indice n.120

L’Italia si dota della Legge per la guerra
Libia: all'orizzonte un cambio alla guida del paese?
Egitto e UE cooperano nella repressione dei migranti
Riaprono i Cie: tra il proclamato, il realistico e l’effettivo
aggiornamenti sulle lotte contro la macchina delle espulsioni
Appunti sulla valorizzazione dei richiedenti asilo
da una Lettera di Mauro da Lucca
Lettera dal carcere di Paola (cs)
Lettera dal carcere di Novara
Lettera dal carcere di Ivrea
sabato 18 febbraio: presidio sotto il carcere di Novara
lettera dal 41bis del carcere de l’aquila
Da una lettera dal carcere di massama (or)
Voghera, dal 41bis all'isolamento totale per altri 6 anni
Lettera dalla r.e.m.s. di Volterra
da una Lettera dal carcere di S. Michele (Al)
lettere dal carcere di roma-rebibbia
BASTA MORTI IN CARCERE
iniziative contro il carcere a Vicenza
lettera dal carcere di bancali
Lettera dal carcere di milano-opera
Lettera dal carcere di Extremera, Madrid (Spagna)
usa, cure mediche in carcere per Mumia abu-jamal
arresti in grecia
sulla sorveglianza speciale
DALLA LOTTA IN VAL SUSA
Stasera la questura di Modena ha arrestato Aldo Milani


L’Italia si dota della Legge per la guerra
Piuttosto in sordina, il 31 dicembre scorso è entrata in vigore la Legge quadro sulle missioni militari all'estero. La legge era già stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale fin dal 1̊ agosto; ma ne era stata rimandata l'attuazione a fine anno, tranne che per la disposizione all'integrazione del Copasir, cioè dell'organismo di controllo sulle attività dei servizi segreti (venuto fuori come problema in occasione delle “missioni coperte” in Libia), anche se valido solo per la legislatura in corso.
L'Italia si è così dotata di una legge organica dello Stato per l'invio di contingenti militari all'estero che dovrebbe azzerare le contraddizioni di incostituzionalità sul ricorso alle azioni militari contro, verso o in altri paesi vincolate al rispetto dell'art.11. Infatti il nostro ordinamento fino ad oggi prevedeva solo la disciplina della "guerra". Ma lo stato di guerra deve essere deliberato dalle Camere, che conferiscono al Governo i poteri necessari (art. 78 Cost.), mentre la dichiarazione di guerra è prerogativa del Presidente della Repubblica (art. 87, 9° comma). ll tutto nei limiti sanciti dall'art. 11 Cost., che vieta la guerra di aggressione e consente l'uso della violenza bellica solo in ipotesi ben determinate (la difesa).
La storia di questi ultimi venticinque anni, con numerose operazioni militari all'estero e il coinvolgimento dell'Italia in teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Jugoslavia ma anche Somalia, Libano etc.), ha reso inevitabile una legge organica che legittimasse sul piano legale la partecipazione dei militari italiani a guerre e operazioni militari in altri paesi.
La Legge individua la tipologia di missioni, i principi generali da osservare e detta disposizioni circa il procedimento da seguire. La newsletter Affari Internazionali ne offre una sintesi molto utile:
1) Le missioni militari all'estero, sia di peace-keeping che di peace-emforcement, sono in primo luogo quelle con il mandato delle Nazioni Unite, ma adesso lo sono anche quelle istituite nell'ambito delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia è membro, comprese quelle dell'Unione Europea.
2) La Nato non è menzionata espressamente ma è automaticamente inclusa. La Legge poi si riferisce anche alle missioni istituite nelle coalition of willing, cioè coalizioni create su una crisi specifica sulla base di decisioni unilaterali dei paesi che vi aderiscono, infine si riferisce alle missioni "finalizzate ad eccezionali interventi umanitari".
3) La Legge specifica che l'invio di militari fuori dal territorio nazionale può avvenire in ottemperanza di obblighi di alleanze o in base ad accordi internazionali o intergovernativi o per eccezionali interventi umanitari, purché l'impiego avvenga nel rispetto della legalità internazionale e delle disposizioni e finalità costituzionali (che a questo punto vengono aggirate dalla legge stessa).
“Resterebbe da chiarire il significato di accordi intergovernativi e come questi si differenzino dagli accordi internazionali. Si tratta di accordi sottoscritti dall'esecutivo o addirittura di accordi segreti?” si interroga Affari Internazionali. “In parte tali dubbi dovrebbero essere fugati dai paletti volti a scongiurare una deriva interventista. Le missioni devono avvenire nel quadro del rispetto: a) dei principi stabiliti dall'art. 11 Cost., b) del diritto internazionale generale, c) del diritto internazionale umanitario, d) del diritto penale internazionale”.
Quanto al procedimento per la partecipazione alle missioni internazionali, viene reso centrale il ruolo del Parlamento, razionalizzando una prassi, qualche volta in verità disattesa, che faceva precedere l'invio del contingente militare all'estero da una discussione parlamentare. Ma spesso la ratifica parlamentare avveniva a posteriori, in occasione della conversione in legge del decreto-legge (DL) di finanziamento della missione.
L'iter disegnato dalla L. 145/2016 è il seguente: la partecipazione alle missioni militari è deliberata dal Consiglio dei ministri, Cdm, previa comunicazione al Presidente della Repubblica ed eventuale convocazione del Consiglio supremo di difesa.
La Legge quadro mette mano anche ad un'altra spinosa questione, ossia se ai militari impegnati nelle missioni debba essere applicato il codice penale militare di pace o il codice penale militare di guerra. Anche la soluzione indicata lascia aperta tutte le strade. La nuova legge dispone che sia applicabile il codice penale militare di pace, ma il governo potrebbe deliberare l'applicabilità di quello di guerra per una specifica missione. In tal caso è però necessario un provvedimento legislativo e il governo deve presentare al Parlamento un apposito disegno di legge.
E' dalla partecipazione alla prima Guerra del Golfo (1991) che si pone il problema di conformare la legislazione italiana al ripetuto ricorso alla guerra "nella risoluzione delle controversie internazionali" che di volta in volta è stata mascherata con acronimi sempre più improbabili: operazione di polizia internazionale, guerra umanitaria, protezione di civili, difesa preventiva etc. etc. Operazioni militari che hanno visto negli anni migliaia e migliaia di soldati italiani prendere parte a guerre in altri paesi e miliardi di euro spesi per parteciparvi. Quando le furberie sulla guerra diventano una Legge organica dello Stato, vuole dire che il punto di non ritorno si è avvicinato ancora di un altra spanna.

13 gennaio 2017, tratto da contropiano.org


Libia: all'orizzonte un cambio alla guida del paese?
Le variabili esterne sembrano destinate a mutare nel breve periodo e nelle prossime settimane potremmo assistere ad un’evoluzione della situazione libica e ad un riassestamento degli equilibri a favore delle regioni orientali
L’attuale situazione libica presenta caratteri di difficile interpretazione. Per quanto molti elementi contribuiscano ad un quadro di incipiente mutamento, sembra persistere una generale impasse della politica interna. Numerosi sono sicuramente gli eventi che hanno attraversato le ultime settimane come l’autobomba esplosa a poca distanza dall’appena riaperta ambasciata italiana a Tripoli, il tentato colpo di Stato a Tripoli o l’ultimo attacco statunitense sotto amministrazione Obama alle postazioni dello Stato Islamico nell’area limitrofa a Sirte. Parallelamente si è assistito alla crescente presenza sulla scena politica internazionale del generale dissidente Khalifa Haftar che, oltre ad aver avuto importanti incontri al vertice come quello con il presidente russo Vladimir Putin, ha cavalcato l’onda di sfiducia nei confronti del premier Fayez al Sarraj dichiarando che chi si è schierato con il Governo di Accordo Nazionale (Gna), come l’Italia, ha sbagliato parte della storia. Benché questi eventi abbiano una rilevanza in sé, essi non costituiscono, però, un significativo mutamento della situazione sul terreno. Possono, invece, essere letti come parti di un quadro in lenta preparazione che potrebbe portare, per la prima volta dopo anni, ad un reale mutamento della situazione libica. Nei mesi passati, infatti, molti sono stati gli eventi che hanno cambiato il contesto d’area in cui la situazione libica si inserisce, andando a rafforzare la posizione del generale Haftar e di Tobruk. Nuovi finanziatori, tra cui la Cina, si sono affacciati al mercato libico andando a portare i propri fondi nella regione Cirenaica e molti attori internazionali hanno espresso il loro appoggio in maniera più o meno palese per il Governo di Aquila Saleh di stanza a Tobruk. Attraverso il sistema di alleanze tessuto da Haftar con il sostegno egiziano e l’enorme potenziale contrattuale dato dal controllo della mezzaluna petrolifera, il Generale sembra essere riuscito, progressivamente, a riconquistare la legittimità perduta con gli accordi di Skhirat. La vittoria di Tripoli contro lo Stato Islamico a Sirte e la presenza degli Stati Uniti al fianco del Gna hanno, però, ritardato il collasso del Governo internazionalmente riconosciuto, permettendo ad Al Sarraj di rimanere alla guida del Paese nonostante la palese debolezza.
Le variabili esterne sembrano, però, destinate a mutare nel breve periodo e, grazie alla mediazione/direzione egiziana, potremmo assistere nei prossimi mesi ad un radicale mutamento della situazione interna libica. Il neo-presidente Trump, a differenza del suo predecessore, potrebbe scegliere di avallare la strategia russa ed egiziana, sostenendo la non-ingerenza ed Haftar. In questo senso diventa significativo l’incontro tenutosi questo sabato al Cairo a cui hanno partecipato i Ministri degli Esteri di Egitto, Tunisia, Algeria, Ciad e Niger oltre a rappresentanti libici, il Segretario generale della Lega Araba Ahmed Abul-Gheit, l’inviato dell’Unione Africana Jakaya Kikwete e l’inviato speciale Onu per la Libia Martin Kobler. Durante il decimo incontro dei Paesi confinanti con la Libia, il messaggio è stato univoco e indirizzato a porre fine ai negoziati per iniziare a lavorare per una soluzione del conflitto. Il Ministro degli Esteri egiziano ha, inoltre, ribadito la contrarietà ad una soluzione militare e il sostegno all’accordo di Skhirat. Un passaggio importante in quanto non viene negata la valenza del tentativo di unità nazionale, ma si mette, anche se non esplicitamente, in dubbio la guida di questo processo, aprendo ad un dialogo preferenziale con Tobruk.
Nelle prossime settimane potremmo, dunque, assistere ad un’evoluzione della situazione libica e ad un riassestamento degli equilibri a favore delle regioni orientali, ma questo non deve far pensare che un semplice mutamento al vertice possa portare la stabilità statuale persa dopo la caduta di Muhammar Gheddafi. Per quanto Tobruk, sostenuto diplomaticamente e finanziariamente a livello internazionale e solido sul proprio territorio, possa avere la capacità di allargare la propria sfera di influenza al di fuori dei confini della Cirenaica e prendere la guida del Paese, molti gruppi come le milizie di Misurata potrebbero scegliere di non avallare il progetto del Generale, creando nuove falle nella sicurezza del Paese. Nonostante questo, se davvero Haftar dovesse riuscire a prendere la guida del Paese, il mutamento sarebbe radicale. Da un lato, la relazione Libia-Egitto ne uscirebbe enormemente rafforzata con immediate ricadute positive su entrambi i mercati, in particolare nel settore degli idrocarburi. Dall’altro, la lotta contro le fazioni islamiche diventerebbe ancor più cruenta e non farebbe distinzione tra ciò che è Stato Islamico e ciò che non lo è, creando i presupposti per una repressione di ampio raggio sul modello egiziano.

23 gennaio 2017, da nena-news.it


Egitto e UE cooperano nella repressione dei migranti
“La guardia costiera e la polizia di frontiera egiziane hanno fermato più di 12.000 persone migranti di varie nazionalità (nel corso di un totale di 434 operazioni), che tentavano di entrare o uscire illegalmente dal paese nel 2016”, ha fatto sapere il regime qualche giorno fa. Nessuna nuova informazione, invece, è stata data sulla carretta del mare che il 9 aprile di questo anno è affondata al largo delle coste egiziane. Centinaia di persone, tra cui minorenni, sono morte (190 somali, 80 egiziani, 85 fra sudanesi, siriani e altri paesi sono le vittime accertate) in quella che è stata una delle sciagure più letali avvenuta nel Mediterraneo nel 2016.
Nessuno, finora, ha indagato su questa tragedia. Nessuno ha dato corso a indagini serie per accertare se le persone in mare potessero essere salvate. Nessuno ha dato corso alle svariate denunce che accusano le autorità militari egiziane di aver volontariamente ritardato i soccorsi. Non l’Italia, dove la barca era diretta. Non la Grecia o l’Egitto, da dove era partita. Nessuna indagine dalle Nazioni Unite, dall’Unione Europea, dalla Polizia europea, o dalle forze navali europee dispiegate nel Mediterraneo.
Il silenzio è complicità! In effetti, l’Egitto è da sempre al centro degli interessi strategici europei in quanto luogo di origine, transito e arrivo di persone migranti. Lo è diventato ancora di più dal momento che nel 2016 le persone migranti provenienti dall’Egitto, ma di differenti nazionalità, sono state il 17,5% in più rispetto all’anno prima. Molti di questi sono minori e, dunque in quanto tali, a differenza degli adulti non possono essere immediatamente espulsi una volta approdati in Europa (nel 2015, 1.830 sono stati gli egiziani effettivamente espulsi su 5.490 ordini). Allo stesso tempo il regime egiziano ha bloccato e arrestato 4.640 persone migranti (gennaio – settembre 2016) sul punto di lasciare le coste del paese.
La durissima crisi economica che sta uccidendo l’Egitto (il cui regime vive di prestiti e sostegno internazionale) nonché la presenza di migliaia di rifugiati e migranti provenienti da Siria, Sudan, Etiopia, Somalia (e altri paesi), così come i ricatti di un regime a caccia di moneta estera, ha accresciuto la preoccupazione dell’UE, che nel 2016 ha dato il via a una serie di incontri e verifiche preliminari, a cui si aggiungono tutti gli accordi bilaterali, al fine di sviluppare progetti di “dialogo e cooperazione” (di cui già molti in atto già a partire dal 2004) per bloccare e prevenire i flussi migratori dal paese.
In termini pratici ciò vuol dire: la cooperazione dell’Egitto con la missione Frontex e la rete Seahorse (che unisce le guardie costiere operanti nel Mediterraneo); la collaborazione stretta con EUROPOL, CEPOL e INTERPOL; la cooperazione per il rientro dei migranti illegali (un modo per mascherare, di fatto, le espulsioni); l’impegno da parte del regime nel controllo delle frontiere tra Sudan e Libia, nonché della costa nord. In cambio l’Unione Europea si impegna a fornire i fondi necessari alla realizzazione dei diversi progetti (milioni di euro di cui l’Egitto ha bisogno per evitare la bancarotta) concernenti: gestione delle migrazioni, mezzi di sussistenza e protezione dei migranti. Allo stesso tempo l’UE garantirà all’Egitto l’attivazione di progetti appositi per la mobilità e l’emigrazione legale.
La cooperazione tra l’UE e il regime egiziano è inoltre vincolata, ma solo formalmente, alla protezione e assistenza delle persone migranti che raggiungono il paese, nonché alla concessione dell’asilo e delle protezioni internazionali. A tale scopo il parlamento egiziano ha approvato (17 ottobre 2016) una nuova legge contro l’immigrazione illegale e un piano nazionale strategico per l’immigrazione irregolare (scritto con il supporto dello IOM). Si tratta di una pura formalità legislativa, criticata da varie associazioni internazionali, al fine di soddisfare le richieste altrettanto formali dell’UE.
Ci si chiede come sia possibile stringere tali accordi con un regime che tiene incarcerati decine di migliaia di oppositori politici. Un regime le cui forze di polizia ed esercito torturano, fanno sparire persone, negano l’accesso alle cure ai/alle detenute. Non c’è libertà di movimento, parola ed espressione. Decine di giornalist* marciscono in carcere. Attivist*, avvocat* per i diritti umani, membr* di ONG, sindacalist* non possono lasciare il paese e sono continuamente sotto processo. I presidi dei lavoratori vengono sgomberati dall’esercito e gli operai in sciopero processati da tribunali militari. Un regime che combatte da due anni una guerra nel Nord Sinai contro gruppi islamisti insorti che ha causato migliaia di vittime civili. Dove 3.742 richiedenti asilo e migranti sono stati arrestati.
Questo è il paese con cui l’UE e i suoi stati membri, in primis l’Italia, stringono patti di cooperazione per bloccare le persone migranti.

