incassare parcelle e gratuiti patrocini. Non mancano le iniziative di solidarietà che puntualmente, almeno una volta al mese, portano solidali e compagne sotto le mura del CPR, per rompere il silenzio e l'isolamento che continuamente circonda le recluse, con musica e interventi al microfono, ai quali le donne imprigionate rispondono gridando "libertà". Alcune donne attraverso il telefono ci hanno fatto sapere che riescono a sentire chiaramente, e hanno espresso la loro rabbia per la reclusione e le terribili condizioni di vita all’interno: bagni sporchi, assenza di prodotti per l’igiene personale, cibo immangiabile condito con tranquillanti, tempi lunghissimi per ottenere una visita medica specialistica e poter essere curate adeguatamente, presenza di operatori che le minacciano e offendono, avvocate che fanno man bassa di nomine tra le recluse ma poi trascurano i loro casi, dimenticando magari di portare al giudice documenti che sarebbero stati fondamentali per la loro liberazione. Da quello che si intuisce dall’interno, sembrano anche iniziati i lavori di ricostruzione dell’ala maschile.
E per far fronte alla solita situazione definita emergenziale, ha riaperto anche il CPR di Palazzo San Gervasio in provincia di Potenza, vista anche, oltre lo svuotamento temporaneo dell'hotspot di Lampedusa, la chiusura del CPR di Pian del Lago a Caltanissetta, avvenuta lo scorso anno dopo la rivolta e l’incendio del 9 dicembre.
Dal 18 marzo circa 20 persone sono state portate nel CPR di Palazzo San Gervasio. Qui i tunisini, provenienti appunto da Lampedusa, hanno continuato la loro lotta, cominciando uno sciopero della fame durato almeno due giorni, per opporsi alle deportazioni.
Di fine marzo è la notizia di un tentativo di fuga: una persona, tentando di scavalcare il muro di cinta del CPR, si è ferita cadendo, ed è stata portata in ambulanza all’ospedale San Carlo di Potenza. Alcuni compagni non hanno mancato di portare solidarietà, ma sono stati subito fermati dal servizio di vigilanza delle forze dell’ordine presente nel CPR. Da quanto hanno potuto verificare, il centro di detenzione non è ancora del tutto completato, sembra esserci un’unica ala in funzione e il reticolato circonda solo una parte del muro di cinta. In seguito al saluto dei solidali, da dentro hanno fatto sapere di essere stati picchiati pesantemente da più poliziotti, con manganelli, calci e pugni per sopprimere ogni loro dissenso. La lotta dei prigionieri però non si è fermata, a inizio aprile è partito un altro sciopero della fame e 22 delle circa 82 persone rinchiuse sono evase, arrampicandosi sui tetti della struttura. Tre degli evasi sono stati poi ripresi dalle forze dell’ordine. Alla fine del mese di aprile si contano circa 100 persone, di varia provenienza, rinchiuse. All’arrivo nel centro, agli internati sono sistematicamente rotte le telecamere dei cellulari per evitare che questi possano riprendere quanto avviene, e già questo ci lascia intendere le condizioni generali: rappresaglie della polizia nei confronti dei rinchiusi, continue minacce e atti intimidatori sono all’ordine del giorno. Numerose persone hanno infatti testimoniato di essere state picchiate dalle guardie e che in seguito non gli vengono concesse neanche cure mediche, come per tutti gli altri. Numerose sono le emergenze mediche, più volte da dentro si è provato a chiamare il 118 per chiedere cure adeguate, ma quando le ambulanze arrivavano al C.P.R. non vengono fatti visitare i reclusi malati ma piuttosto persone senza alcun problema. In seguito, gli internati vengono minacciati per aver provato a contattare il pronto soccorso.
A questo bisogna aggiungere tutta una serie di mancanze all’interno del campo: l’acqua viene aperta dalle 10 alle 20 e non c’è acqua calda; non ci sono tavoli per mangiare, il che costringe i rinchiusi a mangiare o per terra o sui letti; il cibo è quasi sempre immangiabile e ad alcune persone con allergie alimentari non viene fornito cibo adeguato.
In questo clima di tensione un ragazzo ha tentato il suicidio ed è stato lasciato per parecchio tempo a terra, senza che nessuno accogliesse le richieste di aiuto e un tentativo di evasione di 6 persone, 4 delle quali sono state fermate attraverso l’impiego di gas lacrimogeni da parte delle forze dell’ordine mentre le altre 2 persone sono riuscite a scappare. Il 25 aprile si è tenuto un presidio fuori dal CPR, in occasione del quali i compagni e solidali hanno potuto salutare, anche se a distanza, i reclusi e scambiarsi qualche parola.

giugno 2018, da autistici.org/macerie, noblogs.org/hurriya, nociemodena.noblogs.org, anzacresa

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Richiesta un’altra Sorveglianza Speciale
I carabinieri di Mirafiori nell’ambito di indagini intorno alla lotta contro al Cpr (attività investigativa che il corpo militare ha iniziato col ritrovamento di una busta con dei petardoni nel maggio 2015 vicino a c.so Brunelleschi) hanno chiesto il 22 luglio 2015 la Sorveglianza Speciale per un compagno. Le carte dicono che sarebbe stato riconosciuto durante il saluto sotto al fu Cie il giorno del ritrovamento della busta, per questo gli viene attribuita la proprietà. Nessuno aveva considerato la richiesta fino a qualche giorno fa, quando il Pm Riccaboni ha preso in mano l’informativa e rincarato la dose: una richiesta di tre anni di Sorveglianza Speciale accompagnata anche dal divieto di soggiorno, mentre i carabinieri avevano chiesto due anni con l’obbligo.
Sono elencati reati nell’ambito delle lotte contro la Detenzione Amministrativa, contro il carcere e gli sfratti; viene posto l’accento sul non aver rispettato più volte un foglio di via da Torino; naturalmente non manca la descrizione del profilo antisociale e l’appartenenza ideologica all’anarchismo - è un anarchico: una scoperta pari a quella dell’acqua calda! Per non farsi mancare nulla, nelle scartoffie tribunalizie c’è un voyeristico elenco di conoscenze che va a pescare anche tra quelle del liceo. Infine, come ciliegina afflittiva, una delle prescrizioni nel caso in cui dovesse essere confermata questa richiesta consisterebbe nel seguire le udienze in videoconferenza se il compagno dovesse trovarsi in arresto o con misure di allontanamento.
Si tratta dell’ennesima richiesta che questi stronzi, a vario livello e a vario titolo, portano avanti contro compagni e compagne, e in un’occasione, nel 2016, in quattro hanno dovuto sottopporsi per più di un anno a una vita sotto un controllo infimo ma potente.
L’udienza è fissata per il 3 luglio. Presto aggiornamenti.

18 maggio 2018, da autistici.org/macerie


ARRESTI E OMICIDI DI STATO ALLA FRONTIERA FRA ITALIA-FRANCIA
Sul finire del mese di marzo alcune compagne e compagni occupano i locali sottostanti la chiesa di Claviere, per meglio organizzarsi e parlare con le persone che a decine ormai ogni giorno cercano di attraversare il confine. Gli occupanti esprimono chiaramente l'intenzione di non voler dare un'ennesima alternativa al sistema di accoglienza, che già gli Stati francese e italiano mettono in campo, al fine di gestire quelli che loro chiamano flussi ma che altro non sono che persone; al contrario, intendono cercare complicità con chi si batte in prima persona per la propria libertà di movimento.
Tale rifugio autogestito che prende il nome di Chez Jesus, ospita il 22 aprile un incontro su "Alpi, frontiere e resistenze", in seguito al quale parte una camminata sulla strada che da Claviere porta a Briançon, per rispondere alla militarizzazione che negli ultimi giorni ha visto bloccare completamente la frontiera, ma anche per dare una risposta al presidio dei neofascisti di “génération idéntitaire” al Colle della Scala.
Con la fine della stagione turistica, la frontiera italo-francese del Monginevro ha lasciato la sua immagine di località sciistica per diventare meta di decine di militari qui per allenarsi alla guerra facendo la caccia ai migranti. La prima conseguenza tangibile sono i veri e propri agguati dei militari e gendarmi nei boschi, e i tanti respingimenti hanno fatto sì che il rifugio autogestito Chez Jesus vedesse decine di persone bloccate qui in frontiera senza riuscire a passare. La camminata del 22 aprile si è svolta lungo sentieri e strade per 19 Km, rompendo i tentativi di interruzione del corteo da parte delle forze di polizia francese, determinati a raggiungere l’obbiettivo di questa marcia.
Siamo arrivati a Briançon nel pomeriggio, entrando in città in 300 con cori e slogan contro frontiere, fascisti e controlli polizieschi. Per una volta, nessuno è stato obbligato a nascondersi nella notte e nella neve e a camminare tanti chilometri per essere poi respinto dalla polizia. Con l’arrivo a Briançon si è conclusa una bella giornata di lotta. Alle sei del pomeriggio siamo arrivati in centro a Briançon e sono iniziati i festeggiamenti. È in questo momento che la polizia ha iniziato la caccia all’uomo: veniamo a sapere che nove manifestanti sono stati fermati a piccoli gruppi, quando ormai si trovavano lontani dal concentramento. Sono stati bloccati sul marciapiede, messi spalle al muro, ammanettati e portati via. Tre di loro, Eleonora, Théo e Bastien, sono ancora detenuti nel carcere di Marsiglia con l’accusa di favoreggiamento all’immigrazione clandestina in banda organizzata, in attesa dell’inizio del processo. La prima udienza si è tenuta giovedì 31 maggio al tribunale di Gap (capoluogo del Dipartimento delle Alte Alpi della regione della Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Francia) e si è conclusa con un rinvio a giudizio al mese di novembre prossimo e con la liberazione dei tre compagni, senza misure cautelati.
Questo contro Eleonora, Thèo e Bastien è un processo politico: sotto accusa sono la lotta e la solidarietà che si sono sviluppate nella zona di frontiera negli ultimi mesi. Anche l’accusa di “banda organizzata” ne è un esempio: l’attacco dello stato è verso le reti di solidarietà che si sono create tra le valli italiane e il briançonnese.
A fronte di tutto ciò, la militarizzazione delle frontiere continua a uccidere. Nelle ultime settimane tre corpi sono stati ritrovati appena al di là della frontiera. Blessing, giovane 21enne nigeriana che tentava di raggiungere la Francia è morta in seguito a un inseguimento della polizia francese che l’ha fatta cadere nel fiume. Mamadou invece è morto di sfinimento, nei boschi di Briançon, dopo giorni di cammino dove cercava di evitare i controlli polizieschi sempre più forti. Un terzo cadavere in avanzato stato di composizione è stato trovato nell'orrido del Frejus. Complice lo scioglimento della neve, emergono le tragedie umane provocate da gendarmi, polizia, da chi li amministra, da chi si rende complice e li sostiene. Segue il racconto dettagliato delle vicende che hanno portato all'omicidio di Blessing.
Un gruppo di quasi una decina di persone parte da Claviere per raggiungere Briançon a piedi. È domenica sera, e come ogni notte i migranti che cercano di arrivare in Francia si ritrovano costretti a camminare per le montagne per evitare i controlli di documenti. Il gruppo inizia il cammino e poi si divide, una donna fa fatica a camminare ed ha bisogno di supporto. Due persone stanno con lei, e i tre si staccano dal gruppo. Camminano sulla strada, nascondendosi alla luce dei fari di ogni macchina e a ogni rumore. Infatti la polizia sta attuando una vera caccia al migrante, negli ultimi giorni più che mai. Oltre a nascondersi sui sentieri per sorprendere con le torce chi di passaggio e fare le ronde con le macchine sulla strada, hanno iniziato ad appostarsi sempre più spesso agli ingressi di Briançon e ai lati dei carrefour facendo dei veri posti di blocco. Il gruppo di tre cammina per una quindicina di chilometri e si trova a 4-5 Km da Briançon. All’altezza della Vachette, cinque agenti della Police National sbucano fuori dagli alberi alla sinistra della strada. Sono le 4-5 del mattino di lunedì 7 maggio. I poliziotti iniziano a rincorrerli. Il gruppetto corre e entra nel paesino della Vachette. Uno dei tre si nasconde; gli altri due, un uomo e una donna, corrono sulla strada. L’uomo corre più veloce, cerca di attirare la polizia, che riesce a prenderlo e lo riporta in Italia diretto. La donna scompare. La polizia prosegue per altre quattro ore le ricerche nel paesino della Vachette. Il fiume è in piena, e i poliziotti concentrano le ricerche sulle sponde della Durance e nella zona del ponte. Poi la Police se n’è andata. Questo operato si discosta totalmente dalle modalità abituali della Police Nationale, che nella prassi cerca i fuggitivi per non più di qualche decina di minuti. Le ricerche concentrate nella zona del fiume rendono chiaro che i poliziotti avessero compreso che qualcosa di molto grave era successo, a causa loro.
50 ore dopo, mercoledì, un cadavere di una donna viene ritrovato bloccato alla diga di Prelles, a 10 km a sud da Briançon. È una donna nigeriana, un metro e sessanta, capelli lunghi scuri con treccine. Cicatrici sulla schiena, una collana con una pietra blu. Il Procureur della Repubblica di Gap, Raphael Balland, ha dato la notizia il giorno seguente, dicendo che “Questa scoperta non corrisponde a una scomparsa inquietante. Per il momento, non abbiamo nessun elemento che ci permette di identificare la persona e quindi di dire che si tratta di una persona migrante”. Quindi secondo il procuratore, una scomparsa “non è inquietante” se non c’è una denuncia, e quindi se si tratta di una migrante? In più il procuratore mente, perché la polizia sapeva che una donna era sparita dopo un inseguimento. Ben pochi i giornali che hanno rilevato la notizia. Sembra che nessuno fosse molto interessato a far uscire la vicenda, anzi. L’interesse è quello di insabbiare questa storia, per evitare un ulteriore scandalo, dopo i due casi di respingimento di donne incinte, che possa scatenare una reazione pubblica davanti alle violenze della polizia. Un’inchiesta giudiziaria è stata aperta e affidata alla gendarmeria al fine di determinare le circostanze del decesso. Il magistrato ha detto “non avendo elementi che fanno pensare alla natura criminale del decesso, un’inchiesta è stata aperta per determinare le cause della morte”. Ma anche questo è falso. La natura del decesso è criminale. Non è una morte casuale, non è un errore. Questo è omicidio. Erano cinque i poliziotti che li hanno inseguiti. Blessing è morta per causa loro e della politica di leggi che dirige, controlla e legittima le loro azioni. Blessing è morta perché la frontiera senza documenti non la passi in altro modo. Ma Blessing non è nemmeno morta a causa della montagna, per errore, e non è morta per la neve quest’inverno. È morta perché stava scappando dalla polizia che in modo sempre più violento si dà alla caccia al migrante. L’hanno uccisa quei cinque agenti, come il sistema di leggi che glielo ordina. Un omicidio con dei mandanti e degli esecutori. Il procuratore di Gap e il prefetto sono responsabili quanto i poliziotti che l’hanno uccisa, date le direttive assassine che danno. Responsabili sono le procure e i tribunali, che criminalizzano i solidali che cercano di evitare queste morti rendendo il più sicuro possibile il passaggio. Responsabili sono tutti i politicanti che portano avanti la loro campagna elettorale sulla pelle delle persone.
Il prossimo appuntamento di lotta è chiamato per l'8, 9 e 10 giugno, quanto un campeggio itinerante attraverserà la frontiera italo francese da Melezet a Briançon. Queste le parole con cui si invita a partecipare: "Tre giorni in cammino verso un mondo senza frontiere ne fascismi. Tre giorni da passare insieme, condividendo idee ed esperienze tra persone libere dal giogo delle identità imposte. Tre giorni di lotta contro tutti i fascismi, vecchi e nuovi, istituzionali e non. Tre giorni contro tutte le guerre e le politiche neocoloniali che le producono e le alimentano. Tre giorni di lotta contro le frontiere, progettate dai governanti ed imposte da donne e uomini in divisa, che continuano a reprimere ed uccidere."

