indice n.129

n.a.t.o. sempre più assassina, italia sempre più complice
12 dicembre 2017: contro le stragi di stato
NO TAP: sulla LOTTA DEL 6 DICEMBRE
nomuos: Contro la repressione resistere!
VERSO UNA NUOVA INTIFADA IN PALESTINA
lettera dal carcere di Paola (cs)
Scioperi della fame e morti nelle carceri egiziane
dalle lotte dentro e contro i lager per immigrati
Francia: Minori migranti e solidali occupano 3 edifici a Nantes
L'AQUILA, 24 NOVEMBRE: UNA GIORNATA DI LOTTA!
torino, 23 DICEMBRE: PRESIDIO DAVANTI AL CARCERE MINORILE
Lettera dal carcere di Uta (ca)
Lettera dal carcere di Bancali (ss)
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Lettere dal carcere di napoli-Poggioreale
AGGIORNAMENTI SU DAVIDE DELOGU
inizia il processo “scripta manent”
Come nasce il maxi-carcere di Nola
Lettera dal carcere di Saluzzo (cn)
Cartolettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Lettera dal carcere di Lecce
g-20 di amburgo: “non deve uscire dal carcere”
Torino: Sentenza “processo sfratti”
RED FRIDAY alla SDA di CARPIANO (mi)


n.a.t.o. sempre più assassina, italia sempre più complice
Sigonella base per le strategie di supremazia nucleare USA
Segretamente, senza che mai il governo italiano abbia ritenuto doveroso informare il Parlamento e l'opinione pubblica, sta per entrare in funzione nella grande stazione siciliana di Sigonella la Joint Tactical Ground Station (JTAGS), la stazione di ricezione e trasmissione satellitare del sistema di "pronto allarme" USA per l'identificazione dei lanci di missili balistici con testate nucleari, chimiche, biologiche o convenzionali.
Una specie di "scudo protettivo" tutt'altro che difensivo: i moderni dottor Stranamore del Pentagono puntano infatti al controllo "preventivo" di ogni eventuale operazione missilistica nemica per poter scatenare il "primo colpo" nucleare evitando qualsiasi ritorsione da parte dell'avversario e dunque i limiti-pericoli della cosiddetta "Mutua distruzione assicurata" che sino ad ora ha impedito l'olocausto nucleare.
La JTAGS è stata elaborata e realizzata dai colossi industriali Aerojet e Northorp Grumman e sino ad oggi ha visto operativi cinque distaccamenti composti da personale misto dell'esercito e della marina militare.
Sulla rilevanza strategica della nuova Joint Tactical Ground Station di Sigonella si è soffermato il 13 aprile 2016 il generale David L. Mann (a capo del Comando generale per la difesa missilistica strategica e spaziale di US Army), durante la sua audizione nel Comitato per le forze armate del Senato degli Stati Uniti d'America.
"In supporto al Joint Force Commander, il nostro Comando per la difesa missilistica continua a fornire il pronto allarme sui missili balistici in diversi teatri operativi", ha spiegato Mann. "I nostri distaccamenti JTAGS sono installati all'estero per assicurare il controllo missilistico da parte di USSTRATCOM e delle nostre forze militari operative fuori dai confini nazionali. Continuiamo ad ottimizzare queste capacità e quest'anno abbiamo ottenuto il sostegno del Governo d'Italia per ricollocare il JTAGS in Europa presso la Sigonella Naval Air Station". Nel 2016, presidente del Consiglio era Mattero Renzi, ministra della difesa (come oggi) Roberta Pinotti, entrambi Pd.
Il Dipartimento di US Navy ha affidato i lavori di costruzione degli impianti JTAGS alla D'Auria Costruzioni Srl di Lamezia Terme (Catanzaro), per un importo complessivo di 1.776.232. Lo scorso luglio, la società lametina è stata attenzionata dai ROS dei Carabinieri e dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria nell'ambito della cosiddetta operazione Mandamento Jonico relativa all'infiltrazione criminale nella realizzazione di alcuni collettori fognari nel Comune di Gerace e del depuratore consortile a Siderno. Secondo quanto riportato da Lacnews24.it, l'imprenditore Mario D'auria, titolare e amministratore unico della D'Auria Costruzioni, è stato raggiunto da avviso di reato per "truffa in concorso, aggravata dalle modalità mafiose". (3 dicembre 2017, liberamente tratto da antoniomazzeoblog.blogspot.it)

A Ghedi (bs) 30 F-35 con 60 bombe nucleari
L'aeroporto militare di Ghedi (Brescia) si prepara a divenire una delle principali basi operative dei caccia F-35. Il ministero della Difesa ha pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il bando di progettazione (importo 2,5 milioni di euro) e costruzione (importo 60,7 milioni di euro) delle nuove infrastrutture per gli F-35.
Tutti gli edifici saranno concentrati in un'unica area recintata e videosorvegliata, separata dal resto dell'aeroporto: una base all'interno della base, il cui accesso sarà vietato allo stesso personale militare dell'aeroporto salvo che agli addetti ai nuovi caccia. Il perché è chiaro: accanto agli F-35A a decollo e atterraggio convenzionali - di cui l'Italia acquista 60 esemplari insieme a 30 F-35B a decollo corto e atterraggio verticale - saranno dislocate a Ghedi le nuove bombe nucleari statunitensi B61-12.
Come le attuali B-61, possono essere anch'esse sganciate dai Tornado PA-200 del 6° Stormo ma, per guidarle con precisione sull'obiettivo e sfruttarne le capacità anti-bunker, occorrono i caccia F-35A dotati di speciali sistemi digitali. Poiché ciascun caccia può trasportare nella stiva interna 2 bombe nucleari, possono essere dislocate a Ghedi 60 B61-12, il triplo delle attuali B-61.
Come le precedenti, le B61-12 saranno controllate dalla speciale unità statunitense (704th Munitions Support Squadron della U.S. Air Force).
Caccia dello stesso tipo, armati o comunque armabili con le B61-12, saranno schierati nella base di Amendola (Foggia), dove un anno fa è arrivato il primo F-35, e in altre basi.
Su questo sfondo richiedere, come ha fatto alla Camera il Movimento 5 Stelle, che l'Italia dichiari la sua "indisponibilità ad acquisire le componenti necessarie per rendere gli F-35 idonei al trasporto di armi nucleari", equivale a richiedere che l'esercito sia dotato di carrarmati senza cannone. Il nuovo caccia F-35 e la nuova bomba nucleare B61-12 costituiscono un sistema d'arma integrato.
La partecipazione al programma dell'F-35 rafforza l'ancoraggio dell'Italia agli Stati uniti. L'industria bellica italiana, capeggiata dalla Leonardo che gestisce l'impianto di assemblaggio degli F-35 a Cameri (Novara), viene ancor più integrata nel gigantesco complesso militare-industriale Usa capeggiato dalla Lockheed Martin, la maggiore industria bellica del mondo (con 16.000 fornitori negli Usa e 1.500 in 65 altri paesi), costruttrice dell'F-35. Lo schieramento sul nostro territorio di F-35 armati di bombe nucleari B61-12 subordina ancor più l'Italia alla catena di comando del Pentagono, privando il Parlamento di qualsiasi reale potere decisionale. (28 novembre 2017, liberamente tratto da ilmanifesto.it)

Il governo manderà soldati italiani in Niger
Nelle prossime settimane una missione militare italiana sarà inviata in Niger con lo scopo di combattere il traffico di migranti diretto in Libia e di addestrare l’esercito nigerino. La missione, di cui si parla da mesi, è stata annunciata ufficialmente dal presidente del Consiglio Gentiloni al termine del G5 Sahel, un incontro che si è tenuto a Parigi tra i capi di stato e di governo di Francia, Germania e Italia e quelli dei cinque paesi del Sahel: Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger. «Ci impegneremo per l’addestramento di forze che possano contribuire alla stabilità e alla lotta contro il terrorismo in Sahel. Partiremo con un’operazione bilaterale con il Niger che ha un interesse specifico pure per quello che riguarda i flussi migratori verso la Libia e verso il Mediterraneo. Dietro questo impegno c’è anche quello al contrasto del traffico di esseri umani», ha detto Gentiloni, aggiungendo che saranno inviati 470 militari e 150 veicoli. Il contingente italiano dovrebbe sostituire la guarnigione francese che presidia l’avamposto Madama, un vecchio fortino della Legione Straniera a poca distanza dalla frontiera libica.
Un’altra parte della spedizione italiana avrà invece la sua base nella capitale del paese, Niamey, dove si occuperà di addestrare il personale della piccola aviazione nigerina.
In Niger sono attualmente presenti gruppi di forze speciali e droni dell’esercito statunitense (la loro presenza è stata rivelata lo scorso ottobre, dopo che quattro di loro sono stati uccisi in un agguato). Non si conosce esattamente il numero di militari americani dispiegati nel paese, ma si sa che in tutto il Sahel la Francia ha schierato 3.500 uomini e che, dopo l’incontro di mercoledì, grazie all’aiuto italiano e tedesco, spera di portare questa cifra a 5 mila militari.
Attualmente in Niger è in corso un grave scandalo che coinvolge la società francese Areva, che nel paese possiede numerose miniere di uranio, e alcuni politici locali, accusati di corruzione e di aver sottratto fondi pubblici. Diversi giornalisti, attivisti e politici dell’opposizione nigerina sono stati arrestati o minacciati in passato. (14 dicembre 2017, liberamente tratto da ilpost.it)

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Libia: i responsabili del massacro del 6 novembre
Il Ministro degli interni Marco Minniti e il Ministro della difesa libico Al-Mahdi Al-Barghathi a Tripoli, alle loro spalle il Pattugliatore Classe Bigliani Ras Jadir 648, responsabile del massacro del 6/11/2017.
Il 6 novembre 2017 nelle acque internazionali l’equipaggio della Guardia Costiera Libica a bordo del Pattugliatore Classe Bigliani Ras Jadir 648 donato dall’Italia, hanno raggiunto un gommone di migranti, invece di calare scialuppe e gommoni di salvataggio si sono affiancati al gommone compremettendo ulteriormente il suo galleggiamento, senza lanciare salvagenti ma al contrario allontanando con lanci di oggetti i mezzi di salvataggio di un ong tedesca che voleva prestare soccorso ai migranti e picchiando con pugni e oggetti contundenti i migranti che volevano abbandonare la Ras Jadir 648. Il risultato di questo intervento è stato di più di 50 morti annegati, tra cui un bambino di due anni e mezzo, e una cinquantina di migranti presi come prigionieri sulla motovedetta ceduta dal governo italiano e portati nei campi di prigionia in Libia.

13 dicembre 2017, da roundrobin.info


12 dicembre 2017: contro le stragi di stato
Pubblichiamo il comunicato diffuso dai compas del FOA Boccaccio in occasione dell’occupazione a Monza dell’ex distributore ENI di via Buonarroti 62: un nuovo spazio liberato in città contro la guerra, frontiere e politiche securitarie. La giornata si è collocata all’interno della settimana di mobilitazione, dal 12 al 17 dicembre, che ha visto diverse iniziative in tutta Italia.

12 dicembre 1969, strage di Stato in piazza Fontana.
12 dicembre 2017, agire contro lo Stato torturatore e stragista, dentro e fuori i confini!
La storia si fa beffe di chi non ha la necessaria memoria, ma noi certo non scordiamo che il 12 dicembre 1969 a guidare mani fasciste in piazza Fontana c’erano mandanti dentro le istituzioni.
Le stragi di Stato hanno continuato a uccidere e la situazione oggi si è arricchita di nuove e tristi evidenze: lo Stato italiano è responsabile di stragi quotidiane dentro e fuori i confini, quando parla e agisce in materia di frontiere e flussi migratori, e quanto sta accadendo in Libia e nel Mediterraneo ne è un palese esempio.
Siamo di fronte a una guerra in cui combattono stati nazionali come l’Italia, multinazionali come ENI e milizie.
Nel territorio libico ci sono più di 40 carceri lager pagate grazie al nuovo accordo miliardario offerto dall’Europa alle milizie; in questi luoghi sono imprigionati in condizioni disumane migliaia di persone la cui unica “colpa” è non essere utili al regime produttivo. Da ponte africano verso l’Europa, la Libia diventa un definitivo punto d’arresto, luogo di rapimenti, torture, stupri e omicidi. Tutto legittimato dal riconoscimento politico ed economico dato dalla Fortezza Europa e dai suoi soci in affari, Eni tra i primi.
I suoi progetti di devastazione e di morte riguardano territori lontani (come il Delta del Niger) e vicini (Snam, prima del gruppo Eni e ora società a sé, partecipa alla costruzione del gasdotto TAP, il cui terminale è previsto in Puglia). Oggi l’Eni produce oltre 350.000 barili al giorno di petrolio. È l’unica azienda esportatrice di gas e petrolio nella zona della Tripolitania, grazie a diversi accordi stipulati con le milizie locali, le quali, in cambio di denaro, assicurano la protezione armata dei pozzi petroliferi. Come si vede dal 1959, i governi vanno e vengono. L’Eni resta.
Per portare in superficie questa evidenza nascosta, taciuta per gli interessi di chi ne trae vantaggio, abbiamo deciso di occupare i locali abbandonati del distributore Eni di via Buonarroti. Abbiamo bisogno di moltiplicare luoghi e azioni contro questo Stato torturatore e stragista, tanto quanto questa città, governata da una giunta fascio-leghista, ha bisogno di postazioni che sappiano fare dell’antifascismo non una storia passata o da salotto, ma una quotidianità radicale e consapevole.
Non dobbiamo aver paura di nominare la realtà né nascondere il conflitto: anche se le chiamano operazioni di polizia internazionale sono sempre e solo guerra. Per le risorse, per i privilegi, per il potere. Detto questo, diciamo anche altro: l’umanità della violenza sistemica non ci appartiene, come noi non le vogliamo appartenere. Niente gabbie, niente galere, nessuno sfruttamento che poi diventa struttura gerarchica e, conseguentemente, accettazione. Lo vogliamo riassumere così: contro la guerra del capitale, contro la pace sociale. Perchè capitalismo e Stato sono come due mani strette attorno al collo della libertà: più stringono, più è guerra.
Noi siamo pronti a difendere le nostre libertà anche davanti al tentativo di restringerle: la legge Minniti-Orlando è uno di questi tentativi. Perchè se Minniti porta guerre all’estero non può che fare altrettanto dentro i confini nazionali: è così che funzionano guerre e Stati.
Chi vorrà fare come noi, o con noi, e muoversi contro le maglie della repressione e contro le frontiere, ora ha un posto in più in città dove trovarci.
“Attaccare i signori dello sfruttamento e della guerra è il solo modo per non sprofondare nella più disumana indifferenza”. Ed è quello che continueremo a fare.

12 dicembre 2017, da boccaccio.noblogs.org


NO TAP: sulla LOTTA DEL 6 DICEMBRE
Melendugno (LE) dal 13 novembre è in stato d’assedio. Circa 500 agenti di polizia proteggono la zona del cantiere TAP, che è stata interdetta alla circolazione con decreto del prefetto. Chi non è residente o proprietario dei terreni non può accedervi. Recinzioni in cemento e ferro delimitano la zona rossa per garantire la costruzione del gasdotto e tenere lontano chi fino ad ora si è opposto alla devastazione.
Lo stato si fa padrone di tutto il territorio circostante la zona del cantiere Tap, permettendo l’ingresso solo ai contadini, una volta esposti i loro documenti, e a chi è provvisto di pass, facendosi così solo odiare di più da chi di libertà ne ha già poca. Se nonostante il chiaro dissenso contro Tap la costruzione del tubo continuerà, non stupiamoci se con ogni mezzo continuerà ad essere combattuta.
Dopo anni di controinformazione e mesi di opposizione all’espianto degli ulivi, siamo arrivati al dunque. Stanno lavorando per cominciare l’opera. Chi è contro TAP deve dimostrarlo adesso.

Mercoledì 6 dicembre, in diversi paesi della provincia di Lecce, è stato indetto lo sciopero dei commercianti contrari al progetto Tap. Per le strade di Melendugno migliaia di persone hanno manifestato per ribadire ancora una volta il loro dissenso e la loro rabbia per l’ennesimo progetto speculativo ai danni dei territori e di chi li abita.
Una volta terminata la manifestazione, diverse centinaia di persone si sono dirette a San Foca, per prendere parte al secondo corteo della giornata. Determinate a raggiungere la zona rossa una volta arrivati al termine legale del percorso molti hanno proseguito fino al limite della zona cuscinetto, dove uno schieramento di sbirri bloccava l’accesso. Dopo alcune colluttazioni i manifestanti hanno deciso di aggirare il blocco entrando dalle campagne. Arrivati davanti ai confini che la delimitano (fatto da jersey, cancelli di ferro e filo spinato) hanno tentato l’approdo nella zona rossa. Una volta fallita l’apertura dei cancelli, sono tornati dai manifestanti rimasti ai limiti della zona cuscinetto che, impazienti del ritorno dei propri compagni di lotta, li hanno accolti con applausi e grida. La giornata si è conclusa con il blocco della strada provinciale 145.
Nel primo pomeriggio di sabato 9 dicembre circa ottanta manifestanti hanno nuovamente percorso in corteo la provinciale San Foca-Melendugno (LE). Determinati a raggiungere la “zona rossa” intorno al cantiere TAP, hanno poi attraversato alcune campagne fino a raggiungere il muro di jersey ed uno dei cancelli che delimitano l’area interdetta, dove sono esplosi alcuni petardi e la polizia ha risposto col lancio di una decina di lacrimogeni.
A quel punto è stato deciso di tornare indietro ed è iniziato un inseguimento da parte della polizia in tenuta antisommossa, coordinata dal volo di un elicottero.
Verso le 16.00 cinquantadue dei manifestanti sono stati accerchiati e bloccati nelle campagne, caricati sui cellulari e condotti a Lecce dove sono stati divisi tra la questura e il comando dei carabinieri per l’identificazione. Dopo otto ore di fermo, sono stati tutti rilasciati con una denuncia per manifestazione non autorizzata e violazione della zona interdetta (art. 650 c.p.) e alcuni per lancio di oggetti o esplosioni pericolose. Sono stati contemporaneamente emessi cinque avvisi orali e cinque fogli di via da Melendugno e Lecce che si aggiungono ai sei dei giorni precedenti.
Fuori dalla questura e la sede dei carabinieri sono da subito accorsi numerosi solidali che hanno aspettato fino alle due della notte il rilascio di tutti.
È importante ribadire che per la seconda volta nel giro di pochi giorni si è riusciti a raggiungere l’area del cantiere violando l’ordinanza di interdizione del prefetto e dando filo da torcere a chi lavora alla vigilanza della “zona rossa”.