14 gennaio 2017, da hurriya.noblog.org


Riaprono i Cie: tra il proclamato, il realistico e l’effettivo
L’anno nuovo è iniziato con un gran vociare da parte del governo sui Cie e il rinnovamento complessivo della macchina delle espulsioni. Notevole la mole di notizie che nei primi giorni di gennaio ha occupato le pagine dei giornali; dalle dichiarazioni del ministro dell’interno Minniti sull’apertura di nuovi Cie con il seguito di dichiarazioni critiche e lamentele politiche, alla circolare inviata dal capo della Polizia Gabrielli ai prefetti d’Italia sulle direttive per un controllo capillare del territorio alla ricerca degli irregolari, il tema è al centro del dibattito pubblico.
Tante le cose dette e scritte, ma per capire sul serio cosa c’è dietro i proclami e gli slogan è necessaria un’azione lucida di discernimento tra ciò che è propaganda e ciò che non lo è. Un lavoro non facile da fare tanto siamo abituati a prendere tutto quel che esce dalla bocca dei politici come merda placcata princisbecco.
Partiamo dunque dalle dichiarazioni di Minniti sulla riapertura dei Cie, proposta che sembrerebbe andare in controtendenza rispetto al dibattito d’opinione sviluppatosi intorno alla questione ma che è perfettamente in linea con le azioni di governo degli ultimi anni che a più riprese dichiarava di voler aumentare la capienza dei Centri proponendo tra l’altro, oggi come allora, il mantra del raggiungimento dei millecinquecento posti. E ciò si sarebbe pure verificato da tempo se non fosse stato per i reclusi che con le loro rivolte hanno reso continuamente vane queste ambizioni.
Da un po’ di anni a questa parte molte sono state le voci che hanno criticato i Centri, per lo più perché, dal loro punto di vista, considerati evidentemente inefficaci per lo scopo per cui erano stati creati. Oggettivamente non si può dar torto a queste ributtanti posizioni efficientiste dato che fin dalla loro apertura i Cie hanno funzionato a singhiozzo anche se hanno espletato altre funzioni non meno importanti, non ultima quella della deterrenza dei comportamenti in strada dei senza-documenti. Tuttavia il motivo del fallimento generale di questo modello che gli Stati si sono dati si può trovare sicuramente nella costanza con cui i reclusi hanno danneggiato, manomesso, distrutto e infine incendiato le strutture, rendendole parzialmente o totalmente inagibili, così che ad ora i Cie in funzione sui 13 aperti a suo tempo sono solo 4, con un totale di trecentosessanta posti disponibili. [Attualmente i CIE rimasti aperti sono a Pian del Lago - Caltanissetta, Brindisi-Restinco, Corso Brunelleschi a Torino con capienza ridotta e la sola sezione femminile del CIE di Ponte Galeria a Roma, ndr].
A ciò si aggiungono il flusso crescente delle migrazioni, la lentezza del sistema delle identificazioni, la difficoltà di raggiungere accordi bilaterali con i Paesi di provenienza che assicurino una procedura di espulsione veloce e fluida e i costi del rimpatrio stesso. Epperò le decisioni del Viminale sembrano proprio andare nella direzione della rimessa a nuovo di questo poco funzionante sistema di reclusione ed espulsione promettendo un Cie in ogni regione entro qualche settimana. Ora se sulle tempistiche i dubbi non possono che essere conclamati e nonostante “un Cie in ogni Regione” alla luce della situazione attuale suoni molto meglio come slogan d’effetto che come direzione programmatica, è più che probabile che, seppur con tempi non brevi, qualche lavoretto di ristrutturazione e qualche riapertura siano purtroppo possibili. E infatti i posti in più promessi da Minniti paiono essere un obiettivo raggiungibile a partire proprio da quelle strutture che esistono già. […]
Al di là delle pretese di Minniti&Co. la necessità di provare a far funzionare, o a far funzionare meglio, il sistema nazionale di identificazione ed espulsione rientra in una tendenza che fu perseguita già dal governo Renzi che da qualche anno a questa parte ha tentato di costituire un sistema di organizzazione, selezione e gestione degli imponenti flussi migratori che stanno attraversando l’Italia. Necessità di fatto perché la penisola appare geograficamente come una lunga strada che porta direttamente verso l’Europa del Nord, e necessità politica perché questo chiede l’Unione Europea all’Italia, di fare blocco più deciso alla ormai perenne “emergenza profughi”.
Due sono state le direttrici di intervento. Da una parte si è organizzato e messo a punto quel dispositivo di filtro e selezione degli arrivi che smista gli immigrati che potrebbero avere diritto a fare richiesta di asilo attraverso prime strutture come gli Hotspot, e in un secondo momento quelle dei Cas, dei Cara, fino alle diramazioni più periferiche del sistema di seconda accoglienza, denominate Sprar; il ruolo dei Cie nell’espulsione di coloro che non hanno invece i requisiti era stato già riaffermato. Dall’altro si sono cercati nuovi partner diplomatici con cui firmare patti bilaterali per i rimpatri e per il contenimento dei flussi nei paesi extraeuropei. Il che è esattamente il lascito che sta cercando di portare avanti il ministro Minniti che di aereo in aereo sorvola l’Africa per incontrare capi di governo o sedicenti tali con cui stringere accordi. E già, perché dalle primavere arabe in poi son saltate un po’ di collaborazioni, e pure delle più proficue; si veda ad esempio la profonda, e profittevole, intesa tra l’allora governo Berlusconi e Gheddafi in Libia mandata a monte dall’insorgenza del 2011 [e dai bombardamenti della Francia, ndr] e mai più ritrovata alla luce delle condizioni geopolitiche in cui versa la Libia oggi. Oltre ad aumentare il numero di rimpatri coatti il suggello di accordi bilaterali dovrebbe favorire maggiormente anche l’utilizzo della pratica del rimpatrio volontario sotto “incentivo”.
Non ci si può stupire dunque che priorità per il governo italiano sia stabilire accordi diplomatici con i maggiori paesi di provenienza degli immigrati per garantire identificazioni ed espulsioni veloci; se la macchina dei rimpatri ha funzionato male fino ad ora è anche per queste mancanze e riuscire a colmarle in tempi in cui centinaia di migliaia di persone arrivano ogni anno sul territorio nazionale è obiettivo più che desiderabile per chi governa. L’intento dichiarato sarebbe quello di aumentare e velocizzare le deportazioni che, negli anni passati e secondo i dati reperibili a proposito, si aggirerebbero intorno alle cinquemila all’anno, cifra che a noi pare già inaccettabile ma che risulta essere di molto in difetto rispetto ai fermi di senza-documenti effettuati sul territorio, circa quarantamila, e alle persone passate per il Cie e poi liberate con il decreto di espulsione in mano. Se a ciò si aggiunge che le deportazioni avvengono oramai anche dagli Hotspot, il numero delle persone realmente espulse in maniera coatta dai Centri di identificazione ed espulsione scende drasticamente sotto il migliaio.
Insomma a voler decifrare le parole del governo e se si ravana bene non si scorge nulla di nuovo sotto il sole: un’impellenza pratica di governance dei flussi che riesca a conciliare i problemi nazionali con le esigenze europee farcita con un po’ di propaganda securitaria che si fa però anche necessità in tempi in cui gli Stati e i governi occidentali si trovano a gestire un oramai perenne allarme terrorismo diffuso.
Ma quest’ultimo è un punto tutt’altro che semplice da trattare e ci riserviamo la possibilità di farlo con i dovuti tempi e le dovute cautele.

Gennaio 2017, liberamente tratto da autistici.org/macerie
aggiornamenti sulle lotte contro la macchina delle espulsioni
Dopo le recenti dichiarazioni di Minniti e del suo galoppino armato Gabrielli, numerosi indignati sinistrorsi si sono scagliati contro la riapertura imminente dei CIE, lanciando strali a destra e a manca contro le espulsioni irregolari che si facevano in questi posti brutti, perché si sa, si può imprigionare e deportare bene o male, ecco nei CIE, sempre secondo gli indignati della sinistra nostrana, lo si è fatto male e quindi bisogna lasciarli chiusi.
Mai nessuno di loro si è manco posto la domanda di come si sia arrivati a vederli chiusi questi postacci, chè certamente nessuno di loro si era speso un gran che affinché questo accadesse. La realtà incontrovertibile è che i CIE sono stati davvero distrutti e forzatamente chiusi solo grazie al fuoco delle rivolte portate avanti dalle persone recluse. È per questo motivo che “fuoco ai CIE” non è uno slogan inventato da qualche solidale, ma la reale pratica agita dai e dalle recluse, l’unica finora riuscita a raggiungere l’obiettivo di distruggere questi luoghi di detenzione. Chi, meglio delle persone che vi sono recluse, sa cosa siano i CIE e gli Hotspot? Chi meglio di coloro che hanno lottato da reclusi contro questi moderni lager può raccontarci come siano stati realmente chiusi, e magari suggerire come contrastare quelli esistenti e quelli che verranno?
A ogni protesta è spesso seguita una rappresaglia molto pesante per mano dello Stato, violenze che ovviamente sfuggono a chi in queste ora vanta il proprio ruolo nella chiusura dei CIE a suon di delegazioni, visite, petizioni e interrogazioni parlamentari. Celle d’isolamento punitivo, arresti domiciliari all’interno degli stessi CIE, prigionia in carcere, deportazioni immediate, pestaggi e torture, punizioni collettive davanti le proteste individuali, utilizzo del reato di devastazione per impartire pene durissime nei confronti dei e delle ribelli, elargizione di psicofarmaci e punture di sedativi che lasciavano tramortito chi protestava, sono solo alcune delle forme di vendetta che lo Stato ha messo in campo in questi lunghi anni.
Ecco dunque una panoramica su quanto avvenuto nei CIE negli ultimi 3 anni in Italia.

CIE di Brindisi-Restinco – Alcune camerate, in due sezioni su tre della struttura detentiva pugliese, sono state rese inagibili grazie alla rivolta dell’8 agosto 2016 delle persone in esso recluse.
“Nel pomeriggio di lunedì 8 agosto, mentre all’esterno del Cie di Brindisi Restinco si svolgeva un presidio di solidarietà con i reclusi, da dentro in tanti hanno comunicato le condizioni cui sono costretti a sottostare. I finestroni delle celle si affacciano sul prato in cui si svolgeva il presidio, rendendo facile una comunicazione diretta, a voce. Poi i detenuti ormai in rivolta hanno appiccato il fuoco a lenzuola e materassi, in due sezioni, gridando “Libertà”. Ora le due camerate della sezione A ed una della sezione B sono inagibili”.
Hotspot di Lampedusa – Chiusura di uno dei tre padiglioni presenti nel centro di contrada Imbricola in seguito all’incendio appiccato durante la rivolta dei migranti, il 18 maggio 2016. Il 24 agosto 2016 un nuovo incendio aveva danneggiato una cella nel padiglione dove sono reclusi i migranti minorenni.
“Una rivolta dei reclusi ha messo a fuoco materassi e arredi di un padiglione, già distrutto in passato dalle proteste dei migranti nel 2009 e 2011. Il rogo potrebbe essere stato appiccato dai tunisini dopo che si era diffusa la voce di un loro possibile rimpatrio coatto in aereo.”
CIE di Isola Capo Rizzuto-Crotone – Distrutto dal fuoco e chiuso dalla rivolta avvenuta il 10 agosto 2013 in seguito alla morte di Moustapha Anaki. Riaperto nel luglio 2015, è stato nuovamente reso inagibile dalla rivolta avvenuta il 5 marzo 2016, che ha portato alla nuova chiusura. “A Crotone è peggio di Bari, è come un campo di militari, tutti i giorni fanno perquisizioni più di 50/100 [della] polizia militare, entrano nelle stanze, [ci mettono] tutti quanti attaccati al muro […] come in guerra. Ad un marocchino che protestava hanno dato due schiaffi. La rivolta: i ragazzi hanno deciso che lì la vita è insopportabile […] è un campo di concentramento. Hanno deciso di andare via da lì talmente tremendo, ed hanno acceso il fuoco. Eravamo 27, la maggior parte sono stati liberati ieri, 7 [espulsi] nel loro paese d’origine…”
CIE di Bari – Il CIE è andato a fuoco due volte nell’arco di una settimana, il 24 e 29 febbraio 2016, e a seguito dei danneggiamenti è stato chiuso. “A Bari non funziona niente, i ragazzi alla fine si sono organizzati perché sono arrabbiati […] tutto è stato bruciato. Ci hanno spinti fuori nel corridoio dove siamo rimasti fino alle 4 della mattina. Dopo questo non hanno dato niente di quello che chiedevano i ragazzi: si sono organizzati di nuovo e hanno fatto la stessa cosa, è stato bruciato di nuovo”.
CIE di Corso Brunelleschi a Torino – Nella rivolta del 12 febbraio 2016 un incendio distrugge l’area bianca della struttura, riducendone la capienza. In precedenza il 14 novembre 2015 i reclusi del Cie di Corso Brunelleschi avevano dato vita a una rivolta che aveva distrutto gran parte del Centro. “Domenica notte infatti i reclusi lì rinchiusi hanno dato fuoco a tre delle cinque stanze che compongono l’area, lasciandola mezza bruciacchiata. I motivi della protesta sono da ricercare ancora una volta nell’insofferenza alla reclusione e nelle condizioni di vita nel Centro misere e degradanti.”
CIE di Ponte Galeria a Roma – La sezione maschile del CIE è andata completamente distrutta ed è stata chiusa dopo la rivolta dell’11 dicembre 2015. “Oggi 11 dicembre c’è stata una forte protesta nel CIE di Ponte Galeria. Un ragazzo, dopo aver ricevuto cure mediche in ospedale, rientrando al centro, è stato portato di nuovo in ospedale perché la macchina che lo trasportava ha fatto un incidente. Una volta rientrato al CIE è stato provocato da un agente della Guardia di Finanza, senza nessun motivo. Alla provocazione sono seguite percosse violente, testimoni diretti parlano di calci e pugni. Il ragazzo, che in quel momento si trovava solo, ha reagito tagliandosi le vene. Quando gli altri reclusi si sono accorti dell’accaduto, vedendo un loro compagno sanguinante a terra, hanno iniziato una protesta che ben presto si è allargata a tutta la sezione maschile. Sono stati bruciati materassi e distrutte quasi tutte le celle agibili. Le forze dell’ordine sono intervenute in massa per sedare la rivolta”.
CIE di Gradisca d’Isonzo – Chiuso in seguito ai danneggiamenti riportati dopo una serie di proteste e rivolte, che videro la morte di Abdelmajid El Kodra durante un tentativo di fuga, e il successivo incendio del 30 ottobre 2013 e la rivolta del 1° novembre.
“Nella notte del 30 ottobre tre ragazzi provano a evadere dal Cie di Gradisca ma sfortunatamente vengono notati e bloccati dagli sbirri presenti all’interno del centro che, mostrando il solito coraggio, cominciano a pestarli. Appena gli altri reclusi si rendono conto di quello che sta accadendo cominciano a urlare e a sbattere oggetti contro le recinzioni. Dopo poco le urla si trasformano in fuoco e l’incendio divampa in cinque delle otto stanze presenti nel centro. Vetri spaccati, materassi e lenzuola in fiamme e sopratutto la rabbia dei detenuti fanno desistere la polizia dall’intervenire all’interno delle aree.”
CIE di via Corelli a Milano – Una serie di rivolte e incendi, 5 in 60 giorni, portano l’11 novembre del 2013 alla completa distruzione e chiusura del CIE. La struttura è stata in seguito riaperta come “centro di accoglienza” e ora si parla di utilizzarla di nuovo come CIE.
“Al tentativo di fuga la polizia ha reagito in maniera molto violenta, provocando diversi feriti. A quel punto gli internati hanno chiesto con forza che i più gravi venissero portati in ospedale, ma la polizia ha rifiutato e ha continuato a manganellare chi protestava. È esplosa la rabbia e, settore dopo settore, stanza dopo stanza, il Cie è stato dato quasi completamente alle fiamme.”
CIE di Modena – Fortemente danneggiato da un incendio durante la rivolta del 19 luglio 2013, il CIE chiude i battenti i primi di agosto. In questo CIE, da molto tempo veniva impedito l’utilizzo dei telefoni cellulari alle persone recluse, per ostacolare la comunicazione con l’esterno. “La prima rivolta era scattata al pomeriggio per protestare contro la scarsità di igiene negli ambienti. Nel mirino i materassi, che sono stati bruciati nel cortile interno. Gravemente danneggiati due blocchi dei Cie: mobili e suppellettili fracassati, plexiglass spaccati. Nel pomeriggio riscoppia la rivolta. Gli ospiti sono 38, in 13 vanno sul tetto e iniziano a scagliare le tegole. Come fanno a salire? Grazie ai buchi che fanno nei plexiglass, gli spazi diventano gradini. Il fuoco, quello con le fiamme della rivolta collettiva, è divampato poi in tutta la sua potenza verso la mezzanotte ed proseguito sino alle 4 del mattino. Danni per 70mila euro e nove le persone arrestate. Ecco i protagonisti della nottata al Cie: una dozzina di tunisini sui tetti che tiravano le tegole contro gli agenti giù nel cortile, il cordone delle forze del’ordine, nell’ordine polizia, guardia di finanza, carabinieri, polizia municipale.”
CIE di via Mattei a Bologna – Chiuso nel febbraio 2013 dopo che diverse rivolte avevano reso inagibili alcune aree. Come nel caso di Milano, la struttura è ora adibita ad HUB/centro di accoglienza, ed è stata ipotizzata la sua trasformazione in CIE.