giugno 2018, liberamente tratto da: Briser les frontières, Defend Solidarity, Chez Jesus, Passamontagna.info, hurriya.noblogs.org


Con il compagno Musa Asoglu in carcere in Germania
Musa Asoglu è militante del Fronte/Partito Rivoluzionario del Popolo (in turco: Devrimci Halk Kurtuluş Partisi Cephesi, o DHKP/C).
Il DHKP/C sin dalla sua costituzione (quando si chiamava Devrimci Sol o Dev Sol) ha assunto con priorità la lotta contro USA e NATO per cacciarli dalla Turchia, dall'Europa, perché la considera condizione decisiva per riuscire a costruire la società comunista, suo scopo fondamentale. Nel febbraio 2013 il DHKP/C ha attaccato l’ambasciata statunitense in Ankara, azione in cui è rimasta uccisa una guardia giurata turca. Gli USA lo considerano inoltre responsabile dell’attacco alla sede centrale del Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) e al Ministero della Giustizia.
Il compagno è stato arrestato il 2 dicembre 2016 ad Amburgo. Sul finire del 2017 è iniziato ad Amburgo il processo, che dovrebbe concludersi a metà di giugno, che è seguito dal movimento antimperialista in Europa e negli USA.
La “Guardia Rossa” (GR) di Austin (città del Texas) in manifestazioni di strada realizzate in marzo ha esortato per la “Libertà per Musa Asoglu” perchè “Il lavoro rivoluzionario non è un crimine”. Nel dicembre 2017 la GR ha tenuto una manifestazione sempre in solidarietà con Musa davanti al palazzo di giustizia federale di Austin.
Segue una lettera di Musa, datata 15 aprile 2018.

Le organizzazioni nazionali kurde ci definiscono “sinistra turca”. I movimenti kurdi sono organizzati dal punto di vista nazionalista, ma non esistono soltanto movimenti di liberazione socialisti e popolari “dei turchi”.
Per esempio, io sono abasine (safi-persiano) e mia madre ha radici greche. Yusuf Tas è un cristiano arabo, Gulaferit è sunnita ceceno-bosniaco, Sadi Ozpolat e Ozgur Aslan sono alawiti zazas, Erdogan (in carcere in Francia), è un sunnita-kurdo, Sefih (anche prigioniero in Francia) è armeno, Muzaferr Dogan è sunnita turco [sono tutti compas oggi in galera del DHKP/C, ndr].
Naturalmente “turco” non è un concetto umiliante, ma non possiamo accettare di non essere caratterizzati come turchi. Se qualcuno ci chiama turchi scatta lo sciovinismo. Se come turchi veniamo definiti nazionalisti e fascisti, anche questo è segno di sciovinismo, un'offesa. E quando il movimento kurdo ci definisce “sinistra turca”, noi ci sentiamo in ogni caso offesi. Io so che compagne-compagni dell'Europa non sanno quale differenza ci sia fra i termini “turco” e “della Turchia”.
I movimenti rivoluzionari di sinistra vogliono cambiare il mondo. Perché noi non cambiamo il concetto di sciovinismo che impieghiamo per reprimere altri popoli?
La Turchia non è soltanto dei popoli turchi e kurdi. Per questo noi troviamo meglio essere chiamati “della Turchia” o “dell'Anatolia”. Naturalmente non vogliamo essere definiti sulla base delle nostre identità nazionali, desideriamo piuttosto venir caratterizzati sulla base della nostra identità politica, dunque come rivoluzionari della Turchia.

maggio 2018, tradotto da Gefangenen Info


L’AQUILA, 4 MAGGIO 2018: ANCORA AL FIANCO DI CHI LOTTA
Il 4 maggio a L’Aquila si terrà la quarta udienza che vede la prigioniera delle BR-PCC Nadia Lioce sotto processo per aver osato dimostrare, tramite una serie di battiture contro le condizioni di detenzione che il regime cui è sottoposta impone, di non essere stata ridotta a totale silenzio dalla vendetta dello stato.
Sono passati 13 anni da quando Nadia è rinchiusa all’interno delle sezioni di 41bis, che lo scorso settembre le è stato prorogato - per la durata di altri 2 anni – ancora una volta.
Le persone rinchiuse all’interno del circuito del 41bis non hanno la possibilità di far uscire la loro voce, rendendo pubblica la tortura quotidiana vissuta sui propri corpi e le proprie menti... Ecco che questo processo si è trasformato nell’occasione per poter prendere parola: nell’ultima udienza, lo scorso 24 novembre, Nadia ha presentato alla corte un documento di una decina di pagine in cui ha ritenuto necessario ripercorrere i passaggi della detenzione speciale, dall’art.90 al 41bis, descrivendo la natura vessatoria delle condizioni cui si pretende di sottoporre i detenuti e le detenute in 41bis, contestualizzandole e rendendo chiaro quanto grottesche possano risultare le accuse a lei rivolte in questo processo, nonché più che legittimi i motivi delle sue battiture.
Con queste parole Nadia ci consegna la testimonianza diretta di ciò che stanno facendo a oltre 700 persone sottoposte in Italia al cosiddetto carcere duro, ma che potrebbe in un modo o nell’altro riguardarne molte altre. I paletti della legalità sono nelle mani dello stato, e dove vengano di volta in volta piantati dipende dal terreno fertile che trovano.
Come campagna “pagine contro la tortura” nell’ultimo anno e mezzo, e come compagni e compagne contro il carcere, da una decina di anni a questa parte, abbiamo lanciato a più riprese diversi appuntamenti nel capoluogo abruzzese, proprio per la presenza in quel territorio del supercarcere che rinchiude oltre 100 persone, quasi tutte ristrette in 41bis. Tali mobilitazioni sono inserite in un percorso di lotta anti-carceraria che individua il regime di 41bis come l’apice, la punta di diamante del sistema di repressione italiano, nonché “scuola” per le amministrazioni penitenziarie di tutti gli stati occidentali e non solo.
Così, già lo scorso 24 novembre, in occasione dell’ultima udienza, ci eravamo recate/i a L’Aquila da differenti parti della penisola individuando nel processo a Nadia una doppia occasione: poter solidarizzare con lei e ribadire che il 41bis è tortura. Successivamente alcuni/e di noi hanno ricevuto delle denunce, che se arriveranno a processo ci forniranno ulteriori occasioni per prendere parola sui motivi che ci spingono a lottare, a non abbassare la testa, a non girarla dall’altro lato per non vedere.
Il 4 MAGGIO, ANCORA UNA VOLTA AL FIANCO DI CHI LOTTA
SOLIDARIETÀ CON NADIA
CONTRO IL 41BIS E IL SISTEMA CHE SOSTIENE E DIFENDE
Ore 9 presidio davanti al Tribunale ordinario di L’Aquila in Via XX Settembre n. 68. Di seguito ci sposteremo davanti al carcere per portare un saluto ai detenuti e alle detenute.