Riportiamo infine dai quotidiani di questi giorni che il governo ha tentato di fare approvare (senza riuscirci) una modifica alla legge di Bilancio per equiparare il gasdotto salentino all'Alta velocità Torino-Lione, che nei fatti avrebbe comportato il rischio di arresto da tre mesi a un anno per chi protesta nella zona dei lavori impedendo l’accesso o travalicando i confini senza autorizzazione.

dicembre 2017, liberamente tratto da comunella fastidiosa.noblogs.org


nomuos: Contro la repressione resistere!
Il Movimento NO MUOS sta attraversando una intensa stagione di processi; i più importanti, per il numero di attivisti coinvolti, stanno avendo luogo in questi giorni.
Quello per il picnic organizzato dentro la base USA il 21 settembre 2013, con l'unica accusa di invasione del sito militare, in quanto i poliziotti giunsero a cose fatte, mentre si banchettava, è stato rinviato una decina di giorni fa al 19 aprile. Gli imputati sono 54. Il 12 dicembre si è svolto quello per altri due episodi, l'invasione di massa della base USA del 9 agosto 2013 e l'invasione con spostamento delle recinzioni attorno a un pozzo d'acqua, che è stato così liberato, del 25 aprile 2014: imputati 124. Anche questo è stato rinviato, al 12 giugno 2018.
Attorno a questi processi è importante sviluppare percorsi di lotta e di solidarietà nonostante alcune aree di compagn* abbiano deciso di pagare le oblazioni per evitare i processi, cosa che di fatto spezza il fronte di lotta che aveva deciso di continuare a sostenere le ragioni del NO MUOS anche nei tribunali, pur comprendendo i casi individuali di chi deve evitare, per motivi personali o di lavoro, una condanna. Precisiamo quindi che la campagna di raccolta fondi indicata in fondo al comunicato serve per le spese legali che il movimento porta avanti da sempre e non per pagare le oblazioni.

E così nonostante manchino i soldi per tenere aperti gli ospedali, le scuole, nonostante si chieda ai lavoratori di ritirare la pensione direttamente al cimitero, nonostante si lascino le periferie delle nostre città morire di degrado, eroina e disoccupazione, lo stato italiano trova i soldi e il tempo per finanziare le spese militari e per istituire un maxiprocesso contro il movimento No Muos che vedrà coinvolti (125) 124 militanti.
Mai prima d'ora un processo nei confronti di una lotta popolare ha visto coinvolte tante persone. Se questa cosa ci preoccupa perché testimonia il clima di persecuzione che i No Muos vivono, dall'altro ci dà la prova che la nostra lotta è sostenuta e vede coinvolte tantissime persone stanche della guerra, dello sfruttamento capitalistico e dell’occupazione militare del territorio siciliano da parte delle forze armate (esercito degli) USA.
Le accuse riguardano la grande occupazione popolare e di massa avvenuta nel 2013 della base di Niscemi che ha visto migliaia di persone riappropiarsi di un pezzo di terra sottratto illegalmente per fare la guerra, e la liberazione simbolica di un pozzo il 25 aprile 2014 dentro il perimetro della base per mettere in luce che mentre la base militare spreca enormi quantità di acqua il vicino paese di Niscemi soffre ancora la carenza idrica con l'acqua che manca per molti giorni ogni mese.
Noi rivendichiamo quelle azioni e tutte quelle che in questi anni ci hanno visto e ci vedranno protagonisti. Noi diciamo con orgoglio che non abbiamo altra scelta se non quella di lottare fino allo smantellamento della base di morte di contrada Ulmo.
E se ci accusano di essere illegali noi vogliamo rigirare la questione:
E' legale costruire una base militare in un territorio protetto (Sito Interesse Comunitario) che ospita una delle più belle sugherete d'Europa?
E' legale condannare un intero popolo a soffrire delle malattie che le onde elettromagnetiche hanno provocato e sempre più provocheranno?
E' legale finanziare le guerre che provocano morte, carestie e migrazione di interi popoli affamati?
E' legale finanziare guerre che servono ai grandi gruppi industriali per accaparrarsi risorse energetiche e nuovi mercati per aumentare le montagne di soldi che fanno ogni giorno?
E' legale togliere soldi ai servizi idrici, alle scuole, agli ospedali, alle infrastrutture: ponti, ferrovie, strade, per destinarli alla guerra?
Noi crediamo di no! solo la lotta, solo prendendo in mano insieme il nostro destino, solo comprendendo che i nostri interessi sono contrapposti a quelli di Trump, di Gentiloni, di Marchionne o di Della Valle potremo aspirare a una vita migliore libera dalle guerre e dallo sfruttamento capitalistico.
Se la legalità è un'arma in mano ai padroni noi scegliamo la lotta!
Solidarietà a tutti i compagni e le compagne colpiti dalla repressione
Non un passo indietro. No Muos fino alla vittoria.
invitiamo a sostenerci: si può usare il seguente c/c BancaEtica IBAN:
IT 47F0501804600000009000673 intestato a Miceli Marino e Rinnone Sandro
causale spese legali difesa NoMuos

Movimento NO MUOS


VERSO UNA NUOVA INTIFADA IN PALESTINA
La dichiarazione del 6 dicembre da parte degl/i USA di riconoscere Gerusalemme come capitale dell’entità sionista di Israele e di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv ha avuto un'eco enorme nel mondo, suscitando reazioni di condanna tra i palestinesi, nel mondo arabo, in Europa e nella più ampia Comunità internazionale, e ovviamente soddisfazione in Israele.
Questa ennesima scelta di campo da parte degli USA ha scatenato una immediata ondata di rabbia popolare da parte della popolazione palestinese che dai Territori Occupati della Cisgiordania e da Gaza ha iniziato a manifestare scendendo nelle strade e scontrandosi con le forze di occupazione sioniste. Da giovedì 7 dicembre, quattro giovani sono stati uccisi e 1.800 Palestinesi sono rimasti feriti durante scontri in Cisgiordania, Gerusalemme e Striscia di Gaza. Il primo martire palestinese è un trentenne, Mahmoud al Masri, che è stato ucciso da un colpo sparato dalle torrette israeliane contro un gruppo di manifestanti che si era radunato all’altezza di Khan Yunis a Gaza.
Sempre a Gaza sono stati uccisi Maher Atallah e Mohammad Safadi e Abdallah al Atal, sono morti durante i ripetuti raid aerei compiuti dall’aviazione israeliana in seguito al lancio di tre razzi da Gaza verso la città di Sderot, uno dei quali è stato intercettato dal sistema Iron Dome.
La Mezzaluna Rossa palestinese ha dichiarato che 121 palestinesi sono stati feriti con munizioni letali, altri 346 hanno subito ferite da proiettili di metallo rivestiti di gomma, mentre 1.239 sono rimasti asfissiati dopo aver inalato gas lacrimogeni sparati dalle forze israeliane durante gli scontri. Altri 43 sono stati feriti a seguito di percosse brutali ad opera dei soldati israeliani, mentre una decina di abitanti di Gaza sono rimasti feriti durante i raid aerei israeliani contro la Striscia assediata. Nello stesso tempo da quando gli USA hanno annunciato la loro decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale israeliana sono stati arrestati circa 50 residenti palestinesi di Gerusalemme, tra cui due donne. Il Comitato per le famiglie dei prigionieri di Gerusalemme ha fatto notare come un terzo dei 50 detenuti ha meno di 17 anni. Molti dei giovani detenuti sono stati feriti con pallottole di acciaio rivestite di gomma o picchiati dal personale di sicurezza israeliano.
Il Palestinian Prisoners Club, una struttura locale di solidarietà, ha affermato che altri 200 palestinesi sono stati arrestati nei Territori occupati. Attualmente nelle strutture di detenzione israeliane sono detenuti più di 6.500 palestinesi. Nonostante la forte repressione gli scontri tra palestinesi (per lo più giovani) e soldati stanno continuano incessantemente. Anche a livello internazionale sono state numerose le manifestazioni di solidarietà che si sono organizzate in numerosi paesi, una protesta globale al grido di: USA e sionisti giù le mani da Gerusalemme, la capitale della Palestina (in Italia in tutte le principali città sono già stati fatti presidi e manifestazioni ed altri ce ne saranno a breve).
Una reazione a questa trovata colonialista che vede il mondo arabo e chi sostiene la resistenza del popolo palestinese mobilitarsi per svelare il vero ruolo statunitense in relazione alla Palestina come partner chiave dell’occupazione israeliana in violazione dei diritti del popolo palestinese.
Gli Usa inviano tre miliardi di dollari l’anno all’esercito israeliano e la proclamazione del guerrafondaio e imperialista Trump sottolinea il ruolo nefasto giocato in Palestina e nella regione. Si tratta di una vera e propria dichiarazione di guerra contro gli arabi, che rientra nel piano della fazione imperialista neocolonialista statunitense che, contestualmente all’occupazione di porzioni di Siria, Iraq, Libia e Yemen, vuole “chiudere” la ferita aperta della Palestina e della sua capitale storica: Al Quds. Non è un caso che questa dichiarazione avviene nel centesimo anniversario della dichiarazione di Balfour, dove l’allora occupante inglese dichiarò di garantire la nascita di “un focolare nazionale ebraico” permettendo la formazione di uno stato ebraico che comportò la deportazione della popolazione araba, e va a segnare un nuovo passo storico nel progetto coloniale in Palestina. Allo stesso tempo pone le forze politiche palestinesi e del mondo arabo di fronte ad una scelta di campo: o con la resistenza o con il collaborazionismo.
Lungo il fronte Palestina, vera e propria faglia di rottura tra Neocolonialismo sionista e Resistenza antimperialista, si giocheranno le future sorti strategiche del bacino tricontinentale del Mediterraneo, nel quale a nessuno saranno più concessi i lussi della neutralità e dell’indifferenza.
In questo quadro politico generale, anche la partenza del Giro d’Italia da una Gerusalemme proclamata Capitale dello Stato sionista, nel 70° della sua stessa fondazione, è un tentativo di legittimazione di fronte all'opinione pubblica internazionale, ma soprattutto italiana, di un dato di fatto imposto ai palestinesi. Appena appresa questa notizia si sono sviluppate iniziate di informazione e di denuncia ed è stata proposta una campagna di boicottaggio che vede attive tutte quelle strutture di solidarietà con la Palestina a partire dal BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni). Nel giorno di presentazione ufficiale del Giro d’Italia 2018, tenutasi a Milano il 29 novembre presso gli studi della Rai, è stato organizzato un presidio e nei giorni precedenti e successivi in diverse città italiane si sono organizzate “biciclettate” per dire no alla partenza del Giro da Israele. Riportiamo alcuni passi dell’appello del Fronte Palestina (Italia).

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NON FACCIAMOCI PRENDERE IN... GIRO!
Una scelta faziosa e strumentale, quella della RCS Mediagroup S.P.A., di far partire l’edizione 2018 del Giro d'Italia da Israele, dove si svolgeranno le prime tre tappe: Gerusalemme, a seguire Haifa e Tel Aviv e per finire una tappa che attraverserà il deserto del Negev.
Così come nel 2008 la Fiera del Libro di Torino fu “sequestrata” per celebrare il 60° della fondazione dello Stato d’Israele, dieci anni dopo assistiamo al “sequestro e alla deportazione” del Giro d’Italia nella Palestina Occupata, per celebrare con malcelata ipocrisia il 70° della fondazione dello Stato d’Israele.
La scelta della data: Il 15 maggio 2018 cade il 70° anniversario dalla nascita dell'entità sionista, quindi l’ufficializzazione dell’occupazione della Palestina. Promuovere la partenza di quest’evento ciclistico proprio in quei giorni significa di fatto dimenticare volutamente la Nakba (trad. catastrofe, disastro) del popolo palestinese, la sua diaspora e la colonizzazione della sua terra. [...]
La scelta del tragitto: per evitare “incidenti” le tre tappe previste toccano unicamente i Territori del ‘48 evitando di proposito zone come la Cisgiordania dove i chek point, il Muro dell’Apartheid e la stessa presenza dei palestinesi avrebbero potuto smascherare il vero volto del colonizzatore vanificando l’impegno di Israele di autocelebrazione e soprattutto di riabilitazione dopo le barbarie (mostrate anche dai media mainstream) di cui si è macchiata durante gli attacchi contro Gaza.
La partenza da Gerusalemme: anche questa decisione non fa che alimentare la falsa diceria che sia questa, anziché Tel Aviv, la capitale di Israele, sebbene persino l'Onu consideri la proclamazione di Gerusalemme capitale da parte del parlamento israeliano «nulla e priva di validità, una violazione del diritto internazionale e un serio ostacolo alla pace in Medio Oriente».
Questo tipo di eventi - e lo dimostrano anche i 4 milioni di euro stanziati da Israele per gli organizzatori del Giro - rientrano in una precisa strategia che ha lo scopo di presentare uno stato colonialista come una democrazia ricca di cultura e modernità per ripulirne l'immagine a livello internazionale. Immagine macchiata dagli orrori compiuti in 70 anni di occupazione che hanno visto violenti operazioni militari, rastrellamenti, uccisioni, arresti di uomini, donne, anziani e persino minori, abusi, il furto delle terre e dell'acqua, la costruzione del muro dell'Apartheid. Violenze che i colonizzatori chiamano “diritto a difendersi” mentre nella pratica si traducono nel “diritto ad occupare”. Violenze che, è facile prevedere, il Giro d'Italia non solo non mostrerà ma si propone di celare.
Tale scelta si inserisce nell'ampio quadro di legami che unisce a doppio filo lo stato italiano e quello sionista e che si concretizza sotto vari profili, dagli accordi economici alle collaborazioni militari, dai gemellaggi accademici ai comuni obiettivi politici nelle strategie di guerra del polo imperialista a cui entrambi appartengono.” [...]
In questo contesto si inserisce anche il respingimento dall’Italia della compagna Leyla Khaled, esponente storica del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina che giunta in Italia con regolare visto-Schengen, rilasciato dall'ambasciata olandese in Giordania, con il quale, pochi giorni prima, aveva potuto partecipare ad un evento presso il Parlamento europeo su invito diretto di alcuni parlamentari, la combattente palestinese, se lo è visto annullare direttamente al posto di frontiera dell'aeroporto di Roma “Fiumicino”, ed è stata respinta e obbligata ad imbarcarsi sul primo volo per Amman. Questo episodio conferma che i posti di frontiera italiani hanno subito un trasferimento definitivo di sovranità verso l'Unione Europea e di dipendenza verso l'Ambasciata israeliana che ha dimostrato di essere in posizione tale da permettersi di imporre i propri diktat coloniali.
Leyla Khaled era stata invitata a partecipare ad una serie di iniziative in diverse città che coincidevano con il 50th anniversario della fondazione del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina. Ma anche se le autorità hanno potuto impedire fisicamente la sua partecipazione la compagna è riuscita a far ascoltare la sua voce partecipando in video conferenza alle iniziative di Cagliari, Roma e Napoli. Queste sono alcune delle sue parole: “È la fine delle illusioni sulla natura dello Stato di Israele e del progetto sionista. L’aspirazione del popolo palestinese a continuare la propria lotta per la libertà non cesserà mai. Negli ultimi decenni, hanno tentato di convincerci che Israele poteva essere un progetto democratico o un “partner” quando in realtà è un regime coloniale di insediamento, razzista e segregazionista.
Chi nella “comunità internazionale” chiede ai palestinesi di sostenere la soluzione a due Stati allo stesso tempo non fa nulla per fermare la costruzione di colonie da parte di Israele, la confisca di terre, la demolizione di case, le diverse pratiche di pulizia etnica contro i palestinesi che si trovino a Haifa, Akka o Gerusalemme, senza contare Gaza. Quello che è morto sono queste illusioni e la sola via d’uscita storica – che il FPLP sostiene – è la liberazione di tutta la Palestina storica e la creazione di una società democratica e laica, dove tutti vivano in eguaglianza, senza distinzione di colore, razza, sesso, religione o lingua. E siccome siamo convinti che uno “Stato” rappresenta una classe, noi siamo per il socialismo e uno Stato delle masse popolari, non uno Stato dei capitalisti, che siano essi palestinesi o israeliani.
Milano, 12 dicembre 2017


lettera dal carcere di Paola (cs)
Caro fratello Hussein, cari amici, è arrivata la vostra lettera con l'opuscolo e c'era la poesia sulla copertina esterna, e per quello vi ringrazio molto, e per le parole nella pagina 28, perché siamo tra le righe di questa vita.
Vi mando assieme a questa lettera la poesia “Al Quods” (nome arabo di Gerusalemme) che è l'ultima poesia del libro da stampare, per quello che riguarda la dedica (al libro), io la dedico agli “occhi che piangono, qua e là”.
Gli occhiali sono ottimi, ne avevo un paio, ma mi si sono spaccati tanti mesi fa.
Cari amici dell'associazione se sapeste quanto sono rimasto contento che avete messo la poesia in copertina dell'opuscolo, perché era dedicata alla Palestina e ai bambini della Palestina e al popolo della Palestina, e per questo vi ringrazio tantissimo.
Vostro fratello Awad il Palestinese.

18 ottobre 2017
Awad Abd el Nasser, via Casale, 1 - 87027 Paola (Cosenza)


Scioperi della fame e morti nelle carceri egiziane
Sono centinaia i prigionieri delle diverse carceri egiziane che nel mese di ottobre hanno deciso di cominciare lo sciopero della fame a oltranza per denunciare la lunghezza dei tempi della detenzione preventiva e i diversi maltrattamenti di cui sono vittime. Tra questi anche 210 tifosi dello Zamalek (in seguito al rinnovo di un altro mese della loro detenzione) che, dopo aver cominciato la protesta, sono stati picchiati dalle guardie, rasati e minacciati.
Dei prigionieri in arresto preventivo scrivono: “Un messaggio dal cimitero dei vivi rivolto a chi ha cuore puro e coscienza e non rivolto al governo o al regime. Un messaggio che viene da un prigioniero che vuole vedere la luce e vuole vivere libero e sicuro”.
Quattro ragazzi giovani sono stati arrestati nel quartiere di Dar al-Salam, accusati di appartenere ai Fratelli Musulmani, di aver capeggiato una manifestazione, di aver violato la costituzione e infine di voler rovesciare l’attuale sistema di governo e sono tutti in sciopero della fame.
Gamal Surou era il presidente dell’Unione del popolo nubiano in Francia, era tra i 12 detenuti entrati in sciopero della fame per protestare contro la loro detenzione senza accuse. Queste dodici persone fanno parte del gruppo di 24 che sono in carcere da 3 mesi. Sono stati arrestati mentre erano in un giardino pubblico e cantavano con i tamburi per protestare contro la vendita della loro terra a stranieri. Avevano accettato il trasferimento forzato quando era nell’interesse nazionale per la costruzione di dighe. Gli avevano promesso un compenso e una terra in cambio e non hanno ricevuto niente, anche se il regime di Mubarak ha riscosso dei fondi da donatori internazionali. Con la scusa della sensibilità strategica dei confini, dal 2014 l’attuale regime ha vietato qualsiasi forma di presenza in larga parte del territorio nubiano ad eccezione dei militari.
Tra i dispositivi di repressione più feroci del governo egiziano, diversi detenuti denunciano l’arresto preventivo che è di fatto, uno dei tanti mezzi illegali usati dal regime per tenere in carcere a tempo indeterminato e senza fornire prove i/le detenute politiche. C’è chi, come il giornalista Shawkan, è da 4 anni dentro senza processo.
E una volta dentro si muore anche di negligenza medica. Nel solo mese di ottobre ci sono stati 51 reclami per assenza di cure e negligenza. Anche questa è una pratica illegale usata dalla dittatura per reprimere, minacciare, umiliare e uccidere le e i detenuti.
È questo quanto avvenuto qualche giorno fa a un attivista nubiano in sciopero della fame, morto per un attacco di diabete intenzionalmente non curato.