Il primo tentativo di suicidio dell'anno 2017 è avvenuto al Cie di Brindisi-Restinco, dove un ragazzo egiziano, in attesa ormai da 6 mesi del permesso di soggiorno, ha tentato di uccidersi legandosi un lenzuolo intorno al collo. I suoi compagni di reclusione testimoniano che avrebbe preferito essere espulso, piuttosto che rimanere prigioniero di quel lager.
La direzione del centro, che ricordiamo è gestito dalla cooperativa Auxilium, ha pensato bene di chiamare questurini e guardie di finanza per impedire il suicidio, perché è noto che con le armi spianate e la solita grazia con cui di solito intervengono le divise, si impediscono i suicidi.
A quanto pare non importano né latitudine né longitudine, chi è costretto a vivere in un centro detentivo per migranti preferisce togliersi la vita, piuttosto che rimanervi. Succede anche in Inghilterra, precisamente nel centro di Morton Hall, dove appena un mese fa, insieme al centro di Colnbrook, si erano registrati due suicidi.
L'11 gennaio un uomo di origine polacca viene trovato impiccato nella sua cella.
Le circostanze che potrebbero aver causato il suicidio sono da ricercarsi nella mancata concessione del rilascio su cauzione, dovuta all'assenza della fideiussione da parte della sua compagna. Costei non si era sottratta agli impegni presi con il suo compagno, era semplicemente incinta e prossima al parto, quindi impossibilitata a spostarsi per presenziare all'udienza in questione. A quanto pare, il dolore per non poter essere presente alla nascita del figlio ha avuto la meglio su quest'uomo che ha optato per farla finita.
Forse il giudice in questione pensava di compilare l'ennesimo rigetto di routine, forse per lui le cose sono così semplici, che basta mettere una firma, deliberare e il gioco è fatto, si può tornare a casa contenti per un'altra giornata di duro lavoro.
A quanto pare non per tutti è così, soprattutto non per chi è direttamente coinvolto. Auguriamo al signor giudice di vivere il resto della sua vita con la morte nel cuore.

Gennaio 2017, liberamente tratto da hurriya.noblogs.org



Appunti sulla valorizzazione dei richiedenti asilo
Introduzione
Le recenti sortite statistiche parlano di una popolazione nativa europea in una situazione di scompenso demografico molto grave (1). L’abbassamento della fecondità può avere sull’economia conseguenze a lungo termine molto pesanti, portando ad un lento, ma inesorabile rosicchiamento della popolazione lavorativa attiva, con ricadute disastrose sul già comatoso sistema pensionistico e sul Welfare in generale. Insomma, meno nascite significa meno soggetti attivi e, quindi, la perdita di una consistente copertura per il sostentamento dello Stato sociale, già sotto attacco sotto molti fronti. Nonostante la diminuzione numerica dei nativi europei, la popolazione complessiva è comunque aumentata grazie all’apporto migratorio (2).
Secondo alcune voci istituzionali e giornalistiche, proprio il fenomeno migratorio sarebbe una vera manna dal cielo per tutto il sistema economico europeo poiché, a causa delle caratteristiche anagrafiche e della disponibilità lavorativa della popolazione migrante, questo aspetto della stabilità economica sarebbe al sicuro. I migranti, cioè, colmerebbero una voragine aperta nel mercato del lavoro e acquieterebbero il divario tra classi d’età. In Italia, secondo i calcoli, l’attuale flusso migratorio sarebbe addirittura insufficiente. Allo scopo di mantenere l’attuale livello della popolazione in età lavorativa, infatti, considerando le proiezioni negative del tasso di fecondità, ci sarebbe bisogno di un flusso d’ingressi annui di 157mila migranti in media ogni anno.
Il ruolo che gli stranieri ricoprono nel sistema lavorativo europeo, quindi, è senza dubbio significativo. Un apporto che si esprime attraverso un contributo sostanziale al PIL (in Italia l’8%), ma che si caratterizza sopratutto per gli attributi di questa porzione di classe lavoratrice, caratterizzata da una disponibilità nel ricoprire certe mansioni, attribuibili per lo più ai settori della manodopera non qualificata, e da un alto livello di ricattabilità. Per questo motivo gli stranieri rappresentano per il capitalismo nostrano una variabile non di poco conto.
In linea generale, dunque, l’Europa avrebbe un bisogno impellente di immigrati da immettere, per di più rapidamente, nel mercato del lavoro. Questa dimensione, trattata con le dovute cautele, ci conduce a porci degli interrogativi di base e a tentare di comprendere una realtà che, in modo sempre più preponderante, sta avvolgendo la nostra quotidianità. L’opinione di alcuni, ad esempio, è che il bacino a cui il capitale europeo starebbe attingendo, allo scopo di sanare le proprie falle, sarebbe proprio quello dei richiedenti asilo e dei rifugiati che a milioni stanno varcando le frontiere della Fortezza Europa. Secondo tale prospettiva, sarebbe in atto un inverosimile processo di cooptazione dei flussi allo scopo di riciclare negli ingranaggi dell’economia la massa migrante.
Sulla base delle analisi demografiche sopracitate e in rapporto alle considerazioni sul ruolo economico della popolazione straniera, è corretto pensare che vi sia in atto da parte delle autorità europee un tentativo di arruolamento massiccio di manodopera immigrata attraverso le dinamiche di selezione e gestione della cosiddetta “crisi dei rifugiati”? E, soprattutto, il sistema di controllo e disciplinamento rappresentato dalla Seconda Accoglienza ha una valenza effettiva in linea con tali prospettive?
Rispondere a tali questioni è molto arduo, ma, con alcune dovute precisazioni, si possono perlomeno sfatare dei miti grossolani e, allo stesso tempo, scorgere degli elementi significativi nella realtà migratoria in questione.

Il sistema di messa a lavoro nel contesto italiano
Considerare la gestione dei rifugiati e dei richiedenti asilo, come essenzialmente una manovra economica dell’Ue, in particolare della Germania, è sicuramente inesatto e sostanzialmente vittima di un’analisi superficiale sul contesto migratorio. È necessario però fare delle considerazioni sugli elementi a disposizione e comprendere così quali strategie e modelli si stiano mettendo in moto intorno alla questione migratoria.
Come sappiamo bene esistono in tutta Europa dei progetti di messa a valore della popolazione migrante. Attraverso la retorica dell’integrazione, ad esempio, l’Italia ha sviluppato in questi anni un insieme di dispositivi e strumenti di sfruttamento dei soggetti “accolti” nei circuiti della Seconda Accoglienza. Una valorizzazione che, come detto in altri contesti, non si limita alla progettualità istituzionale. I richiedenti asilo dei centri Sprar, dei Cara e dei Cas producono, infatti, un valore in primis in quanto “ospiti”, mettendo in moto un business milionario per centinaia di cooperative, associazioni e ditte e, parallelamente, servono da bacino da cui attingere per l’economia “illegale” limitrofa ai Centri, com’è palese soprattutto nelle zone del sud d’Italia. Ma cosa accade per quanto riguarda l’iniziativa istituzionale?

I tirocini e le borse lavoro
Il 30 giugno del 2016 l’ex Ministro Alfano e il presidente di Confindustria Boccia hanno firmato un protocollo d’intesa senza precedenti, il quale prevede che Confindustria, per mezzo delle sue aziende associate, s’impegnerà a offrire ai richiedenti asilo dei centri Sprar un’opportunità lavorativa attraverso la promozione di tirocini formativi e borse lavoro. Ebbene, in Italia i tirocini formativi non sono una novità, ma anzi, introdotti nel 1997, hanno coinvolto migliaia di persone, soprattutto giovani, in un baratro di flessibilità e assenze di tutela. Solo da pochi anni, invece, hanno iniziato a farsi largo anche nell’ambito della seconda accoglienza. La maggior parte dei tirocini attivati nei centri Sprar nel 2015 hanno riguardato fino ad ora tre settori particolari dell’economia: il turismo-ristorazione, l’agricoltura-pesca e l’artigianato, nonché con percentuali più basse commercio, edilizia e industria. Poiché i richiedenti asilo vengono considerati “persone svantaggiate”, la durata dell’esperienza lavorativa va da un minimo di 3 mesi ad un massimo di 12, momento in cui dovrebbe subentrare obbligatoriamente un dispositivo contrattuale o cessare la mansione. Il pagamento della prestazione, mai associabile ad una retribuzione, viene chiamato indennizzo e viene garantito per 3\4 dalla Regione e per 1\4 dall’azienda, in totale assenza di contributi e coperture, salvo l’Inail e L’RC. Nel 2015 sono stati attivati tra Sprar e Cas 2.900 tirocini, tra questi, più della metà, 1.972, si sono conclusi con la stipula di un qualche tipo di contratto.

Il lavoro gratuito
Nel dicembre 2014, il Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione emise una circolare molto significativa. Il documento è un invito a prefetture ed enti locali a “favorire lo svolgimento di attività volontarie di pubblica utilità da parte degli immigrati in attesa della protezione internazionale”, il cosiddetto lavoro gratis. Gli ospiti della Seconda Accoglienza si impegnano volontariamente nei lavori più disparati, dalla manutenzione cittadina alla pulizia delle spiagge, dalla cura di strade e spazi verdi alla partecipazione ai grandi eventi, dai turni sulle ambulanze alle mansioni di assistenza, il tutto ovviamente a titolo completamente gratuito. Lo scopo dichiarato è quello di rendere utile una popolazione altrimenti inattiva e favorire così lungimiranti percorsi integrativi. Nel corso di questi tre anni, molteplici progetti di questo tipo sono stati messi in campo in numerosissime città e paesi sparsi per lo stivale; dalle grandi metropoli ai più microscopici borghi italiani, un esercito di profughi e richiedenti protezione si sono messi a lavorare volontariamente. È evidente quanto questa proclamata volontarietà assuma un volto paradossale poiché inserita in quel contesto di dipendenza psicologica, fisica e burocratica che caratterizza l’essenza di tutto il mondo della Seconda Accoglienza. Detto ciò, il fenomeno, benché molto diffuso, non è ancora di facile quantificazione.
Modelli sperimentali di controllo e sfruttamento
Davanti a questi due fatti sociali è necessaria evidentemente una piccola riflessione. Uno sguardo veloce sui dati a disposizione chiarisce almeno superficialmente la portata del fenomeno. Benché alcuni elementi manchino, il sistema di sfruttamento lavorativo messo in piedi dai progetti istituzionali e associativi, che sia esso il sistema dei tirocini o del lavoro gratis, per il momento, riguarda una porzione molto esigua di individui. È difficile pensare perciò che il fenomeno abbia un qualche peso rilevante nella gestione della popolazione totale di rifugiati e richiedenti e, ancor meno, rispetto alla massa migrante che ha attraversato frontiere marittime e terrestri. Pensare ad una macchinazione tattica su larga scala da parte dei governi europei a salvaguardia dell’equilibrio demografico e della produttività sembra quanto meno esagerato.
Tenendo alla larga le teorie complottiste, è necessario, però, comprendere la natura di tali strumenti e cercare di scorgere in essi delle formule, degli esempi applicativi, dei modelli.

L’acquario della seconda accoglienza
La popolazione dei richiedenti asilo, sulla cui categorizzazione obbligata non è il caso ora di soffermarsi, ha delle caratteristiche peculiari e specifiche rispetto alla popolazione più ampia degli stranieri presenti sul territorio. Come detto essi si trovano in un limbo caratterizzato dall’attesa estenuante della risposta delle Commissioni, una quotidianità di subordinazione totalizzante alle attività dei gestori dei Centri, una dipendenza burocratica dalle carte del ministero che ha come effetto una soggezione psicologica all’universo concentrazionario che “accoglie”.
L’elemento che più di tutti, però, caratterizza questa massa d’individui è la temporaneità.
Nel biennio 2015-2016 in Europa un numero enorme di richiedenti asilo, dopo anni di attesa, ha ricevuto una risposta di diniego alla propria domanda di protezione. Migliaia di persone si sono ritrovate a fare i conti con la propria disillusione e, soprattutto, con una nuova posizione d’irregolarità sul territorio. Anche se i dati sono differenti da paese a paese, così come anche i numeri dei richiedenti presenti, non è azzardato parlare dei luoghi della seconda Accoglienza come una fabbrica d’irregolarità. Tale concetto, già utilizzato per i Cie e per gli Hotspot, sembra essere l’essenza della gestione degli immigrati in Europa, qualsiasi categoria venga loro cucita addosso. In Italia più del 60%8 dei richiedenti è ritornato ad infoltire la massa di clandestini sul territorio; nel biennio sopracitato, un numero che si aggira intorno alle 120mila persone si è ritrovata in un determinato momento nella posizione di “irregolarizzabile”. Sarebbe sorprendente conoscere, inoltre, la cifra precisa di tali individui in tutto il decennio trascorso, capire cosa la Seconda Accoglienza abbia prodotto in tutti questi anni e quale il ruolo economico di questa manodopera illegale ad altissima ricattabilità.
I documenti vanno e vengono, possono essere ritirati e non rinnovati, la clandestinità è il fantasma che aleggia sulla testa di quasi tutti gli stranieri in Europa e non solo. La provvisorietà e l’instabilità sono caratteristiche che identificano l’esistenza di chiunque abbia un permesso di soggiorno o una qualche “protezione” temporanea. Questa condizione di sospensione si manifesta in maniera ancora più prepotente e greve proprio per i richiedenti asilo, costituendo l’atmosfera che ammanta i luoghi della seconda accoglienza.
Che rilevanza ha l’applicazione dei modelli lavorativi sopracitati su questo gruppo-campione con tali caratteristiche?
La novità nel contesto europeo, non risiede tanto nei tipi di modelli d’ottimizzazione strutturati, ma nella loro applicazione su un gruppo sociale per certi versi nuovo e sperimentabile. Un vero e proprio laboratorio, quello dei richiedenti asilo, che presenta caratteri ottimali, quali la temporaneità e la ricattabilità, su cui è più efficace e efficiente l’applicazione di modelli di valorizzazione e sfruttamento.
In Italia, è il caso del sistema dei tirocini e borse lavoro, sistema trainante la retorica integrativa dei centri Sprar, che trova a disposizione centinaia di persone malleabili, fragili a livello sindacale e perfette per le mansioni “usa e getta” proposte. Una possibile futura obbligatorietà di tali percorsi, come accade in altri contesti e come viene attualmente paventato, non può non destare in noi delle necessarie riflessioni.
Con altre modalità, ma orientato verso una stessa direzione, il fenomeno della “mansione volontaria” risulta essere ancora più significativo. Il gruppo dei richiedenti assume in tal caso il ruolo di vero e proprio banco di prova su cui applicare determinate misure, introdurle per poi estenderle a tutta la cosiddetta popolazione inattiva. Il concetto secondo cui gli inattivi debbano produrre profitto a costo zero ha già trovato modo di essere sperimentato in altri contesti europei, dove da decenni il lavoro gratuito, definito non a caso “slave labor”, partendo dalla popolazione dipendente appigliata allo Stato sociale, si è esteso ulteriormente ai richiedenti asilo. La Gran Bretagna, come già spiegato in altri contesti, ha fatto da apripista in Europa. L’Italia, a modo suo, comincia a muovere i primi passi in questa direzione; partendo cioè dai richiedenti, ma estendono il dispositivo ad una parte più ampia della popolazione. Non a caso nel febbraio del 2015 Ministero del lavoro, Anci e Forum del Terzo settore firmavano un protocollo d’intesa dedicato ai cassaintegrati e ai lavoratori in mobilità con l’obbiettivo di creare “uno scambio tra il sostegno in forma di ammortizzatore sociale e un servizio utile alla collettività, con il fine di coinvolgere i lavoratori in difficoltà in attività di volontariato”. La normalizzazione e l’estensione di tali dispositivi, prima sperimentati su un gruppo ristretto, insomma, si avvicina sempre di più.
Gli esempi da seguire certo non mancano. C’è già chi, tra i paesi europei, sta elaborando da tempo nuovi parametri di controllo e valorizzazione della popolazione migrante, modelli da cui l’Italia potrebbe prendere spunto. L’esempio della Germania, ad esempio, parla da sé ed è molto interessante da conoscere