***
REsoconto DELla giornata del 4 MAGGIO a L’AQUILA
Venerdì 4 maggio, in una cinquantina tra compagne e compagni, siamo tornati a L'Aquila in occasione di un'udienza del processo che vede Nadia Lioce, prigioniera delle BR-PCC, sotto accusa per aver protestato più volte, con delle battiture, contro le condizioni detentive cui è costretta dal regime 41bis al quale è sottoposta dal 2006.
Questa mobilitazione rientra in un percorso di lotta anticarceraria che portiamo avanti da una decina d’anni, e da circa 2 nello specifico con la campagna “Pagine contro la tortura”, che riconosce il 41bis come strumento massimo e più duro della repressione dello stato. Tale percorso ci ha visti più volte a L'Aquila per la presenza in città del carcere di massima sicurezza, in cui la maggioranza dei detenuti e delle detenute è appunto ristretta in 41bis.
La giornata è iniziata con l'entrata nell'aula del Tribunale di tutti/e le solidali. Come nell'udienza del 24 novembre, anche questa volta Nadia Lioce era presente in videoconferenza, modalità applicata a chiunque sia detenuto in 41bis.
Questo dispositivo, applicato quindi dapprima su chi è prigioniero in questo regime, si è esteso nel tempo anche ad altre “tipologie” di detenuti e, con l'introduzione della legge Minniti-Orlando di recente applicazione, anche alle persone immigrate recluse nei CPR in occasione delle udienze di convalida di trattenimento.
La videoconferenza è esemplificativa di come agisca lo Stato, che sperimenta la repressione su determinate “categorie” di persone per poi normalizzarla applicandola al resto della popolazione.
Nonostante i problemi con l'audio in aula e l’effetto straniante che vorrebbero imporre con la videoconferenza, speriamo che il saperci presenti abbia trasmesso a Nadia la rabbia e il calore della nostra solidarietà.
In questa udienza è stata ascoltata una agente del GOM (gruppo operativo mobile, reparto specializzato della polizia penitenziaria attivo nelle sezioni di 41bis) come testimone dell'accusa: dopo aver risposto alle domande della PM e delle avvocate della difesa in modi vaghi e contraddittori, e aver affermato che le battiture di Nadia rendevano "insopportabile" il loro lavoro di carcerieri, ha ribadito quello che già avevamo ascoltato nell'udienza precedente da una ispettrice del GOM, e cioè l'ulteriore e totale isolamento cui è sottoposta Nadia Lioce. Isolamento esplicato, per esempio, nell'espressione usata da entrambe le testi, ovvero “socialità in gruppi da 1”, cioè nessuna socialità... fermo restando l'impossibilità di comunicare in alcun modo tra detenute al di fuori dei gruppi di socialità permessi (di massimo 4 persone scelte dall’amministrazione), pena rapporti disciplinari.
Per tutta la durata del processo, in aula sono stati presenti digos e Ros, uno di questi ultimi con una videocamera fissa sul gruppo di solidali. Che fosse dell’arma si è capito solo nel momento in cui si è domandato alla corte, ignara e ignava, chi fosse quest’uomo molesto, il quale si è svelato da solo dopo essere stato, suo malgrado, per alcuni minuti, sotto i riflettori, protagonista della scena. Dopo le numerose denunce arrivate a compagne e compagni per la manifestazione precedente, la presenza assidua e asfissiante delle FdO mira a spezzare la solidarietà. Per noi, invece, queste attenzioni poco gradite, sono un motivo in più per tornare a L'Aquila e sostenere Nadia e tutti e tutte le detenute che lottano e non si arrendono alla violenza delle galere.
Essere lì presenti in tribunale, ci ha reso evidente quanto il processo a Nadia, caratterizzato da accuse che chiunque giudicherebbe ridicole, soprattutto se contestualizzate (cosa che il tribunale stenta a fare), per i/le detenuti/e in 41bis sono la prassi. Cioè è prassi subire dei processi per ogni gesto anche minimo di insubordinazione, cosa che rende questa situazione tutt’altro che risibile, ma invece piuttosto allarmante. E’ lo stato che insegue e persegue qualsiasi “virgola fuori posto”, è il trionfo della legalità normata. Si dirà: “cosa c’è di strano”? “Assolutamente niente in un mondo tutto proiettato verso l’ordine e la disciplina”! Il fatto è che se noi, qui fuori, possiamo ancora permetterci di giudicare ridicolo e risibile ciò che ci stanno facendo, perché nonostante tutto abbiamo ancora una qualche possibilità di “sconvolgere il discorso” del potere, di metterlo in discussione con diverse pratiche di resistenza e attacco, bene, crediamo che chi si ritrova in 41 di tutto abbia voglia, tranne che di ridere della maniera in cui viene trattato/a e che gli spazi di agibilità sono veramente molto ridotti. Se il carcere è lo specchio di una società, il 41bis è il regime specchio della società militarizzata verso cui vorrebbero traghettarci senza trovare resistenze.
Siamo rimasti/e ad assistere alle udienze successive a quella di Nadia, e lo scenario è stato, per il discorso qui sopra, tragico. Detenuti, tutti in 41bis, collegati in videoconferenza, da differenti carceri (perché nel frattempo trasferiti da quello de L’Aquila), a processo per una serie di “virgole fuori posto” rispetto all’ordinamento penitenziario, lo stesso che dispone: 23 ore su 24 di isolamento in cella, una sola ora di colloquio al mese con vetro divisorio, l’interdizione da tutti i cosiddetti benefici, l’impossibilità di acquistare libri e riviste direttamente, di cucinare in cella, di tenere la televisione accesa finché si vuole….solo per citare alcune delle restrizioni. Sulle “regole” del 41 bis c’è un’omertà indecente, e questi processi per “piccole cose” sono forse piccole occasioni per scoperchiare il vaso in cui il potere vorrebbe tenere al sicuro quella che per noi è da sempre un’evidenza: il 41 bis è la sperimentazione normata della tortura, finalizzata all’annientamento, personale e sociale. A quando il conto per noi tutti/e?
Mentre alcune compagne seguivano le altre udienze, il resto del gruppo si è spostato verso il mercato della città, per provare a incontrare e raccontare alle persone del luogo il perché della mobilitazione e cosa succede a pochi km dai loro occhi nel supercarcere aquilano.
Verso le 14 ci siamo spostate verso il carcere per un saluto ai/alle detenute e per quasi due ore vari interventi e musica hanno caratterizzato il presidio. Oltre a raccontare delle udienze a cui avevamo appena assistito, abbiamo voluto far sapere ai detenuti che conosciamo le proteste che stanno portando avanti da due mesi e ribadito il nostro impegno a portare le loro voci fuori da quelle infami mura.
Dalle finestre delle celle (tutte a bocca di lupo) abbiamo intravisto alcune mani sventolare qualche panno bianco, contente/i di sapere che in qualche modo la nostra presenza con cori, parole e musica è riuscita a spezzare l'isolamento e a rompere il silenzio che avvolge quel luogo di tortura.
L’udienza a Nadia, come d’altronde tutte quelle successive, è stata rinviata al 28 settembre, giorno in cui saremo di nuovo a L’Aquila. Seguiranno aggiornamenti.

aprile 2018, Campagna “Pagine contro la tortura”


lettera dal carcere di spoleto (pg)
Carissimi compagni e compagne del CPA FIRENZE-SUD, vi faccio sapere che sono stato nuovamente trasferito (questa volta da Rebibbia a Spoleto). Tutto è collegato alla campagna contro la tortura che voi portate avanti e alla quale ho dato il mio contributo con il volume (di cui si è tentato inutilmente di impedire l'uscita) "L'inferno dei regimi differenziati" che è stato pubblicato a cura dell'associazione Liberarsi onlus di Firenze (vedi www.liberarsi.net). Dunque i continui trasferimenti e il divieto di usare il computer (in violazione dell'ordinanza di ottemperanza, con tanto di nomina di commissario ad acta, del MDS di Sassari 7/11/17 n. SIUS 2017/3459 rimasta inapplicata) non sono serviti a nulla poiché come ho detto il libro ha visto la luce.
Quello che vi chiedo, se possibile, è di segnalarlo. Vi invio cari saluti, Alessio Attanasio.
Grazie di tutto (dico del vostro impegno).

Spoleto, 14 marzo 2018
Alessio Attanasio, via Maiano, 10 - 06049 Spoleto (Perugia)

L’importante scritto di Alessio, "L'inferno dei regimi differenziati", può essere richiesto all’Associazione Liberarsi Onlus, via A. Manzoni, 21 - 50121 Firenze che provvederà a spedirlo gratuitamente a chi si trova in galera.



lettera dal carcere di carinola (ce)
Ciao, con molto stupore ho ricevuto l’opuscolo con dentro lo scritto di [...], e siccome non mi arriva più posta è stata una sorpresa che mi ha reso felice e spero di sapere che voi tutti/e del collettivo state bene, perché questa è la cosa più importante. Anche io sto bene, perché faccio sempre ginnastica, ma sono nervoso dopo 20 mesi di isolamento, dal 16 ottobre 2016 e qui sono solo da 5 mesi. […]
Pubblicate quello che vi racconto e soprattutto che per i pestaggi hanno telefonato due detenuti che sono stati scarcerati portando la loro testimonianza.
Dopo quello che è successo qui mi sono trovato con il divieto di incontro, ho provveduto a fare un’istanza al Trib. Di Sorv. chiedendo che mi sia revocato, perché non temo niente da nessuno, non ho paura di nessuno e so badare da solo alla mia incolumità e non ho bisogno di loro. Invece, hanno usato quello che ha dichiarato un detenuto, per isolarmi da tutti (invece di trasferirmi) e a questo detenuto, cui avevano commissionato di accoltellarmi, non hanno fatto denunciare la cosa, ma gli avevano detto di “farsi i cazzi suoi”, perché io a Poggioreale e in tutte le carceri denunciavo su internet pestaggi e abusi sui detenuti e il mio avvocato ha la sua testimonianza scritta. Dopo pochi giorni le guardie lo hanno picchiato, di mezzo c’era un brigadiere che è una feccia e la seconda volta che lo ha picchiato qui in isolamento io ho fatto casino; abbiamo raccolto le firme contro il brigadiere e raccontato i fatti, spedendo la lettera al Direttore e così lo hanno tolto dall’isolamento come responsabile, ma hanno archiviato tutto.
[…] qui picchiano i detenuti, lo hanno fatto con Pasquale, Vincenzo, Emilio, Carmine e molti altri. Invece, nelle sezioni vogliono e pretendono che i detenuti nell’ora della conta si mettano in piedi e sull’attenti. Le guardie si vantano che Poggioreale è secondo dopo di loro per i pestaggi. Al magazzino non passa nulla: tre scarpe, vestiario con cappucci NO, cappelli NO, giubbini di pelle NO, occhiali non più di un paio, e altre cose… sono solo abusi. Per picchiare vengono in assetto antisommossa, con caschi, manganelli e scudi (la squadretta).
Dite ai compagni di urlare al megafono a tutti i detenuti di ribellarsi, di non sottostare agli abusi dei secondini, e che Maurizio non si è mai piegato a farsi sottomettere e di (unirsi) e rifiutarsi al mattino di alzarsi e mettersi sull’attenti, perché se no non sono uomini (e non hanno dignità) e di dire che faranno pubblicità sugli abusi che tutti noi subiamo. È importante che dicano questo al megafono e dite anche che a me vogliono tenermi isolato perché sanno che mi ribello su questi abusi…
Il 27 aprile sono andato al Trib. Di Sorv. perché il Mag. di Sorv. ha accettato il mio reclamo al rigetto di trasferimento da parte del D.A.P. e mi ha detto che è un mio diritto essere trasferito vicino ai miei cari/e. Ha fissato un’altra udienza il 4 giugno perché chiedeva spiegazioni al D.A.P.
Mi hanno rubato il vestiario estivo al magazzino, tutte le calze, slip e vestiario spedito dai compagni/e del Louis Michel e altri completini nuovi. Mi sono incazzato perché hanno insinuato che mi ero inventato tutto, ho quindi risposto di guardare a Poggioreale dove era tutto segnato e loro mi hanno detto che non ci lavorano detenuti al magazzino, e io ho risposto che allora deve esser stata qualche merda infame di loro.
Oggi, il 17.05.18 mi hanno detto che posso andare in palestra due volte a settimana, logicamente solo e sono cos’ dal 1° gennaio, senza socialità, al passeggio solo. […]
Ci sarebbe da raccontarvi ancora molto di qua, ma credo che quanto ho scritto sia sufficiente per dare la notizia e testimonianza ai presidi e soprattutto contro quei maledetti che stanno a Roma. Vi ricordo che vi voglio bene e che non riusciranno mai ad allontanarmi da voi, dai nostri ideali e dal sentirsi liberi/e di essere anarchici, fieri/e e orgogliosi/e. Vi bacio con eterno bene e ribelle.
W la vita, W l’amore, W la solidarietà! W la libertà, W l’anarchia! V.V.B. Maurizio.

17 giugno 2018
Maurizio Alfieri, via San Biagio, 6 - 81030 Carinola (Caserta)

***
CONTRO L’ISOLAMENTO E I TRASFERIMENTI PUNITIVI
SABATO 23 GIUGNO PRESIDIO DAVANTI AL CARCERE DI CARINOLA
Il senso di questa mobilitazione è quello di dare continuità e sostegno alle lotte sia collettive che individuali affrontate da tanti/e detenuti/e contro le sistematiche vessazioni inflitte dal DAP, dalle direzioni carcerarie e dalle guardie all’interno delle mura. In particolare contro isolamento e trasferimenti punitivi che combinati fra loro mirano ad impedire ogni tipo di comunicazione e relazione sia all’interno che con l’esterno e costituiscono l’anticamera di pestaggi e “suicidi”.
Lo scopo di andare sotto al carcere di Carinola viene dal trasferimento di Maurizio (Alfieri) da Poggioreale – dove era stato spostato da Opera (Milano) – per sabotare l'impegno nel costruire solidarietà e lotta contro l'isolamento e la tortura.
Un caso emblematico di una situazione generale che riguarda migliaia di prigionieri/e che pagano con l’isolamento e il blocco della comunicazione, associato a sistematici trasferimenti punitivi a centinaia di chilometri di distanza dai luoghi di origine, la difesa della propria e dell’altrui dignità.
E’ dal 2013 che Maurizio viene sballato da un carcere all’altro e posto in regime di 14 bis (isolamento punitivo) a seguito di denunce di pestaggi eseguiti da guardie a danno di diversi detenuti e per aver preso parte a proteste e lotte all’interno delle carceri. Da Tolmezzo a Spoleto, poi a Milano-Opera, Napoli-Poggioreale e infine a Carinola.
La giornata di mobilitazione è stata discussa e lanciata negli ultimi incontri della campagna “pagine contro la tortura”.