***
Di seguito un’intervista del 13 novembre, giorno della sua sentenza di appello, dal carcere ad Alaa Abdel Fattah, uno degli attivisti egiziani che il regime di Sisi ha condannato a 5 anni di carcere più 5 anni di libertà vigilata (che significa passare almeno 12 ore al giorno in commissariato), più la cauzione di 100.000 lire egiziane (20.000 euro circa) e che a dicembre aspetta un’altra sentenza per insulto alla magistratura per manifestazione non autorizzata contro i processi militari ai civili (NoMilTrials) che si tenne il giorno stesso dell’entrata in vigore della legge anti-protesta, nel 2013.

Pensi che il tuo caso sia trattato come una questione politica e non solo giudiziaria?
[…] A partire dal 30 giugno, la magistratura è stata utilizzata come una delle parti del conflitto politico. Il che ha portato la giustizia ordinaria a annullare le norme a cui aveva aderito precedentemente, come è possibile verificare anche nei casi giudiziari non politici. Fenomeni come quello della detenzione preventiva sono diventati molto comuni. Così come l’intervento diretto dei servizi di sicurezza è diventato senza precedenti.
L’apparato di sicurezza non accetta che qualcuno gli chieda conto, vuole che tutto stia sotto il suo controllo in maniera manifesta e palese.

Qual è la tua condizione all’interno del carcere e qual è l’atteggiamento della direzione carceraria nei tuoi confronti?
Chi detiene il potere si è molto impegnato nell’ isolarmi dal mondo esterno. Questo è abbastanza palese con le restrizioni e limitazioni che applicano, come il divieto di leggere libri o giornali, o quello di ricevere corrispondenze e altre restrizioni. D’altro canto il controllo dello spazio pubblico fuori dalle carceri può solo perpetuarsi in modo ancora più brutale sui detenuti dentro. In tv passa solo l’informazione di stato. A noi è concesso vedere solo i canali egiziani e leggere i giornali del governo. Poi ci sono le visite, tre o quattro volte al mese che durano un’ora, in cui con la mia famiglia cerchiamo di scambiarci più informazioni possibili, sia personali che non. Ma nonostante tutto quello che ho appena raccontato, la mia condizione in detenzione, nonostante tutte le limitazioni e le restrizioni è migliore rispetto alla maggior parte dei detenuti.

Come vedi l’Egitto da dentro il carcere, cosa pensi dei progetti di cui parlano i media?
Un altro crimine che il governo sta portando avanti in politica estera è che ogni qualvolta si trova in crisi diplomatica sigla accordi sull’acquisto di armi. Naturalmente i governi esteri accettano diventando complici dei crimini per interessi economici. Per questa ragione sono disposti a tutto, come la mancanza di giustizia nel caso Regeni.

novembre 2017, da hurriya.noblogs.org
dalle lotte dentro e contro i lager per immigrati
Cibo scadente, assenza di cure mediche sostituite da antibiotici per curare qualsiasi malattia e psicofarmaci per sedare, impossibilità di tenere persino una penna e un foglio per scrivere una lettera: queste sono le condizioni di vita all’interno dei lager dove sono imprigionate le persone senza documenti a Roma, Torino, Brindisi e Caltanissetta. Ricordiamo che secondo quanto stabilisce la legge Minniti-Orlando altri 8 ne apriranno in tutta Italia nei prossimi mesi.
Crediamo sia importante solidarizzare con le loro lotte e resistenze quotidiane alla violenza dello stato, rompendo il muro di isolamento che le circonda e smascherare e abbattere il business che si nasconde dietro la cosìddetta accoglienza. Pensiamo non sia possibile un miglioramento delle condizioni di vita all’interno, perché solo la distruzione di tali prigioni potrà restituire a queste donne e uomini la libertà di scegliere dove e come vivere.

Torino, CPR di C.so Brunelleschi: cibo scadente e incendi
Il più delle volte pranzo e cena vengono serviti marci al Cpr di C.so Brunelleschi. In molti decidono di non mangiarlo e di condividere quello dei pacchi di vettovaglie che arrivano da parenti e amici, in pochi si possono permettere di comprare qualche prodotto alimentare scegliendo dall’esosa lista che viene proposta.
Qualche ragazzo arrivato dal Centro di Brindisi, trasferito nel capoluogo sabaudo a causa di lavori di ristrutturazione nel Cpr pugliese, dice che qui non si può permettere neanche di comprare il latte e che tutto dentro alle mura di c.so Brunelleschi ricorda la vita in catena di montaggio: “Come in fabbrica sembra di stare qui! Vedi quasi sempre solo i lavoranti che fanno quello che gli dicono, i direttori e la polizia, e non si capisce mai come veramente funziona perché parli con questi che sono stronzi ma alla fine non contano un cazzo”.
A volte capita che i detenuti si interfaccino con qualcuno di più alto rango, quando fanno un po’ di casino e qualche ispettore è costretto a scomodarsi. Come giovedì 2 novembre, alla sera, in cui dopo giorni nei quali in molti hanno deciso di saltare i pasti per evitare gli psicofarmaci nel cibo, ancor prima di aprire la confezione della cena si sono resi conto che si trattava di pollo andato a male, completamente marcio. Dentro sono costretti a saltare un pasto sì e l’altro pure per non cadere in catalessi chimica, e poi arrivano anche intrugli decomposti dell’azienda Sodexo che riempiono le stanze di tanfo mortifero. Qualcuno ha deciso infuriato di ribaltare i letti e iniziare a urlare di rabbia. A quel punto un ispettore si è fatto vedere davanti alla porta dell’area blu e di quella viola: “Ma cosa vi lamentate, e tornatevene al vostro paese allora ché tanto lì il cibo neanche c’è!”
Peccato che sia stato costretto a scappare quando qualcuno gli ha messo sotto al naso il pasto marcescente; forse si è allontanato di fretta per la puzza, forse per la paura che dopo quelle parole veementi qualcuno potesse lanciarglielo contro, non è dato saperlo con esattezza.
La serata è continuata così, urla, polizia di controllo fuori dalle aree e stomaco vuoto, nouvelle cuisine riservata a chi è solo un senza-documenti, l’eccedenza, per non dire lo scarto umano a cui dare l’ultima spremuta di valorizzazione attraverso la detenzione amministrativa e chi la gestisce.
Intanto la situazione generale del Cpr torinese sembra avere trovato un infausto ritmo, le deportazioni avvengono quasi all’ordine del giorno, compensate puntualmente da continui ingressi, con un numero che oscilla tra i centosessanta e i centosettanta reclusi. In questo periodo pare che la polizia la mattina arrivi per portarsi via soprattutto i ragazzi nigeriani e quelli tunisini, di solito tre o quattro al giorno. Proprio i reclusi di origine tunisina hanno portato avanti al Centro di Lampedusa uno sciopero della fame contro i continui rimpatri forzati, rinvigoriti da una nascente lotta in Tunisia di amici e famigliari di chi è nei Cpr italiani.
A Torino, invece, la notte del 4 novembre c’è stato un tentativo di fuga di massa, legato in parte alle deportazioni verso la Tunisia: in undici si erano organizzati per tentare l’evasione e saltare l’imponente cinta muraria; a loro nelle ore prima si sono aggiunti una decina di tunisini a cui è arrivata all’orecchio l’ipotesi di un rimpatrio grosso che poteva riguardarli. Purtroppo le forze dell’ordine si sono accorte del movimento anomalo e hanno impedito l’azione collettiva sul nascere. Questa volta.
Il 15 novembre i reclusi hanno dato fuoco all’area blu e a quella verde rendendo inagibili diverse stanze. La celere è arrivata immediatamente dispensando lacrimogeni e botte, insieme ai pompieri che hanno pensato bene di raffreddare gli animi lavando letteralmente i reclusi con le pompe dell’acqua. I celerini ci sono andati particolarmente pesanti con i manganelli e gli schiaffi soprattutto nell’area blu dove da dentro ci arrivano notizie di diversi feriti. Spenti gli incendi è stata effettuata una perquisizione alla ricerca dei temutissimi quanto efficaci accendini mentre fuori dalle mura dei fuochi di artificio hanno salutato i reclusi e portato solidarietà alla rivolta.
La maggior parte delle persone che erano rinchiuse nell’area blu e in quella verde hanno passato la notte tutte insieme nella mensa al freddo, senza coperte né materassi mentre dodici tra loro sono stati prelevati e messi in isolamento. I compagni di reclusione questa mattina, non sapendo nulla della loro sorte, hanno rifiutato il cibo in segno di protesta. La situazione è ancora in evoluzione e le notizie si susseguono contrastanti.
Il 27 novembre sono stati sparati dei fuochi d’artificio sul fare della fredda sera. Con questo saluto pirotecnico un gruppo di nemici delle espulsioni si allontana dal Cpr torinese dopo un presidio di qualche ora, con la promessa di tornarci presto a portare anche solo una voce più alta delle mura. Nelle ultime settimane più volte le voci fuori si sono unite a quelle dentro, qualche auto arriva in c.so Brunelleschi per rompere la solitudine di chi lotta contro la struttura che lo imprigiona, per qualche minuto si urla insieme “Libertà!” prima che arrivino le volanti che presidiano 24 ore su 24 il perimetro fortificato del Centro.
I reclusi, dopo la rivolta, subiscono un controllo ancor più afflittivo e alcuni di loro sono ancora rinchiusi nell’isolamento, altri due dormono al freddo in mensa dove il riscaldamento non c’è mai stato. Tuttavia non c’è mai neanche un dubbio nelle loro voci e la rivolta non è mai qualcosa di cui pentirsi ma sempre una questione di possibilità: stare là dentro fa schifo e quando si riesce a organizzarsi insieme va da sé.
Va da sé insieme alla consapevolezza di aver fatto con il fuoco un buon danno e che lo spazio all’interno del Cpr si è drasticamente ridotto. Nelle ultime settimane una ventina di ragazzi sono stati liberati, altri trasferiti al riaperto Centro barese, perché con l’area blu e quella verde fuori gioco all’oggi ci sono meno di cento posti, prima degli incendi erano centosettanta.
Intanto continua la vicenda dei pasti marcescenti dell’azienda Sodexo e il venerdì passato è stato servito il pollo crudo e putrefatto, tant’è che è bastato che i reclusi gli dessero qualche morso per rimanerne pesantemente intossicati.
Per sabato 16 dicembre è stato indetto un presidio davanti al Cpr.

Riaperto ufficialmente il CPR di Bari Palese
Martedì 14 novembre, le prime persone verranno recluse nel CPR di Bari, riaperto ufficialmente ieri, secondo quanto riportato dai media. Il CIE di Bari fu chiuso in seguito ai danneggiamenti riportati dalla struttura dopo le rivolte dei migranti detenuti avvenute tra il 24 e il 29 febbraio 2016.
Nell’agosto 2017 il tribunale di Bari aveva condannato “la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero dell’Interno a pagare un risarcimento di 30mila euro per danno all’immagine in favore del Comune di Bari per la inumanità del Cie” paragonandola a “luoghi rimasti saldamente legati in senso negativo alle strutture di costrizione e di sofferenza di esseri umani che vi erano collocati, come Auschwitz, Guantanamo e Alcatraz.”
L’ex Cie ora riapre col nuovo nome di CPR, Centro di Permanenza per il Rimpatrio, con 126 posti previsti, grazie a una “procedura d’urgenza da 750mila euro, affidata in dieci giorni alla ditta Ladisa“, che gestirà il Cpr fino a dicembre.
Una corsa contro il tempo, da parte del Ministero, per dimostrare la capacità di riaprire entro il 2017 almeno uno dei nuovi CPR previsti dai piani governativi.

Gricignano D’Aversa (Ce), la violenza del sistema di accoglienza
Il 10 novembre nel centro di accoglienza di Gricignano d’Aversa, in provincia di Caserta, durante l’ennesima protesta delle persone che vivono nella struttura, uno dei gestori, Carmine Della Gatta, ha sparato due colpi di pistola al volto del diciannovenne Alagiee Bobb, ferendolo gravemente. Da oltre un anno le 150 persone che vivono segregate nel centro portano avanti delle proteste per denunciare le condizioni di accoglienza: sovraffollamento, pessimo cibo, mancanza di assistenza sanitaria e degli altri servizi etc.
Nel marzo 2016 erano scesi nelle strade bloccando l’adiacente via Cardini, ma nulla era cambiato: le autorità sono al corrente delle situazioni nei centri di accoglienza ma, tranne in casi di macroscopici scandali, ritengono che vada bene così. Non è un caso che con tanta semplicità il sindaco di Gricignano dichiari di aver sottoposto a TSO (trattamento sanitario obbligatorio), solo una settimana fa, una persona che protestava.
Dopo il ricovero di Alagiee Bobb in ospedale, il giorno successivo, 11 novembre, i suoi compagni sono nuovamente scesi in strada bloccando per ore la provinciale Aversa-Caivano, controllati a vista da un ingente spiegamento delle forze dell’ordine.
In reazione a questa protesta, il 12 novembre, polizia e carabinieri hanno proceduto, senza nessun preavviso, allo sgombero del centro e alla dispersione delle 150 persone in altre strutture della provincia. Ancora una volta le prefetture si dimostrano indifferenti alle rivendicazioni di chi è costretto/a nei centri ma efficientissime nella repressione delle proteste: solo nell’ultima settimana, denunciate 11 persone a Gela, 9 revoche dell’accoglienza a Olzai e Tonara, 10 denunce a Bisaccia per la protesta nello SPRAR, 6 revoche dell’accoglienza a Montesarchio, 4 minori denunciati a Catania, 6 persone espulse dall’accoglienza a Valleve, e ci sono stati interventi delle forze dell’ordine ad Agrigento, Scicli, Tappino, Catania, Vicenza, Latina, Conetta.
La segregazione nei campi e nei centri a varia denominazione, per quanto venga chiamata “accoglienza”, mostra tutto il suo abominio nella repressione esercitata da chi gestisce e opera in queste strutture, con l’ovvia complicità delle istituzioni e delle forze dell’ordine.
Perché la solidarietà ad Alagiee e a chi ogni giorno lotta in tutta la penisola contro questo sistema di gestione e controllo IRRIFORMABILE non sia fatta di sole parole, è necessario unirsi alle battaglie e alle proteste. Se accettiamo che si tratti di notizie, più o meno eclatanti, da destinare alla cronaca locale o al “controllo popolare” di qualche complice delle istituzioni, meglio restare in silenzio.

Caltanissetta, in fiamme il CPR di Pian del Lago
Abbiamo appreso con gioia dai media locali che, dopo i tentativi di incendio di settembre e le proteste di ottobre, la rabbia dei reclusi nel CPR di Caltanissetta – Pian del Lago è esplosa nuovamente per rompere l’isolamento e il silenzio intorno a quel lager.
Sabato 9, in serata, alcuni detenuti hanno dato fuoco a parti del CPR, probabilmente per resistere a una imminente deportazione. A seguito dell’incendio, a cui pare essere seguito un lancio di oggetti verso gli operatori che cercavano di intervenire bloccando i reclusi, sembra ci siano stati ingenti danni alle strutture.
I media parlano inoltre di un recluso intossicato ma fuori pericolo, e non sappiamo al momento se e quali siano state le conseguenze repressive nei confronti dei reclusi.
Dopo la rivolta e l’incendio, 40 persone sono state deportate dal CPR di Pian del Lago, lunedì 11, e altre 37 giovedì 14 dicembre, con i consueti voli programmati due volte a settimana dall’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo verso l’aeroporto di Enfida-Hammamet in Tunisia. Sono circa 1.000 i tunisini deportati quest’anno dall’Italia. Altre 5 persone, ritenute responsabili dell’incendio, sono state invece indagate per il reato di “devastazione e saccheggio” e recluse nel carcere Malaspina di Caltanissetta.
La struttura del CPR è ora vuota ed è stata chiusa per almeno due mesi, in attesa dei lavori necessari a ripristinare i 3 padiglioni abitativi presenti nel centro, tutti danneggiati dalle fiamme come ammesso anche dal questore di Caltanissetta in un’intervista dell’11 dicembre. Il CPR sarà dunque evacuato completamente. Un primo gruppo di persone è stato già deportato in Tunisia (com’era già previsto).

Roma: allagato il Cpr di Ponte Galeria
Apprendiamo dalle donne recluse nel CPR di Ponte Galeria che, in seguito alla forte pioggia che ieri 5 novembre è caduta sulla città di Roma e al malfunzionamento delle fognature, la struttura che imprigiona donne senza documenti si è allagata. Intorno alle 13 l’acqua ha iniziato a entrare nelle stanze e, con il passare delle ore, il livello si è alzato talmente tanto da costringere le recluse a salire sui tavoli. Ovviamente tutti gli effetti personali, come i materassi e il resto, si sono bagnati.
Alle allarmate richieste delle ragazze di intervenire rapidamente e di poter utilizzare secchi e scope per togliere l’acqua dalle stanze, gli operatori hanno risposto soltanto di aspettare, e di convergere tutte nella sala mensa nel caso il livello dell’acqua si fosse alzato ulteriormente. Dopo qualche ora, con la fine della pioggia e la disostruzione del sistema fognario, l’acqua ha lentamente riniziato a fuoriuscire.