Il modello tedesco
Lo stato tedesco ha già da tempo messo in cantiere strumenti specifici nella regolazione del binomio lavoro\rifugiati. Nella nuova legge sull’integrazione, allo scopo di favorire l’ingresso nel mercato del lavoro e la partecipazione ai corsi d’integrazione, sono state introdotte alcune misure restrittive molto significative. Partendo dall’assunto scellerato secondo cui i richiedenti “dovrebbero dare indietro quello che noi diamo loro ogni giorno”, concetto che ha avuto un grande successo in Italia, la Germania si è spinta oltre. “Fördern und fordern”, promuovere ed esigere, così come viene riassunto dai suoi stessi ideatori, è il criterio che anima la nuova normativa tedesca. Esso è il principio secondo il quale il richiedente debba obbligatoriamente partecipare ai progetti messi in piedi dal Centro che lo ospita, nello specifico i corsi di formazione, i corsi di lingua e di educazione civica, e immediatamente dopo, quindi, prendere parte ai progetti lavorativi propinati. In caso egli si rifiuti o non dimostri interesse in tali percorsi, le prestazioni sociali verrebbero man mano ridotte e quindi irrimediabilmente annullate. Le conseguenze ulteriori porterebbero fino alla perdita della possibilità dell’accoglienza stessa con gravi conseguenze sull’accettazione della propria domanda di protezione. Una vera e propria coercizione insomma. Un ricatto che, anziché latente e legato ad una sudditanza solo burocratica e psicologica, come accade in Italia, in questo caso prende le forme palesi dell’obbligo e della costrizione, pena la perdita di alcuni diritti.
Un elemento non di poco conto presente all’interno del pacchetto normativo è sicuramente l’applicazione dei cosiddetti “Ein- euro jobs”, i lavori da un euro. Allo stesso modo dei “minijob” che riguardano i cittadini che ricevono un sussidio di disoccupazione, i richiedenti asilo possono essere impiegati, senza perdere il pocket money, in lavori che vanno da 1 a 2,5 euro l’ora per un massimo di 20 ore settimanali. Le mansioni considerate sono quelle della manodopera non qualificata, ad esempio, servire in mensa, potare alberi nei parchi, spazzare i marciapiedi. Nella capitale tedesca, i 3.925 rifugiati dei 75 centri di seconda accoglienza sparsi in città sono già impiegati nei progetti, in Baviera, invece, sono quasi 9mila, un fenomeno, quindi, abbastanza diffuso pressoché in tutto il territorio.
A completamento del pacchetto normativo viene introdotto il concetto di “Duldung”, traducibile con il termine tolleranza, una vera e propria sospensione del rimpatrio per coloro che, dopo aver ricevuto il diniego per la richiesta d’asilo, dimostrano di essere attivi in un impiego. È evidente che la perdita del lavoro o il suo rifiuto spianerebbero la strada della deportazione. In questo caso il legame viscerale che s’instaura tra lavoro ed espulsione, tra produttività ed esclusione probabilmente raggiunge il suo apice.

Conclusioni
Accettati solo se produttivi, ancor meglio se portatori di una condizione di precarietà esistenziale che permette una loro amministrazione più agevole; concentrati, controllati e gestiti in Centri grandi e piccoli, i richiedenti asilo sono uno dei laboratori sperimentali su cui provare e riprovare in vitro modelli di controllo, governo e sfruttamento. Modelli vecchi e nuovi, come detto, più o meno diffusi e specifici nei singoli paesi dell’Europa. L’Italia non da meno continua a barcamenarsi tra necessità repressive e desideri di messa a valore; le recenti proposte messe sul tavolo dal nuovo Ministro Minniti parlano chiaro.
Guardare a questi fenomeni con occhio attento, mantenendosi lontani da abbagli analitici troppo teatrali o dalla retorica della “buona accoglienza”, probabilmente potrebbe portarci a comprendere la natura reale di queste strutture e della gestione della “crisi dei rifugiati”. È necessario evitare di certo l’idealizzazione di questi nuovi soggetti, ma, dall’altro lato guardare a ciò che sta accadendo nelle strade d’Italia, periferiche e non, con molta attenzione. Nuovi percorsi di lotta, intersecati intimamente a quelli presenti, ma sviluppati su piani nuovi e livelli complessi, ci si potrebbero parare davanti con grande energia e violenza. Sta a noi coglierli o far finta di nulla.

Note:
1. Il saldo naturale - la differenza cioè tra il numero dei nati e quello dei morti tra i cittadini europei - è stato nel 2016 molto negativo (-135mila unità), con situazioni specifiche anche peggiori (Italia -162mila unità).
2. Un saldo migratorio positivo (+1,9 milioni di persone) ha permesso alla popolazione europea totale di aumentare di 1,8 milioni e attestarsi nel 2016 a quota 510,1 milioni di individui.

Torino, gennaio 2017
da una Lettera di Mauro da Lucca
[…] Casa Pound di Lucca fa volontariato al fine di attirare le simpatie della povera gente, dove alla vigilia di Natale hanno distribuito panettoni e cioccolate. Avrei voluto essere lì presente quando distribuivano la merce, tanto per vedere se la distribuivano anche alle famiglie extracomunitarie.
Questi sozzoni non acquisiranno mai le simpatie della povera gente perché rimarranno sempre quelli che sono sempre stati fetenti. Un mese fa insieme ad alcuni cittadini bottegai e non si sono fatti promotori con alcuni del PD di una fermata davanti al campo Rom e contro i tendoni della Croce Rossa dove sono ospiti i rifugiati di guerra, per ribadire che quei tendoni in quella via venissero smantellati assieme al campo nomadi sul fiume. Però, quando il Prefetto cominciò a concedere novecento case popolari agli immigrati, ai Rom e ai Sinti, la notte qualcuno ha lasciato scritte sui muri razziste anche contro il Prefetto… “Andatevene a casa vostra negri”.
Sento i commenti della gente che ribadiscono: che ‘gli extracomunitari rubano il lavoro’, come se ci fosse tanta occupazione lavorativa. E’ vero che gli immigrati lavorano, ma cosa fanno? Puliscono i fossi del fiume, spazzano le strade e tutto lo fanno a fine di volontariato perché assunti dal Comune e da varie cooperative sociali. Quindi sono sfruttati, mentre Comune e cooperative che si dividono grandi bottini di milioni di euro.
Non credo che si tratti di guerra fra i poveri, c’è proprio forma di razzismo contro culture diverse e questo esiste anche all’interno, fra i poveri. Poi è chiaro, c’è anche chi ci marcia sopra perché gli conviene – e non solo ai fasci – fondo politico elettorale ecc. ecc.
Colgo l’occasione di rivendicare l’attentato a Firenze contro Casa Pound, dove come anarchico non intendo mantenere le distanze da tale atto compiuto. Do un mio mega abbraccio e un saluto a tutti/e quelli/e che mi hanno conosciuto per posta e di persona. Mauro.

2 gennaio 2017
Mauro Rossetti Busa, via Filippo Turati, 442 - 55100 S. Anna Lucca


Lettera dal carcere di Paola (cs)
Piacere, mi chiamo Bel Mokhadr Mohamed. Ho conosciuto la vostra associazione tramite un ragazzo (Moustaid Mohammed) che insieme vi abbiamo scritto prima delle feste. Vi auguriamo buone feste e felice anno nuovo.
Vi scrivo io personalmente e voglio raccontarvi dei miei problemi in questo carcere. Ci sono dei detenuti a gradazione di seria A a serie B e così via e così via. Io mi trovo in una gradazione, non so neanche qual’è.
Dal 5 giugno 2016 è stata prenotata una visita oculistica, ma solo dopo che mi sono ribellato mi hanno portato in ospedale per fare una visita sul mio campo visivo; così ho scoperto di aver perso l’occhio sinistro e solo il 26 novembre 2016 mi hanno portato da uno specialista che mi ha confermato la perdita dell’occhio sinistro. Il motivo quest’occhio dipende dallo sbaglio dell’oculista del carcere.
Gli extra-comunitari sono a terra, non vengono aiutati in nessuna maniera, né da parte dall’amministrazione né dal parroco o dagli assistenti volontari. In questo carcere non esistono le assistenti sociali ma neanche l’educatore. Insomma non c’è nessun sostegno. Se potete pubblicate questa lettera con nome cognome mio. Tanti saluti e spero di sentirvi presto.

9 gennaio 2017
Bel Mokhadr Mohamed, via Paolino Maria Quattrone, 1 - 87027 Paola (Cosenza)


Lettera dal carcere di Novara
Segue la lettera di uno dei detenuti trasferiti dal carcere di Ivrea dopo la rivolta del 24 ottobre seguita da pestaggi e appunto trasferimenti.

Ciao, anch'io spero di trovarvi in ottima forma innanzitutto scusatemi tanto se non vi ho più scritto, sono stato un pò incasinato nel senso che continuo con la mia lotta interna, purtroppo i libri e i giornalini prestampati non me li hanno voluti consegnare, allora visto ancora il loro comportamento che soltanto mi porta ad avere le mie idee più forti e compatte continuerò a combattere con tutto il mio cuore contro le ingiustizie.
Adesso nuovamente mi ritrovo nelle celle di isolamento, e purtroppo soltanto ti posso dire che siamo in pochi a continuare a lottare per i nostri diritti tutti gli altri fanno finta che non succeda nulla, un mese fa sono venuti i radicali, "la rappresentante" dei radicali ma purtroppo non cambia nulla ed io continuo a prendere anni in più per le mie ideologie.
Adesso non lo so a quale altro carcere mi porteranno ma non me ne frega nulla, perchè io continuerò e non "mi fermerò" mai affichè cambi tutto, per non dirti tante altre cose nel senso che ci tocca subire, per quanto riguarda la socialità qui non c'è la saletta perciò ci rimane che stare o uscire al cortile, ho talmente così tanti problemi che sono una bomba a mano, specialmente quando vedo delle ingiustizie, siamo sei persone in cella, potete già capire la situazione, cinque stipetti, cosa che ne mancherebbe uno, cosa che non c'è, i nostri familiari ci devono portare 1 kg di vestiti e 1 kg di mangiare, se no non può entrare, abbiamo fatto una richiesta per poter togliere questa regola così assurda ma non siamo stati ascoltati, abbiamo chiesto di poter lavare i vestiti nella lavanderia visto che non c'è un lavatoio, nè tantomeno degli stendini, anche qui ci hanno detto di "no", ormai potete capire, qui ti portano soltanto ad essere più cattivo di ciò che eri prima, anche se sarebbe giusto dire che ti fanno diventare ciò che non sei.
Bene carissimo adesso ti saluto con un fortissimo abbraccio.

Novara, 17 gennaio 2017


Lettera dal carcere di Ivrea
Vi scrivo per ringraziarvi di tutto quello che state facendo e fatto. Grazie per avermi mandato i libri e l’opuscolo.
Qui alla C.C. Ivrea è più o meno la stessa storia, pure per chi come me soffre di patologie sanitarie serie. Sto cercando di farmi trasferire in un centro clinico adeguato, ma niente da fare.
Io sono a vostra disposizione per tutti i compagni sempre. Ora vi saluto con affetto e stima, vi auguro buone feste a tutti.

19 dicembre 2016
Francesco Maccarone, c.so Vercelli, 165 - 10015 Ivrea (Torino)



sabato 18 febbraio: presidio sotto il carcere di Novara
Sono passati oltre 10 anni dalla mobilitazione contro un decreto del ministro di Giustizia di allora, Castelli, che vietava la ricezione di libri, stampe e riviste a chi rinchiuso nella sezione speciale del carcere di Biella, limitando comunque a cinque il numero di libri da poter tenere in cella. L’ampia mobilitazione di allora riuscì ad ottenere il ritiro del provvedimento.
Ora, da quasi un anno, chi è sottoposto al regime previsto dall’art. 41bis dell’ordinamento penitenziario (o.p.) non può più ricevere libri, né qualsiasi altra forma di stampa, attraverso la corrispondenza e i colloqui sia con parenti che con i propri avvocati: libri e stampa in genere possono essere acquistati soltanto tramite autorizzazione dell’amministrazione. Questa ulteriore forma di censura va ad aggiungersi alla restrizione del numero di libri che è consentito tenere in cella: solo tre.
Questo divieto è stato disposto da una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) del novembre 2011 che, in un primo momento, fu bloccato dai reclami di alcuni reclusi, accolti nelle ordinanze di diversi giudici di sorveglianza. In seguito i ricorsi opposti da almeno tre pubblici ministeri contro queste ordinanze furono confermati con una sentenza della Cassazione, il 16 ottobre 2014, che ha reso definitiva questa nuova odiosa restrizione.
Nei fatti la direzione del carcere i libri non li compera, tanto meno libri contro guerre imperialiste, sfruttamento-devastazione del territorio ad esse connesso oppure opuscoli sulle lotte per l’abitazione, la sanità o sui movimenti di lotta più diversi; anche perché quasi tutto questo materiale non è acquistabile nei circuiti del commercio di massa.
Consapevoli dell’importanza del libro, della lettura e dello studio, della socializzazione delle più diverse esperienze nella formazione della coscienza critica, individuale e collettiva, dall'agosto del 2015 ha preso avvio la campagna “pagine contro la tortura” con lo scopo di contrastare questa ennesima privazione.
Da allora ad oggi molte sono le iniziative intraprese per sensibilizzare l'opinione pubblica circa la natura essenzialmente vessatoria di un tale divieto, tanto più se applicato a reclusi in condizioni di isolamento totale e deprivazione sensoriale. Un giudizio che trova riscontro tanto nelle argomentazioni di accoglimento dei reclami da parte di alcuni Magistrati di Sorveglianza (MdS) che in quelle contenute nell' “Indagine conoscitiva sul 41 bis” redatta l'aprile scorso dalla Commissione per i diritti umani del Senato.
Siamo altresì consapevoli dei processi di generalizzazione che accompagnano i dispositivi di natura emergenziale così che la quotidianità in ogni tipo di carcere risulta sempre più influenzata da quanto sperimentato e seguito nelle sezioni a 41bis; ad esempio:
- il largo utilizzo dell’isolamento totale in “celle lisce”, prive di tutto, per lunghi periodi di tempo in base all’articolo 14bis o.p., applicato dal “consiglio di disciplina” (formato da direttore, capo delle guardie, medico, psichiatra…) contro chi si ribella, soprattutto se in maniera collettiva, che spesso si conclude con “suicidi” ormai quotidiani (si vedano a tal proposito le recentissime lettere uscite dal carcere di Ivrea, di Cuneo e di Novara dopo la mattanza realizzata dalle guardie nel carcere di Ivrea per porre fine ad una protesta);
- l’estensione del processo in videoconferenza in cui l’imputato detenuto segue il processo da solo in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione da giudici, pubblici ministeri e forze dell’ordine, quindi privato della possibilità di essere in aula con tutte le limitazioni che ciò implica sul piano della solidarietà, della visibilità del processo, della comunicazione – tra coimputati, con amici e familiari, con il “pubblico” – e della difesa legale che ne risulta fortemente compromessa (ricordiamo l’importanza della lotta portata fin dentro le aule del tribunale di Torino per ottenere la scarcerazione di diversi esponenti del movimento No Tav processati per la manifestazione del 3 luglio 2011 in Val Susa);
- l’accesso al lavoro, ai giorni di liberazione anticipata per buona condotta, ai colloqui con figli/e in “aree verdi” e simili, sono ormai ridotte a concessioni subordinate ad una “collaborazione” che rafforza l’arbitrio della direzione e la desolidarizzazione fra reclusi attraverso l’uso di logiche premiali (si vedano i “rapporti” dettati dalle prepotenze tese a sottomettere la persona reclusa, talvolta persino per via di un saluto mandato ai compagni di prigionia).
D’altra parte abbiamo compreso, specialmente dopo l’11 settembre 2001, come le politiche emergenziali siano spesso del tutto funzionali al varo di leggi e dispositivi eccezionali che, nel corso del tempo, anziché essere abrogate vanno invece a consolidarsi, diventando parte integrante della normalità e della quotidianità. Così l’esercito nelle strade insieme all’aumento delle spese militari e delle basi NATO in Italia, indica un processo di progressiva militarizzazione dei territori, un vero e proprio fronte interno della guerra imperialista che accompagna l’approfondirsi delle contraddizioni sociali e del ricorso alla guerra.
Citiamo a tal proposito l’ultima legge antiterrorismo (17 aprile 2015, n.43), varata sull’onda emotiva della strage alla sede di Charlie Hebdo a Parigi, che se da una parte crea nuove fattispecie di reato tanto generiche e arbitrarie quanto lo è il concetto di terrorismo, dall'altra, rifinanzia per decreto decine di missioni militari italiane all'estero per diverse centinaia di milioni di euro e rende possibile l’invio di militari in missioni di guerra senza l’approvazione parlamentare, possibilità immediatamente sfruttata con l’invio in Libia di un contingente italiano nel marzo scorso.
Insomma, dall’Iraq alla Libia, passando dall’Afghanistan e dalla Siria, sono anni che vediamo come in nome dell’ “antiterrorismo”, col plauso di quasi tutto l’arco parlamentare, venga approfondita tanto la proiezione bellica oltreconfine quanto la gestione militare delle contraddizioni sociali che risultano ad esempio dalle condizioni di vita nei Cie e negli Hot Spot o nelle tante campagne, cantieri e aziende dove viene sfruttata la forza-lavoro immigrata. Una tendenza senz’altro sostenuta dai mass media attraverso una lettura quantomeno banalizzata della realtà che istiga le tensioni reazionarie fino ad equiparare chi è contro l’intervento militare in Libia ad un amico dell’Isis e chi è contro il regime del 41bis ad un amico dei mafiosi.
Il carcere di oggi è parte di un “sistema penale” articolato che contrattacca anche con i fogli di via, i divieti e gli obblighi di dimora, la sorveglianza speciale, gli arresti domiciliari “stretti” o “larghi”, i processi anche in videoconferenza, chi lotta contro guerre e razzismo e riapre la strada a condizioni di lavoro e abitative, umane, dignitose. Le conquiste realizzate nelle carceri negli anni 60’-70’ del secolo scorso, e quelle ottenute sul lavoro e nella scuola, ora sono divenute premio, concesso nella misura in cui si accetta il “trattamento individualizzato”, a discapito delle rivendicazioni collettive. Così la differenziazione ha favorito il generalizzarsi nelle carceri, ma non solo, di cibo indecente, di prezzi del sopravvitto maggiorati rispetto all’esterno, di un’igiene pressoché inesistente, di tagli alla sanità tranne che per gli psicofarmaci che invece vengono distribuiti a pioggia, riducendo le persone a vegetali.
Che il carcere sia un luogo di tortura ma anche di lotta e di riscatto lo dicono i fatti. Ricordiamo i violenti pestaggi avvenuti l'ottobre scorso nel carcere di Ivrea, ordinati dalla direzione per zittire le proteste insieme all'isolamento e ai successivi trasferimenti nelle carceri di Cuneo, Vercelli e Novara. A questi fatti sono seguite diverse manifestazioni sotto il carcere di Ivrea, per portare solidarietà ai detenuti in lotta e rompere l'isolamento.
Il presidio sotto il carcere di Novara sarà quindi anche un'occasione per raccontare quanto accaduto ad Ivrea e sostenere chi da lì è stato trasferito e messo in isolamento.
Le condizioni del carcere di Novara sono le stesse misere di molti altri penitenziari, in più:
“...per quanto riguarda la socialità qui non c'è la saletta perciò ci rimane che stare o uscire al cortile; siamo sei persone in cella, potete già capire la situazione, cinque stipetti, cosa che ne mancherebbe uno, cosa che non c'è, i nostri familiari ci devono portare 1 kg di vestiti e 1 kg di mangiare, se no non può entrare, abbiamo fatto una richiesta per poter togliere questa regola così assurda ma non siamo stati ascoltati, abbiamo chiesto di poter lavare i vestiti nella lavanderia visto che non c'è un lavatoio, nè tantomeno degli stendini, anche qui ci hanno detto di "no"...” (da una lettera del 17 gennaio)
Vogliamo infine ricordare le pessime condizioni di reclusione in cui versa anche la sezione a 41bis, condizioni che nell'agosto scorso hanno portato il Garante dei detenuti delle carceri piemontesi a chiederne la chiusura.
Sabato 18 febbraio, presidio sotto il carcere di Novara: ore 14, davanti all'ingresso (via Sforzesca, 49).
gennaio 2017, campagna “pagine contro la tortura”