lettera dal carcere di agrigento
Cari amici, vi ringrazio per gli opuscoli e soprattutto per il libro; l’ho divorato con un piacere immenso e poi l’ho passato ad uno dei pochi che apprezza la compagnia di un libro anziché la solita bagola vacante.
Che dirvi, Agrigento è sempre coerente a sé stessa, gli ispettori disattendono persino la linea gerarchica che incarnano. Non sono in grado di dare risposte e figurarsi di prendere decisioni che come è ovvio sono declinate ad “ALTRI” astratti! La cara e vecchia “diffusione della responsabilità” tanto amata dai burocrati di tutto il mondo qui vige impunita. E più si sale più l’incoerenza (e incompetenza) aumenta, perché qualsivoglia problema a causa dei rimbalzi gerarchici al quale è sottoposto si ingrandisce, si deforma, in buona sostanza si complica. Se poi aggiungiamo che qualsiasi aspetto ad Agrigento più che mai, viene normato e scartoffiato in un circolo tortuosissimo, capite quanto possa essere lento ed asfissiante questo luogo! Come biasimare le critiche di una compagna che amorevolmente mi rimproverava un’ingenua creduloneria nell’accettare comunque una normazione “dall’alto” (nella vita civile) al fine di evitare o di dirimere dispute inutili tra cittadini? La normazione irretisce e va complicando aspetti della vita quotidiana ma soprattutto fortifica l’assetto di comando dello Stato e dei legislatori.
Nei penitenziari questo aspetto è tangibile più che mai, anzi questa trama ti striscia sulla pelle! E’ venuto in visita Santi Consolo, figura di comando nel DAP. Mio Dio, mai vista una così titolata ed esimia testa di cazzo. Ero parte di una rappresentanza di detenuti, scesa negli uffici per parlare con lui, e nel guardarlo assiepato dietro la sua ipocrita urbanità, ho dovuto ricordargli che dal suo operato dipendono le vite di molte famiglie e che il DAP (come qualsiasi istituzione in grado di legiferare) infrange le norme da lui stesso dettate. Gli ho precisato, non senza tensione, che il DAP rigetta trasferimenti più che legittimi per motivi di sicurezza, quasi a far credere che le mura di un penitenziario siano più sicure di un altro e negando che la lontananza dal nucleo familiare sia un atto volutamente repressivo; ma sembrava si fosse dimenticato di esser parte di quel dipartimento, quasi fosse cascato dalle nuvole. La mancanza di empatia è l’aspetto più palese nella burocratizzazione statale. Lo giuro mi sono cadute le braccia, individui come questi potrei definirli i figli di Adolf Heichman, sarebbero capaci di qualsiasi nefandezza, non con aperto piacere, come i sadici, ma con la ripetitiva superficialità dell’operaio che nel mattatoio spara il chiodo nella testa del bove. Lavoro e deindividualizzazione dell’altro, tutto qua.
Mi chiedo quali azioni siano necessarie per ottenere la giusta attenzione su questo stato di cose. Proteste pubbliche, pubblicazioni di nicchia vengono – le prime – marginalizzate dalla grande informazione e – le seconde – spesso non hanno abbastanza forza economica per raggiungere un ampio riscontro emotivo (non vengono percepite da molte persone perché gli opuscoli sono limitati e le stampe non lambiscono la massa).
Temo che solo la violenza ben indirizzata e rivendicata possa trasportare il seme del cambiamento. Sarebbe odiosa, è vero, ma quando la violenza istituzionale (che paradossalmente si legittima ed è legittimata da un’opinione pubblica che riconosce alcuni soggetti più trascurabili di altri) si protrae sistematica e continua, allora, visti gli impedimenti sopra elencati, che cosa rimane da fare?!
Amici miei non so cosa aggiungere… io tengo botta, il processo prosegue, e faccio in modo di ritagliarmi delle zone franche per star tranquillo, si fa quel che si può!
Saluto tutti gli amici e compagni, che mi sostengono, con un abbraccio fraterno ed un saluto speciale a Maurizio. A presto, Valerio.

20 marzo 2018
Valerio Crivello, C.C. Contrada Petrusa - 92100 Agrigento


Lettera dal carcere di monteacuto (An)
Cari compagni del collettivo, questa ulteriore mia non è altro che il racconto di quanto le istituzioni totali suscitano nell'animo di chi vive le varie forme di prigionia.
Questa mattina ho potuto parlare con la direttrice dott.sa Leporoni. E' chiaro che quello che stò per narrarvi qui è ormai da tempo diventato quotidianità. Sopra all'immanenza degli eventi e al convivere con la tortura democratica, ho potuto parlare di come mai in questi luoghi si possa esercitare un potere in flagranza di reato.
Ma voglio essere più chiaro, qui oltre ad essere schiacciati da ciò descritto in calce, bisogna vivere, oltre alle condizioni dettate dalla convivenza forzata, con il disagio dei furti che vengono effettuati dall'ufficio conti correnti in collaborazione con l'ufficio spesa. Non si sa perché, tanto per dirne una, il gas, la bambola che serve per scaldare il rancio, costa un euro in più degli altri istituti e non c'é un perché. Rubano e basta su tutto quello che ogni prigioniero riesce a racimolare sia all'esterno che all'interno, questi ultime sono le paghe derisorie (mai qualche codardo che si é guadagnato la fiducia degli sbirri viene sollevato dall'incarico per aver protestato contro quei furti legalizzati), quindi mai si libera un posto per qualche proletario che magari abbia bisogno di qualche spicciolo per comprare un pacco di tabacco.
Le condizioni sono esasperate mentre quei dementi di Di Maio e Salvini cercano insieme di codificare un governo che sarà la fotocopia degli altri quindi fatto da bastardi corrotti e boia delle varie magistrature che come gli appartenenti alla cricca del governo agiscono in modo che i prigionieri divengano un indotto parentario e al quanto prolifero.
E' difficile spiegare tutto ciò, ma sono certo che nessuno meglio di voi può capire l'assurdità di questi luoghi e l'insignificante promessa di un reinserimento che non ci sarà mai. Non si può neanche raccontare quello che pensano gli operatori dell'area trattamentale che ti danno sempre ragione, ma che vengono messi in condizioni di operare e quindi gli incontri divengono iniqui e servono solo a scuotere rabbie represse e ad accrescere la dimensione delle posizioni di tutti i prigionieri dimentichi che il problema, invece, é comune e che bisogna unirsi per combattere questi boia che, per adesso, non pagheranno le loro ignobili azioni.
Qui a Monteacuto, i tanti quesiti effettuati e portati negli appositi uffici non trovano soluzioni e questo crea ulteriori disagi. Ora mai qualcuno esorta i tanti a non arrendersi, ma strategicamente é impossibile vedere una prossima vittoria. Nonostante, io perlomeno, non si conceda tregua a questi quattro mentecatti, mi ritrovo sempre poche persone, a partecipare alla lotta.
Il governo ordina e la classe borghese trasferisce gli ordini ai servi del potere e loro lo esercitano. Chiaramente senza nessuna mobilitazione esterna non potremmo mai superare i censori ai quali i nostri scritti vengono inviati. D'altronde non ci rimane che continuare a combattere, rimanendo l'avanguardia di guardia davanti alla retrovia. Guai a chi tocca gli ultimi! Questo è il compito. Con un sorriso a pugno chiuso Marco.

Fine maggio 2018
Marco Ricci, via Monteacuto, 73/A - 60127 Ancona


9 giugno: Presidio al carcere di Monza
Un grido silenzioso si alza dalle galere di tutta Italia: lo stato fa di tutto per nasconderlo, mentendo, insabbiando e minacciando. Basta però prestare attenzione alle notizie che trapelano da quelle mura per accorgersi che in carcere si lotta quotidianamente per sopravvivere. Accanto ai propagandistici articoli di giornale che parlano di “prigioni dorate” e di formidabili percorsi lavorativi, e accanto ai soliti piagnistei orchestrati dai sindacati delle guardie penitenziarie, non passa settimana senza che l’elenco dei pestaggi, dei suicidi e delle “morti non accertate” cresca. E’ un vero e proprio bollettino di guerra: solo nel 2017 le persone che hanno perso la via sono state 123, di cui 52 per “suicidio” ed i tentativi sono stati addirittura 567.
Da gennaio 2018 ad oggi inoltre si sono verificate altre 46 morti.
Il carcere di Sanquirico a Monza è tristemente conosciuto per essere un punitivo di fatto, in cui viene trasferito chi ha dato in qualche modo fastidio all’amministrazione penitenziaria, come chi ha ammesso di aver visto un pestaggio o ha partecipato alle più semplici forme di lotta. Non possono esistere infatti “carceri modello” come quella di Bollate se non esistono anche carceri come quello di Monza, a monito di tutti quelli che provano a dar fastidio e non accettano passivamente la loro sorte.
Nel 2017 tra queste mura ci sono stati ben 5 decessi: due “suicidi” e tre di cui ancora non sono ancora chiare le circostanze. Nell’ultimo caso la direttrice del carcere G. Pitaniello (nonché moglie del direttore del carcere di Bollate) ha messo le mani avanti assicurando che la fatalità sia avvenuta nonostante ci siano state “tempestive manovre di riabilitazione e massaggio cardiaco”.
Onestamente facciamo molta fatica a crederle.
Difficile credere al buon cuore di chi ogni giorno, a Monza come altrove, avalla pestaggi, umiliazioni, torture psicologiche e fisiche. Le questure, gli uffici del DAP e le carceri, sono luoghi di barbarie ammantati di civiltà, dove la legge della violenza è nascosta dietro una retorica democratica. E chi le gestisce, direttori e guardie in primis, se ne assume nei fatti la piena responsabilità. Infatti il silenzio di cui si circondano le galere è lo strumento che per primo assicura l’impunità agli aguzzini e che per questo deve essere infranto. Come è successo dopo la morte di Francesco, avvenuta l’8 giugno di tre anni fa qui a Monza.
Un caso che si sarebbe potuto perdere tra i trafiletti di qualche giornale di provincia se i parenti e amici non avessero deciso di lottare perché non passasse sotto silenzio questa ennesima morte di carcere.
Per ricordare Francesco, sostenere coloro che ogni giorno si battono contro queste mura sia da dentro che da fuori, contro le morti di carcere e il sistema che ne è direttamente responsabile.
PRESIDIO ore 11 davanti al carcere di Monza Sanquirico

maggio 2018, da cordatesa.noblogs.org


Iniziative sotto le carceri del Piemonte
Ivrea, sabato 24 marzo: nel pomeriggio attorno al carcere una cinquantina di compas ha dato vita a una comunicazione con le persone in carcere attraverso messaggi di solidarietà, musica, battiture, urla come LIBERTA, FUORI TUTT* DALLE GALERE DENTRO NESSUNO SOLO MACERIE. La manifestazione è riuscita a stabilire il contatto diretto con Greg, compagno portato in quel carcere poche settimane prima per “essere arrivato in ritardo alle firme” nella caserma dei carabinieri di Rivarolo. Da dentro sono dunque riusciti a sentire il suo saluto da Cesena dove sta ora scontando i domiciliari. Nel calore del gesto lanciato da dentro si è sentito il suo apporto alla protesta dei detenuti nei giorni scorsi contro i pestaggi, la miseria delle cure mediche, dell'igiene e delle prepotenze delle guardie riguardo a colloqui, imposizione di censure... Una situazione, presente in altri modi in ogni carcere, che a Ivrea era già stata affrontata dai prigionieri nella rivolta scoppiata nell'ottobre 2016. Il presidio, preceduto nei giorni precedenti da volantinaggi davanti al carcere e in città, ha espresso solidarietà, sostegno alla ribellione per vincere ogni differenziazione, abuso, aggressione.
Cuneo, domenica 25 marzo: una decina di compas, dotati di un forte impianto, hanno portato sotto il carcere il proprio sostegno a Ennio, 'Tepepa', riportato in carcere dai domiciliari per pura rappresaglia. L'impegno era ed è far uscire al più presto Ennio, già ultra-ottantenne, che ha esortato a mobilitarsi anche per le sue condizioni di salute non proprio ottimali. La comunicazione con le persone, espressa anche da amici di passaggio con i detenuti dentro è riuscita a raggiungerlo, a stabilire una certa continuità solidale con tutti i detenuti.
Sabato 31 marzo nel quartiere Vallette e attorno al carcere, lì costruito, dove il 28 marzo 1998 trovò la morte Baleno, si è tenuta la manifestazione “1998 – 2018 NON DIMENTICHIAMO” in memoria di Baleno e Sole.
Al corteo hanno preso parte oltre cento compas con volantini, striscioni, urla (Edo e Sole sempre con noi, Le nostre idee non moriranno mai, Il carcere va distrutto - Solidarietà con i/le detenute/i in lotta, Gli unici stranieri gli sbirri nei quartieri, Libertà) hanno espresso il sostegno a chi lotta nel carcere e si batte contro isolamento, torture, censure addirittura cestinaggio della corrispondenza; con chi nel quatiere lotta per la casa, contro le provocazioni di sbirri e fascisti.
Il corteo dopo aver attraversato il quartiere, ha camminato attorno alle mura dell'intero carcere (dove sono rinchiuse olre 1.000. persone) con urla, battitura sulla cancellata, urla, diffusione di saluti raccolti fra i parenti di persone detenute, che nei giorni precedenti si recavano ai colloqui... insomma sviluppando comunicazione diretta. Un bel clima interrotto da un'acquazzone. Al corteo ha fatto seguito in un parco del quariere un confronto a microfono aperto svoltosi anche con la musica, sulla lotta contro il carcere e contro la società che ne ha bisogno.
Il giorno successivo tante* compas, come ogni anno, raggiungono il cimitero Brosso in Valchiusella, dove è sepolto Baleno, per portarsi direttamente sui monti della Cavallaria che sovrastano il paese, luoghi conosciuti da Baleno, da lui vissuti.