***
SABATO 25 NOVEMBRE PRESIDIO AL CPR DI PONTE GALERIA
[...] Storie di donne recuperate in mare, donne liberate dalla schiavitù della tratta, storielle commoventi d’integrazione, donne dipinte come povere vittime da compatire, da salvare da questa vita crudele da cui sono scappate, e da accogliere. Così le descrivono i media al soldo delle istituzioni e del potere. Lo stesso potere che ipocritamente piange le 26 ragazze nigeriane arrivate morte a Salerno su un barcone, e che dichiara di voler fare giustizia definendo il fatto come “una tragedia dell’umanità”.
Esiste però un’enorme contraddizione insita in queste parole, narranti le storie individuali di donne migranti. Questa contraddizione rivela due realtà che sembrano opposte, ma che in fondo sono simmetriche e rappresentano le due facce di una stessa medaglia.
Queste donne, infatti, una volta arrivate in Italia vengono istantaneamente oppresse da un meccanismo perverso che le categorizza, le classifica e le rende più facilmente controllabili. Chi decide in quale categoria inserirle e muoverle come pedine da una all’altra è sempre lo stesso potere centrale che le compatisce e che vuole salvarle.
Qualcuna viene inclusa in quella che viene chiamata “accoglienza”: un sistema infantilizzante che le rende dipendenti da tutto e per tutto. Le donne che entrano in questo circuito e in questo limbo in attesa di un asilo politico o una sorta di protezione legale, nel “migliore” dei casi sono sottoposte a rigide regole che limitano la loro libertà e la loro iniziativa personale.
Se si decide di infrangere queste regole o se chi comanda il “gioco” decide di cambiarle, allora si passa dalla categoria “inclusa” o “includibile” a quella di indesiderabile, ed ecco che la medaglia si gira ed appaiono i lager di stato, chiamati CENTRI PER IL RIMPATRIO, e chi diceva di voler salvare quelle donne ne diventa l’aguzzino.
Lì dentro sovraffollamento, cibo avariato, assenza di cure mediche, tranquillanti, pestaggi e persino l’allagamento della struttura della scorsa settimana
Le donne che finiscono nel Cpr spesso provengono dalle questure, alle quali si rivolgono per sporgere denuncia per liberarsi dalla violenza dei loro partner, o semplicemente per rinnovare i documenti.
Non deleghiamo allo stato la soluzione a un problema di cui è artefice. Contrastiamo la logica dell’accoglienza e dei centri di detenzione, non rendiamoci complici della violenza e del razzismo di stato. Solidarizziamo con chi sabota e lotta contro le frontiere e le galere.
SABATO 25 NOVEMBRE PRESIDIO AL CPR DI PONTE GALERIA

Milano, dicembre 2017


Francia: Minori migranti e solidali occupano 3 edifici a Nantes
Decine di minori non accompagnati stranieri sono per strada a Nantes, con l’inverno in arrivo. Le autorità pubbliche sono nell’illegalità, perché hanno il dovere di ospitare minorenni privi di abitazioni, qualunque sia la loro origine.
Da mesi, un enorme edificio di diverse migliaia di metri quadrati, nel cuore di Nantes, è lasciato all’abbandono. Si tratta della vecchia scuola di Belle Arti, che appartiene al comune di Nantes. Le autorità non prevedono nulla per questo grande spazio, tanto che il municipio socialista, che osa parlare di “dialogo cittadino” in lunghi discorsi, ha lanciato un “invito a presentare progetti” per “reinventare il luogo”.
Sabato 18 novembre, dopo una manifestazione festosa e colorata, la vecchia scuola di Belle Arti è investita di buon umore. Senza effrazioni. Immediatamente, i letti sono sistemati, una mensa distribuisce pasti, si accende il riscaldamento – ancora funzionante -, si lanciano le discussioni per organizzare la vita del luogo. I politici di sinistra, abituati alle più perverse manipolazioni, giurano di non far sgomberare lo spazio.
Domenica 19 novembre, mentre più nessuno si aspetta uno sgombero, e con gli eletti di sinistra che avevano persino annunciato una visita di cortesia, decine di furgoni della CRS (la polizia antisommossa) si dispongono intorno alla scuola ed entrano nell’edificio. I giovani migranti scappano, vanno nel panico. Uno di loro, spaventato, ha una crisi, probabilmente epilessia, e deve essere portato in ospedale su una barella. Un altro, nel panico, salta giù dal palazzo e si fa male ai piedi. Quelli che restano, e i loro sostenitori, sono circondati per diverse ore dalla CRS, e poi fotografati.
Intorno all’edificio, la solidarietà si organizza. Quasi 200 persone di Nantes di tutte le età entrano in contatto con le file di CRS che sono intorno alla piazza, gridando slogan contro il razzismo e il municipio socialista. All’improvviso, senza motivo, i CRS si mettono a picchiare i manifestanti e arrestano una giovane donna. Un poliziotto rubicondo ne approfitta per colpire arbitrariamente, con un gran colpo di manganello, la testa di una manifestante. Il sangue scorre. Sarà ricoverata anche lei.
Verso le 17, la folla finisce per disperdersi, con la rabbia nel cuore. Le guardie vengono a controllare il luogo, e i muratori inviati dal comune murano l’ingresso dell’edificio. Nel frattempo, gli sgomberatori lanciano una propaganda mediatica per evitare la protesta. Johanna Rolland afferma che sbloccherà “dieci posti in emergenza”, e giustifica lo sgombero con pseudo argomenti sulla sicurezza. Quindi hanno mandato 3 persone all’ospedale e gettato 50 minori in strada per la loro sicurezza. Il cinismo del Partito Socialista è senza limiti. Possiamo anche interrogarci sulla nuova governance che sta attualmente prendendo piede. Ovunque, il potere prevede, per ogni resistenza, manifestazione, occupazione, persino per le azioni più pacifiche, una sola e identica risposta, unilaterale e senza appello: la violenza di stato più brutale. [...]
Dalle 18 di mercoledì, 22 novembre, gli studenti di Nantes hanno deciso, dopo un’assemblea generale che ha riunito 200 persone, di occupare l’edificio Censive per ospitare i giovani gettati in strada dal municipio: non abbassiamo la testa di fronte alla repressione, loro sgomberano e noi rioccupiamo!
Dal comunicato degli studenti di Nantes: “Di fronte all’urgenza della situazione, occupiamo queste stanze per rispondere a questa esigenza di alloggio ma anche per rispondere al bisogno della città universitaria di creare spazi di solidarietà e condivisione tra studenti e giovani migranti. L’Università non è un luogo neutrale, di fronte alle politiche di selezione guidate dal governo, rivendichiamo un’università aperta a tuttx e anche un luogo di incontro per combattere l’isolamento e l’esclusione”.
Il 26 novembre, dopo la scuola di Belle Arti e un’ala dell’edificio Censive, nel campus, il bellissimo castello della Tertre è stato occupato da 200 persone per alloggiare i giovani migranti! Questo castello fu costruito da Gabriel Lauriol, armatore di Nantes che partecipò al commercio degli schiavi durante il XIX secolo.

Novembre 2017, tradotto da facebook.com/Nantes.Revoltee/


torino, 23 DICEMBRE: PRESIDIO DAVANTI AL CARCERE MINORILE
Lo scorso 27 novembre a torino due ragazzi detenuti nel carcere minorile Ferrante Aporti
vengono ricoverati di urgenza all’ospedale CTO. Uno dei due è gravissimo, ha pesanti ustioni al corpo, in particolare al volto, le sue vie respiratorie sono compromesse per massiccia inalazione di fumo. Finisce in rianimazione, in coma farmacologico. Solo da un paio di giorni le sue condizioni sembrano lentamente avviarsi ad un miglioramento.
La stampa dice di un materasso dato alle fiamme, di un incendio scoppiato a causa di una protesta, di fumo che invade l'intero braccio del carcere. Accenna a soccorsi arrivati in ritardo, per poi fornire vergognosi alibi: carenza di personale penitenziario, guardie martiri che fanno il loro eroico, bravo lavoro in un clima di aggressioni da parte dei reclusi.
Al Ferrante Aporti, come altrove, lo stato, la legge, il carcere, svelano per l’ennesima volta il loro volto, la loro natura violenta, la loro funzione annientatrice... e così, questa volta, è un ragazzo di soli diciannove anni a farne le spese. per chiunque venga sequestrato dallo stato, fatti come questo sono all’ordine del giorno...
Sabato 23 dicembre dalle ore 15,30 saremo sotto le mura del carcere Ferrante Aporti (sul lato di via Berruti e Ferrero) a ribadire il nostro -più profondo- odio nei confronti di tutte le galere e a portare solidarietà ai detenuti. TUTTI LIBERI!

18 dicembre 2017, Cassa antirepressione delle Alpi Occidentali


L'AQUILA, 24 NOVEMBRE: UNA GIORNATA DI LOTTA!
Cosa ci stanno facendo
La mobilitazione dello scorso 24 novembre a L'Aquila, in occasione di un processo alla prigioniera delle BR-PCC Nadia Lioce, era inserita in un percorso di lotta anti-carceraria; tale percorso individua il regime di 41bis come l'apice, la punta di diamante del sistema di repressione italiano, nonché “scuola” per le amministrazioni penitenziarie di tutti gli stati occidentali e non solo (pensiamo ad esempio alla Turchia).
Come campagna “pagine contro la tortura” nell'ultimo anno e mezzo, e come compagni e compagne contro il carcere, da una decina di anni a questa parte, abbiamo lanciato a più riprese diversi appuntamenti nel capoluogo abruzzese, proprio per la presenza in quel territorio del supercarcere che rinchiude oltre 100 persone, quasi tutte ristrette in 41bis.
Lo scorso 24 novembre ci siamo così recate/i a L'Aquila da differenti parti della penisola individuando nel processo a Nadia una doppia occasione: poter solidarizzare con lei, accusata per una serie di proteste contro le condizioni di detenzione, attuate per mezzo di battiture, e per ribadire che il 41bis, regime detentivo cui la compagna è sottoposta da 12 anni, è tortura.
Di fronte all’entrata del tribunale, un presidio con striscioni e volantini è stato partecipato da decine di solidali, mentre una cinquantina di persone hanno preteso, con necessaria determinazione, di poter essere presenti in aula; e così è stato.
Per molti/e era la prima volta che ci si trovava a un processo con l'imputata in videoconferenza, prassi obbligata per chi come Nadia si trova in 41bis, ma negli anni estesa anche ad altra “tipologia” di detenuti/e.
La videoconferenza è solo un esempio di come ciò che viene normato per la detenzione speciale, diventi poi “normale”, “di normale amministrazione” appunto, quindi “accettabile”, così da poter passare agli altri circuiti del sistema carcerario con una certa, supposta, legittimità.
Insomma, noi dall'altra parte dello schermo abbiamo potuto, per ora, solo immaginare cosa possa significare essere privati della possibilità di scambiare qualche sguardo complice con i propri affetti, sentire da vicino la solidarietà di chi è presente in aula, confrontarsi simultaneamente e non per interposta persona con i propri avvocati, eventualmente intervenire rispetto alle cose che vengono dette nel processo che si sta subendo... Proprio in questa udienza, che ha visto la partecipazione di un'ispettrice dei G.O.M. (reparti “specializzati” della polizia penitenziaria operativi nelle sezioni del 41) come testimone dei fatti imputati alla compagna, è stato particolarmente difficile non esprimere sdegno. La naturalezza con cui questa guardia riferiva le condizioni di detenzione (leggere: di annientamento psico-fisico) all'interno delle sezioni a 41bis, imposte dalle regole scritte sull'ordinamento penitenziario, e che lei “doveva” rendere esecutive, era di-sar-man-te: se c'è scritto che vanno fatte 3 perquisizioni al giorno, si fanno 3 perquisizioni al giorno. Punto. Se vige il divieto assoluto di comunicare tra detenute, la diretta conseguenza anche solo di un cenno della testa o di uno sguardo è il rapporto disciplinare. E così via. Candidamente.
D'altra parte, il dato rilevante di questa udienza, e che in qualche modo segna una novità, è stata la presa di parola da parte di Nadia, che ha presentato alla corte un documento di una decina di pagine in cui ha ritenuto necessario ripercorrere i passaggi della detenzione speciale, dall'art.90 al 41bis, descrivendo la natura vessatoria delle condizioni cui si pretende di sottoporre i detenuti e le detenute in 41bis, contestualizzandole e rendendo chiaro quanto grottesche possano risultare le accuse a lei rivolte in questo processo. È un documento prezioso e ci sembra evidente che quella sollevata dalla compagna sia una questione di principio, posta con la presentazione di questo testo come memoria processuale, così da farlo giungere all'esterno, tra le mani di noi tutti/e. Nella memoria appunto, che pubblichiamo in fondo a questo testo, Nadia ci consegna la testimonianza diretta di ciò che ci stanno facendo. E tutte/i noi abbiamo la responsabilità di farne a nostra volta memoria. Memoria viva, perché ciò che stanno facendo a oltre 700 persone sottoposte in Italia al cosiddetto carcere duro, è ciò che potrebbe in un modo o nell'altro riguardarne molte altre. I paletti della legalità sono nelle mani dello stato, e dove vengano di volta in volta piantati dipende dal terreno fertile che trovano. Una parte in campo spetta sicuramente a chi ritiene di non potere e volere accettare in silenzio la tortura dell'isolamento, così come le condizioni di sfruttamento, imposte, torniamo a dire, candidamente dagli stati. Che questo terreno diventi quarzo!
Possiamo senz'altro dire che non sia stato il silenzio a caratterizzare la giornata del 24: arrivati al momento del rinvio alla successiva udienza, fissata per il 4 maggio 2018, grida e cori si sono alzati dalle file dei/delle solidali in aula, è stato aperto uno striscione con su scritto 41BIS = TORTURA, qualcuno ne ha sottolineato il significato con un discorso estemporaneo... Nel frattempo il giudice faceva sgomberare l'aula, ma l'udienza era già finita e il corteo di solidali, con lo striscione alla testa, lasciava il tribunale raggiungendo il presidio all'esterno.
Di fatto non sappiamo se le nostre grida siano giunte fino a Nadia, il cui collegamento audio potrebbe essere stato prontamente interrotto; d'altra parte questo dispositivo fa parte del meccanismo perverso di annientamento pianificato e applicato.
Lasciato il tribunale in un'ottantina ci si è diretti al carcere dove, con un presidio ricco di interventi a microfono aperto si è cercato di raccontare la giornata, rompere la monotonia della vita internata e mandare un messaggio di solidarietà a Nadia e a tutti i detenuti e le detenute che non abbassano la testa.
Di fronte all'abominio possiamo alzare le spalle in un gesto di rassegnazione e girare la testa dall'altra parte, oppure guardare dritto in avanti e rimboccarci le maniche! Quest'ultima la nostra scelta!
1° Dicembre 2017
CAMPAGNA “PAGINE CONTRO LA TORTURA”

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Di seguito la memoria processuale di Nadia.