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Invio libri a persone in 41bis
Tra dicembre e gennaio sono state effettuate altre due spedizioni di piego di libri alle diverse sezioni 41 bis. La spedizione di dicembre, a cura del CPA di Firenze, segue la raccolta di libri che ha riscontrato a Firenze una forte sensibilità ed attenzione da parte di singoli, associazioni, librai, centri sociali, che si sono adoperati e diventati punto di riferimento per la raccolta stessa.
La spedizione del 10 di gennaio parte invece da Milano, sono stati spediti 16 pieghi di libri ad altrettanti prigionieri in 10 diverse sezioni 41bis, accompagnati da lettere spedite per conoscenza agli uffici della Magistratura di Sorveglianza e ai Garanti dei detenuti.


lettera dal 41bis del carcere de l’aquila
Cara ..., mi avrai data per dispersa… ho ricevuto ad ottobre la tua lettera e scusa se non ti ho risposto subito, ma ho sempre da fare, sicché mi ero ripromessa di mandarvi un augurio a fine anno, e lo faccio.
A giugno, come le altre volte in passato, l’ho sentita la manifestazione in corso.
Un po’ meno però, ma perché contemporaneamente ho avuto il colloquio con l’avvocato, perciò non ero in cella.
Devo dire che, negli anni, e con il divieto per legge di comunicare che, volendo, si potrebbe concretizzare non solo in divieto di “parlare” - corroborato dalla minaccia sanzionatoria - ma pure di “ascoltare”, il momento dimostrativo fuori dal carcere crea un tale scompiglio nell’amministrazione penitenziaria da rendere la quotidianità socialmente asettica, ancor più surreale del solito.
Che dire… naturalmente l’opuscolo “Donne e Resistenza” è arrivato, ma non mi è stato consegnato, data la vigenza della notoria disposizione, avverso la quale di recente ho fatto un ennesimo reclamo, in ogni caso te ne ringrazio.
E per ora è tutto, saluto e auguro un anno nuovo migliore a te e alle altre compagne.
Buon 2017.

L’Aquila, 26 dicembre 2016
Nadia Desdemona Lioce, via Amiternina, 3 - loc. Costarelle di Preturo - 67100 L’Aquila
Da una lettera dal carcere di massama (or)
Il regime carcerario 41bis è continuità del colonialismo del ‘regno di Sardegna-Piemonte’ divenuto nel 1861 ‘regno d’Italia’ fino alla Repubblica d’Italia proclamata nel 1948.
Ciao compagni, […] per comprendere la repressione permanente dal 1863 ad oggi, bisogna percorrere tutto questo periodo, allora si capirà che non si tratta di semplice delinquenza, ma della povertà determinata dal colonialismo del regno di Sardegna-Piemonte e della conseguente illegalità.
Le leggi d’emergenza successive all’ “unità d’Italia”, sono servite per tenere sotto controllo la metà del Paese, per impedirgli di svilupparsi.
Questo sistema è talmente così ben strutturato, che ormai il Sud oggi è considerato 400 anni indietro rispetto al Nord. Eppure quando è iniziata l’unità d’Italia era il Sud davanti al Nord.
Purtroppo tutti i governi, fino all’ultimo di Renzi, hanno sempre privilegiato il Nord; quel poco che mandavano al Sud serviva per foraggiare i “clienti” servi del Nord. La storia insegna che in ogni colonia, ci sono sempre gli ascari (dall’arabo ‘askar’, soldato mercenario…). Un abbraccio a voi tutte/i, con sincero affetto e stima, Pasquale.

20 gennaio 2017
Pasquale De Feo, Loc. Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)


Voghera, dal 41bis all'isolamento totale per altri 6 anni
L’ultimo Rapporto (allegato dopo) del garante nazionale denuncia una storia di tortura, segnalata dalla nostra Associazione all’ufficio del Garante, perpetrata per anni sulla pelle di C.T., detenuto siciliano di 56 anni che fino al 15 ottobre si trovava nel carcere di Voghera, in uno dei braccetti “speciali”, quelli dell’isolamento totale. E proveniva da un altro isolamento totale, quello del 41bis dove, probabilmente, avrà cominciato ad avere i primi sintomi di instabilità psichica. Poi altri 5 lunghissimi anni, dal 2011 al 2016, in cui ha vissuto in isolamento totale, affetto da gravissime patologie psichiche, in condizioni di assoluto degrado, senza assistenza sanitaria adeguata e senza incontrare anima viva al di fuori degli agenti e (forse) qualche medico, ma ne dubitiamo.
La descrizione data di quest’uomo, e delle condizioni in cui era tenuto, lasciavano immaginare un uomo delle caverne: nudo, barba lunghissima, sporco, con gravi problemi psichici e privo di contatti umani. Chi ci avvisò ci mise anche in guardia. Con la massima discrezione abbiamo contattato il garante ed anche un parlamentare perché questa storia doveva essere verificata e denunciata. Purtroppo il parlamentare volle far fare “opportune verifiche” trattandosi di una persona incriminata per mafia, come se ci fosse una legge che legittimi la tortura a seconda del titolo del reato, appellandosi alla “legalità”!
Il parlamentare non intervenne in compenso, probabilmente facendo qualche ricerca, mise la pulce nell’orecchio all’amministrazione penitenziaria permettendogli di “correre ai ripari” onde evitare che le condizioni di C.T. venissero riscontrate oggettivamente da qualche altro parlamentare o dal garante stesso. Il garante invece, per come si evince anche dalla relazione, è arrivato “tardi”, C.T. era stato trasferito, guarda caso il giorno prima, per “osservazione psichiatrica, fino a miglioramento del quadro clinico” presso il Lorusso-Cutugno di Torino.
Detenuto C.T. trasferito e cartella clinica penitenziaria magicamente cancellata dal personale di Voghera il giorno stesso del trasferimento, quasi a voler cancellare ogni traccia della sua permanenza. Inoltre, l’autorità del garante è stata completamente ignorata, quasi Voghera avesse un regolamento e delle norme a se rispetto al resto del territorio italiano.
Ma non ci meravigliamo, nei mesi scorsi abbiamo supportato i detenuti che hanno denunciato le violazioni delle norme costituzionali e dei diritti minimi dei detenuti, confermate dalla Garante Provinciale, appellandosi alle massime cariche dello Stato affinchè cessasse questo stato di cose. Ora una ulteriore conferma. Noi ci chiediamo il perché. Non è normale che l’amministrazione penitenziaria violi persino i suoi stessi regolamenti, l’isolamento per motivi disciplinari infatti è ammesso per non più di sei mesi, rinnovabile ma non all’infinito.
E allora ci chiediamo quali sono le motivazioni reali che spingono lo Stato a rischiare così tanto? Quali gli interessi? A chi o cosa questa persona può fare male? Forse che una simile situazione confermerebbe che il regime di 41bis e di isolamento è tortura che può portare anche alla pazzia? Quello che si è operato a Voghera è stato un maldestro tentativo di cancellare il “corpo del reato” perché tenere un uomo in queste condizioni è tortura e, probabilmente, non è l’unico caso in Italia. Ma in Italia se chiedi l’elemosina sei perseguibile penalmente, se invece torturi un uomo, chiunque esso sia, ti promuovono perché questo reato semplicemente non esiste, però si pratica e si pratica nelle strutture “legali” dello Stato, quelle atte a rieducare le persone che hanno sbagliato ed a risarcire le vittime!
L’unica speranza è che questa persona possa essere adeguatamente curata, magari anche con una sospensione della pena perché incompatibile col regime detentivo. Ma anche di questo ne dubitiamo perché C.T. è uno di quei detenuti cattivi e colpevoli per sempre, un ergastolano ostativo, che non può sperare in nessuna clemenza, neanche in queste condizioni e neanche dopo aver subito per anni torture che, purtroppo, non potranno essere cancellate come la sua cartella clinica.

29 dicembre 2016
Associazione Yairaiha Onlus

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Sintesi del Rapporto sulla detenzione di una singola persona privata della libertà personale (Voghera 16/10/2016 – Torino 26/10/2016)
In ottemperanza al proprio mandato di cui all’art. 7 del d.l. 23 dicembre 2013 n. 146, convertito nella legge 21 febbraio 2014 n. 10, modificato dall’art.1 c.317 della Legge 28 dicembre 2015 n. 208 e in ottemperanza altresì delle previsioni di cui agli articoli 17-23 del Protocollo Opzionale ONU alla Convenzione contro la tortura (OPCAT), ratificato dall’Italia il 3 aprile 2013, la delegazione del Garante Nazionale ha effettuato sia presso la Casa circondariale di Voghera che presso la Casa circondariale di Torino, “Lorusso e Cutugno”, visite specifiche finalizzate alla verifica delle condizioni di detenzione e salute del detenuto [...] (*) a seguito della segnalazione pervenuta all’Ufficio del Garante Nazionale.
Le visite presso gli Istituti sono state destinate specificamente alla verifica delle condizioni di vita detentiva della persona detenuta, in ordine alle quali era stato rappresentato, con specifica segnalazione all’Ufficio del Garante, il fatto che lo stesso, sofferente di una “grave patologia psichica”, conducesse la “detenzione in isolamento” protratta ininterrottamente da anni e vivesse attualmente in uno stato di degrado fisico e materiale.
All’arrivo della delegazione, presso l’Istituto di Voghera, il detenuto non era presente, in quando trasferito il giorno precedente presso la Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”. Durante la visita, con grande stupore, la delegazione ha appreso dal medico di turno che ogni traccia informatica relativa al fascicolo sanitario del signor [...] era stata cancellata nel pomeriggio precedente.
Per questo la delegazione ha deciso di richiedere alla direttrice e al responsabile sanitario dell’Istituto di Voghera, in forma scritta, di inviare con sollecitudine la documentazione necessaria per l’analisi delle complessive condizioni di detenzione del signor [...] negli ultimi anni.
La delegazione nel riscontrare una cooperazione carente da parte della Polizia penitenziaria presente e scarsissima da parte del medico di turno, ha dovuto prendere atto della mancanza di informazioni in merito all’ istituzione del Garante nazionale da parte del personale operante nella Casa circondariale di Voghera.
In ragione della grave situazione riscontrata il Garante Nazionale raccomanda alla Direzione della Casa circondariale:
1. di mettere a effettiva conoscenza di tutto il personale dell’Istituto la circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del 18.05.2016 n.3671/6121 che ha per oggetto l’informazione sull’istituzione e sui poteri del Garante Nazionale e che prescrive il necessario rapporto di collaborazione dell’Amministrazione nei confronti dell’Istituzione di garanzia.
Il Collegio ha avuto conferma del fatto che il detenuto [...] durante i periodi detentivi effettuati nei diversi istituti penitenziari è stato ristretto in isolamento ininterrottamente dal 6 aprile 2011. Indipendentemente da ogni valutazione circa le motivazioni delle singole decisioni, il Garante Nazionale deve sottolineare che il prolungato isolamento di una persona può facilmente rientrare in quella definizione di trattamento contrario al senso di umanità vietato sia dall’articolo 27 c.3 della Costituzione italiana, sia dall’articolo 3 della Convenzione europea per la tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU).
Il Garante Nazionale, al fine di una complessiva valutazione della gestione del caso nel periodo di permanenza del signor [...] presso la Casa circondariale di Voghera, onde evitare il ripetersi di situazioni simili, chiede:
2. di avere documentazione circa le informazioni sul caso fornite dalla Direzione dell’Istituto alla magistratura di sorveglianza;
3. di ricevere informazione da parte dell’Amministrazione penitenziaria centrale sul perché non si sia provveduto nel corso degli anni a una allocazione del signor [...] in ambienti più idonei al suo stato clinico: in particolare, se ciò sia stato determinato da mancanza di esauriente informazione da parte delle Autorità responsabili dell’Istituto o da valutazioni di altro tipo da parte della Direzione generale dei detenuti e del trattamento.
Successivamente, la delegazione del Garante, durante la visita effettuata presso la Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”, ha incontrato la persona detenuta [...] all’interno della sua stanza detentiva, nel reparto di Osservazione psichiatrica “Il Sestante”. Il colloquio e l’incontro con il dirigente sanitario e psichiatrico hanno reso conferma dei dati clinici emergenti dalle relazioni fornite.
Le condizioni igieniche della stanza, invece, sono apparse scadenti e scarse di corredo. Il letto è allestito esclusivamente con una coperta, senza lenzuolo, perché, come riferito dagli agenti del reparto, trattandosi di persona ad alto livello di sorveglianza viene applicata la cosiddetta “rimozione”, cioè la privazione di tutto quello che può essere usato per farsi del male. Il Garante nazionale, conseguentemente raccomanda:
4. che nel caso qui considerato e in tutti gli altri casi simili nel territorio nazionale, l’Amministrazione penitenziaria provveda a fornire gli Istituti di lenzuola, reperibili in commercio, di materiale idoneo a evitare un uso autolesivo e che nessuna persona detenuta venga tenuta, soprattutto per periodi prolungati, sistemata nella propria camera con il solo materasso e coperta;
5. chiede inoltre di ricevere copia delle disposizioni che governano la cosiddetta “rimozione”, unitamente a copia dei pareri medici acquisiti all’atto della loro definizione.
Il dirigente sanitario e psichiatra ha integrato la documentazione sanitaria già inviata al Garante illustrando il quadro complessivo della patologia manifestata dal detenuto. Ha peraltro precisato che, secondo quanto a lui risulta, il trasferimento all’Istituto torinese non è stato disposto ai sensi dell’art.112 Reg. Es. (d.p.r. 230/2000), come invece emerge dal provvedimento del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ma per osservazione “fino a miglioramento del quadro clinico”. Queste affermazioni confermano le perplessità del Garante circa l’incongruità di un provvedimento di assegnazione a una sezione di osservazione psichiatrica senza un limite temporale fissato. Il Garante nazionale chiede pertanto che:
6. l’Amministrazione penitenziaria chiarisca la connotazione legale del provvedimento adottato e chiarisca altresì l’ipotesi di percorso trattamentale all’interno del quale tale provvedimento è stato assunto.
Il Garante, considerando che l’eventuale rientro in un Istituto come quello di provenienza, dove al detenuto sarebbero presumibilmente riproposte le stesse condizioni di isolamento e di degrado con le quali è stata condotta la precedente vita detentiva, costituirebbe un’evidente violazione del diritto del detenuto a ricevere l’assistenza e la cura sanitaria di cui ha bisogno e, con ragionevole certezza, aggraverebbe ancora le già compromesse condizioni di salute mentale, oltre a ledere senz’altro i parametri essenziali della dignità della vita detentiva, raccomanda al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria:
7. previa acquisizione della valutazione conclusiva della Direzione sanitaria della Casa circondariale di Torino e atta salva l’eventuale dichiarazione di incompatibilità con la detenzione in carcere, di assegnare il signor [...] in una struttura dotata di adeguata articolazione per la salute mentale che ne consenta il trattamento e il recupero.