Milano, aprile 2018


lettera DAL CARCERE DI TRIESTE (ts)
Ciao Olga, grazie innanzitutto per aver continuato a recapitarmi l’opuscolo e i libri e grazie per aver pubblicato qualche notizia dal manicomio del Coroneo; qui situazione sempre peggio: con la primavera son tornate le cimici dei letti, alcuni fortunati non vengono punti ma le cimici hanno infestato quasi tutto l’edificio, qualcuno è letteralmente RICOPERTO di punture e in alcuni casi vi sono iper-reazioni che mettono seriamente a rischio la salute e il sonno, per calmare gli animi e tamponare la situazione una quantità disumana di psicofarmaci e metadone/affini vengono distribuiti con la motopala e alimentano le depressioni e le dipendenze di buona parte di reclusi qui, il risultato sono i vari tentativi di suicidio degli ultimi tempi e il riuscito suicidio di pasquetta di un signore triestino (CRISTIANO RIGHI) avvenuto nel corridoio del primo piano nella indifferenza delle guardie presenti tant’è che se non fossimo corsi a tirarlo giù noi nessuno avrebbe mosso un dito. Eppure per aprire la porta che collega le scale, dalle quali tornavamo dall’aria, al corridoio dove si è impiccato deve essere presente una guardia ed è praticamente impossibile che non abbia visto nulla la guardia del piano che ha aspettato che intervenissimo noi per smontarlo e provare a rianimarlo mentre altre 3 guardie restavano impassibili tanto che abbiamo dovuto intimargli di chiamare subito i soccorsi. Mentre l’ambulanza arrivava anche l’infermiere ha lasciato fare il massaggio cardiaco e la respirazione a due detenuti perché nessuno in questa galera sa o vuole intervenire in casi di emergenza tranne i detenuti stessi. Quando sono arrivati i paramedici il cuore batteva ma era comunque tardi. Era il suo terzo tentativo di suicidio e tanto si sarebbe potuto fare molto prima, se non altro per non lasciarlo morire dentro una schifosa galera. E’ un fatto però appurato che in situazioni di emergenza, che uno lo voglia o meno, chi tiene le chiavi qui non è in grado di intervenire o non vuole perché per loro siamo carne da macello, pedine sacrificabili. Ancora peggio vedere che alcuni detenuti in quel momento di tensione si schierano a difesa delle guardie (messe alle corde dai compagni di sezione del signore) per non intaccare il rapporto che gli permette di avere benefici e privilegi nei vari aspetti della carcerazione e nell’assegnazione dei posti lavoro. Io adesso sono dentro da 1 anno e 2 mesi e da quando sono qui son morte due persone in meno di un anno…
Adesso aspetto risposta per i domiciliari ma ho preso vari rapporti e una denuncia perché so che urlare la mia rabbia è un beneficio che non ha bisogno di concessioni e al quale non sono disposto a rinunciare.
A fronte di queste condizioni igienico/sanitarie i pensieri della direzione sono quelli di fare bello il carcere per la visita di Sbriglia e Consolo (DAP triveneto e capo DAP) in occasione dell’intitolazione del carcere a Ernesto Mari: ex direttore che al servo dei nazifascisti smistava da questa galera i prigionieri tra i lager e la risiera di S. Saba, infoibato nel ’45. Sbirri e istituzioni non si smentiscono nelle loro ispirazioni. Comunque vorrei salutare e ringraziare i nostri compagni ed amici e familiari che il 31 marzo erano sotto le mura per rompere l’isolamento che questo sistema carcerario vorrebbe usare per reprimere la libertà e le nostre idee di solidarietà, sappiamo che non siamo soli, sappiate che non ci fermeremo finché queste mura cadranno!
Sperando che mi pubblichiate mando un ringraziamento e un abbraccio anche a chi è stato al mio processo a Udine. In alto i cuori, presto ci abbracceremo senza catene!
Libertà per tutti, morte allo stato assassino. Saluti da Trieste. Tutti pazzi!!!
Ciao Olga grazie ancora per i libri, bellissimi! Kabu

Aprile 2018
Alberto Casonato, Via Coroneo, 26 - 34133 Trieste


lettera dal carcere de l’isola Gorgona
Ciao Olga, innanzitutto vorrei ringraziarvi per i libri e gli opuscoli che mi inviate.
Conoscermi meglio e volendola far breve è stato un incidente di percorso che la vita mi ha attribuito e devo scontare questa pena con giusta ragione, ma qui non ne sconto una, ne sconto due. Essendo la prima volta in carcere non credevo che il regime carcerario fosse così orribile. Ho passato tre anni in un carcere alle Sughere di Livorno e lì anche se era un regime militaresco ero riuscito ad ambientarmi.
Arrivato qui vidi un cartello con scritto “Benvenuti in Gorgona” non credevo che volesse dire “Benvenuti all’inferno”. Io sono tra quelli più fortunati perché con il mio lavoro (idraulico) passo giorni quasi in libertà, ma tanti miei compagni, si recano nei campi di lavoro e da lì non possono muoversi.
In questa infernale isola, manca tutto; si lavora 4 ore, manca il mangiare, anche volendolo comprare, specialmente la verdura, e non si può fare i colloqui, cioè si fanno se le motovedette non sono rotte o se il mare lo permette. E non parliamo dell’assistenza sanitaria, degli educatori, degli assistenti sociali, dei psicologi, che non ci sono per niente e se ci sono, parlano con tre o quattro persone e poi vanno via.
Siamo nelle mani dell’ultimo padrone.
Cara Olga i nostri diritti non esistono, ma esistono i nostri doveri e se vuoi andare via dall’isola te lo proibiscono in tante maniere. Ci sono tanti miei compagni che si sono fermati nel lavoro e sono mesi che aspettano di poter andare via, li lasciano qui senza alcun sostegno. Inoltre alla TV (che è del 1950) si vedono solo 11 canali quando la centralina funziona. Telefoniamo e il centralino sente le nostre telefonate, anche se non dovrebbe.
Personalmente mi manca ancora tanto per avere i benefici che dovrebbero garantirmi. Ma vedo che le cose qui non funzionano e vorrei poter andare in una struttura che mi possa garantire con i requisiti i miei benefici. Pensa che ogni volta si deve aspettare più di un mese per parlare con l’educatore e certe volte passano diversi mesi. La psiche è fragile in tutti noi e tanti si picchiano o picchiano gli agenti.
In 2 anni che sono qui ho visto detenuti che per andare via hanno mangiato pile, si sono tagliati e hanno picchiato agenti. Questo non fa reintegrare nella società, qui vige l’abuso di potere.
Ci sarebbero tante altre cose da dire, ma concludo nel dirvi di fare stare lontani i compagni da questa isola. Alfredo.

fine aprile 2018
Alfredo Andreucci, via del Porto, 1 - 57128 Isola Gorgona (Livorno)


Lettera dal carcere di Massama (or)
Ciao compagni, spero di trovarvi tutti in buona salute, con il freddo che sta imperversando bisogna stare attenti, qui piove e fa freddo, come nel resto del Paese.
Con l'accordo politico fra M55 e Lega l'orizzonte lo vedo nero, alle prime difficoltà per coprire le loro incapacità si avventeranno su noi detenuti, l'anello più debole a cui tutto può essere fatto.
Negli ultimi 25 anni, tra alti e bassi, la repressione è stata il perno di ogni governo, ormai è diventato un mestiere per fare carriera e ottenere privilegi. Hanno creato un apparato repressivo mostruoso, coperto da una democrazia che è solo nella parola.
Hanno ristampato il mio libro con molti racconti, se vi è possibile organizzare una presentazione ve ne sarei grato. Vi auguro buone feste, divertitevi anche per me. Un abbraccio di sincero affetto. Pasquale.

22 marzo 2018
Pasquale De Feo, Loc. Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)


lettere dal cacere di lucca
Ciao compagni, io non ho mai cessato di scrivervi, ho sempre cercato a tutti-e di farvi sapere le mie notizie anche quelle più banali. Ho riempito intere pagine riguardo all perché sono in carcere.
Ogni due tre giorni invio quattro/sei lettere al giorno e nonostante questo continuo a riceverne una ogni quindici/venti giorni. Quella che ricevo a volte non viene consegnata quando va bene e quando non va bene viene mandata dal GIP così come fecero con alcuni giornali, che vennero mandati al GIP. Uno perché era stata espressa la solidarietà dopo il mio arresto e altre forse ritenute troppo sovversive. I compagni mi mandarono un pacco che dopo tanta burocrazia domande su domande, cioè chiedendomi se li conoscevo e/o perché mi hanno mandato il pacco e i vaglia! Il pacco non mi è stato dato perché stando a come mi è stato detto, il GIP non aveva tempo per dare il suo nullaosta e quindi è stato mandato indietro.
È dal 2 febbraio che mi trovo in terza sezione, le chiamano sezioni chiuse. Tutti passano in questa sezione, i nuovi giunti, i nuovi arrestati. Prima di essere portati nelle sezioni, in prima e in seconda dovranno colloquiare con tutti: psichiatra, psicologo ed educatrice, perché sono loro che decidono se puoi stare in una sezione aperta, oppure rimanere ancora un po' in osservazione in terza sezione. Chi vuole andare nelle due sezioni aperte dovrà inoltrare una semplice domandina.
Io non inoltro nessuna domandina per essere collocato nella sezione aperta perché non me ne frega niente. Tutto è basato se hai un comportamento buono ed educativo. È sempre il solito minestrone basato sul sistema del bastone e della carota. Io non voglio niente a che fare con l’intera costituzione interna non li cerco e non mi devono cercare.
Pochi giorni fa c’era un detenuto nigeriano che veniva dalla sezione aperta ed è stato portato in isolamento perché avrebbe tirato un pugno ad un altro detenuto. È stato in isolamento ben due mesi senza tv e senza passeggio perché rifiutava di uscire all’aria. Comunque era fuori cervello. Ho fatto una mattina del casino che a colpi di branda ho spaccato l’armadio ed offendendo il brigadiere Gervasio, perché quella mattina entrarono nella cella di questo, menandolo. Io ho detto che se dovevano picchiare un detenuto non dovevano farlo in sezione isolamento, ma di fronte alla nostra sezione.
Al momento per quanto è successo non sono stato chiamato né dalla commissaria, né dal direttore. Però non è detto che non mi chiami la commissione disciplinare o mi venga fatta una denuncia. Quindi mi fa pensare che il pacco postale sia stato mandato indietro senza nessun preavviso al GIP. Si perché qui se tenti di differenziarti dagli altri (troppo ribelle) vieni subito catalogato aggressivo e pericoloso e catalogato “grande sorveglianza”. Se non giustifichi il motivo perché hai cessato di lavorare ti fanno rapporto. Qui vanno avanti di rapporti disciplinari, sorveglianze particolari e a volte succede che qualche detenuto, come è successo, è stato dato il divieto a tutta l’intera sezione senza che nessuno abbia fatto niente.
Nelle celle cubicoli appena 5 metri x 4 metri si sta in due e tra l’altro le celle sono prive di manutenzione. In un carcere come Lucca i detenuti dovrebbero stare meglio considerato che non è un carcere affollato. Qui ci sono altri reparti oramai chiusi da anni che dovevano essere sistemati, ma che per mancanza di fondi li tengono chiusi. Beh al momento mi fermo qui. Mando un mio più grande abbraccio a tutti-e