Al Tribunale Penale de L'Aquila.
La sottoscritta Nadia Lioce ha presentato opposizione al decreto penale di condanna n.29/2016 ritenendo di poter qualificare le azioni, addebitatele come di disturbo delle altre detenute, come tradizionali azioni di protesta verso l’amministrazione penitenziaria (battitura delle sbarre), e di poter argomentare come non potesse ritenere di aver arrecato un disturbo alle altre detenute, non avendo udito lamentele; né che tali azioni arrecassero un tale disturbo, essendo state storicamente accettate e/o condivise dalle detenute della sezione femminile 41 bis dell’istituto de L’Aquila, come in generale lo sono per tutti i detenuti.
Gli eventi in oggetto – di battitura delle sbarre – sono quelli del 25/08/2015, 27/08/2015, 29/08/2015, 31/08/2015, 04/09/2015 e 07/09/2015, quali segmento di una protesta durata dal 27 marzo 2015 al 30 settembre 2015, con una frequenza analoga a quella citata (documentata dalle sanzioni irrogate le cui notifiche sono state depositate agli atti), e forme identiche (battitura con bottiglietta di plastica del cancello) e durata (mezz’ora), per un totale di episodi superiore alla cinquantina, in un regime di prigionia “speciale” quale, essendo segregativo nella natura e nello scopo è ordinariamente ben poco conosciuto. Eppure per poter contestualizzare i fatti è necessario poterne distinguere le caratteristiche, per cui la sottoscritta cercherà di tratteggiarle per come si sono andate determinando storicamente, pur nella consapevolezza che il salto esistente tra la vita civile e le condizioni della prigionia speciale in particolare, complessificando la rappresentazione in parole della sua concretezza, possa non essere colmato dal proprio tentativo e lasciarne incompleta la comprensione. Ma è tanto più necessario quanto più è rilevabile una certa ambiguità aleggiante sulle regole che attengono alla prigionia speciale, sulla quale si tornerà in seguito con degli esempi.
Il 41 bis nasce negli anni ’90, ma come antesignano ha quello che si chiamava “articolo 90”, che veniva applicato ai prigionieri politici, e non solo, ed era parte anche di una più vasta trasformazione dell’istituzione carceraria in direzione della differenziazione in più circuiti detentivi (bassa, media, alta sicurezza – politici e non) e della normalizzazione di sistemi premiali; oltre che inquadrato in ragioni politiche la cui trattazione esula da queste precisazioni.
Entrambi finalizzati a segregazione dall’esterno e controllo interno della popolazione detenuta, all’origine concepiti come regimi di prigionia speciale rispondenti ad un’emergenza, ovvero ad una situazione a termine, non strutturale – l’art. 90 fu addirittura abrogato una volta ritenuta esaurita l’emergenza rivoluzionaria – che in quelle condizioni politiche lo rendeva compatibile con i principi costituzionali.
Il 41 bis conserva – all’origine – questa giustificazione nelle forme applicative ma, non sussistendo più le condizioni politiche generali dei decenni precedenti, in se stesso può nascere per restare come forma di prigionia speciale “normalizzata”.
Almeno in una prima fase viene concretamente gestito con applicazioni di durata limitata della misura che la legge prevedeva potessero essere anche di 3 - 6 mesi e con proroghe non automatiche, e sia l’amministrazione che la giurisprudenza le concepiva revocabili; successivamente la legge aumentò la durata della singola applicazione a 1 o 2 anni e poi ancora, così che attualmente la durata della prima applicazione è imposta a 4 anni, quasi 10 volte più che all’origine, mentre le proroghe sono di un biennio e sono automatiche nella sostanza. Se fino al 2009 esisteva una teorica possibilità di revoca della misura, in sede ministeriale o giurisdizionale, in quanto l’onere di provare la sussistenza di motivi di applicazione era in capo al proponente o al decisore, con le modifiche apportate questa teorica possibilità non esiste più (che non significa che non ci sia stata più alcuna revoca da allora, ma un conto è la regola, un altro il caso particolare).[1]
Precedentemente la detenzione speciale consisteva nella separazione delle sezioni o dei reparti di 41 bis da quelli ordinari (comuni, A.S., EIVC); nella limitazione dei rapporti con l’esterno ai colloqui con il vetro con familiari entro il 3° grado per una o due volte al mese decise dal ministero oppure dal tribunale di sorveglianza territoriale in sede di reclamo, quando la competenza a decidere dei reclami al 41 bis era dei tribunali di sorveglianza locali; limitazioni dei “pacchi” di vestiario e cibi mensili a 2 per 10 kg totali; limitazione delle telefonate a 1 o 2 a familiari (che per riceverla devono recarsi al carcere). Per quanto riguarda la limitazione dei rapporti all’interno essa consisteva: nella frequentazione di 2 ore di passeggi e 2 ore di saletta in gruppi formati al massimo da cinque persone.
Per dare un termine di comparazione rispetto all’antesignano: l’art. 90 non prevedeva suddivisioni in gruppi, cioè i “gruppi” non esistevano, “l’aria” (o passeggi) era frequentata dalla sezione nel suo complesso; (“la socialità” forse al tempo non esisteva).
Rispetto agli altri circuiti detentivi: tutti i circuiti prevedono che l’aria sia a frequentazione comune, di tutta la sezione o di tutto il reparto. Non tutti i reparti utilizzano sale per la socialità che perciò può essere fatta nelle celle in un numero limitato di persone scelte dal detenuto volta per volta.
I detenuti comuni usufruiscono di sei ore mensili di colloquio con un arco più esteso di familiari, quelli in alta sicurezza o del fu EIVC, di quattro ore.
Tutti i detenuti di bassa, media e alta sicurezza possono fare una telefonata settimanale di dieci minuti ai familiari.
Il 41 bis prevede inoltre in tutti i casi la censura della corrispondenza che il censore operativo esamina, ed eventualmente sottopone al giudice competente, per la decisione dell’inoltro o meno. Una misura applicabile anche a detenuti non in 41 bis, in genere a quelli in A.S. Tutto il resto del trattamento in teoria non avrebbe ragione di differire.
Cioè: si potrebbe erroneamente pensare che le altre condizioni di prigionia di detenuti ordinari e in 41 bis, possano essere le stesse. In realtà non è mai stato così.
Innanzitutto perché la legge nel definire “le misure eccezionali” rispetto all’ordinamento non ha mai citato limiti minimi, con cui di norma si asseriscono le condizioni garantite per ogni condizione della prigionia, ma solo massimi.
Ad esempio: le ore di colloquio, di aria, di saletta, i chilogrammi e il numero dei pacchi, i capi di vestiario e i generi alimentari e di conforto detenibili in cella… sono tutti limiti non superabili. Le ore all’aperto – una all’aria, l’altra in saletta – sono “non superiori a due”.
Cioè, mai condizioni garantite, proprio perché è stato un regime concepito come una eccezione (e lo è) rispetto ad una normalità.
Poi perché il decreto riserva al vertice dell’amministrazione ulteriori specifiche disposizioni, individualizzate e non, sicché tutto il resto può anche differire totalmente e ulteriori compressioni delle libertà residue ed estensioni delle restrizioni possono colpire ogni aspetto della vita quotidiana, che sia per iniziativa del Dipartimento o per iniziativa locale, di interpretazione delle direttive, o di propositività di iniziativa.
Infine perché addetti alla custodia dei detenuti al 41 bis sono i G.O.M., cioè un corpo speciale di polizia penitenziaria, forse introdotto nel 1998 e dal 2009 obbligatoriamente nei reparti di 41 bis, che consiste in una sorta di polizia penitenziaria militarizzata – finora informalmente – centrata su compiti di contrasto e in grado di praticare questo genere di direttive.
Questa serie di peculiarità incidono su tutti gli aspetti della vita quotidiana: da quello delle disponibilità materiali – detenibilità di materiali in cella, dal vestiario, al cartaceo, a generi alimentari e di conforto o per l’igiene ambientale, o degli oggetti personali; a quello dell’accessibilità all’acquisto di prodotti non inclusi nella lista dei generi acquistabili di “sopravvitto”; a quello delle modalità e frequenza di svolgimento delle perquisizioni personali o della cella.
Ognuno di questi aspetti delle necessità, condizioni e disponibilità personali può essere investito, e concretamente lo è stato e lo è, da un regime ulteriormente restrittivo, quando in modo “regolamentato” quando nella pratica provocatoria e nella finalità vessatoria che voglia essere messa in atto ad arbitrio, incidendo in modo significativo sulla vivibilità quotidiana della prigionia, con una tendenza dominante alla generalizzazione delle condizioni più restrittive e privative, per un principio di cosiddetta uguaglianza.
A tutto ciò va aggiunto che, con le modifiche legislative introdotte nel 2009, la logica giuridica generale che sopravviveva alla base del 41 bis originario viene rovesciata e viene sancita una sostanziale e permanente esternità “spaziale” del regime speciale all’ordinamento giuridico generale, che subentra alla eccezionalità e al suo carattere per così dire temporale. Innanzitutto, appunto, esso, da misura almeno in teoria circoscritta nel tempo, diventa strutturale per un tipo di persone, cioè per coloro ai quali fosse stata applicata dal ministero.
L’inversione giuridica attraverso la quale può concretamente succedere è il trasferimento dell’onere della motivazione. Da questo momento quella che andrà motivata, di fatto, non è più la proroga della misura, ma la sua revoca. Dunque l’onere viene trasferito dal proponente o decisore al detenuto in 41 bis, che deve dimostrare: o che c’è stato uno scambio di persona, che cioè non è lui la persona che il Ministero vuole assoggettare alla misura, oppure di essere un collaboratore, cioè non il tipo di persona cui la misura è destinata.
Per un prigioniero che si è assunto le sue responsabilità verso un referente politico – l’organizzazione rivoluzionaria d’appartenenza – e sociale – la classe a cui ha rivolto la proposta rivoluzionaria – è cioè una esplicita richiesta di abiura politica che, di fatto, in se stessa abolisce il diaframma giuridico ordinariamente interposto dallo stato nel rapporto col prigioniero politico e politicizza il rapporto stesso, facendo diventare il regime di prigionia speciale uno specifico piano di confronto. Confronto nel quale, in sostanza e in generale, l’interesse del prigioniero ad una prigionia “normale”, non segregata, viene usato contro lui stesso, ossia come leva per ottenere la collaborazione, praticamente in modo esplicito.
E, a corroborare la coercitività del regime speciale ai fini della torsione della volontà degli assoggettati ad esso, viene allargato lo spettro delle misure restrittive fino a quel momento adottate e vengono intensificate quelle già esistenti, in parte con la legge stessa, in altra parte tramite ordinanze e circolari dell’amministrazione centrale o locale.
La sottoscritta approfondirà ora le condizioni particolari del regime di 41 bis in cui si sono collocati i fatti in oggetto, specificando cosa siano i gruppi, partendo da quello che sono diventati.
La legge del 2009 restringe i “gruppi”: da 5 componenti – al massimo – li riduce a 4.
Inoltre, essa dispone che le carceri per 41 bis siano distinte dalle altre, allocate nelle isole e, mentre il Ministero stabilisce la costruzione di apposite strutture carcerarie con sezioni “monogruppo”, la legge dispone anche che le strutture carcerarie adibite al regime di 41 bis, in generale siano attrezzate logisticamente per assicurare che i movimenti degli appartenenti a un gruppo avvengano precludendo la comunicazione con appartenenti a gruppi diversi dal proprio (la qual cosa in una sezione “plurigruppo” – come quella dei fatti in oggetto – avviene con l’accostamento dei “blindati” delle celle, da parte del personale penitenziario, durante il passaggio nel corridoio di un detenuto), in quanto stabilisce anche il divieto di comunicare tra appartenenti a gruppi diversi (comunicazione che sarebbe fisicamente possibile nelle sezioni “plurigruppo”)[2].
Con questa ulteriore stretta segregativa è avvenuto che i “gruppi” non siano più stati delimitazioni circoscritte alla frequentazione di passeggi e saletta per una funzione di controllo interno, ma siano diventati “esclusivi”.
E’ avvenuto cioè uno slittamento sostanziale dei paradigmi alla base della legge originaria che già – rispetto all’art. 90 – introduceva delimitazioni alla frequentazione comune di aria e socialità, rispetto alle condizioni degli altri circuiti detentivi.
Un’evoluzione della normalizzazione dell’eccezione per il tramite della torsione giuridica, che sembra giungere a un momento di inversione del senso giuridico particolare della prigionia speciale, sancendone una ambigua ma strutturata e strutturale esternità ad un contesto regolamentare sistematico.
In pratica, con questo slittamento, i “gruppi” diventano “gruppi di segregazione” che escludono tutti gli altri. Prima erano limitati ad un’aggregazione di 5 persone, per un’asserita garanzia di controllo, ora la vita in ogni sua espressione, anche verbale, non deve fuoriuscire dal gruppo di assegnazione (ridotto ad un massimo di 4 persone).
Non un “buongiorno” può essere scambiato. Così come effettivamente disposto dalla direzione dell’istituto de L’Aquila in data 6 novembre 2016. Un divieto di scambio di saluto tra detenuti presenti all’interno di una medesima sezione, che in concreto interruppe questa sopravvissuta tradizione e che è una delle espressioni, materializzate, di quella ambiguità aleggiante sulle regole del 41 bis, che si genera tra disposizioni di legge già citate, disposizioni del decreto di 41 bis, apparentemente a raggio di azione circoscritto [3]; e contenuti di giurisprudenza costituzionale (esempio: sent. C.Cost. 122/2017) che, dagli asseriti legittimi limiti alla comunicazione dei detenuti appare escludere, e con un argomento pesante quale quello dell’inviolabilità della persona, la possibilità di precludere comunicazioni tra detenuti compresenti in una sezione, in quanto argomenta di limitazioni alla facoltà dei detenuti di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario [4].
Uno slittamento che pare essere potuto avvenire in una condizione generale formata da una reiterazione di rappresentazioni pubbliche del carcere come un “santuario”, ovvero luogo in cui chi vi si trovi è invulnerabile, incontrollabile e incoercibile, opposte alla realtà della prigione, in cui le libertà sono a priori residue, e chi vi è rinchiuso è “coatto”, che hanno sollecitato un’aspettativa pubblica giustificante le scelte politiche alla base della legiferazione.
In ogni caso, ricostruendo gli avvenimenti, “la parola” segregata fu in realtà introdotta già da una circolare ministeriale nell’agosto 2008, cioè circa 10 anni fa, plausibilmente come sperimentazione della successiva introduzione legislativa.
La “parola”, ovvero quella facoltà innata del genere umano che storicamente presso un po’ tutte le civiltà ne tipicizza la dignità rispetto alle altre specie animali, viene criminalizzata in se stessa. Verso il detenuto in 41 bis che non si auto inibisse, lo è dal 2008 in poi con la sanzione disciplinare, sebbene non prevista come indisciplina specifica dall’ordinamento penitenziario né dal regolamento di esecuzione almeno fino al settembre 2017, ma, si presume, suscettibile di sanzione in quanto inosservanza di un ordine. Ma verso chiunque altro “consentisse” al detenuto in 41 bis di “comunicare” con “l’esterno” (presumibilmente anche del gruppo) – dal personale penitenziario, all’avvocato, al familiare, a chiunque solidarizzi – la previsione legislativa del 2009 è l’incriminazione penale. E tenuto conto che “verba volant”, che significa che le parole non hanno consistenza materiale, né in se stesse potenzialità di effetti materiali, intorno a questa criminalizzazione è venuto a formarsi un grumo antigiuridico potenzialmente ad alto tasso di criminogenità, potendo chiunque essere accusato di qualunque cosa [5].
Questa innovazione legislativa, insieme a quella che andava a creare un regime speciale per il diritto di difesa del detenuto in 41 bis limitandone le ore di colloquio e la durata delle telefonate (negli anni arrivate alla consulta e dichiarate incostituzionali) e insieme centralizzazione presso un unico Tribunale di Sorveglianza – quello territoriale del Ministero decretante la misura – dei reclami contro i decreti di 41 bis, andarono ad integrare il nuovo paradigma del “carcere duro”. Un paradigma la cui specificità rispetto al precedente è la capacità di proiezione di conseguenze a largo raggio, molto oltre l’ambito dei suoi “ristretti” o dell’intera popolazione detenuta, venendo ad incidere sul ruolo e sull’operatività di tutta la Magistratura di Sorveglianza.
Conseguenze al confronto delle quali le tendenze all’inibizione della parola non solo conversazionale, ma pure funzionale [6] sono solo una deriva parossistica localizzata dentro le mura del 41 bis.
A questo punto è necessario accennare alla specificità della componente femminile della popolazione detenuta a 41 bis.
La specificità della sezione 41 bis femminile dell’Aquila è quella di essere stata istituita da zero. Cioè scegliendo: ubicazione geografica e strutturale, personale assegnato e sua formazione, e il trattamento a cui sottoporre le “politiche” per cui è nata. E ciò potendo contare sul fatto che le prigioniere sottoposte alla misura non avessero un’esperienza pregressa, nemmeno storica, del 41 bis (misura che viene previsto possa essere applicata anche ai politici nel 2002). Inoltre, la mancanza di una loro coesione per ragioni di forza maggiore, ha reso più praticabile un trattamento di “massimo rigore”.
Col passare degli anni, e radicato l’insediamento e le sue caratteristiche di fondo, la particolarità è stata essenzialmente quella di essere poche.
Ma è necessario fare un passo indietro. Fino al 2005, la sezione 41 bis femminile era quella di Rebibbia, a Roma, dove le restrizioni applicate erano quelle di legge e generali, e il personale penitenziario era ordinario.
Quella sezione nel 2009 chiuse. In quella aquilana, aperta nell’ottobre 2005, per applicare il “massimo rigore” fu adottato l’espediente di elaborare ed affiggere nella saletta della sezione un regolamento apposito per la sezione, che voleva dare l’impressione che, data la peculiarità di genere della sezione, essendo femminile in un carcere esclusivamente maschile, ne servisse uno apposta, altrimenti esisteva un regolamento di istituto che era vigente a tutti gli effetti.
In realtà, quando nel 2006 fu chiesto di poter acquisire il regolamento d’istituto – tutti gli istituti devono averne uno – non fu opposto un diniego, non sarebbe stato giustificabile, ma fu affissa una copia del regolamento mancante di alcune pagine iniziali e anche al suo interno. Se ne dovette perciò reclamare l’affissione nella sua interezza al Magistrato di sorveglianza. E infatti così fu fatto quando il magistrato lo ordinò.
Allora si poté scoprire che, quelle mancanti, erano pagine concernenti modalità di perquisizione personale, quantità e generi alimentari, di vestiario e altro, detenibili in cella. Ambiti in cui la prassi nella sezione femminile non osservava il regolamento a scapito delle detenute, fino a quel momento ancora poco esperte.
La sottoscritta farà alcuni esempio pratici: le “perquisizioni personali con denudamento” venivano fatte con denudamento integrale nonostante il regolamento d’istituto prescrivesse che il detenuto restasse con gli indumenti intimi.
Un altro esempio: il regolamento d’istituto prevedeva che in cella si potessero detenere 10 pacchetti di sigarette. Quello di sezione non contemplava l’argomento, sicché la quantità detenibile veniva comunicata oralmente. Diventarono 8, poi 6, poi 4. E il momento della decisione di ridurre da 8 a 6 ecc. era quello in cui nel corso della perquisizione della cella, a quel tempo settimanale, se ne trovavano 7, poi 5 e così via.
Alla detenuta veniva contestata la detenzione di un “eccesso”, alla previsa e scontata rimostranza, la prima volta c’era l’avvertimento, la seconda il rapporto disciplinare. E così per ogni variazione in senso restrittivo che potesse/volesse essere inventata.
A quel tempo, fino a tutto il 2009, era un metodo, poi è diventato periodico, mentre, più in generale, anche sui generi detenibili in cella il dipartimento ha sussunto molte delle potestà prima in capo, almeno formalmente, ai direttori.
Come detto, la particolarità della sezione femminile 41 bis è ora in buona parte dovuta alla scarsità di detenute, un dato di fatto che di per sé si traduce in una pressione più elevata, e che consente di gestire la frequentazione alternata dei comuni passeggi e della saletta, anche formando “gruppi” di due persone.
E poiché come prima opzione l’amministrazione privilegia la composizione di gruppi di numero minimo di persone, i “gruppi”, salvo cause di forza maggiore, sono sempre di due donne. I gruppi di due persone nella vita civile si chiamano coppie. Anche in carcere, tempo fa, la definizione di “gruppo”, almeno nelle controversie insorte tra amministrazione, detenuti e magistratura, rispettava il senso comune. Il gruppo, cioè, era costituito da un minimo di 3 persone.
I gruppi di 2-3 persone, inoltre, erano limitati alle “aree riservate”, cosi dette perché braccetti separati “monogruppo”, isolati dagli altri e con un trattamento più duro, fino al 2009 presenti in poche unità per carcere ove fossero ubicate.
Trovate forme di legittimazione, di fatto con la legge del 2009, “l’area riservata” è diventata il modulo segregativo della popolazione detenuta al 41 bis. E anche in questo senso, la sezione femminile, che dall’apertura della sezione de L’Aquila è sempre stata un’area riservata per un massimo di 4 detenute – fino al 2013 – si è ritrovata ad essere il “benchmark” ed infine “la nuova normalità”.
Come si può intuire, i mini gruppi di 2 persone sono la composizione a massimo condizionamento reciproco. Ad esempio offrono la possibilità con una sanzione di erogarne informalmente 2. È quello che sarebbe successo alla sventurata detenuta che fosse capitata nel gruppo con la sottoscritta, anche dall’aprile 2015 all’ottobre 2017, quando avrebbe dovuto restare sola al passo delle sanzioni scontate dalla sottoscritta per la protesta effettuata dei fatti di un segmento della quale qui si discute.
E invece non è successo perché la sottoscritta, anche per senso di responsabilità verso le altre detenute, all’atto del trasferimento in una sezione più grande in grado di custodire ulteriori detenute sopravvenute, ha scelto di non condividere gruppi con nessuna, ovvero dal gennaio 2013 a tutt’oggi.
In parole povere, composizioni di gruppi minimali sono una condizione che genera isolamenti in se stessa perché l’unico altro componente resta solo in casi di: sanzione, malattia, colloquio, udienza, o semplice, legittima, mancanza di volontà di uscire dalla cella, o di svolgere le medesime attività durante l’ora d’aria o di saletta, dell’altro.
Tutte condizioni concretamente verificatesi centinaia di volte dal 2005, da quando cioè L’Aquila aprì la sezione femminile per “le politiche”. Dopodiché l’essere umano è per sua natura sociale, cioè lo è sia interiormente che nelle sue interazioni, non lo è solo circostanzialmente, perciò le circostanze sono ciò con cui potenzialità e istanze si misurano e con cui le persone possono maturare, anzi tanto più possono aspirare a migliorarsi, quanto più difficili fossero le circostanze che si presentassero.
La sottoscritta, non potendo sapere quale sia l’idea dei presenti sulle comunicazioni nelle sezioni 41 bis, immaginando che non fossero note né le circostanze derivanti dalla propria condizione di “solitudine” e dunque di preclusione assoluta delle comunicazioni con altre detenute, né che – tra le altre cose – all’epoca dei fatti la sottoscritta avesse conosciuto soltanto due delle altre sei detenute presenti nella sezione femminile in quanto già a L’Aquila dal 2010-2011, e infine immaginando che possa essere ritenuto – erroneamente – che una situazione del genere, contrastando con un principio di inviolabilità della persona, non possa verificarsi in questo paese, ha preferito dilungarsi a illustrare le condizioni d’esistenza proprie e delle altre detenute, nel regime di prigionia di 41 bis, prima di entrare nel merito di quanto in oggetto.
Perché in questo contesto di inibizione delle comunicazioni sociali nello spazio comune della sezione in cui i suoni fisicamente si trasmettono, che la sottoscritta non ha proprio avuto modo di sapere/capire di aver arrecato un concreto disturbo ad altre detenute.
1. Perché battiture delle sbarre sono sempre state fatte collettivamente, e non, per periodi di mesi e anche di anni e per più volte al giorno ognuna di 10-15 minuti, la qual cosa autorizzava a ritenere che ce ne fosse una pacifica accettazione.
2. Poiché la sottoscritta mentre faceva la battitura leggeva, come del resto facevano altre detenute in occasione di altre battiture, cioè la battitura era compatibile con altre attività, o, quando non lo fosse stata, ad es. durante la somministrazione di terapie farmacologiche, la sottoscritta, su richiesta, la interrompeva.
3. Perché la sottoscritta non ha mai sentito nessuna lamentarsi né avrebbe potuto sapere di una lagnanza per comunicazione da qualche detenuta la cui quiete fosse stata disturbata, a causa del divieto di parlarsi di cui sopra, come asserito invece da terzi, interessati perché destinatari della protesta.
4. Perché quando la sottoscritta ha letto le contestazioni dei rapporti del 25 e del 27 agosto 2015, recitanti: “dopo la perquisizione ordinaria effettuata nella propria camera detentiva, nonostante non le fosse contestato nulla, lei iniziava a battere con una bottiglia di plastica contro il cancello della sua cella, provocando le lamentele esasperate della restante popolazione detenuta. Per quanto sopra, le si contesta l’infrazione prevista dall’art. 77 punti 4 (atteggiamenti e comportamenti molesti nei confronti della comunità), 19 (promozione di disordini o di sommosse), 21 (fatti previsti dalla legge come reato commessi in danno di compagni, di operatori penitenziari, di visitatori)”, la sottoscritta, non avendo udito lamentele esasperate dalla restante popolazione detenuta, non gli ha attribuito rilievo, se non ai fini di ipotizzare una volontà dell’amministrazione di applicarle anche il regime di 14 bis (ipotesi confermata dagli atti depositati in quanto richiesta fatta da un responsabile GOM), per l’inverosimiglianza degli addebiti (punto 19) nella situazione concreta, oltre che per un’illinearità di interpretazione del “fatto battitura” che si ripeteva dal 24 marzo 2015 almeno due volte alla settimana – in occasione cioè delle perquisizioni della sua camera detentiva (a seguito della originaria perquisizione nella quale ne venne asportato materiale cartaceo, corrispondenza e atti giudiziari) e che sono terminate il 30 settembre 2015 a seguito della restituzione di gran parte del materiale, con le stesse identiche forme e durate, e per l’incoerenza tra gli addebiti al punto 19 e 21.
Oltretutto le sanzioni anche del 26 e del 30 settembre, sono per le infrazioni al punto 4 e 21, ma delle quali, dopo due anni, non si ha notizia di denuncia. Né se ne ha di denunce o di decreti emessi da codesto Tribunale penale per un reato di oltraggio a pubblico ufficiale come asserito a pag. 11 del decreto di proroga del regime speciale, notificato alla sottoscritta il 6 settembre 2017, e che si allega agli atti.