Il Garante

Note:

(*) Come è prassi, non vengono pubblicati i nomi delle persone private della libertà a cui il Rapporto fa riferimento. Inoltre, in questo caso, trattandosi di un Rapporto relativo alla verifica delle condizioni di un singolo detenuto, viene pubblicata una sintesi del Rapporto inviato all’Amministrazione penitenziaria, avendo alcuni elementi – soprattutto di carattere medico – inclusi nel Rapporto completo, carattere di confidenzialità.

2 Gennaio 2017, da infoaut.org


Lettera dalla r.e.m.s. di Volterra
Cari compagni/e di Olga, sono Mennucci Alberto vi scrivo per comunicarvi che sono stato trasferito da Montelupo alla REMS (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza sanitaria) di Volterra e volevo comunicarvi il nuovo indirizzo dove spedirmi il vostro materiale. Io sono arrivato da poco non mi sono ancora ambientato. La struttura è piccola, siamo in 14, non ci sono agenti di polizia penitenziaria, non ci sono i blindi alle porte, ma c’è un sacco di sbarre, inferriate alle finestre, cancelli elettronici ad apertura controllata e molte telecamere. Solo nelle stanze non ce ne sono.
C’è uno staff di psichiatri, psicologi, OSS, infermiere molto numeroso. Non si può fumare liberamente, ma c’è un piccolo spazio fumatori; non si può tenere l’accendino, il tagliaunghie, né lamette o forbici: vanno richieste sul momento. In stanza non c’è la tv, se la vuoi devi portarla da fuori; si può tenere il computer.
Il cibo è abbastanza decente sia come qualità che quantità; c’è un menù da cui ogni giorno si può scegliere.
Cari compagni/e vi ringrazio per il buon lavoro che fate, vi saluto, Alberto.
P.S. Mi potreste recapitare dei libri di Jack London? Grazie.

29 dicembre 2016
Alberto Mennucci, Borgo S. Lazzaro, 5 - Padiglione Morel, REMS - 56048 Volterra (Pisa)

La legge 81/2014, ha decretato la chiusura degli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e la conseguente entrata in funzione delle REMS (Residenze per l'Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Cambia il nome ma resta intatto l'impianto manicomiale, atto a “curare” da un lato e “custodire” dall’altro. Rispetto agli O.P.G vi sono due differenze di base: l'autorità responsabile degli istituti che eseguono la misura di sicurezza psichiatrica era il ministero di giustizia, oggi per le REMS è la sanità regionale. Cambia anche il tipo di personale: prima era prevalentemente giudiziario (con l'eccezione dell'Opg di Castiglione delle Stiviere) da oggi sarà tutto sanitario, mentre l'"attività perimetrale di sicurezza e vigilanza" è di competenza della pubblica sicurezza.


da una Lettera dal carcere di S. Michele (Al)
[...] Qui tutti sperano che dopo il grande parlare del mese scorso, finalmente chi ci governa prenda provvedimenti seri riguardo a questa macchina infernale gestita da far schifo, siamo rimasti a prima dell’Ottocento.
Qua ad Alessandria siamo in 300 detenuti e non c’è nessuno che viene assistito come la legge Gozzini prevede; l’accesso a un qualsiasi beneficio è una chimera, infatti tutti sperano in un trasferimento ad altro carcere. L’altro giorno, finalmente, mi hanno notificato il definitivo, e così mi manca 1 anno e mezzo alla fine della pena. In questi giorni farò istanza per detenzione domiciliare. Affidamento in prova, semilibertà ecc. [...]

9 gennaio 2017
Roberto Porcedda, via Casale, 50/A 15122 S.Michele (Alessandria)


lettere dal carcere di roma-rebibbia
Ciao ragazzi, con un dolore immenso, vi scrivo per farvi sapere che il nostro compagno Giampaolo Contini ora è in quel cielo azzurro, così infinito, come il spirito combattente. In questi lunghi 5 anni ha lasciato dentro ognuno di noi un vuoto grandissimo, lottava per ogni ingiustizia. Noi lo vorremmo ricordare senza clamori, questo scritto che allego è il sunto del nostro amico Giampaolo. Marco.

Siamo davanti a questo foglio bianco, riempirlo di parole per ricordarti ci sembra un’impresa ciclopica. Commossi, emozionati e turbati, non riusciamo a capacitarci che tu non sia più. Chi ti conosce sa quale vuoto hai lasciato, ma per chiunque abbia avuto la fortuna di incontrarti nel cammino della vita hai lasciato un ricordo, per alcuni eri uno zio, per altri un fratello maggiore, per altri ancora un sincero e vero amico.
Per noi compagni di studio del gruppo universitario di Rebibbia:
Resterai quel compagno (perché così piaceva definirti) portatore dell’idea che la solidarietà fosse l’unica arma per scardinare l’isolamento, l’indifferenza e la paura che i poteri infondono nelle vite di gruppi e individui.
Resterai colui che si faceva portatore di progetti di sensibilizzazione sulle tematiche anticarcerarie, un compagno che fino alla fine, ha tracciato cammini verso la costruzione di un mondo libero, e noi percorreremo sempre quel solco di produttori di libertà.
Resterai quel compagno che non giudicava e non giustificava, anzi sosteneva!
Le tue parole, il tuo essere presente in noi, non possono essere, se non la ricerca del bene. Per te il concetto di amicizia era così, era vera, e sono le amicizie come le tue che forse ci rieducheranno.
Compagno Giampaolo, i tuoi amici del Gruppo Universitario di Rebibbia ti salutano qui.
Ma terremo sempre vivo, ininterrottamente il ricordo di te, di quel ribelle legalitario che voleva piegare l’ingiustizia, quel ribelle che credeva nella legge a cui era sottoposto, ma che non ha mai sopportato di vederla disattesa e soprattutto violata da chi la proclama e da chi dovrebbe applicarla. CIAO GIAMPA’

11 gennaio 2017
Marco Costantini, via R. Majetti, 70 - 00156 Roma

***
Ciao compagni! Oggi mi è arrivato il vostro opuscolo, vi avevo scritto per gli Auguri e per darvi la ormai certezza che Giampaolo Contini ci ha lasciati, è un grande e il suo ricordo di Combattente mi accompagnerà fino a che potrò, oltre ai suoi insegnamenti.
Qui al G9 è uno schifo, vi potrei scrivere di tutto, ma penso che già si sappia, però io denuncio il fatto che l’area sanitaria è il peggio che ci sia e lo affermo personalmente, perché lo sto vivendo sulla mia pelle.
E’ dallo scorso luglio che lamento dolori maxifacciali e solamente lo scorso sabato 6 gennaio dopo aver preso la decisione che in questo giorno mettevo i puntini sulle i ho preso accendino e bomboletta di gas. Ho dovuto attirare l’attenzione e quindi sono stato visitato. Ora per alleviare i doloro mi somministrano MORFINA per 3 volte al giorno.
Qui fa pena anche la parte SANITARIA e che aggiungere che se io sono nato combattente contro questi ipocriti e lo farò sempre, anche da solo.
Un grande SALUTO compagni, Maurizio.

11 gennaio 2017
Maurizio Bianchi, via R. Majetti, 70 - 00156 Roma


BASTA MORTI IN CARCERE
Nella notte fra il 12 e il 13 dicembre, Luca incendia un distributore di benzina a Rovereto. Con i vestiti ancora impregnati di benzina e qualche ustione sul corpo, si presenta al Pronto soccorso in stato confusionale. Di certo il personale sanitario può verificare che Luca, 35 anni, è seguito (o inseguito) dalla psichiatria fin dal 2006. Al Pronto soccorso viene “bombato” di psicofarmaci e vengono chiamati i carabinieri.
Arrestato, Luca compare davanti ai giudici il 14 dicembre per il processo per direttissima, durante il quale non dice una parola. Il Pubblico Ministero De Angelis chiede la custodia cautelare in carcere. Viene chiesta la consulenza di una psichiatra, la quale dichiara che lo stato mentale dell'imputato è “compatibile con la detenzione”. Il giudice Carlo Ancona dispone la custodia in carcere rinviando l'udienza a gennaio. Luca viene trasferito nel carcere di Spini di Gardolo. Due giorni dopo, nella notte tra il 16 e il 17 dicembre, viene trovato impiccato nel reparto infermeria.
Questa la cruda cronaca, per come siamo riusciti a ricostruirla.

Se c'è qualcuno che in carcere proprio non doveva finire è Luca. La custodia cautelare, chiesta dal PM, avallata dalla psichiatra e firmata dal giudice, è stata una condanna a morte. Non si tratta di una tragedia a cui rassegnarsi. Ci sono delle responsabilità ben precise. Anche se non conoscevamo Luca, stando zitti, ci sentiremmo complici.
Il carcere è sempre più una discarica dove gettare i poveri. Una discarica dove all'occorrenza le guardie pestano, come è emerso pubblicamente nelle settimane scorse. Se Luca fosse stato figlio di un politico, di un industriale o di un notaio, non sarebbe finito in galera. Ma di un proletario, per di più “folle”, chi se ne importa?
A un mese dalla sua morte, vogliamo rompere l'indifferenza, scendere in piazza a dire con forza che non dimentichiamo.
“Non si può morire così”. Cominciamo da questo. Per riflettere collettivamente sul ruolo del carcere (e della psichiatria e della magistratura). “Non si può morire così”. Lo abbiamo detto e urlato nel 2009, quando Stefano Frapporti ci è stato strappato dai carabinieri e dal carcere. Lo abbiamo detto e urlato quando nel carcere di Spini è morto “Doc”.
Francamente, ci piacerebbe metterlo in un cassetto, quel nostro striscione, ricordo di un mondo ingiusto che non c'è più.
E invece siamo ancora qui a chiamare a raccolta chi ha un po' di coscienza, di rabbia, di sangue nelle vene: “Non si può morire così”.
Martedì 17 gennaio, dalle ore 17 alle 19: presidio in piazza Loreto a Rovereto.

amici e solidali di Stefano Frapporti
nonsipuomorirecosi@gmail.com


iniziative contro il carcere a Vicenza
Il 18 gennaio ci è giunta la notizia di un suicidio al San Pio X di Vicenza. Carlo Helt, 40 anni, accusato di omicidio, si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo alle sbarre della cella. Ciò è avvenuto in un contesto dove i tentativi di suicidio sono praticamente all’ordine del giorno: almeno quattro resi noti dalla stampa negli ultimi due mesi. Per questo e per molti altri motivi è stato indetto un presidio sotto al carcere San Pio X sabato 4 febbraio. Una settimana prima, il 28 gennaio, si svolgerà invece un’iniziativa di lancio a Campo Marzio, il parco prospicente alla stazione della città berica, teatro negli ultimi tempi di retate contro i tanti “irregolari” e spauracchio nelle locali retoriche sul degrado.

Dall’apertura del nuovo padiglione “del Papa”, la quotidianità all’interno del carcere di Vicenza non ha fatto che peggiorare. I 200 nuovi posti, inaugurati durante l’estate senza un reale adeguamento dei servizi, hanno portato all’aggravamento di una situazione già da tempo critica. Da quanto si apprende, i pestaggi e le angherie delle guardie sono all’ordine del giorno, perpetuati talvolta anche attraverso la complicità degli stessi detenuti, opportunamente prezzolati o ricattati dagli agenti. Mentre i sindacati di polizia si lamentano della qualità della mensa, sono almeno tre i casi di tentato suicidio registrati dalle cronache negli ultimi due mesi. Così come si riportano casi di proteste individuali contro ogni tentativo di pacificazione o assopimento.
A finire al San Pio X, ultimamente, sono anche i tanti “irregolari“ arrestati durante le retate che nell’ultimo anno hanno colpito Campo Marzio e i quartieri limitrofi. Vere e proprie incursioni intimidatorie dirette contro poveri, che conducono in carcere chi campa di espedienti o nell’inferno della macchina delle espulsioni chi non ha tutti i documenti a posto. Il carcere, del resto, è solo una delle facce di un dispositivo più grande, che mira alla completa gestione dei corpi e delle vite che li attraversano per sottometterli alle leggi dell’economia. Chi contrasta queste leggi, per scelta o per necessità, viene sistematicamente bandito dai luoghi dove ha scelto di stare, a ulteriore riprova che lo “spazio pubblico” è ormai realmente tale solo per le forze di polizia.
Eppure, in questo fosco quadro c’è ancora chi decide di mettere la propria vita in gioco a fronte dell’ennesimo ricatto, sia esso rappresentato dall’arroganza di un secondino o da un permesso di soggiorno. 

Esempi di ribellione  – urla di libertà che vogliamo ascoltare e non lasciare isolati.
Sabato 28 gennaio ore 15.00 - Campo Marzio (lato Viale Roma):
Presidio con concerto al fianco di chi resiste e lotta dentro le prigioni.
In solidarietà ai migranti che si ribellano. Premi e punizioni, ricatti e sfruttamento: sono parole d’ordine che regolano la vita in carcere così come nei C.I.E., negli hotspot e nei centri d’accoglienza. Luoghi di segregazione e morte – luoghi di controllo e prevaricazione dove annientare l’individuo.
Contro le misure sbirresche che vorrebbero cacciare dal centro chi vive la strada e non si conforma ai canoni della città vetrina.
Sabato 4 febbraio dalle ore 15.00 - Carcere San Pio X (lato Via Aldo Moro):
Presidio solidale con i prigionieri - Galere e C.I.E non ne vogliamo più!

gennaio 2017, tratto da questacasanoneunalbergo.noblogs.org


LETTERA DAL CARCERE DI BANCALI
Ciao, ho ricevuto il vostro pacco il 30/12 e vi sono molto grato per le cose che mi avete mandato. Leggendo l’opuscolo ci sono cose che io non ho scritto [si riferisce alla sua scorsa lettera riportata nell’opuscolo 118 nella cui trascrizione avevamo, purtroppo, commesso degli errori stravolgendo parte di quanto Jasmir ci aveva scritto. Ci tenevamo particolarmente a scusarci con il nostro amico di lunga data e a riportare correttamente il suo pensiero. Un caro saluto a Jasmir, ndr] io ho scritto che i veri detenuti son in AS2, nelle sezioni comuni sono per la maggior parte vermi, non ho scritto come me [si riferisce al fatto di non essere attualmente rinchiuso nel regime AS ma nei Comuni, ndr].
Io dal 2009 sono in sezione comuni e tante volte mi dispiace che non sono più in AS. Io non sono uno “speciale”, io sono un poco di buono ma non sono infame e lecchino e ho i miei principi e questi sono di non abusare dei deboli né fuori, né in galera.
Altra cosa: in Bosnia non ho nessuna condanna. Vi ho scritto solo che li in Bosnia c’é la pena massima di 15 anni per il mio reato che non ho commesso qui in Italia. Ho scritto che se vado li devo essere scarcerato subito perché sono da più di 15 anni in galera; scrive così il giudice del Cantone Bihac in Bosnia. Invece ho una condanna di 3 anni e 8 mesi per aver, nel 1991, preso in ostaggio 12 guardie e poi aver bruciato con altri “tutto il carcere di Lepoglava”. Anche se vi rispetto tanto non mi va che venga scritto quello che non ho detto, a me piacciono le cose chiare.
Leggendo l’opuscolo vedo che i detenuti si lamentano. Ad Ivrea è pratica e non è una novità che le guardie bastonino i detenuti coi manganelli. Anni fa vi avevo scritto che nel 2009 avevo visto in isolamento ad Ivrea che 10 guardie picchiavano 4 ragazzi arabi coi manganelli e la dottoressa faceva finta di non vedere! Anche se il pestaggio era davanti a lei! Picchiavano in tutte le carceri italiane.
Io ero a Opera nel 2004-2007 nel primo reparto, poi 9 mesi in 14bis in isolamento, ho visto tante volte in azione “gli sceriffi” ispettori delle carceri. Loro hanno contro solo i detenuti che non si lasciano diventare loro lecchini. Tutto questo sistema è una merda, ma loro, bastardi, hanno il potere in mano ed è molto difficile combattere contro di loro. Voi e pochi altri si fanno sentire, tutti gli altri sono pecore, furbi sono questi politici, dividono le persone così è più facile stare al potere! Per adesso finisco questa lettera e spero trovi tutti voi in buona salute, auguro a tutte-i più felicità nel 2017.
Un caro saluto a te e a tutti i compagne-i da questo meraviglioso “villaggio turistico”.