17 aprile 2018
Mauro Rossetti Busa, via S. Giorgio, 11 (c.c.) - 55100 Lucca

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Un abbraccio a tutti-e, un mese fa nella sezione dove mi trovo, per futili motivi è successa una rissa fra albanesi, sinti e italiani, da una parte, e tunisini, marocchini dall'altra. Ci tengo a precisare che non ha niente a che fare con il razzismo.
Beh, ne seguiranno forse denunce e di sicuro dei rapporti disciplinari e un paio di giorni di isolamento.
La direzione ha ora applicato il divieto di incontro della sezione con i marocchini e dei marocchini con noi. Quindi, se prima ai passeggi andavamo tutti assieme, ora ci si va un'ora soltanto e così disposti: turno di albanesi, sinti e italiani insieme, altro turno, stanno assieme marocchini e tunisini. Questa separazione viene applicata anche nei turni delle docce.
Le separazioni non so dire fino a quando dureranno. Ho pensato che con alcuni trasferimenti da una parte e dall'altra la cosa poteva risolversi, ma purtroppo non è andata cosi. Abbiamo inoltrato alla direzione una petizione con tutte le firme, chiedendo di ripristinare la socializzazione a tutti, ma credo che non verrà considerata. Anche un anno fa per futili motivi, sempre in questa sezione, era accaduta una rissa, seguita dalla chiusura della sezione, che sta diventando una sezione “differenziata” e controllata con attenzione, a differenza delle altre due sezioni (prima e seconda) dove ci sono più possibilità di movimento perchè aperte dalla mattina alla sera, dove c'è il G.O.T. [Gruppo per l'Osservazione e il Trattamento, al quale si può essere inclusi per essere meno isolati, limitati nei movimenti, ndr].
E' la direzione che decide se i detenuti della nostra sezione, la terza, possono essere ammessi nelle altre due sezioni. Bisogna precisare che ciò può avvenire alla condizione che i detenuti non abbiano preso rapporti disciplinari o denunce. Quindi tutto questo ha odore di premio, come è un premio anche poter lavorare. Il lavoro ti viene dato ma possono anche levartelo in qualsiasi momento, come è successo che il porta-vitto di questa sezione è stato chiuso per essersi permessodi reclamare in cucina che alla distribuzione venivano spesso a mancare delle porzioni.
Anch'io in ho preso un rapporto per essermi rifiutato di pulire il cesso della custodia e mi sono chiuso dal lavoro. Qui ci sono solo doveri, quando dovrebbero esserci doveri e diritti. Ma, come so, purtroppo i diritti dei prigionieri, scritti nell'ordinamento penitenziario, sono solo immagine figurativa: così è sempre stato.

20 maggio 2018
Mauro Rossetti Busa, via S. Giorgio, 110 - 55100 Lucca

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Sull’impiego della psichiatria forense oggi in Germania
La psichiatria forense gode del contributo di altre discipline, quali il diritto penale e la criminologia, e svolge un ruolo tecnico nella comprensione di rilevanti casi giudiziari, di concerto con altre figure professionali quali magistrati, avvocati e consulenti.
Con l’aggettivo forense (dal latino ‘forensis’, derivato di fŏrum ‘foro’) si indica l’attività concernente il foro, ossia la piazza ove, nell’antica Roma, l’autorità giudiziaria esercitava le sue funzioni e che costituiva il centro della vita civile, economica e sociale della città. Ancora oggi con ‘foro’ si indica il luogo in cui viene esercitata la giustizia (tribunale). Di conseguenza, forense sta ad indicare tutto ciò che riguarda l’attività giudiziaria e, per estensione, l’ insieme delle persone che la esplicano (magistrati e avvocati). ]
La psichiatria forense svolge un compito esemplare nella psichiatria e dispone di un massiccio potenziale nella violenza che protegge lo stato di diritto. Nei caratteri che nel tempo la psichiatria forense ha assunto, a cominciare dagli internamenti che esegue, l'insieme della macchina psichiatrica in generale va compreso come apparato.
Non esiste nessuna psichiatria “buona”! Le sue armi (diagnosi e terapie, innanzitutto farmacologiche …) non producono soltanto intrecci fra carcere e psichiatria – da cui 'psico-carcere' o anche 'Misure di Esecuzione della Pena'.
Il sistema psichiatrico dispone di 1,3 mln di euro nell'assistenza medico-legale. Ogni anno vengono ricoverate in psichiatria, contro la loro volontà, 200 mila persone, delle quali 10.875 nella psichiatria forense.
La psichiatria ha posto, come il sistema carcere, nella regolamentazione legale dei diritti alla libertà nel campo teso del potere statale. Assieme al carcere la psichiatria è anche un'istituzione totale, che in nome di “salute”, “cura”, “risocializzazione”, e “sicurezza”, che esamina le deviazioni dalla “norma” e/o le violazioni delle regole. Nell'etichettamento (diagnosi) le deviazioni vengono definite da una “norma” e legittimate dall'avvicinamento, trattamento, terapia su una persona. La definizione monopolio del potere e della violenza riguarda lo stato – che l'assegna in gran parte a gruppi privati attivi nelle cure mediche.
Mentre il carcere da tutte le persone che non credono nella logica della reclusione può essere rapidamente compreso e smascherato come apparato di sanzioni penali e di repressione, il complesso del potere adopera la psichiatria, una soluzione più sottile. Innanzitutto perché è collocata nell'ambito della “salute”, “cura” e “terapia” che avanzano in maniera repressiva contro le persone. (…)
Negli ultimi 30 anni lo spazio di applicazione delle 'misure di esecuzione delle pene' ha conosciuto un impiego massiccio. I posti di applicazione di quelle 'misure' si sono triplicati … la loro durata è altrettanto uguale. E vengono ulteriormente potenziate e riorganizzate. Le inchieste dicono che il numero dei delitti, che giustificano l'internamento nella psichiatria forense, all'interno dei reparti psichiatrici sono considerevolmente aumentati. In uno studio dell' 'Ambito istituzionale di analisi dei reati' del Baden -Wuerttemberg emerge che un quarto dell'internamento forense riguarda delitti da trattare nel quadro istituzionale. Le critiche a riguardo sostengono che si è di fronte ad un processo di “forensificazione”. Un quarto dei letti psichiatrici – questa la conclusione – ha posto nella psichiatria forense. (…)
Ingressi e uscite dai luoghi di internamento sono intrecciati alla 'cooperazione' e alla 'visione' dei reati/malattie. Le misure di esecuzione delle condanne sono luoghi speciali e spesso fine-stazione per le persone “moleste”, “inquiete” e “presunte pericolose”. Riguardo a ciò per la nostra società è sintomatico, che delle persone sempre si trovino fuori dai rapporti sociali fino al punto di trovarsi chiusi nella trappola della psichiatria forense. Questo è il risultato dell'assenza della politica sociale e della salute. Nella connessione “disturbo psichico” - reati, si concretizza un cambio di paradigma. Il dubbio riguardo a una persona imputata colpita da “malattia psichica” : significa dubbio verso persona imputata.
maggio 2018, tradotto da Gefangenen Info


Quali alternative alla pena della schiavitù?
Segue il testo di un volantino diffuso davanti agli ingressi del Tribuanle di Milano in occasione di una tavola rotonda alla quale partecipavano i pezzi da novanta del DAP regionale e della magistratura di sorveglianza.

L’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano oggi é occupata da una “tavola rotonda” nella quale le “figure istituzionali deputate a rispondere al reato” – ovvero i dirigenti del PRAP (Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria lombardo), magistrati di sorveglianza, direttori e comandanti della polizia penitenziaria delle carceri di Opera, San Vittore e Bollate – esporranno “gli obiettivi e gli aspetti salienti del loro lavoro” a confronto con i percorsi e gli obiettivi raggiunti dal “Gruppo della Trasgressione” presente in tutte le carceri milanesi.
Senza voler entrare nel merito dei contenuti e degli obiettivi dell'incontro, cogliamo l'occasione di una così altolocata presenza per esporre qualche considerazione.
Le persone vengono portate in carcere soprattutto perché cercano di trovare alternative concrete alla disoccupazione strutturale e alle conseguenti condizioni di lavoro sempre più schiavili. Non è certo un caso che la maggioranza della popolazione carceraria in Italia sia composta da persone delle regioni del Sud e da immigrati extraeuropei, così come negli USA da afroamericani e ispanici.
In questi ultimi decenni di progressiva demolizione delle garanzie lavorative, abitative, formative e sanitarie, la riproposizione acritica della finalità “ri-educativa” del carcere contribuisce invece a mascherare l'approfondimento della logica premiale nella totalità della vita carceraria.
Il lavoro (sempre più obbligatoriamente “volontario”), la socialità, la vicinanza geografica alla propria famiglia (che vuol dire colloqui), la corrispondenza e lo studio, l'accesso a cure sanitarie sono divenuti premi, ovvero, armi di ricatto rivolte verso tutti e tutte, in particolare contro chi cerca una via realmente alternativa al “re-inserimento” o all' “integrazione” in una società sempre più differenziata, gerarchizzata e in guerra.
Solo se vista in questa luce la “ri-educazione” può essere considerata funzionale ad una realtà esterna fatta di “riforme” della pena – ma anche del lavoro e della scuola – osannate da sinistri figuri alla Saviano; solo in quest'ottica un personaggio come Giacinto Siciliano – direttore uscente del carcere di massima sicurezza di Opera – può sedere alle tavole rotonde in veste di riformista.
Ciò accade nonostante la maschera meritocratica nasconda sempre più a fatica la realtà dei mezzi che lo Stato impiega, rafforza ed estende per raggiungere i suoi scopi, attraverso isolamenti, trasferimenti punitivi, linciaggi che spesso si concludono in omicidi, censura, blocco della corrispondenza e dei libri.
Pratiche utilizzate in modo sistematico poiché autorizzate dall'irrefrenabile consolidamento della legislazione speciale-emergenziale, che ha assegnato ai regimi di tortura del 41bis, 14bis, 18ter e gli articoli “ostativi” quali il 4bis, il principale riferimento normativo dell'amministrazione penitenziaria e giudiziaria.
Non c'è dunque di che stupirsi se il processo in videoconferenza, la limitazione di libri e vestiti da tenere in cella, l'impossibilità di ricevere libri e riviste dall'esterno non siano più condizioni riservate ai soli detenuti in 41bis ma applicate alla generalità del carcere, anche attraverso le “disposizioni interne”, adottate in modo arbitrario da direttori e comandanti delle guardie e convalidate dalla magistratura di sorveglianza, per colpire chi si ribella, soprattutto se con altri, quando costruisce manifestazioni di protesta, lotte collettive, quando tenta realmente di uscire dalla galera.
L’ipocrisia come si sa, é l’arma più fine messa in campo dallo Stato per rafforzare gli obiettivi della classe sociale di cui é espressione e strumento.
Così anche le missioni “umanitarie” e “anti-terroristiche” rappresentano il necessario paravento ideologico per saccheggiare, nei paesi africani e del Medio Oriente, quote di petrolio, gas e svariate materie prime fra le quali la forza-lavoro, a bassissimo prezzo, delle persone in fuga dall’immiserimento e dalla morte, realtà visibile ogni giorno e notte nei paesi europei e nelle loro carceri.
Una condizione di schiavitù che per essere respinta e vinta, anche nelle carceri e nei campi di internamento per immigrati, necessita dell’unità e della determinazione combattiva contro sfruttamento, neocolonialismo, fascismo e conseguente razzismo.
Non necessita certo di “tavole rotonde” di funzionari di Stato che stendono veli e impongono silenzi su quelle violenze che oggi, più che in ogni passato, sono alla base della quotidianità; che cercano di legittimarne gli scopi e i mezzi per raggiungerli, fra i quali spiccano oggi le sezioni dove impera il 41bis, le sezioni d’isolamento del 14bis – per tanti versi ancora più feroce data la sua indefinita durata – e l'impiego di ogni altra forma di aggressione alla socialità in carcere e alla comunicazione con l’esterno.
Siamo oggi qui per contribuire al sostegno di chi fuori e dentro le carceri tiene la testa alta contro l’aggressione alla propria e altrui dignità, contro ogni tortura ed il razzismo di Stato.
Saremo presenti il 4 maggio al tribunale de L'Aquila per sostenere la prigioniera rivoluzionaria Nadia Lioce, da dodici anni sepolta nel 41bis del carcere di quella città e processata in videoconferenza per averne “turbato la quiete” a seguito di una serie di battiture, fatte con una bottiglietta di plastica sulle sbarre della cella. Invitiamo a leggere la sua memoria difensiva, allegata agli atti dell'udienza del 24 novembre scorso, sui siti internet qui sotto indicati.
Milano, 20 aprile 2018
Campagna “Pagine contro la tortura” - Milano


da una lettera dal carcere di San Vittore (Mi)
[…] A San Vittore, rispetto all’anno scorso, sono cambiate un po’ di cose visto che è cambiato il direttore del carcere [Ora c’è Giancinto Siciliano ex direttore dal carcere di Milano-Opera, ndr]. Ovviamente le cose sono cambiate in peggio. Appena arrivati qui, ti sbattono nelle celle dei nuovi giunti dove manca tutto e ti tengono chiusi 22 ore su 24.
Appena si libera un posto al secondo piano (dove ci sono le celle aperte dalle otto del mattino alle otto di sera) ti spostano su. Il secondo piano non è la destinazione definitiva, anche questo è un piano di transito, ci viene detto che massimo due settimane e poi si viene spostati alla destinazione definitiva (o cambi raggio - se ti dai per tossico - o sali al terzo o quarto piano). […]
Non so da quanto tempo, il “fumo” non è più considerata una sostanza che crea dipendenza, quindi non si ha diritto di seguire percorsi alternativi con il Sert. […]
Oltre alle guardie di merda qui dentro si fa fatica a recuperare i beni di prima necessità (carta igienica, lamette…). Ci sono già stati due tentati suicidi nel piano [in meno di un mese, ndr] perché l’amministrazione ha messo persone psicolabili con i detenuti comuni […].

maggio 2018


Lettera dal carcere di Teramo
Mercoledì 30 maggio si è svolta al tribunale di Firenze l'udienza preliminare per Paska e gli altri compagni e compagne accusati per i fatti di Firenze del 2016. Il processo avrà inizio il 12 luglio e vedrà imputatati compagne e compagni di Firenze e non solo. Ricordiamo che invece Ghespe, che ha avuto udienza preliminare il 15 maggio, risulta ancora scorporato da tutte e tutti gli altri e per lui il processo avrà inizio il 4 luglio.
Le compagne e i compagni sono accusati a vario titolo di aver fabbricato e posizionato un ordigno rudimentale davanti a una libreria afferente Casapound a Firenze; un artificiere della polizia è rimasto ferito nel tentativo di disinnescare l'ordigno.