Nadia Lioce

Note:
[1] La legge sulla sicurezza del luglio 2009 sostituisce l’articolo 41 bis con un nuovo testo, e nel nuovo viene escluso che il “mero decorso del tempo” costituisca “di per sé” elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno della operatività della stessa.
[2] La legge sulla sicurezza del luglio 2009, già citata, apporta modifiche all’art. 41 bis co. 2 quater lett. F, aggiungendovi: “saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi”.
[3] A pag. 17 del decreto di proroga del regime di 41 bis alla sottoscritta del 06/09/2017, all’art. 2: “Il direttore dell’istituto di pena, ove l’anzidetta detenuta è ristretta, adotterà le misure di elevata sicurezza interna ed esterna, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione necessarie a prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di sodalizi contrapposti, interazione con altre detenute appartenenti alla medesima associazione ovvero ad altre ad essa alleate, secondo le disposizione dell’amministrazione penitenziaria”.
[4] Sent. 122/2017 C.Cost del 08/02/2017 pag.11 “… non può che essere ribadito il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la legittima restrizione della libertà personale, cui è sottoposta la persona detenuta, non annulla affatto la tutela costituzionale dei diritti fondamentali. Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua libertà individuale (sentenze n. 20 del 2017 e n. 349 del 1993), e il cui esercizio, proprio per questo, non può essere rimesso alla discrezionalità dell’autorità amministrativa preposta all’esecuzione della pena detentiva (sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997). La tutela dei diritti costituzionali del detenuto opera, pur tuttavia, «con le limitazioni che, come è ovvio, lo stato di detenzione necessariamente comporta» (sentenza n. 349 del 1993).
La legittima restrizione della libertà personale cui il detenuto è soggetto, e che trova alla sua base un provvedimento giurisdizionale, si riverbera inevitabilmente, in modo più o meno significativo, sulle modalità di esercizio delle altre libertà costituzionalmente alla prima collegate. Ciò avviene anche per la libertà di comunicazione, la quale, nel corrente apprezzamento, rappresenta – al pari della libertà di domicilio (art. 14 Cost.) – una integrazione e una precisazione del fondamentale principio di inviolabilità della persona, sancito dall’art. 13 Cost., in quanto espressione della “socialità” dell’essere umano, ossia della sua naturale aspirazione a collegarsi spiritualmente con i propri simili.
È evidente, così, che lo stato di detenzione incide in senso limitativo sulla facoltà del detenuto di intrattenere colloqui diretti con persone esterne all’ambiente carcerario: colloqui che, quali comunicazioni tra presenti, ricadono certamente nella sfera di protezione dell’art. 15 Cost. Di necessità, i colloqui personali dei detenuti «sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario» (artt. 18 ord. pen. e 37 reg. esec.) (sentenza n. 20 del 2017) ed è l’autorità penitenziaria che, in concreto, stabilisce (in particolare, tramite il regolamento interno dell’istituto: art. 36, comma 2, lettera f, reg. esec.) i luoghi, i giorni e gli orari del loro svolgimento, senza che in ciò possa scorgersi alcuna violazione della norma costituzionale evocata”.
[5] La legge sulla sicurezza, già citata in nota 2:
“Nel libro II titolo III capo II del codice penale dopo l’art. 391 è inserito il seguente:
Articolo 391 bis (agevolazione ai detenuti e internati sottoposti a particolari restrizioni delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario) Chiunque consenta a un detenuto, sottoposto alle restrizioni di cui all’articolo 41 bis della Legge 26 luglio 1975 n. 354, di comunicare con altri in elusione delle prescrizioni all’uopo imposte è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di pubblico servizio ovvero da un soggetto che esercita la professione forense si applica la pena della reclusione da due a cinque anni”.
[6] Il riferimento è al tentativo – in pochi giorni rinunciato – risalente al giorno successivo alla visita del garante nazionale dei detenuti, che avvenne il 05/05/2017, di vietare lo scambio verbale funzionale tra detenute e “portavitto”, ossia la lavorante nell’esercizio della sua funzione.

Lettera dal carcere di Uta (ca)
Ciao ragazz+, ho ricevuto con piacere metà della vostra posta! Sì, metà perché, come tutti i vari “opuscolo” da quando son qua (quasi un anno) non mi sono mai stati consegnati! il tutto giustificato da questo visto censura il quale mi fu applicato perché “si presuppone volessi istigare a disordini e a compiere atti di danneggiamento, quindi a mettere in pericolo la sicurezza dell'istituto” e gli opuscoli mai dati perché “i contenuti incitano alla ribellione contro Stato e più specificatamente contro le strutture carcerarie”.
Beh insomma oltre a questi, tutte quelle letture e materiale di cui mai mi si è notificato alcun trattenimento ma che sembrano essere sparite nel nulla (sapendo che mi è stato inviato) non mi stupisco mi si trattenga continuamente materiale che agevoli il contatto tra dentro-dentro (varie carceri) e dentro-fuori! Infatti tutta quella corrispondenza che so che mi si è mandata non l'ho ancora vista… tutti poi, guarda caso, contatti con l'esterno (e anche tra varie carceri!) di compas che sempre mi hanno sostenuta nelle mie precedenti carcerazioni! Nisba!
Poi il visto – ovviamente – mi è stato prorogato per 3 mesi che fra un po' dovrei terminare… e questa proroga perché per supposizione (dato che i fatti sono ben altri) “istigano una detenuta a compiere atti di danneggiamento”… no, perché le altre detenute non ce l'hanno un cervello loro! E non reagiscono istintivamente per ciò che vien fatto loro! In questi posti son frequenti azioni/reazioni da parte di detenuti dati proprio dal disagio e dalle angherie che in questi posti si subisce, allora l' “animale” in gabbia esplode quando meno ce la si spetta! Vediamo un po' per la scadenza a cosa si attaccheranno! Un abbraccio, Madda.

26 novembre 2017 [nella lettera c'è la timbratura “V. Censura 27 Nov. 2017”]
Madda Calore, Zona Industriale Macchiareddu Strada II Ovest - 09010 Uta (CA)


Lettera dal carcere di Bancali (ss)
Il carcere - ergastolo ostativo
Il carcere è un luogo di sofferenza e di riflessione. Oggi ho riflettuto molto, da ergastolano ostativo, e su questa riflessione metto in relazione la pena di morte e l'ergastolo ostativo. Qual'é la cosa che hanno in comune queste due condanne? Solo la morte! Però sono differenti, la prima è consapevole che entro poco ti porta via.
La seconda ti fa rimanere per tutta la vita in carcere. La tua resistenza si svolge in uno spazio limitato del tutto. Non vedrai i colori della natura, ma ti abituerai ai colori del carcere, bianchi e grigi.
Gli spazi sono molto chiusi, con il passare del tempo perderai la vista, l'udito viene di meno, e i capelli non li trovi più. Invecchierai credendo di essere giovane. Non avrai più contatti con l'esterno, ti abituerai e vivrai all'interno del carcere in uno stato “sociale” limitato e chiuso.
Dopo che trascorri più di 20 anni in un istituto di pena penserai e ti dirai fra te stesso: chi è quello sbagliato, io o la società di fuori? Visto che fuori la società è irrecuperabile: droga, alcool ecc... Un forte abbraccio da Salvatore.

5 novembre 2017
Salvatore Pulvirenti, SP 156, via Aabbaccurrente, 4 - 07700 Bancali (Sassari)


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, come va? Cogliamo l'occasione con questa nostra missiva, per mandare un forte abbraccio a tutti.
Inoltre vi ringraziamo di cuore per il materiale e l'opuscolo che ci avete spedito. Fa sempre piacere ricevere notizie da fuori e sentire la vicinanza e la solidarietà dei compagni, aiuta a lottare e andare avanti senza arrendersi mai.
Quindi, l'impegno delle persone che fuori lottano al fianco dei perseguitati e degli oppressi ci fa sentire meno soli e meno isolati.
Perché la solidarietà è una cosa preziosa, anche se cercano di fermarla troverà sempre degli spiragli per arrivare dappertutto, fin dentro le nostre celle. Ci hanno privato della libertà, ma la nostra dignità non la potranno mai scalfire.
Vi saluto tutti con affetto. Antonino.

23 ottobre 2017
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 (L'Aquila)


Lettere dal carcere di napoli-Poggioreale
Carissime/i compagne/i, voglio dare un chiarimento sulle denunce attraverso radicali e istituzioni e il motivo per averle fatte. Per la prima volta ho voluto “dimostrare” che il carcere è un luogo di tortura e illegalità, dove lo stato uccide e mette sotto sepoltura gli esseri umani. La mia (prova) era per tutti/e noi, per dimostrare che le istituzioni legalizzano tortura-abusi-pestaggi e crimini dello stato (li occultano). Sono anarchico, non cambio il mio modo di vedere e pensare. Qui sto subendo abusi e ogni giorno rispondo con forza e tenacia a loro, presto mi porteranno in isolamento e il mio compito è quello di lottare, ma qui hanno tutti paura perché massacrano i detenuti… cosa dirvi! Prenderò botte, non mi spavento, di sicuro non mi piego.
Riguardo ai radicali: dopo 30 anni sono venuti qui, sono andati nella sezione dell'isolamento, ecco il motivo di contattarli, per il semplice fatto che a voi/noi qui non ci consentono di andare in quella sezione, di ascoltare i detenuti (massacrati) – e questo lo hanno riscontrato. [...]
La denuncia inoltrata qui era con il consenso di tutti i detenuti picchiati per dimostrare all'opinione pubblica quel che veramente accade a Poggioreale, dove hanno ucciso più di 500 detenuti con le botte e dei presidi se ne fregano, la procura e le istituzioni li proteggono (questa è la verità) e adesso anche io ne ho la conferma. La denuncia è un motivo in più per lottare tutti/e ancora più forte contro questo stato totalitario.
Baci a tutte/i, Maurizio. W L'ANARCHIA, W LE LOTTE

26 ottobre 2017
Maurizio Alfieri, via Nuova Poggioreale, 177 - 80167 Napoli

Maurizio ci ha inviato anche gli atti di una perquisizione che ha subito nei giorni precedenti dai R.O.S. Sui tre fogli lasciati a Maurizio dai carabinieri (erano in quattro) c'è scritto che “il decreto di perquisizione è stato emesso dalla procura di Milano, il 20.10.2017”, dal pm Nobili. Sono arrivati davanti alla cella del compagno alle 10 del mattino, per un'ora hanno perquisito lui e la cella. Si sono presi e portati via 42 pezzi cartacei fra lettere, cartoline, opuscoli, volantini, fogli… il tutto infine posto sotto sequestro. In una cartolina del 7 novembre il compagno saluta tutti e non comunica novità se non il suo buon umore.
***
Carissimi/e compagni/e e solidali, innanzitutto un abbraccio fraterno a tutto il collettivo e voglio informarvi di tant* compagn* non le ho ricevute e ormai non è una novità che qui vogliono farmela pagare e vi informo di tutto quello che stanno facendo e (che ora sono in isolamento) perché due infami di “guardie” ispettore e capoposto hanno montato una bicicletta ed abbiamo litigato al passeggio, e quello con cui ho litigato si è messo ad urlare alle guardie che avevo il coltello, così mi hanno bloccato e trovato il “pezzo addosso” e al passeggio siccome erano più di uno mi sono cautelato.
Questa è la terza volta che 'sti bastardi mi mettono contro i detenuti, e quelli che trovano sono più infami di loro (munnizze). Ero andato al magazzino per il ritiro di un pacco che mi avevano mandato i compagni di Napoli, c'era una bellissima tuta della Nike e un bel giubbotto, allora il giubbotto aveva il cappuccio e non entra, per cui taglio il cappuccio, poi mi dicono che è imbottito e staccano l'interno, la tuta mi dicono che non è consentita perché ha il cappuccio, così dopo una discussione gli dico di darmi le “calze nuove invernali” che chiedo dal 4 ottobre, e mi dicono che hanno la domandina, ma non possono darmele perché ci vuole l'ispettore e il commissario (e poi dicono che non sono infami e che non fanno abusi) e pensate che ho scioperato dal 1-11-'17 all'11-11-'17 e avevo smesso perché mi avevano garantito (le calze e il dentista e la fisioterapia alle ginocchia) ed invece il pacco è arrivato il 16-11'17 e non mi hanno dato niente e neanche il diritto alla salute.
Al ritorno dal magazzino con il capoposto (verme-infame-carogna) gli dico che tutti hanno le felpe e giubbotti con il cappuccio, e poi tutti quelli che uscivano dai padiglioni il capoposto mi diceva: vedi Alfieri tutti hanno felpe con cappuccio, e il giubbotto come il tuo ce l'ha anche il marocchino che è in sezione con te, e (quel merda) mi dice: Alfieri adesso vado a vedere il giubbotto del marocchino e se è uguale al tuo vado al magazzino a litigare e mi faccio dare la tua felpa e l'interno del giubbotto (ipocrita-verme)... così (quel merda) sale su ed io avevo il mio giubbotto in mano, chiama il marocchino, tocca e vede il suo giubbotto e felpa con il cappuccio, e mi dice che va a prendermi la mie cose… Invece cosa fa! Io nel frattempo vado a telefonare, torno e il marocchino (che ho difeso dal pestaggio delle guardie) mi chiama, mi dice che gli hanno tolto giubbotto e felpa, e nel frattempo un altro nella cella di fronte borbottava, ma l'ho zittito subito, e scendo subito sotto dal capoposto. Gli dico subito che deve dare il giubbotto al ragazzo e la felpa, perché lui ha portato me davanti a quel ragazzo e questa la ritenevo una bicicletta, per cui lo minaccio incazzato nero, perché un altro in sezione si era permesso di dire che era colpa mia, e questo non lo permettevo né al capoposto e neanche all'altro infame come lui (perché era tutto organizzato dal capoposto).
Insomma, salgo e dopo dieci minuti gli riportano il giubbotto, ma alla felpa hanno tagliato il cappuccio, stavo per prendere una mia tuta nuova da regalare a quel povero ragazzo, ed invece quell'infame della cella di fronte inizia a dire parolacce e a minacciarmi. Lo avvicino e gli dico di non urlare che stavano per arrivare le guardie e che ci vedevamo al passeggio così mi faceva vedere come mi ammazzava… nel frattempo corrono due guardie e questo merda urlava “ti ammazzo - sei morto” e altre parole… io mi sono imbestialito e volevo entrarci, ma era chiuso in cella, poi quando le guardie mi hanno preso per il braccio mi sono incazzato. Sono arrivati due lavoranti miei amici e mi sono convinto ad entrare in cella e quell'infame continuava ad offendere, ma io ormai non vedevo l'ora che arrivassero le 15 per il passeggio. Erano le 12 ed invece l'ispettore di reparto chiama lui e un altro suo compagno di cella, a me non mi ha chiamato nessuno. Dopo che sono sceso al passeggio alle tre loro non sono scesi. Solo il giorno dopo mentre torno dal colloquio con l'avvocato chiamano per il passeggio alle 11 ed io avevo saputo che l'ispettore gli aveva detto di picchiarmi nelle scale… così mi sono premunito e a quell'infame ho detto di sciacquarsi la bocca quando pronunciava il mio nome e che infame era lui e il suo amico ispettore e capoposto. Quando ho visto che altri due si sono avvicinati a me gli ho detto che (era meglio che facevano attenzione perché gli facevo del male se pensavano di mettersi contro di me) ed ecco che quell'infame è partito con un pugno che ho evitato, poi con un calcio, ma io mi guardavo se loro avevano i coltelli, e nel frattempo paravo i colpi di quel merda, poi quando ho visto che dopo 10 minuti arrivavano le guardie e lui mi ha tirato un pugno colpendomi in testa, allora gliene ho tirato uno diritto in faccia, ma mi curavo sempre dagli altri, e non avevo intenzione di fare del male a nessuno, perché era una bicicletta delle guardie e queste merde volevano che io mi rovinassi.
Qui a Poggioreale fanno così con tutti i detenuti, ogni giorno montano biciclette e i detenuti vengono picchiati.
Le guardie hanno protestato un mese fa chiedendo che le sezioni (devono essere chiuse perché ci sono troppe aggressioni)… ecco le merde cosa fanno per i loro interessi. Il responsabile del DAP, Santi Consolo, sa bene che a me le guardie stanno cercando di mettermi contro i detenuti. Questo gli hanno scritto i miei avvocati ed io ho detto che non ho paura di nessuno, adesso lui, e la direzione, dopo questo mio scritto, e dopo quello che dirò al consiglio di disciplina, se qualcuno si farà male sono loro i mandanti e responsabili.
Io non ho paura di nessuno, la legittima difesa è ammessa, quello che non è ammesso è il loro sporco gioco. Mi hanno fatto 5 denunce, mi negano tutti i diritti e al DAP (voi) che siete degli ex magistrati questo è il vostro modo di amministrare la legalità nei carceri! Questo è il vostro modo di rieducare! Questo è quello che fate a tutti i detenuti che come me rendono di dominio pubblico pestaggi e abusi, e voi vi inventate denunce, falsi processi, fate falsi consigli di disciplina, e siete voi al DAP i responsabili, perché il “pesce puzza dalla testa” ed oggi anche al garante nazionale dott. Mauro Palma, che è a conoscenza di tutto quello che sto subendo, ho spedito e scritto ogni cosa, anche a lui voglio dire (che non gli scriverò più) perché ho capito che chi si adatta al DAP e al loro sistema criminale non può mantenere certi ruoli di prestigio. E al dott. Palma se dico questo è perché é inaccettabile che lui non abbia preso nessun provvedimento.
La dolce e cara defunta d.ssa Adriana Tocco era unica, lei aveva informato il dott. Piscitello, lei era un problema per gli abusi. E' lei che ha dato inizio al processo contro 12 agenti che massacravano i detenuti nella cella zero; ed i pestaggi dopo la scomparsa della d.ssa Tocco sono ripresi.
Al dott. Palma ho inviato decine di nomi di detenuti massacrati, e lui cosa fa? Non interviene. Basta, non mi rivolgerò più a nessuno di voi, renderò sempre tutto di dominio pubblico, e anche quello che ho scritto oggi, chiedo che sia mandato a radio Radicale, così Rita Bernardini e Riccardo Arena, di cui mi sento di essere un suo amico, oltre che un adepto del grande Marco, voglio sapere che cosa dicono loro di tutto questo, soprattutto.
Anche oggi hanno massacrato un detenuto che hanno portato con le manette, picchiato senza motivo, e qui la Procura cosa fa!!! Mi fa arrivare a me una denuncia al mese e senza curarsi di tutti i pestaggi che sono stati denunciati!!! Addirittura quando vi avevo scritto che minacciavano detenuti stranieri per estorcergli false dichiarazioni contro di me, un solerte giudice mi ha fatto ricevere una conclusione di indagine su uno di questi episodi! Ma gli farò avere la sorpresa di molti testimoni su pestaggi, questo sarà il mio regalo…
Non riuscirete ad intimorirmi, la mia coscienza è pulita, non è putrefatta come la vostra insanguinata di morti, per incuria, pestaggi e suicidi perché volete occultare i vostri crimini. A me mi avete trasferito lontano dalla mia famiglia per spezzare la mia resistenza, ma non ci riuscirete finché non mi ridarete i miei diritti. E il vostro articolo 32 che vi siete inventati è illegale, è un abuso… e leggetevi l'ordinamento penitenziario. Di cos'è l'artico 32 dovrete dare conto a tutti i famigliari e mamme di detenuti uccisi per incuria e pestaggi (e volete i responsabili).
Voi al DAP volete vendicarvi con me, sapete che gli agenti mi stanno montando biciclette, eppure neanche con 6 denunce mi volete trasferire. Denunce inventate, perché ho pubblicato abusi e pestaggi che succedono qui, e ieri (quel che è accaduto a Nortey Isacc) c'eravamo noi detenuti ad aver sentito e visto come lo hanno conciato. E non avete scuse che vi possano far dire che non sapevate… E quando i miei compagni/e e solidali verranno in presidio sotto al Dipartimento sarà per ricordarvi che io non mi piegherò mai al vostro sistema criminale e infame (ricordartevelo).
Compagne/i termino abbracciandovi al mio cuore e sappiate che continuerò imperterrito e combattivo a lottare contro questi indegni a testa alta e solidale e se succede qualcosa di grave i responsabili sono al DAP. Ed io di sicuro non mi farò cogliere di sorpresa e chi vuole la mia pelle dovrà fare attenzione e cercare di colpirmi anche alle spalle perché faccia a faccia anche solo contro dieci non ho paura. E le guardie – solo degli infami come loro possono trovare chi gli prende le difese: detenuti fecce-infami e vermi (riservando i bravi ragazzi) qui c'é munnizza-pecoroni e confidenti che sono peggio degli sbirri.
Un abbraccio a testa alta da una cella di isolamento. Senza tregua e paura Maurizio [segue A cerchiata, ndr]
Compagni/e vi ho scritto ogni cosa, questi sono i fatti come si sono svolti, e quell'infame urlava che avevo il coltello addosso) ecco chi mettono contro di me infami che se la cantano )… vermi.
V.V.B. Bacioni a tutto il collettivo