1 gennaio 2017
Jasmir Sabanovic, Località Bancali, Strada Provinciale 56 - 07100 Sassari


Lettera dal carcere di milano-opera
Ciao, […] la vice-comandante non sopporta più i vostri presidi e il bordello che facciamo noi quando venite qui fuori. Questo è il mio vivere, ho loro risposto, ed andrei contro i miei ideali, ho una dignità e di sicuro non piego la testa a questi porci, per tanto qualsiasi cosa vogliono fare contro la mia persona ben venga, possono imprigionare il mio corpo ma non i miei ideali.
L’ultimo loro abuso è avvenuto il giorno 23/12. E’ successo questo: i partecipanti al progetto “Bambini senza sbarre” avevamo il pranzo di Natale con i nostri figli, i familiari dovevano farsi trovare qui fuori alle 9:15 per poi entrare alle 10:15 per fare 3 ore di colloquio. Noi di “Bambini senza sbarre” abbiamo la precedenza ai controlli, essendo un colloquio speciale. Alla fine, non c’è stata questa precedenza, mettendo nella fila comune anche i nostri figli; in più ci sono stati dei casini fuori.
Morale: i nostri familiari sono entrati alle 11.40, ti rendi conto? Hanno avuto il coraggio di lasciare fuori più di 50 bambini al freddo per ben tre ore. Per essere in orario, c’è chi si è alzato alle 5 del mattino. Tutto questo per cosa? Per fare 3 ore di attesa e 2 ore di colloquio. Volevo fare casino…
La cosa più fastidiosa di quel giorno è stata che subito dopo il colloquio avevamo un incontro con il direttore e tutti i suoi referenti del “progetto Vela” per gli auguri di Natale. Il sig. Siciliano ha speso tante belle parole, peccato che è tutto fumo, è un ipocrita di merda. E’ stato triste vedere detenuti schiavi del sistema capitalista della Cayenna, pronti a chinare la testa e a dare il culo per uno straccio di lavoro o per qualche inutile comodità.
Attendo il vostro presidio del 14/01, dove oltre tutto ci saranno miei parenti.
Spero tu abbia passato delle buone feste e che l’anno nuovo sia migliore a tutti/e compagni/e, sempre a testa alta e a pugno chiuso. Ti invio un forte abbraccio con affetto e stima.

Opera, fine dicembre 2016

***
NOTE A MARGINE DEL PRESIDIO AD OPERA DEL 14 GENNAIO
Alla fine del febbraio 2016, nel carcere di Opera un centinaio di prigionieri si è trovata unita e pronta a mobilitarsi su cinque punti riuniti nella petizione “Dalla Caienna di Opera” che, in sintesi vuole:
- dare vita a “una commissione di detenuti per il controllo del vitto”;
- garantire la salute: “per un semplice Aulin o Tachipirina dobbiamo chiederne la è
prescrizione medica (prima di ammalarci)”;
- dare “il diritto anche al 1° Padiglione, come al 2°, dei colloqui estivi all’aria aperta… perché tutti i bambini e famigliari sono uguali”;
- abolire il 41bis dell’ordinamento penitenziario poichè “richiede l’impiego della forza fisica e dei mezzi di coercizione verso i detenuti”;
- mettere fine agli abusi della direzione ad esempio “di non concedere l’uso dell’ascensore ai lavoranti spesini-portavitto e costringerli (come schiavi) a trasportare centinaia di kili per le scale”.
Come collettivo ci siamo immediatamente riconosciuti nella mobilitazione iniziata dentro, dunque da far conoscere fuori per intrecciarsi ad essa, darle voce, rafforzarla.
Nel volgere dell’ultimo decennio anche il carcere di Opera ha conosciuto profondi cambiamenti avvenuti in seguito a tre condizioni.
Prima: alla chiusura del padiglione femminile, poi ristrutturato per insediarci, oltre sei anni fa, una sezione a 41bis in cui chiudere oltre cento prigionieri (una delle più grosse concentrazioni 41bis dopo quella nel carcere di L’Aquila).
Le pratiche, per prime isolamento e pestaggi, per aggredire la dignità dei prigionieri, nel tentativo di sottometterli, esercitate in questa sezione trovano seriamente posto anche nelle altre. Ne sono esempio i tre mesi di isolamento in cui nell’estate 2016 sono stati colpiti i ragazzi che hanno pensato e dato vita, intrecciandosi con i prigionieri di ogni Padiglione, alla petizione e alla successiva solidarietà verso chi veniva e viene isolato, in particolare Maurizio, colpito a metà novembre con sei mesi, rinnovabili, di isolamento 14bis (‘palindromo’ di ‘41bis’, cioè il contenuto dei due art. dell’ord. pen, non muta, è identico, come conferma la realtà).
Seconda: alla cancellazione, dieci anni fa – conseguita dalla contrarietà e dai sabotaggi architettati dalle guardie – della squadra di calcio ‘Free Opera’, che prendeva parte a tornei ufficiali, dunque che usciva ‘in trasferta’ e ospitava squadre e loro tifos* sul proprio campo interno dove, nel frattempo, è stato costruito un nuovo padiglione carcerario, in cui entro pochi mesi verranno chiuse tre-quattrocento persone che, sommate alle oltre mille presenti oggi, faranno di Opera una delle galere più asfissianti d’Europa.
Terza: alla consegna della direzione del carcere, circa sette-otto anni fa, a Giacinto Siciliano, proveniente da Sulmona dove, negli anni della sua ‘amministrazione’, morirono almeno nove prigionieri, realtà che ha fatto guadagnare al carcere di quella città la nomea di “carcere dei suicidi”. Lui guida, esaltandole ovviamente, ipocrisia, vigliaccheria, voglia di dominio-violenza delle guardie per farne un’arma nelle sue mani da scatenare contro chi si ribella, chi resta libero di decidere da sé e dunque con gli altri; lui appoggia, copre, ogni aggressione delle guardie; per Siciliano i prigionieri hanno sempre torto, devono stare sottomessi per essere presentati da lui in persona, dopo attenta selezione, addirittura come ‘studiosi’, per esempio, di “scrittura creativa”!, com’è accaduto, in un incontro organizzato su questo tema in una sala del Comune di Milano nel marzo scorso.
Le iniziative del collettivo OLGa consistono nei saluti notturni, nella difficilissima corrispondenza, nella stessa pubblicazione dell’opuscolo OLGa, nel portare i segni della protesta e contro il 41bis, con volantinaggi, esposizione di striscioni contro la “Caienna di Opera” come “41bis=Tortura”, dentro e davanti al palazzo di giustizia, davanti all’ospedale S. Paolo, dove sono operanti un reparto per prigionieri 41bis e un altro per tutti gli altri che, in breve, è responsabile delle condizioni sanitarie riservate alle persone chiuse nel carcere di Opera, dove esiste un centro clinico di circa cento posti-letto.
L’obiettivo del collettivo è chiaro quanto difficile: intrecciarsi anche con altri collettivi che si muovono nella lotta contro ogni tipo di sfruttamento, nelle mobilitazioni per l’abitare, contro la guerra, per far uscire dalla clandestinità, dai giri ristretti di ‘esperti anti-carcerari’, dai silenzi interessati dello stato e dei suoi media carcerieri, quel che avviene in ogni galera, Opera compresa; per superare l’ipnosi della ‘repressione’ in cui spesso scivola il movimento della rivolta contro l’esistente nella sua globalità.
Forse siamo, come si dice, sulla buona strada: nella mobilitazione interna nel carcere di Opera abbiamo visto crescere una realtà che non smette di farci scuola… meno male. La centralità della prigionia 41bis entro il sistema carcerario attuale, a Opera oggi è realtà cosciente a chi è dentro e ora anche a noi.
Gli intrecci fra collettivi avvengono, sono una realtà come è accaduto anche recentemente, per esempio, a Ivrea nell’immediata vicinanza espressa alla rivolta esplosa poche settimane fa nel carcere della cittadina piemontese, repressa con pestaggi e trasferimenti.
Un agire confermato e consolidato anche nel presidio del 14 gennaio sotto il carcere di Opera, nella presenza solidale sotto tutte le sezioni, a cominciare dal farsi sentire nella sezione a 41bis, dove ci siamo incontrati fra collettivi che hanno portato oltre cento persone a far sentire vicinanza, responsabilità verso chi porta avanti la protesta, anche nell’affrontare le sue conseguenze.
La direzione-Siciliano, per cercare di contrastare la comunicazione, l’unità nella pratica fra prigionieri, collettivi, individualità, attua sistematicamente la censura, il cestinaggio della corrispondenza personale, degli opuscoli… nei giorni o nelle ore immediatamente precedenti il nostro passaggio, probabilmente ha svuotato le celle dei piani superiori, da dove i prigionieri vedono e sentono bene chi si trova nei campi antistanti. Anche in questo caso è stato adottato un azzeramento della socializzazione, della comunicazione, preso di peso dalla quotidianità imposta nella sezione 41bis. Ovunque i prigionieri siano stati portati, in ogni caso ci hanno sentiti. Di certo c’è che non si è riusciti a darsi reciproche conferme… ancor più certo c’è che la negazione del vedersi accresce la certezza di ‘fare la cosa giusta’. La giornata attorno a Opera ci impegna dunque, fra l’altro, a vincere oltre alla censura, la pratica di far ‘sparire’ le persone.

Milano, gennaio 2017


Lettera dal carcere di Extremera, Madrid (Spagna)
Stimati compagni! Spero che la salute e gli animi vi mantengano in lotta con la migliore forza possibile. Ho ricevuto la vostra rivista e me l’avete inviata al CP (Centro Penitenziario) di Segovia e come ben sapete mi vogliono cambiare di CP nel giro di qualche mese, poiché a nessun direttore o membro della sicurezza piace dare spiegazioni di tanti abusi e maltrattamenti che esercitano nelle prigioni e anche perché la protesta non è ben vista da questi bastardi è più facile trasferirti di prigione.
Dico questo mentre non riesco a contenere l’allegria che sento nel sapere che mia moglie Noelia è in libertà! Pensare che hanno fatto l’impossibile (documenti falsi, assenza di comunicazione, trasferimenti ecc.), per non farci comunicare a tu per tu, ma non hanno mangiato un cazzo! Ah, ah, ah stiamo già in contatto e già gli rode che lei sia in libertà, ah, ah, ah … sik. Ora sono molto tranquillo.
Bene è tutto per il momento, vi saluto mandandovi un forte abbraccio carico di energia affinché la salute e gli animi continuino a lottare con il maggior splendore.

29 novembre 2016
Gabriel W. Pinto Maturana, CP VII-M° Aislamiento - Extremera - 28595 Madrid (Spagna)


usa, cure mediche in carcere per Mumia abu-jamal
Per la seconda volta in cinque settimane, venerdì 13 gennaio alcuni solidali si sono trovati fuori dall’ufficio del governatore della Pennsylvania, Tom Wolf. Di nuovo erano lì per pretendere che il Dipartimento di amministrazione penitenziaria statunitense (DOC) permettesse al prigioniero politico Mumia Abu-Jamal così come a molti altri di beneficiare delle cure mediche adeguate per il trattamento dell’epatite C (i due farmaci in uso sono il Sovaldi o il Harvoni, che garantiscono il 95% di efficacia della cura: questi farmaci sono negati a chi è detenuto in carcere). I solidali già avevano intasato gli uffici preposti del DOC con decine di migliaia di petizioni e richieste, affinché queste cure potessero essere estese anche a chi è imprigionato.
Nel 2015 lo stesso DOC si era espresso a sfavore dell’utilizzo in carcere di questi trattamenti, a meno che il detenuto non fosse prossimo alla morte. Mentre lo stato si prodigava per ritardare il più possibile il trattamento medico dei detenuti malati di epatite C, le persone già morivano in carcere.
La notizia del 3 gennaio è che il giudice federale Robert Mariani ha concesso il trattamento medico in questione a un prigioniero, Mumia Abu-Jamal, dichiarando la prassi lungamente applicata dal DOC come “barbarica e incostituzionale” e aprendo di fatto la possibilità a tutti gli altri 6.000 detenuti ammalati, di poter ricevere lo stesso farmaco. Il dipartimento penitenziario si è subito appellato a questa decisione, avanzando come motivazione al suo non poter procedere una questione di costi del trattamento medico in questione, che, essendo parecchio elevati, non possono di certo essere destinati ai detenuti in prigione. Da qui la decisione dei movimenti a sostegno di Mumia Abu-Jamal di ritrovarsi per una manifestazione di protesta sotto l’ufficio del governatore Wolf, per impedire che il ricorso del DOC abbia seguito.

Da una lettera di Mumia:
“Mercoledì 4 gennaio ho telefonato al mio avvocato, Bret Grote, dell’ “Abolitionist Law Center” di Pittsburg. Ho colto dalla sua voce l’entusiasmo mentre mi comunicava che noi, con il nostro esposto contro l’autorità penitenziaria della Pennsylvania avevamo ottenuto una vittoria. Il giudice del distretto, Robert Mariani, il giorno prima aveva accolto l’esposto e ordinato al personale sanitario operante nelle carceri di desistere dal loro modo di agire anticostituzionale e quindi di trattare la mia terapia dell’infezione-epatite-C con i medicamenti antivirali oggi disponibili.
Il mio pensiero è corso all’impegno costante prestato da Grote e dal suo collega Robert J. Boyle; ho pensato alle tante persone che avevano riempito l’aula del tribunale e alla forza organizzativa della sorella Pam Africa (del comitato ‘International Concerned Friends and Family of Mumia Abu-Jamal’ di Fildelfia), a Suzanne Ross (del Comitato Solidarietà a Mumia di New York), a altre/i che hanno reso possibile questa vittoria.
Ho pensato anche al dottor Joseph Harris, che nel ricorso dei miei avvocati aveva portato davanti al tribunale la sua esperienza di perito. Chi lo ascoltava in aula capiva le sue esposizioni mediche, perché formulava le concatenazioni scientifiche in modo comprensibile a tutte/i.
Mi sono venute in mente prima di tutto le migliaia di prigionieri nelle carceri della Pennsylvania, che soffrono le tremende conseguenze dell’infezione-epatite-C e che adesso possono riacquistare speranza. Ho ripensato alle numerose persone in carcere che colpite da questa infezione ne sono morte, perché era loro stato rifiutato il necessario trattamento medico. Queste persone purtroppo non sono vissute abbastanza a lungo per godere della vittoria ottenuta oggi”.

Da Pam Africa (Internazional Concerned Friends & Family of Mumia Abu-Jamal):
“I funzionari della prigione mentono. Mumia sta subendo torture per mano del Department of Corrections per via della negligenza medica. È chiaro a tutti che vogliono uccidere Mumia. Gli hanno dato i farmaci sbagliati, che hanno peggiorato la sua condizione. I detenuti all’interno che mettevano in discussione quanto stava accadendo sono stati sottoposti a ritorsioni dirette da parte del sovrintendente. I detenuti preoccupati sono stati spostati dall’unità di Mumia nel tentativo sia di seppellirlo che di nascondere queste informazioni critiche al pubblico”.

Da Keith Cook (fratello di Mumia):
“Le regole che le prigioni hanno sono del tutto arcane. Non danno alcuna informazione sui prigionieri alle loro famiglie o a chiunque altro. È come avere le mani legate perché non sai come sta il prigioniero e non hai alcun modo di parlare con lui. Mi ricordo di un mese fa, Phil Africa stava in prigione, la cosa successiva che si viene a sapere è che era in ospedale, lo hanno trasferito in un ospedale e non hanno detto alla sua famiglia dove si trovava, e tre giorni dopo era morto. È spaventoso – abbiamo bisogno di cambiare e dobbiamo discutere e le autorità carcerarie hanno bisogno di essere più umane nei confronti delle famiglie dei detenuti”.