Ciao raga. Come state? Io qui tutto ok! Oggi mi hanno finalmente aperto e per la prima volta mi “godo”, se così si può dire, il regime aperto che qui é dalle 8:30 alle 17:30.
L'aria é 10mt x 15 per due “semi-sezioni”, la Nord e la Sud, quindi per 100 detenuti; per fortuna non c'é la griglia o la rete come a Lecce e quindi oltre a respirare più aria non c'é il rischio di rovinarsi gli occhi per guardare il cielo. Poi, dato il regime aperto del carcere, non tutti vanno sempre all'aria quindi ci si riesce a muovere. Due volte a settimana si fa l'aria al campo e si gioca a calcio (rigorosamente di brecciolino, quindi se caschi ti insaguini sicuro!) e due volte alla settimana si può fare anche la palestra, volendo.
I “piani” del carcere sono 6, diciamo, o meglio, in fondo a tutte le scale c'é l'aria, al “piano terra” infermeria+isolamento+ispettori, educatori, ecc., alla prima i precauzionali, seconda alta sicurezza, terza e quarta comuni. Ogni sezione ha due “semi-sezioni”, nord e sud, ed ogni semi-sezione é a forma di L, ci sono 25 celle doppie, la saletta (l'equivalente di 4 celle diciamo), le docce e la stanza di servizio delle guardie, che ora, dato il regime aperto, é inutilizzata visto che loro stazionano nella “rotonda”, dove controllano sia una che l'altra semi-sezione.
Per ogni piano, ci sono 2 guardie (almeno nei comuni) per 100 detenuti.
La cosa buona di dove sto io, alla Sud, é che da un lato vedi il Gran Sasso, dall'altro, se é bel tempo, il mare, e ciò a livello umorale é veramente buono.
Io sto alla 4a sud, cella 17, vista Gran Sasso, e col sole che batte in cella se c'é bel tempo, già dalla tarda mattinata. Sto in cella doppia con un bravo signore esperto di Castrogno diciamo, é super-chef, quindi é sempre in cucina, cucina il pomeriggio di cose buone. A 'sto giro, per ora almeno, sono capitato bene.
Note dolenti: come in tutte le carceri, qualcosa che non va c'é sempre. Quello di cui sono certo per ora, é che manca l'acqua dalle 23:00 alle 7:00 circa, ce la tagliano nelle celle. Idem all'aria, l'acqua non c'é mai, mentre al campo per fortuna sì. Le lenzuola le cambiano una volta al mese e il vitto é così così, ma c'é di peggio. [...]

Aprile 2018
Pierloreto Fallanca, C.C. contrada Castrogno - 64100 Teramo


lettera dal carcere di sulmona (aq)
Carissimi compagni. Come sempre con piacere ricevo vostre notizie come anche l’opuscolo che leggo con interesse, come sono importanti le lotte che portate avanti soprattutto per la solidarietà e la vicinanza ai compagni carcerati e a tutti quelli che lottano contro la repressione e contro ogni forma di tortura in carcere e fuori.
Ho letto il documento che mi avete inviato, dove parla della Sicilia. Credo sia sbagliato criminalizzare una regione dove c’è tanta brava gente, tanti compagni operai e tante famiglie che fanno di tutto per sopravvivere e crescere i figli nelle regole morali. Il più grande nemico del bene umano e della pace è l’ipocrisia di chi governa e non solo, ma anche di tutte quelle persone che hanno il potere. Come si può dire alla gente di stare buona quanto deve lottare per sopravvivere? Quindi chi decide cosa è giusto e cosa è buono e chi è il cattivo? Purtroppo l’ipocrisia di questo mondo è tanta e la vediamo dappertutto. Oggi è più comodo per tanta gente fare finta di non sapere e di non vedere. Una parte dell’umanità, in atre parole, spera che esista la possibilità di ingabbiare le vicende in un sistema di leggi tale da regolarizzare il passato e il presente e il futuro, ma si tratta per fortuna di un’illusione perché la storia, la civiltà, gli individui, i fatti e le idee si manifestano con una sorprendente libertà e molteplicità di forme, senza farsi imprigionare in nessuna scatola. Fino a poco tempo fa milioni di marxisti si sforzavano di rinserrare ogni cosa nella loro scatola filosofica, oggi anche essi la vedono vuota, dove sono finiti; il mondo cambia, e non si sono resi conto. Tanti sono rimasti in una cerchia ristretta. Ricordo di aver letto che Marx diceva che per vivere e crescere si deve diventare un’associazione internazionale. Come era per i lavoratori del XIX sec per combattere il capitalismo. Oggi tutti i capitalisti si sono uniti e il Comunismo non esiste più, perché sono tutti divisi e ognuno fa il proprio interesse e cammina abbracciato con chi gli fa comodo. Le mie sono solo delle semplici riflessioni che faccio al fine di capire quello che sono oggi le condizioni generali anche se non è semplice da capire e ancora meno da spiegare, perché tanti sanno quanto tortuosa è la vita e quello che si deve fare per sopravvivere. Oggi si parla tanto di libertà e uguaglianza, ovunque le persone desiderano essere libere dall’oppressione, dalla discriminazione e dalla povertà. C’è chi rivendica la libertà di espressione e di scelta. Quello di poter decidere come vivere la propria vita è un desiderio comune in ogni parte del mondo. Tuttavia un conto è avere questo desiderio un altro è vederlo soddisfatto. In ambito sociale e politico molti organizzano manifestazioni di protesta, sommosse o vere e proprie rivoluzioni. Spesso però come vediamo non si ottengono i risultati sperati. Per questo si devono trovare modi concreti che portano dei risultati, ma soprattutto riuscire ad unire tutte quelle forze di sinistra che lottano per gli stessi obiettivi pe per la libertà. Purtroppo oggi le “ideologie forti” sono cadute, gli ideali di giustizia sociale e di liberazione nelle quali masse di persone hanno riposto la loro fede, come ad es nel marxismo e nelle sue più ambiziose realizzazioni, fanno subito rapidi eclissi, dimostrando esiti fallimentari e incapacità a rispondere alle più alte attese umane; sono venuti così a mancare sicuri punti di riferimento e bussole orientatrici, in una società più complessa e diversificata e imprevedibile nel futuro. Da qui il senso del vuoto e dell’angoscia che ne deriva, con la spinta verso forme irrazionali e compensatrici, crisi etiche e religiose; nel firmamento morale odierno molte stelle sono cadute, perché la crisi etica non investe soltanto le norme del comportamento, ma lo stesso del vivere, dell’educazione, dei buoni propositi, del sorridere, del rispetto per gli altri, della solidarietà umana che dovrebbero essere la principale ragione per le persone che lottano ogni giorno per sopravvivere, non solo nelle prigioni ma nella prigione del mondo, dove tanta gente combatte pe vivere con dignità. Quando la gente pensa in termini politici, non è mai obiettiva e non sa dare un giudizio morale coerente, perché i giudizi morali sono asserviti alle passioni. Essere obiettivi significa guardare con intelligenza a tutte le cose della vita e non restare indifferenti a quella che è la realtà che si vive fuori e dentro le carceri.
Spero riceverete la mia posta, un abbraccio Antonino.

Sulmona 27/4/2018
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Salmona (L’Aquila)


lettera dal carcere di nuoro
Sono uno dei tanti deportati in Sardegna […] mi permetto di inviarvi una nota che allego e che centinaia di detenuti hanno già inviato tramite matricola al DAP per chiedere un diritto acquisito, la differenza retributiva e contributiva sulle mercedi che spettano ai detenuti che hanno lavorato. Se ritenete opportuno divulgarla ve ne sarei grato insieme a tanti, è solo un atto di giustizia e una omissione che fuori da queste mura sarebbe penalmente perseguibile.

Nuoro, 9 maggio 2018
Santo Sacco, via Badu e Carros, 1 - 08100 Nuoro

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Ill.mo Sig. Direttore del DAP
Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento
Oggetto: Reclamo, ai sensi degli artt. 22-30-35-69 o.p.
Richiesta emolumenti omessi, sumercede, come previsto dal c.n.l. dei lavoratori detenuti del Ministero della Giustizia.
Sig. Direttore sono il detenuto […] nato a […] il […] C.F. […] in atto presso la C.C. di […]
Con il presente reclamo-esposto, in diritto, chiedo:
Le differenze retributive per i periodi che ho lavorato durante la detenzione, così previsto dall'art. 22 o.p., in realtà mai rispettato, in quanto la commissione preposta a rispettare tali norme non si riunisce dal 1993 per adeguare le relative tabelle al c.n.l. Vedasi le innumerevoli condanne intervenute in questi anni contro l'amministrazione penitenziaria, in materia di giusta retribuzione del detenuto lavorante. Tanto che, il Dipartimento A.P. ha emesso una circolare del settembre 2017, disponendo l'adeguamento agli standard retributivi del mercato del lavoro, nonché così (Cass. Pen. Sez. 1, 08/07/2004 n.36250, e la sentenza Corte di Appello di Roma Sez.controv.lavoro, prev.EDASS.OBL del 15 marzo 2014).
Spero in una risoluzione bonaria delle spettanze, trascorsi 30 giorni, in autotutela agirò per vie legali in sede civile, dinanzi al giudice del lavoro competente.
Si allega copia certificato di regolarità contributiva emesso dall'INPS.
In attesa di riscontro.
Data/Firma


LA PRIMAVERA FRANCESE 2018
Inizia lo sciopero ad altranza dei ferrovieri in francia (aprile 2018)
L’adesione, superiore al 70% tra macchinisti e scambisti, ha completamente paralizzato il traffico. È l’inizio di tre mesi annunciati di servizio non garantiti per la lotta contro la riforma del sistema ferroviario francese SNCF. La CGT insieme ad altre sigle sindacali ha convocato uno sciopero bianco che si stima paralizzerà il traffico nazionale, mentre il sindacato Sud ha deposto il preavviso di uno sciopero a oltranza illimitato. Cortei e scioperi in molte città ai quali si sono uniti pressoché ovunque gli studenti universitari in mobilitazione contro il nuovo sistema di selezione nelle facoltà. Si registrano blocchi in nove università del paese.
A Parigi diverse decine di migliaia di manifestanti sono partiti dalla Gare de l’Est. Quasi subito si sono registrati scontri con la polizia ai quali sono seguiti quattro arresti.
I tentativi da parte della direzione della SNCF di depotenziare lo sciopero pagando lauti bonus ai crumiri sono falliti, aumentando la contrario la rabbia tra gli scioperanti.
Queste giornate sono state un’importante conferma dopo lo sciopero del 22 marzo e una prova generale di continuità per una serie di mobilitazioni sociali che stanno costruendo l’opposizione all’offensiva neoliberale di Macron tesa a ridurre l’accesso allo stato sociale e a disarticolare le garanzie del pubblico impiego.