20 novembre 2017
Maurizio Alfieri, via Nuova Poggioreale, 177 - 80147 Napoli

***
notizie attorno poggioreale
Si è aperta il 16 novembre a Napoli la prima udienza per gli agenti carcerari indagati per i massacri avvenuti attorno alla “cella zero”. La Procura di Napoli ha chiesto il rinvio a giudizio per 12 dei 22 sbirri indagati per “le violenze nel carcere di Poggioreale per fatti commessi tra il 2013 e il 2014. La prossima udienza è stata fissata per il 1 marzo 2018”.
Tutti dovranno rispondere di abuso di autorità contro detenuti, in quattro casi anche di lesioni, in due di sequestro di persona e in un caso di maltrattamento.
Da anni i detenuti si oppongono questo stato di cose, attraverso proteste, denunce e facendo ricorso ai propri legali. Uno dei detenuti che aveva subito violenze descrive così quanto gli è accaduto: “Erano le dieci e mezza di sera. All'improvviso, senza motivo, mi hanno portato in un altro posto, mi hanno spogliato, mi hanno picchiato”. Calci, schiaffi, pugni, ematomi. Il detenuto riportò problemi a un orecchio e dopo aver lasciato passare del tempo, decise di denunciare il tutto davanti alla telecamera. La Procura di Napoli ha quindi aperto l'indagine sopracitata.
Fra le testimonianze raccolte dai giornali si legge: “c'è chi è stato colpito con la chiave della cella alla testa, c'è chi è stato selvaggiamente picchiato con schiaffi e pugni e sbattuto contro la porta blindata, c'è chi ha riportato danni all'orecchio”. Questo è lo squallido e sadico mosaico che compone il volto dello Stato.
A testimoniare il quadro drammatico della situazione è stata anche l’Unione delle Camere Penali di Napoli che l’11 dicembre han dato vita ad una mobilitazione, con la marcia, organizzata dalla Camera Penale di Napoli, che ha portato gli avvocati dal Palazzo di Giustizia fino al carcere di Poggioreale, per protestare “contro il trattamento disumano e degradante dei detenuti, l’inefficienza del Tribunale di Sorveglianza, il sovraffollamento delle carceri e l’uso eccessivo della custodia cautelare”. Da ciò è stata proclamata l'astensione dalle udienze e dalle attività giudiziarie dall’11 al 15 dicembre, come segno di protesta per denunciare il totale non funzionamento del sistema carcerario e giudiziario napoletano.
Non facciamo affidamento su una giustizia calata dall’alto perché non riteniamo possibile che questa possa provenire da parte degli stessi artefici che han consentito e taciuto l’attuale stato delle cose. Ma è certo che una simile presa di posizione da parte degli interpreti del sistema rappresenta un livello di contraddizione del meccanismo giuridico.
Sappiamo bene che “le celle zero” sono presenti presso tante carceri in Italia e che quanto è successo a Napoli è lo specchio di una situazione diffusa ovunque di cui sono responsabili tribunali e DAP. Pertanto la nostra solidarietà va a chi continua a resistere dentro le celle, riaffermando la propria integrità e la propria umanità, senza abbassare la testa.
Queste le ragioni che ci porteranno a breve a ritrovarci collettivamente sotto al carcere di Poggioreale per ribadire la nostra totale ostilità nei confronti di chi imprigiona, tortura e uccide all'interno dei regimi carcerari in continuo inasprimento, che altro non è che l'espansione concreta dei regimi d'isolamento 14 bis e 41 bis.

Milano, dicembre 2017


AGGIORNAMENTI SU DAVIDE DELOGU
Il 4 di Novembre il prigioniero anarchico sardo Davide Delogu ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di isolamento alle quali è sottoposto da mesi con un provvedimento di 14 bis. Davide ha poi scelto di interrompere lo sciopero della fame a fine novembre. Lo scambio di lettere con il compagno continua a essere intralciato dalla direzione del carcere, causa la censura applicata a tutta la sua corrispondenza. Aspettiamo notizie da Davide, che negli ultimi mesi non ha mai smesso di lottare e di opporsi alle condizioni disumanizzanti cui è costretto, isolato dagli altri detenuti e lontano dalla famiglia e dai suoi affetti.

Per scrivere a Davide:
Davide Delogu, Contrada Ippolito, 1 - 96011 Augusta (SR)


inizia il processo “scripta manent”
Aula bunker del tribunale di Torino, costruita a metà degli anni ottanta nel blocco recintato del carcere situato ai bordi del quartiere Vallette, alla periferia nord della città.
In quest'aula, dove spesso vengono condotti anche i processi contro il movimento No Tav, giovedì 16 novembre 2017 ha preso avvio un processo contro 29 compagn* accusat* di associazione sovversiva con finalità di terrorismo. Sette sono in carcere preventivo dal settembre 2016; due, Nicola e Alfredo, sono invece in carcere dall'autunno 2012 accusati di aver gambizzato Roberto Adinolfi, dirigente di Ansaldo nucleare, con l'aggravante di “terrorismo”.
Alla chiamata hanno risposto direttamente un centinaio di compas, provenienti da diverse situazioni, collettive, individuali, in gran parte attive nel nord, per esprimere vicinanza a chi è preso di mira in questo processo, per dare continuità alle pratiche di liberazione.
Alle origini del processo ci sono pratiche avvenute nel territorio torinese negli ultimi 20 anni, riunite con l'obiettivo di criminalizzarle con l’indagine chiamata dagli inquirenti “Scripta Manent”, che si basa essenzialmente sul confronto tra le rivendicazioni di vari attacchi e alcuni scritti dei compagn* imputati, sui contatti tra di loro e sulla suddivisione della galassia anarchica tra buoni, cattivi, sociali, radicali, e quant’altro. Gli equilibrismi per attribuire queste azioni ai compagn* si sviluppano secondo il solito vecchio copione: se solidarizzi con un certo tipo di azioni e/o con una sigla che le rivendica divieni il sospettato numero uno, da sospettato ad indagato, da indagato a imputato.
L’operazione Scripta Manent è un attacco diretto agli anarchici, a chiunque si batte senza mediazioni e senza compromessi.
A Danilo, Anna, Nicola e Alfredo è stato imposto il processo in videoconferenza o a distanza che possono seguire da una cella attrezzata nel carcere in cui si trovano (la compagna a Rebibbia femminile, i compagni a Ferrara). In breve, per chi imputat* questo tipo di processo significa concretamente impossibilità di essere presente in aula vicino a compagni, amici, famigliari; di essere ascoltato da nessun altro al di fuori del giudice - oltre alla difficoltà di determinare il proprio intervento in sede processuale poiché ogni parola, gesto di chi imputato può essere immediatamente interrotta con un semplice clic.
Per entrare in aula per noi “pubblico” c'era da consegnare la carta d'identità unita a una passata di metaldetector; non c'è stata limitazione sul numero. Dopo i rituali dell'appello è stata data la parola ad Alfredo: visibile e udibile su due schermi disposti accanto al banco del tribunale, mentre lui non poteva sentirci né vederci. Ha esposto con chiarezza la propria concezione dell'anarchia, ha rivendicato in una quindicina di minuti il proprio agire-essere di ieri e di oggi, che, ha concluso, gli dà anche la forza di pisciare sull'isolamento come sulla videoconferenza e sul tribunale.
Noi, una quarantina, dal fondo dell'aula abbiamo gridato “Alfredo, Alfredo...” seguito da “libertà, libertà...” La giudice che aveva seguito in pieno silenzio l'esposizione del compagno, ha premuto sul pulsante che l'ha zittito e fatto sparire ed è passata oltre con un: “ringraziamo Alfredo Cospito” seguito da una nostra risata unita al grido “siete delle merde”; il pm è sempre rimasto immobile e muto sulla sedia, anche gli altri numerosi sbirri in cravatta o in divisa sono rimasti ai loro posti.
L'udienza è proseguita con l'intervento in aula di quattro compas imputati “a piede libero” che hanno dato continuità all'intervento di Alfredo; in particolare Lello che ha puntato il dito sulla corte che ci stava davanti indicandola parte dello stato italiano avvolto dal nazismo autore della strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre 1969, come delle stragi scatenate in questi anni dagli stati NATO, di cui è parte anche l'Italia, contro persone in fuga da miserie, guerre, saccheggi, stupri compiute da quell'associazione di stati lungo le coste del Mediterraneo, in particolare in Libia. Stragi che confermano una realtà nazista ben definita, che è più che giusto combatterla, ha concluso il compagno.

Milano, dicembre 2017

Per ragioni di spazio alleghiamo, unitamente al presente opuscolo, anche un altro pieghevole contenente le dichiarazioni fatte in tribunale dai compagn* sotto processo.

Le rendite sicure su sorveglianza e punizione
Come nasce il maxi-carcere di Nola
Quando si parla di carcere gli animi non sono mai distesi. Il desiderio di sicurezza, tema centrale della prossima campagna elettorale, è stato uno dei principali motivi di azione dell’attuale governo, con gli interventi del ministro Orlando sul codice e il processo penale, e quelli del Viminale con il provvedimento sulla cosiddetta “sicurezza delle città”.
Il quadro sarà completato dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, anzi fa riflettere il silenzio che avvolge il provvedimento, lasciando intendere la precisione tattica con cui il ministero “maneggia” l’affare giustizia.
L’impostazione repressiva delle ultime manovre legislative non si giustifica però con i dati. Le relazioni presentate dal ministero degli interni negli ultimi due anni testimoniano come l’Italia sia tra le nazioni più sicure d’Europa, perché diminuisce complessivamente il tasso di incidenza dei reati: le rapine (-10,62%), i furti (-6,97%), l’usura (-7,41%), lo sfruttamento della prostituzione/pornografia minorile (-3,03%).
Del resto, lo stesso ministro Minniti ha spiegato nella relazione di presentazione al parlamento del decreto sulla sicurezza urbana, che la posizione del governo in materia è politica: “La nuova società, tendenzialmente multietnica, richiede una serie di misure di rassicurazione delle comunità […], finalizzate a rafforzare la percezione che le istituzioni concorrano unitariamente alla gestione delle problematiche, nel superiore interesse della coesione sociale”.
Ciò che interessa, in sostanza, è calmare gli spasmi dello stomaco e i battiti del cuore: le strategie classiche di tutela del diritto penale non trovano spazio nel dibattito, risultando mediaticamente poco attraenti e offrendo la sponda a disposizioni repressive spesso ibride, come il cosiddetto “Daspo urbano”, o alle “creative” misure preventive personali (obbligo di dimora, sorveglianza speciale, foglio di via) fondate sulla presunta pericolosità del soggetto e non sulla commissione di un reato.
Parallelamente al consolidamento di questo scenario, nel paese si costruiscono nuove prigioni. Allo stato attuale la Campania ne ha ben quindici per adulti, con un numero di detenuti di 7.278, più di mille reclusi rispetto a quanto previsto dagli organici. Dopo la Lombardia è la regione con la popolazione detenuta più numerosa, la prima se confrontiamo le reclusioni con il numero di residenti. I dati sono in netta crescita, sebbene la riforma Orlando debba ancora produrre i suoi effetti.
L’aumento delle pene minime e massime per i reati contro il patrimonio, come il furto in abitazione e con strappo, infatti, non solo manterrà nelle carceri per un tempo maggiore oltre la metà dei detenuti, ma l’innalzamento dei limiti sanzionatori determinerà un ricorso ancora più massiccio alla custodia cautelare. Le linee di tendenza di questo quadro drammatico sono riscontrabili analizzando ciò che accade a Poggioreale, dove a fronte di una capienza tollerata di 1.644 detenuti, sono imprigionate oltre 2.000 persone.
L’Italia, che ha subito diverse condanne dalla Corte di Strasburgo per il sovraffollamento e per il trattamento brutale dei detenuti, comincia a confrontarsi con questi dati.
La soluzione identificata, naturalmente, non è il ricorso alle misure alternative, alla diminuzione delle pene, alla depenalizzazione dei reati minori; anzi, amnistie e indulti sono anni luce lontani dall’agenda politica del paese degli sceriffi e controllori.
Il ministero della giustizia ha deciso piuttosto di chiudere un appalto, con la collaborazione del ministero delle infrastrutture, per la creazione di un nuovo istituto penitenziario a Nola, nella località di Boscofangone (Masseria Cianciulli). Un mega-carcere che ospiterà 1.200 detenuti, dunque tra i più popolosi in Italia, e che considerando gli attuali indici di sovraffollamento potrà arrivare a sforare la soglia dei 2.000.
La struttura insisterà su diciotto ettari di terreno, e secondo quanto esposto dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) nella relazione illustrativa firmata dall’architetto Ettore Barletta, il costo stimato dell’opera ammonterà a 120 milioni di euro. Il valore dell’investimento è però destinato a crescere, dal momento che prima della costruzione quel terreno dovrà essere bonificato, come in più occasioni ha ribadito l’architetto Corrado Marcetti (Fondazione Michelucci), insistendo su terreni oggetto per anni di interramento di materiale tossico. A questi già rilevanti costi si aggiungeranno quelli per il riassestamento del quadro idrogeologico, necessario dopo l’innalzamento della falda acquifera che ha già causato l’allagamento dei terreni confinanti con il centro commerciale Vulcano Buono.
Sul progetto del supercarcere, il ministero stesso cade in contraddizione. Gli Stati generali dell’esecuzione penale (lavori durati circa un anno, organizzati per iniziativa del Guardasigilli in diciotto tavoli di esperti del settore e con costi quindi a carico della comunità) avevano indicato una strada precisa riguardo le parole-chiave per le ristrutturazioni e le nuove costruzioni penitenziarie.
Prima di ogni cosa la capienza dell’istituto, che inizialmente, nel caso di Nola, doveva ospitare 450 detenuti, poi aumentata a 900, per arrivare infine a 1.200. Sebbene i tavoli tecnici avessero espresso tutt’altro parere, proponendo la nascita di strutture di contenimento per un numero minore di detenuti, al fine di favorire le attività delle cosiddette “aree trattamentali” e le misure di reinserimento, da questo punto di vista la posizione del governo è stata irremovibile: una enorme prigione dagli appetibili costi di gestione. La localizzazione geografica del carcere, centrale per la vicinanza delle arterie della A30 Caserta-Salerno e dell’asse mediano (che agevoleranno i trasferimenti e le traduzioni dei detenuti nei tribunali, in particolare in quello di Aversa Napoli-Nord, sempre più importante per la gestione del contenzioso penale campano) rende la struttura estranea ai centri urbani e alle comunità locali. Una scelta che renderà “impermeabile” il supercarcere: i familiari avranno problemi per i colloqui, e l’attività dei detenuti “lavoranti esterni”– oggi sempre minore per la mancanza di fondi pubblici e per il bigottismo dei nostri territori – sarà quasi impossibile.
Costruire un istituto penale in un posto del genere significa tenere reclusi i soggetti in una dimensione sospesa, dove non c’è nulla fuori e nulla dentro. Inoltre, all’interno del Tavolo 1 degli Stati generali, si era deciso di non costruire dentro il perimetro degli istituti di pena i locali per il personale non residente della polizia penitenziaria, perché si voleva scongiurare l’eccessiva militarizzazione dello spazio, evitando di creare un accasermamento che avrebbe contribuito a tendere i rapporti nelle carceri. Anche gli immobili destinati alla semilibertà dovevano essere dislocati in un contesto di vita sociale attivo, per permettere il reinserimento dei soggetti, ma entrambe le direttive risultano completamente ignorate dal progetto nolano.
Per quanto riguarda la costruzione degli spazi interni, il progetto è blindato. Se gli Stati generali avevano cercato di valorizzare quanto più possibile la “vigilanza dinamica” – con l’idea di diminuire le zone di esclusiva reclusione, disincentivando l’ozio e la “sorveglianza statica”, creando maggiori spazi per la socialità e le attività lavorative, ricreative e scolastiche – a Nola si costruirà un vero e proprio lager, con alte torri sovrastanti la struttura e lo schema disorientante dei bracci, proprio come la Prison de la Santé di Parigi (1867), Le Nuove di Torino (1870) o il più “recente” carcere di Poggioreale (1901).
L’associazione Antigone e la Fondazione Michelucci il 22 marzo di quest’anno, in occasione di un incontro tenuto all’Università di Roma Tre, hanno criticato fortemente il progetto del Dap. La “progettazione di massima” è però passata come definitiva – la planimetria, il bando, il calcolo compensi, le note di fattibilità, le relazioni di presentazione dell’opera sono pubblicate sul sito del ministero delle infrastrutture –, l’area è stata individuata e pare che proprio in questi giorni siano cominciati gli espropri. La gara per affidare la progettazione esecutiva è stata chiusa e vinta dalla società Mythos Consorzio Stabile, impegnato già in precedenza nella costruzione delle cosiddette Grandi opere, per 3,7 milioni di euro. [...]
22 novembre 2017, da napolimonitor.it