Notre-Dame-des-Landes: espulsione imminente
La sera del 6 aprile sono stati avvistati numerosi blindati diretti verso le campagne di Notre-Dame-des-Landes. Si presume che i mezzi serviranno per le operazioni di sgombero delle aree occupate che hanno permesso di vincere la battaglia contro il grande progetto di aeroporto. Si tratta probabilmente di veicoli della gendarmeria, corazzati con armatura antiproiettile, mitragliatrice e lanciagranate. Si parla di 2.500 militari e di poliziotti della CRS che arriveranno a Rennes e Nantes nei prossimi giorni. L’attacco militare alla Zad è quindi imminente e di grande portata.
L’arrogante Macron decide di aprire un altro fronte nonostante gli studenti siano in mobilitazione, i ferrovieri in sciopero, e tanti altri settori si uniscano alle loro lotte, rischiando di fare morti e feriti a Notre-Dame-des-Landes durante un periodo di fermento sociale. Dopo il corteo del 31 marzo che ha inondato le strade di Nantes contro tutte le espulsioni in occasione della fine della tregua invernale degli sgomberi, giornata in cui tante lotte si sono unite, il governo ha preparato una punizione esemplare, ma questa provocazione gli costerà cara.

Zad - NDDL: è resistenza contro la seconda tranche di sgomberi di Macron (Maggio 2018)
Nuovo attacco delle istituzioni francesi agli Zadistes, gli uomini e le donne che - dopo aver combattuto, vincendo la battaglia, contro la decisione di costruire un nuovo aeroporto nelle terre di Notre Dame-des-Landes - negli ultimi mesi stanno difendendo il loro diritto alla gestione comunitaria ed anticapitalista del territorio.
Dopo gli attacchi dello scorso aprile, è di nuovo alta la tensione nella zona, descritta nella retorica governativa come una zona di "non diritto" dove la legalità deve essere immediatamente ripristinata, nonostante la legittimità della protesta sia stata di fatto riconosciuta dall'abbandono da parte del governo, lo scorso gennaio, del progetto di costruzione dell'aeroporto.
La polizia francese ha circondato sin dalle prime luci dell'alba del 17 maggio gli accessi ai territori della Zad, per procedere poi, grazie a tre blindati e circa 1.700 uomini, ad effettare la seconda ondata di sgomberi.
Li incontriamo in una delle ultime occupazioni sopravvissute a Parigi. Youseph (18 anni), Vincent (17) e Lucie (16), fanno tutti parte del MILI, il Mouvement Inter-Luttes Indépendant. Balzato agli onori della cronaca in queste settimane di mobilitazione contro la riforma del codice del lavoro, il MILI si è fatto notare per la determinazione con cui si è messo alla testa dei cortei riuscendo a mobilitare migliaia di giovani studenti che sono stati il vero e proprio traino di questo movimento a fronte delle timidissime reazioni sindacali contro questa nuova “flessibilizzazione” del mercato del lavoro che arriva ancora una volta “da sinistra”.
Una soggettività politica giovanissima, proveniente essenzialmente dai licei del quadrante Nord-Est della capitale, è emersa in qualche settimana attraverso lo scontro con la polizia e il più generale rifiuto delle ingiunzioni al sacrificio provenienti dal mondo degli adulti. La Loi Travail ne è diventata il simbolo che non annuncia nient’altro che l’approfondimento della vita misera e meschina che i nostri governanti ci assicurano essere inevitabile.
Dal vissuto e dall’analisi dei nostri interlocutori ci sembrano emergere dei primi elementi minoritari ma massificati di disaffezione e di rifiuto verso un modello di sviluppo opprimente, povero in affetti e incapace di mantenere promesse percepite come sempre meno allettanti. Assistiamo, insomma, anche in Francia a un elemento che ci sembra peculiare della fase che attraversiamo, ossia la ricomposizione di segmenti di classe a dei livelli molto alti della contraddizione capitalistica, speculari alla profondità della disaffezione verso la politica dei palazzi e al disincanto quanto a una possibile uscita dalla crisi nel quadro sistemico esistente. Ovunque, la rivoluzione non è mai sembrata una necessità così evidente. Oltralpe però questa ricomposizione ci sembra darsi in maniera meno subalterna rispetto alla politica “classica”, per riprendere una delle espressioni dei nostri interlocutori, e rispetto alla disgustosa etica della fatica profondamente interiorizzata dalle giovani generazioni del nostro paese.

Stralci da un’intervista ai liceali di Parigi
Cos'è il MILI? Come e quando nasce?
Vincent: per prima cosa è un gruppo di giovani: liceali, studenti, giovani lavoratori... ma soprattutto studenti medi. Poi siamo anche un gruppo di amici che ha iniziato a incontrarsi durante l'affaire Khatchik e Leonarda, il caso di due studenti che furono espulsi perché sans papiers. Poco a poco si è messa in piedi una mobilitazione, un’assemblea permanente di studenti medi, il Mouvement Inter-Lycéen Indipendent, come ci chiamavamo allora che eravamo solo studenti medi.
Youseph: All’inizio il MILI era una cosa di 200 persone, tutta gente che partecipava alle assemblee generali. Poi la cosa si è un po’ destrutturata. Alcuni sono partiti, sono rimasti i più determinati. Ne è venuta fuori una nuova generazione. Di gente che si conosce, amici di amici, un passaparola continuo.
Vincent: Il fine è quello di trovarci tra amici per parlare e occuparci di diverse cose, che sia antifascismo, la lotta contro la violenza poliziesca, diciamo contro il capitalismo. Non vogliamo essere una grande istituzione ma un gruppo di amici. Permettere agli studenti di ritrovarsi. Da parte nostra non abbiamo mai voluto dirigere un movimento, piuttosto ci interessa creare le condizioni perché si crei un movimento e che questo ci oltrepassi. Credo sia questo che faccia più piacere a noi del MILI, vedere gente che non hai mai visto essere più motivata di te nel fare cose da pazzi. Insomma non vogliamo dirigere ma mobilitare i giovani.
Vincent: Il 9 marzo è stato il primo giorno di mobilitazione che abbiamo convocato. Ci siamo detti che se volevamo creare un vero "movimento sociale" bisognava uscire dal quadro sindacale e riuscire ad imporre una nostra data. I sindacati studenteschi avevano chiamato solo un corteo il pomeriggio Invece noi abbiamo fatto un appello per chiamare i blocchi nei licei. Abbiamo fatto circolare l’appello tra i nostri amici, abbiamo fatto delle catene di SMS. E abbiamo visto che la cosa prendeva. Quindi il 9 marzo abbiamo fatto il nostro primo corteo che partiva alle 11 da Nation. Era veramente la primissima manifestazione, il movimento non era ancora cominciato c'erano un bel pò di liceali, ma neanche una cosa enorme. Forse mille.
I poliziotti erano piuttosto discreti quasi non c'erano. Comincia il corteo e ci saranno state tre o quattro banche che vengono sfasciate, qualche uovo riempito di vernice che parte sulle banche, qualche tag ma niente di che.
La data successiva è quella del 17 marzo quando c'era un corteo chiamato il pomeriggio dai sindacati. Ci siamo accodati a questa data però abbiamo deciso di chiamare un corteo anche la mattina, sempre alle 11 a Nation. Nel frattempo il primo corteo sui social ha girato bene, le altre iniziative contro la Loi Travail come la petizione continuano a salire molto. C'è un video per chiamare a nuovi blocchi in cui si vedono le banche con le vetrine rotte e penso veramente che questo ha giocato un ruolo determinante. Per la prima manifestazione c'era ancora l'idea diffusa "le manifestazioni sono una roba da bianchi che si divertono ma non servono a nulla". Invece vediamo che dal secondo corteo, e poi la cosa aumenta ancora in seguito, ci sono tante persone dai quartieri, gente che non ha l'abitudine di fare delle manifestazioni che viene perché vede che possono prendere una forma che è diversa da quella dello scendere in strada, dire "non siamo contenti!" e dopo te ne torni a casa, che può essere anche qualcosa di più attivo. Il 17 marzo quindi c'era molta più gente passiamo da mille ad almeno cinquemila persone, dati della polizia quindi credo molti di più.
Youseph: In sostanza – ed è la prima volta che vedevamo una cosa del genere – abbiamo visto i liceali che spontaneamente hanno iniziato a coprirsi il viso. Compagni di classe, di secondo liceo, che iniziano a tirare fuori dagli zaini materiale e attaccano delle banche.
Vincent: Devi capire che insulti venuti dai poliziotti come "negro di merda, arabo di merda" in manifestazione la gente della mia classe se li sono sentiti dire tutti senza eccezione. Bergson è considerato il peggior liceo di Parigi, è in sostanza il solo liceo "caldo" che c'è a Parigi dentro le mura. Dalle 6 di mattina i CRS vengono in tenuta anti-sommossa per quattro cassonetti messi davanti al liceo. Con i caschi, gli scudi, i fucili coi proiettili di gomma. Poco a poco ai liceali la cosa non piace, l'atmosfera si tende...

Guerra civile "europea" tra premonizione, assuefazione e realtà
A cosa deve prepararsi un abitante di Seine-Saint-Denis o una studentessa dell’Università di Tolbiac dopo il discorso di Macron al Parlamento Europeo? Perché il presidente francese alludeva ad uno scenario fosco per il vecchio continente avendo bene in mente e rivolgendosi ai conflitti di casa propria, provando a tirarne fuori una linea di condotta per le elite di Bruxelles.
Da anni lo spettro della guerra civile percorre l’Esagono su più linee di faglia. Dalla rivolta delle banlieue nel 2005 che, sulle note di IAM e degli Sniper, sferrava un primo, devastante colpo ad una politica dell’assimilazionismo che non aveva mai fatto veramente i conti con il passato coloniale; alla secessione della (delle) ZAD che ha lanciato la sfida allo stato sviluppista; ai progetti indipendentisti nella Francia continentale e d’Oltremare e alle irrisolte questioni nazionali davanti ad una costituzione formale spiccatamente centralista; alla forte radicalità dei movimenti studenteschi e contro la Loi Travail e al potenziale destituente della circolazione delle lotte.
A questa realtà, come abbiamo scritto in passato, si affianca quella dell’operazione parallela del Front National e di Daesh: l’esasperazione e la precipitazione del conflitto interno su basi etniche e religiose, sulla falsariga mediorientale. Un terreno spianato da anni di dibattito ossessivo ed assuefacente sull’identità (e sulla preferenza) nazionale; perimetrato dalla retorica sarkozista che già tredici anni fa identificava una parte della società come della “feccia” da eliminare col “karcher”, ma anche dalle reiterate politiche dello stato d’emergenza di Hollande, che pur agito in funzione di prevenzione del conflitto sociale non è stato in grado di contenerne l’esplosione davanti alla crisi delle forme partitiche storiche occidentali - producendo proprio quella democrazia autoritaria che Macron vorrebbe esorcizzare. L'appello contro "l'egoismo" rivolto da Macron agli altri paesi europei, in particolare quelli del gruppo di Visegrad che dopo la vittoria di Orban sono ancora più legittimati nelle loro politiche ultra-nazionaliste, nascondono il rimosso di una Francia dove l'interesse generale delle banche e dei grandi gruppi industriali rappresentato dal finto nuovismo macroniano è sempre più messo in discussione.
Ed ora l’inquilino dell’Eliseo cerca di mettere le mani avanti e, con un’operazione spericolata, appropriarsi della categoria di guerra civile dal punto di vista del neoliberalismo europeista, in un momento di precipitazione degli equilibri interni ed internazionali. Ma la sua è un’operazione dal sapore quasi borsistico, una premonizione che cerca di incorporare un pezzo di futuro. Da parte sua c’è la necessità di tradurre in legittimazione internazionale il proprio capitale politico, costitutivamente giocato sull’ambiguità tra Parigi e Bruxelles e a sua volta puntellato da una compattezza istituzionale altrove introvabile in Europa. Per rilanciare sul piano interno, così come per avere margini di manovra all'estero. Rispetto ad un ipotetico intervento in Siria, in cui si profilerebbe una rivalità con l’imperialismo della Turchia - che reagisce agitando a sua volta lo spettro della jihad sul suolo d’oltralpe. Non solo nei termini di continuazione della storica ingerenza siglata dall’accordo Sykes-Picot, ma anche della collisione con gli interessi di Erdogan nel Golfo Persico ed in Africa.
Insomma nulla di nuovo sotto il sole. Ma una guerra civile già in atto, e per di più a livello globale - da un lato mistificata nelle forme delle guerre commerciali, dall'altro esplicitata nei teatri del conflitto siriano e delle sue ramificazioni internazionali…

maggio 2018, liberamente tratto da infoaut.org