Lettera dal carcere di Saluzzo (cn)
Ciao cari amici di OLGa, scrivo dal carcere di Saluzzo, dove sempre di più si sta creando un circuito di alta sicurezza anche tra i detenuti comuni. Le guardie, come fai un passo sono sempre lì che rompono i coglio...
L'amministrazione dell'istituto è pessima, il direttore sempre assente, il commissario non riceve nessuno perché sa che non può risolvere nessun problema e quindi fanno a scarica barile. L'ipocrisia regna, per farti stare tranquillo riempiono la testa ai detenuti con false promesse e in questo calderone ci mettiamo anche i signori educatori che sembrano più sbirri che organi preposti per farti uscire di galera.
Viviamo in mezzo a scarafaggi e insetti striscianti di tutti i generi, perché non riescono neanche ad organizzare una vera e propria disinfestazione.
Un saluto a tutti i carcerati, un forte abbraccio e sempre pronti alla lotta.

Saluzzo, ottobre 2017


Cartolettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Salve gente, ho ricevuto con grande piacere il piego libri con opuscolo e libro… Paska è libero, anche se ha è praticamente dei mezzi domiciliari. Non so se è meglio della galera, ma forse sì! Ho quasi finito “La guerra non era finita”, davvero interessante e chiaro come esprime che, non tutti si battevano per questa cosiddetta “democrazia” e che il fascismo non se ne è mai andato, ma nemmeno la rabbia e la volontà rivoluzionaria di tanti individui.
“Lo Stato non é uno Stato carcerario, è lo Stato e basta, così come si esprime nell'attività economica, culturale, nella gestione politica, del tempo libero e nella gestione del carcere. Questi elementi non sono separati, non è possibile fare un discorso soltanto sul carcere, non avrebbe senso.” A.M.B.
Saluti Ghespe

30 novembre 2017
Salvatore Vespertino, via Minervini 2/r - 50122 Firenze


Lettera dal carcere di Lecce
Ciao a tutte e ciao a tutti, vi rispondo al piego di libri con l'opuscolo di agosto e altro materiale oltre alle lettere. Qui procede tutto bene, per quanto bene possa procedere in galera; noi “detenuti attenzionati” e che non possiamo accedere alle “camere di pernottamento aperte” per “scelta discrezionale tecnica dell’amministrazione”, siamo stati spostati di cella, cambia poco, semplicemente ristrutturata quindi telecamere ovunque. Siamo qui nel padiglione di Alta Sicurezza, quindi quando devi andare dall'avvocato o ai colloqui ecc. è sempre complicato perché non possono mai portarti con le altre sezioni (in teoria…).
Qui, insieme ad altri amici di sezione (tutti emigrati, guarda caso) abbiamo fatto altri 5 giorni di punizione/isolamento, rimanendo però in sezione e senza taglio della spesa: quindi solo no aria, no socialità. [...]
Un abbraccio, sempre a testa alta, Paska.

7 novembre 2017
Pierloreto Fallanca

Il compagno come aveva previsto è uscito il 23 novembre con delle “misure”. “L’esilio” a Martinsicuro in provincia di Teramo, ovvero “obbligo di dimora” e rientro la sera obbligato. Sta bene e saluta tutti che conosce dentro e fuori e ha incontrato in questi mesi di carcerazione.


g-20 di amburgo: “non deve uscire dal carcere”
Venerdì 17 novembre la madre di Fabio, Jamila B., era davanti al carcere di Hahnöfersand sull'isola d'Elba per riprendere suo figlio. Invece dovrà ritornare, sebbene l'Ufficio Giudiziario di Amburgo-Altona avesse ricevuto il mandato di cattura contro Fabio già giovedì 16 novembre. Lui resta in carcere perché la procura non ha ceduto di un millimetro. Lo scandalo giudiziario riguardo al giovane italiano, arrestato il 7 luglio durante il vertice G-20 nel quartiere di Rondenbarg, si estende.
La giudice dell'Ufficio Giud. aveva deciso che avrebbe annullato il mandato di cattura dietro il pagamento di una cauzione di 10.000 euro, dato che c'era (solo) da tener conto di una condanna detentiva per minorenni - con la condizionale. Nel processo quattro poliziotti non lo avevano riconosciuto, nello stesso tempo l'accusa, il pm, ha contestato le loro dichiarazioni. Spetta ora al tribunale provinciale pronunciarsi sul reclamo. Venerdì non appena è stato respinto, il pm lo ha presentato alla corte d'appello anseatica (il Land, regione, che fa capo a Amburgo-Altona). Fino alla sua pronuncia Fabio resta dentro.
Le reazioni. Sabato pomeriggio dalle 15 alle 20 contro il palazzo della procura federale, in centro-città, sono stati lanciati sassi, barattoli di colori, bottiglie, pneumatici incendiati. La polizia si è schierata in gran numero, ma senza successo.
Da settimane nelle “Reti Sociali” come twitter, dove da settimane sotto il titolo #freeFabio, viene chiesta la sua liberazione, l’indignazione è ampia. Già mercoledì nella rete ZDF il team satirico nella trasmissione “Oggi-Show” ha aperto la serata citando il caso Fabio, con la domanda: “Questo diciottenne è in carcere da quattro mesi. L'accusa si fonda soltanto sulla sua partecipazione ad una manifestazione – dove non ha compiuto nessuna violenza. In quale città Fabio V. è accusato? A) Ankara B) Amburgo?”
Effettivamente parecchie persone esperte in materia nutrono dubbi sulla statualità del diritto (inteso come generalità dunque non vendicativa) nel caso di Fabio V.: Amnesty International Italia già all'inizio di ottobre si è appellata alle autorità tedesche affinché lo rilascino. Il processo viene seguito non soltanto dal consolato italiano di Amburgo, ma anche dal Comitato dei Diritti Fondamentali e da “European Association of Lawyers for Democracy & World Human Rights” (ELDH, Associazione Europea dei Giuristi per la Democrazia e i Diritti della Persona).
In una conferenza stampa il Comitato dei Diritti Fondamentali ha affermato che “contro Fabio non esistono prove, che la sua carcerazione non è giustificata in nessun punto.” La giustizia segue il corso di “diffamare” il manifestante contro il G-20, il processo a Fabio ne è “esempio chiaro e scioccante”.
La decisione sul mandato di cattura è adesso nelle mani della corte d'appello, cioè del tribunale che in luglio aveva confermato quel mandato, motivandolo con l'espressione: a causa delle sue “pericolose inclinazioni” nei confronti di Fabio va emessa una condanna senza condizionale.
Il 27 novembre Fabio è stato finalmente scarcerato, però dovrà restare in Germania perché oltre alla cauzione di 10 mila euro il tribunale gli ha imposto l’obbligo di firma tre volte alla settimana in attesa del processo previsto per febbraio prossimo.
Questa è la riprova di ciò che succede a chi viene preso di mira, il “capro espiatorio” del sistema di deterrenza. Infatti per mostrare l’accanimento della magistratura e compagnia nei confronti di chi non china la testa, già ad agosto la corte d’appello di Amburgo motivava la scelta della sua carcerazione sostenendo: “ha preso parte a gravi azioni violente che chiariscono un comportamento caratteriale che, a sua volta, giustifica la sua colpevolezza... mostrano le sue pericolose inclinazioni” e ribadisce che “sono manifeste carenze riguardo a prospettive e educazione che, senza una lunga rieducazione generale (totale), rafforzano il pericolo di successive azioni penali”. La dignità umana, il diritto all'incolumità fisica e alla proprietà per l'accusato non hanno alcun significato”.
Fabio su quelle accuse si era espresso per la prima volta affermando di essere stato descritto come criminale, mentre è un giovane con forti volontà, che rifiuta la violenza impegnato “a migliorare il mondo... Noi non siamo il gregge del G-20, noi lo combattiamo.” Scendere in strada ad Amburgo lo ha assunto come dovere.

20 novembre 2017, tradotto e tratto liberamente da jungewelt.de


Torino: Sentenza “processo sfratti”
Lunedì 20 novembre si è concluso il primo atto del processo contro la resistenza agli sfratti realizzatasi in alcuni quartieri di Torino tra l’estate 2011 e la primavera del 2014. Il bilancio della sentenza è di 27 compagni condannati a pene che vanno da 1 anno ai 2 anni e 9 mesi di reclusione. Alcuni imputati sono stati condannati al risarcimento di qualche proprietario di casa costituitosi parte civile e dei loro avvocati. Due compagni sono stati invece assolti e le accuse più gravi – il sequestro – cadute per tutti. L’udienza è stata anche l’occasione per salutare Beppe che si trova ancora alle Vallette, a causa del recente rigetto della richiesta dei domiciliari.
Il giorno seguente altri compagni hanno scelto di presentarsi all’udienza del processo in cui sono accusati di aver fatto violenza contro dei carabinieri per ostacolare un controllo di documenti, procedimento per il quale sono stati arrestati a maggio e per sei mesi sono stati rinchiusi prima in carcere e poi a casa con l’impossibilità di comunicare, per il quale ora hanno l’obbligo di firmare in maniera quotidiana in caserma. I compagni hanno deciso di trovarsi in aula per leggere una dichiarazione per precisare alcune cose.
Ve la presentiamo qui di seguito.

Volevamo dire due parole rispetto a questo processo e più in generale al contesto in cui questo, come altri procedimenti, vengono alla luce. Siamo accusati di aver tentato di impedire un controllo dei carabinieri in via Alessandria. Una pattuglia, poi due, poi tre, intervenute a controllare due ragazzi che uscivano da una festa-benefit che si stava svolgendo all’interno dell’Asilo occupato. Per quanto ci riguarda, quella sera, chi era lì, ha posto in essere una contestazione all’ennesima intimidazione nei confronti di chi frequenta questo luogo, negli anni, al centro di numerose lotte. Intimidazioni che si verificano durante tutte le iniziative da noi organizzate.
Non vogliamo disquisire sulla banalità dei fatti avvenuti che, tra le menzogne dei carabinieri e le solite esagerazioni finalizzate a colpire alcune persone specifiche, si commentano da soli. Da anni, la procura di Torino, con la connivenza di alcuni Gip, cerca di sfruttare qualsiasi accadimento ci riguardi per inquisirci, arrestarci e allontanarci. Questo non ci ha mai stupito, conosciamo qual è il compito sociale ricoperto da questi individui.
Un’accusa di resistenza gonfiata fino a diventare un ridicolo sequestro di persona, poi caduto al Riesame, basta a far capire qual è il contesto in cui arresti e repressione nei nostri confronti nascono e si concretizzano. Sappiamo perché siamo in quest’aula, perché veniamo rinchiuse periodicamente nelle carceri, allontanati, spiate, malmenati nelle questure, così come accade a tante altre persone isolate a cui va il nostro pensiero. Sappiamo perché da sei mesi siamo ristretti/e e non ci viene permessa, stupidamente, alcuna comunicazione con l’esterno. Il motivo è banale: proviamo ogni giorno a lottare. Questo è il vero problema.
Lottiamo contro i Cpr e le retate delle persone senza documenti, ci opponiamo agli sfratti, di singoli e famiglie, lottiamo contro il carcere e la sua brutalità, contro la riqualificazione del quartiere che sta piano piano espellendo ai margini la popolazione povera che lo abita, riducendo delle esistenze a meri numeri da soppesare, sfruttare o eliminare.
Non è solo questo chiaramente. Il discorso non si esaurisce di certo qui, ma una comprensione più ampia è impossibile e soprattutto impercettibile in questo luogo. Ci teniamo solo a fare un’ulteriore piccola precisazione.
Ormai siamo abituati alle invenzioni delle forze dell’ordine, alla loro capacità di costruire i fatti come meglio credono. In un altro processo verso alcuni/e compagni/e è stato, addirittura, risposto che “tre poliziotti non possono dire il falso”, quindi, pur volendo, non potremmo mai provare a controbattere di fronte a una così grande onorabilità, un valore celebrato con fedeltà da Bolzaneto fino ai fatti di Firenze.
È inutile dire che, chiaramente, non siamo interessati/e ad agire su questo piano. Ci preme però dire una cosa rispetto alle frasi asseritamente pronunciate da qualcuno di noi all’indirizzo della pattuglia. La frase seguente: “bastardi figli di puttana vi tagliamo la testa come fanno i musulmani”, non ci appartiene e mai ci apparterrà. Da sola questa frase potrebbe risolvere l’enigma kafkiano di questo processo. Queste parole sono lo specchio di una mentalità sessista e islamofoba che appartiene a colui che dice di averla ascoltata. Infatti, poiché l’ha inventata di sana pianta, ha semplicemente pensato cosa lui stesso avrebbe gridato nei confronti di qualcun altro in un momento di concitazione. Non ci stupiamo che da un mondo fatto d’oppressione, come quello rappresentato da una divisa, possa scaturire tanta creatività. Noi questo mondo, fatto anche di sessismo e xenofobia, cerchiamo di combatterlo ogni giorno e queste parole, sia chiaro, ci inorridiscono. Siamo contenti/e di condividere invece la seguente frase pronunciata invece da alcune nostre amiche puttane: “ribadiamo che poliziotti, militari e banchieri non sono figli nostri”.
Un’ultima cosa. Se pensate di poter reprimere l’opposizione ai rastrellamenti alla violenza della forze dell’ordine, crediamo, che non servirà a niente imprigionare qualcuno di noi. La resistenza ai soprusi quotidiani, lungi dall’essere pianificata, nasce, fortunatamente, spontanea nei quartieri e appartiene alla gente nelle strade.

novembre e dicembre 2017, da autistici.org/macerie
RED FRIDAY alla SDA di CARPIANO (mi)
Con un'azione spontanea e unitaria, gli operai del SOL COBAS e del SI.COBAS sono entrati in sciopero nell'hub milanese di SDA.
Lo sciopero é una conseguenza diretta della vertenza di settembre e delle turnazioni che ne sono scaturite con pesanti perdite salariali negli ultimi due mesi.
Il rifiuto da parte di UCSA (nuovo fornitore post-crisi) di riconoscere come ferie le giornate di riposo forzato imposte dalla serrata aziendale, ha prodotto inacettabili buste paga di 420€ (per di più nemmeno per tutti, visto che 80 operai non hanno ricevuto nemmeno quelli). E così, finita la tregua fissata al 20 novembre, la rivolta operaia ha ripreso il suo corso naturale contro le mortifere logiche del profitto.
Salutando l'unità dal basso che si crea nella lotta e che tende a fare piazza pulita di qualsiasi pretesa di egemonia di questa o quella sigla sindacale, il SOL COBAS propone a tutti gli operai di Carpiano di unirsi contro qualunque ipotesi di Cassa Integrazione, di ristrutturazione aziendale con relativi esuberi e di riduzione dei diritti conquistati in 6 anni di lotta. La prospettiva resta quella di conquistare, attraverso la lotta permanente contro lo sfruttamento e per la dignità, posizioni di forza utili a mettere in discussione l'egemonia di classe esercitata dai padroni.
Dagli operai di Carpiano, senza divisioni di sigla, e dopo una durissima battaglia (purtroppo in quel frangente condotta su fronti sindacali contrapposti) di cui ancora si pagano le conseguenze, forniscono una lezione sul valore strategico dell'unità operaia che si realizza nella lotta. Soprattutto quando scoppia spontaneamente come oggi.

23 novembre 2017, da solcobas.org

Nel pieno della notte, alle ore 1 circa della mattina successiva, dopo che i lavoratori hanno strappato ulteriori 400 € ad integrazione delle giornate perse, il lavoro è ripreso.

***
Sciopero ai magazzini SDA di Modena
La situazione all’interno del magazzino è la stessa, comune nei numerosissimi snodi logistici dello SDA dislocati sul territorio nazionale, vale a dire: buste paga irregolari, lavoro straordinario obbligatorio, ferie elargite arbitrariamente e sanzioni disciplinari a quei lavoratori che tentano di denunciare condizioni di sfruttamento. A Modena, dopo numerosi tavoli con le cooperative d’appalto e alcune iniziali conquiste di diritti, da più di una settimana non venivano più elargite né buste paga né stipendi.
E' per questo che i lavoratori hanno dato vita a uno sciopero con picchetti che ha bloccato l’intera azienda. Alle immediate minacce di licenziamento da parte delle cooperative appaltatrici, è seguito il grave tentativo di rompere il blocco da parte di alcuni “padroncini” che prima hanno aggredito a spintoni i responsabili sindacali presenti per poi arrivare, su spinta della direzione della coop TCV, ad investire il picchetto con un furgone. Un gesto criminale che ha ferito due lavoratori, soccorsi e ricoverati (uno dei quali in condizioni riservate) all’Ospedale di Baggiovara.
La risposta è stata pressoché immediata con il picchetto che ha ingrossato le proprie fila con l’arrivo di delegati dalle aziende del distretto carni modenese. Verso le 13 si è svolto l’incontro diretto con SDA che ha promesso il pagamento immediato di tutti gli stipendi e l’allontanamento della cooperativa TCV dall’azienda nonché la sospensione dei protagonisti dell’aggressione.
novembre 2017, da infoaut.org