Da Johanna Fernandez (attivista nella campagna per la liberazione di Mumia):
“Mumia lamentava di essere malato da tre mesi, da gennaio. Se avesse avuto le cure adeguate di cui aveva bisogno in origine, non si troverebbe in questa situazione. Questa crisi delinea il problema dell’assistenza sanitaria nelle carceri americane come una violazione fondamentale dei diritti umani. Personalmente sono preoccupata perché Phil Africa dell’organizzazione Move è stato ricoverato in ospedale, non molto tempo fa in buona salute e pochi giorni dopo è morto. Dobbiamo combattere per difendere la vita di Mumia, e quella di tutti i prigionieri”.

Sulla vita di Mumia:
Nato nel 1954. La sua militanza, ancora giovanissimo, ha inizio nel Black Panther Party (Partito delle Pantere Nere). Nel 1981 era presente e intervenne quando vide la polizia picchiare suo fratello per strada. Nella lotta che seguì, Mumia fu ferito gravemente all'addome; uno sbirro fu ucciso con una pallottola del suo stesso fucile. Dopo che gli fu negato il difensore di sua scelta, il fondatore dei Move (Movimento radicale nero), John Africa, Mumia si autodifese di fronte a un tribunale da cui erano stati sistematicamente esclusi i neri. Lo stesso tribunale lo condannò a morte, usando dichiarazioni fatte da Mumia quando era un black panther di 16 anni.
Per decenni è stato chiuso nella cella dei condannati a morte. Qualche anno fa la condanna è stata commutata in ergastolo. Mumia in carcere è stato ed è un instancabile attivista contro la pena di morte, pubblicando regolarmente articoli sulle riviste negli Usa. E' un avvocato carcerario per molti dei giovani uomini nel braccio della morte, che sono lì perlopiù perché al processo non hanno ricevuto un’adeguata assistenza legale. In seguito si è distinto anche come giornalista radio, noto come "la voce dei senza voce".
Fuori dal carcere, a livello internazionale, si è sviluppata una potente campagna di mobilitazione che ci ha visto partecipi e solidali, insieme a migliaia di persone. Il 30 marzo ha perso conoscenza ed è stato trasferito dal carcere di Mahanoy all’unità di terapia intensiva dello Schuylkill Medical Center. Il livello di glicemia nel sangue aveva toccato quota 779: era in shock diabetico. Il livello di sodio era 160. Da gennaio (2015), Mumia aveva ricevuto un trattamento inadeguato e dannoso per un grave caso di eczema. La crisi medica continua a mettere in pericolo la sua vita e ora gli è stato diagnosticato il diabete.

gennaio 2017, liberamente tradotto da www.workers.org


ARRESTI IN GRECIA
Nelle prime ore del 5 gennaio 2017, due membri di Lotta Rivoluzionaria, la compagna Pola Roupa, latitante, e l’anarchica Konstantina Athanasopoulou, sono state arrestate in uno dei quartieri della zona sud di Atene. La polizia anti-terrorismo ha assaltato il nascondiglio in cui si trovavano Pola e suo figlio di 6 anni, mentre Konstantina è stata arrestata in una casa vicina. Separato da sua madre con la forza, Lambros-Viktoras Maziotis Roupas — figlio dei membri di Lotta Rivoluzionaria Nikos Maziotis e Pola Roupa — viene tenuto prigioniero in un ospedale pediatrico e sorvegliato dalla polizia, senza aver diritto di vedere i parenti più stretti e nemmeno il rappresentante legale dei genitori. Solo domenica 8, il pubblico ministero minorile, la s.ra Nikolou, autorizza l'affido alla nonna e alla zia materne. Nel frattempo Pola, Konstantina e Nikos, tutti prigionieri, iniziano uno sciopero della fame e della sete.

Dichiarazione di Pola
Io sono e sarò fino alla mia morte, senza pentimento, nemica del sistema. Costoro, ora hanno messo il bambino in mezzo a questa guerra e lo utilizzano come rappresaglia per vendicarsi ancor più di me. Costoro hanno rapito il mio bambino e io non so dove si trovi da questa mattina, quando siamo stati arrestati. Noi siamo in guerra. Questo è un dato di fatto. Tuttavia il fatto di fare la guerra a mio figlio rifiutandosi di portarmelo, rifiutandosi che io lo veda e rifiutandosi di consegnarlo immediatamente alla mia famiglia e minacciando di consegnarlo ad un istituto è il fatto più miserabile di questa guerra. Coloro che appartengono ai meccanismi di stato sono immondizia, perché combattono un bambino di sei anni. E io voglio dichiarare che inizio immediatamente uno sciopero della fame e della sete allo scopo che il bambino venga consegnato a mia madre e mia sorella. Per ciò che mi riguarda, io resto loro nemico fino alla mia morte, costoro non riusciranno mai a piegarmi. Viva la rivoluzione.

Dichiarazione di Nikos
Dopo l’arresto di Pola Roupa, il giudice per l’infanzia Nikoulou ha rifiutato di assegnare la custodia del nostro figlio di 6 anni ai familiari di Pola impedendo inoltre loro di vederlo e senza portare a conoscenza del nostro avvocato in quale posto egli si trovi. Sostanzialmente, lo stato ha rapito nostro figlio, vendicandosi di noi per la scelta che abbiamo fatto, la scelta della lotta armata. Gli infami organi di stato, gli scagnozzi dei creditori di stato, del memorandum legale e costituzionale, si sono presi un bambino di 6 anni per vendicarsi di noi, perché abbiamo scelto di praticare la lotta armata, perché noi non ci siamo arresi a gettare noi stessi in prigione, perché siamo entrati in clandestinità e perché ci siamo opposti a questa appendice della Banca Centrale Europea, la Banca Nazionale di Grecia oltre che all'ufficio di rappresentanza permanente del FMI.
Le pratiche del giudice Nikolou sono simili a quelle di tempi passati, come al tempo dei “Paidoupoleis” (*) della regina Fredérika nei confronti dei figli dei partigiani durante la guerra civile. Nostro figlio è figlio di due rivoluzionari ed è molto fiero dei propri genitori. Nessun ricatto ci farà piegare. Noi difendiamo le nostre scelte attraverso la nostra stessa vita. A partire da oggi, io comincio uno sciopero della fame e della sete assieme alla mia compagna, per esigere che nostro figlio sia affidato alla sua famiglia. La rivoluzione armata dal basso è l’unica soluzione possibile.

(*) I “παιδουπόλεις της Φρειδερίκης” furono degli organismi creati dalla regina Frederika nel 1947 nei quali furono portati molti figli di partigiani, tra gli altri.

gennaio 2017, liberamente tratto da thehole.org


sulla sorveglianza speciale
Da qualche giorno sono scaduti per Toshi i dodici mesi di Sorveglianza Speciale affibbiatigli dal Tribunale di Torino, tra poco toccherà a Fabio e tra due mesi scadranno i termini anche per Paolo e Andrea. Mentre a Torino tali provvedimenti, già applicati a quattro compagni, sono in scadenza, a Roma la procura ci riprova: lunedì 30 gennaio si è svolta l’udienza per la richiesta di sorveglianza speciale per un compagno che vive e lotta a Roma. Nel prossimo numero daremo conto dell’esito dell’udienza odierna. Qui, riportiamo le parole di riflessione che il compagno di Torino ha scritto allo scadere della misura.

Una sorveglianza banale
Domani finirà l’anno di Sorveglianza Speciale comminatami il 22 gennaio 2016.
Sono un po’ spaventato, perché ci si abitua proprio a tutto. Dopo un anno strampalato, dovrò riimmaginare e rimodulare la mia vita (cosa che in effetti tutti fanno in continuazione). Ho deciso di scrivere qualcosa e pubblicarla, un po’ per me – come per tutti gli scriventi, lo scrivere è sempre, purtroppo, fatto personale – e un po’ per lasciare qualche idea, o perlomeno testimonianza, agli sventurati che andranno incontro a questa misura di prevenzione. Questo testo non sarà di certo uno scritto di analisi tecnica (a riguardo può essere d’aiuto riguardare le motivazioni delle Sorveglianze emesse a Torino nel 2016, tra cui c’è la mia) o di riflessione politica (di cui non so se ci sia bisogno) circa la Sorveglianza Speciale. Non è mio intento e non ne ho le capacità. Certo potrebbe essere considerato materiale da cui partire per tali passaggi, certo è anche che non sarò io a farli, qui ed ora.

Carte
La mia carta di identità ha il bollo sul retro con la dicitura «NON VALIDA PER L’ESPATRIO». In compenso, son stato fornito di un libretto rosso in tutto simile ad un passaporto. Temo che sia stato pensato come pseudo-documento da portare sempre appresso. Giravano voci che una sentenza della Cassazione avesse abolito tale obbligo; io di certo non l’ho mai messo in tasca. In prima pagina c’è graffettata una pagina, originariamente un A4, ridotto ad un A7 credo, in cui sono indicate le prescrizioni per il sorvegliato. Le pagine successive sono bianche, e utilizzate dall’autorità di controllo per annotare controlli a casa e spostamenti.
Prima specificità della mia Sorveglianza: ho un obbligo di rientro notturno dalle 22 alle 05. Obbligo che osservo nei giorni in cui non lavoro, in cui ho il permesso di tornare a casa alla 01 di notte. Su questo punto c’è stata una resistenza della Procura, con tanto di ispezione sul posto di lavoro per verificare la mia effettiva presenza in veste di dipendente.
Questo rientro notturno a sbalzi ha segnato particolarmente la mia esistenza, in modo buffo e squinternato. Devo dire che non mi è mai capitato di accorgermi di soprassalto che fossero le 21:57 o cose del genere, ma una o due volte mi è capitato di lasciare un conto da saldare in una vineria poco distante da casa dato che il tempo stringeva (o forse saliva il tasso alcolico).
Così, come esempio. Mi sento di dire che in qualche modo, questa prescrizione accenna un poco della Ragion del Controllo che soprassiede ed innerva molte disposizioni giudiziarie: la valutazione sospettosa e diffidente della notte, la neutralizzazione dei vizi, delle tentazioni, delle cospirazioni, delle marachelle che la notte trasuda e suggerisce.
Si noti che tutti i fatti contestati dalla Procura per l’emissione della nostra Sorveglianza sono avvenuti in un arco che va dalle 06 del mattino alle 20 della sera.
Altra caratteristica della mia Sorveglianza: non ho l’obbligo di soggiorno in un determinato comune o territorio. Ho potuto spostarmi, senza richieste in Tribunale.
Questo l’iter: comunicare all’autorità preposta ai controlli, nel mio caso la sezione Misure di Prevenzione del commissariato di polizia Dora Vanchiglia, data, durata, dettagli e destinazione dello spostamento; partire; arrivare alla mèta e comunicare al commissariato di zona la propria presenza e la propria dimora; rispettare le prescrizioni nel luogo di soggiorno temporaneo; al momento della partenza presentarsi in commissariato e dichiararsi partente; al momento dell’arrivo comunicare il proprio rientro. Un po’ macchinoso ma fattibile.
Inutile sottolineare come ai vari commissariati in cui son dovuto andare per segnalarmi come Sorvegliato Speciale, il mio caso (e io stesso) sia stato rubricato dall’agente di turno come un timbro su un foglio impilato su un mazzo di fogli. Ovvero un caso di normalissima routine. Certo, dal commissariato di pertinenza, qui a Torino, partivano, contestualmente al mio spostamento almeno cinque fax: alla Procura, alla sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Torino, alla Digos di Torino, alla Digos di Vattelapesca dove andavo, al commissariato che mi prendeva in carico.
Ultima nota di colore, ho dovuto versare una cauzione di 200 euro tramite un modulo dall’Agenzia delle Entrate. Immagino che la cifra sia stata calcolata sulla base del mio stile di vita (da ricordare come nella richiesta della Procura ci fossero approfonditi esami dei conti correnti ed introiti dei proposti). Credo sia un vincolo per il sorvegliato, un modo per non farlo scappare (!!!). Riaverli sarà complicatissimo, già lo so.

Controllo
È stato lampante da subito quanto di questa misura non importasse ad alcuno dei suoi propugnatori. Meglio, di come non importasse la sua effettività, ma la sua applicazione in sede tribunalizia. Quindi nessun agente alle calcagna (lo affermo con discreta sicurezza), nessun trappolone fetente, pochi controlli a casa, nessuno ad orari molesti, direi nessuno strumento particolare disseminato in punti strategici. Un amico disse «una sorveglianza normale», io chioserei con «una sorveglianza banale».
Senza lanciarsi in spericolate ipotesi o analisi d’accatto, io proporrei (perché ci credo, al di là del buon senso che trasudano) una rapida e tratteggiata serie di concause alla radice di questa modalità di esecuzione della misura:
- la città medio/grande; Torino, seppur stia tradendo una inquietante e morbosa cura per la repressione delle lotte, rimane una città con quasi un milione di abitanti, e relativa frazione criminale e criminogena. Questo per dire che le autorità di controllo e sicurezza hanno moli di lavoro corpose e impegnative, ben al di là degli “antagonisti”. E sono probabilmente le pressioni da parte dei procuratori, delle autorità giudiziarie, da quella strana macchina che è l’opinione pubblica, solo in minima parte e in momenti ben precisi, che costringono l’apparato poliziesco a dedicarsi con cura ai vari movimenti di lotta. In questo contesto generalissimo credo si possano inserire le quattro sorveglianze speciali erogate ai compagni torinesi. Probabilmente se avessero applicato tali misure ai compagni di Cagliari, Venezia, Rovereto, Bologna, Saronno potremmo sentire parlare di altre situazioni.
- L’organo di Pubblica Sicurezza preposto al controllo; nel mio caso è un ufficio di un commissariato di polizia. Seppur famigerato per i ruvidi metodi di contenzione della microconflittualità di strada (sovente ci abbiamo avuto a che fare per le strade di Porta Palazzo, Barriera, Aurora), non si tratta di agenti della Digos. Questo per dire che chi ci ha controllato non sono gli stessi agenti di polizia che abitualmente indagano, stilano rapporti, tracciano identificazioni, arrestano i compagni di Torino. Ovvero agenti con cui, volenti o nolenti, abbiamo un rapporto da anni. Chi ci ha controllato in questo anno di Sorveglianza sono stati agenti di polizia che si occupano esclusivamente di questo, e lo fa come qualunque dipendente statale fa il suo lavoro. Con una rassegnata, stanca ed indefessa costanza. Insomma, senza il trasporto con cui abbiamo visto, negli anni, i digossini fare il loro lavoro.
- La caratura criminale dei sorvegliati; punto che parzialmente si intreccia con quello sopra. Senza aver sotto mano le statistiche, credo che il numero di compagni, negli ultimi venti o trent’anni, sia un’infinitesima parte del totale dei sorvegliati speciali. Questo per dire che, almeno per chi di fatto prende in carico l’esecuzione della misura, noi siamo stati un’eccezione nel panorama degli abituali destinatari della Sorveglianza. Da una parte quindi il nostro essere “politici”, dall’altra essere di fatto sotto misura per una pericolosità sociale relativa e diagonale (secondo le stesse carte giudiziarie), ha fatto di noi, o perlomeno del sottoscritto, un sorvegliato blandamente controllato.

Le giornate
Tra le prescrizioni, una delle più vaghe, e per questo più insidiose perché arbitraria ed interpretabile, è stata quella di non partecipare a pubbliche riunioni. In effetti, se la gioca con l’obbligo di non frequentare pregiudicati.
Per tagliare la testa al toro, ho deciso di non partecipare ad alcuna assemblea, iniziativa e luogo fisico di ‘movimento’. Ho deciso di lasciare la trasmissione che co-conducevo su Radio Blackout, o di non frequentare lo spazio di documentazione Porfido, ad esempio. Ho evitato le manifestazioni pubbliche e le assemblee più ristrette. Ho deciso di non avere rapporti, perfino telematici e telefonici, con i – per fortuna ancora pochi – compagni di cui sapevo per certo che avessero affrontato il terzo grado di giudizio.
Mi sembra offensivo per l’intelligenza di chi legge, ma lo faccio comunque, sottolineare come ogni incontro fortuito fosse tuttavia non solo una grande gioia, ma anche un’occasione per lunghe chiacchierate.
Come si può capire, la mia sorveglianza l’ho attuata un po’ da me, magnifico esempio di come ogni schiavo addobbi le sue catene (o per ingentilire e raffinare l’immagine, come secondo un paradigma foucaultiano, sia diventato un perfetto soggetto da Panopticon, il controllore di sé stesso). Su questo punto tornerò poco sotto, secondo un altro punto di vista, ovvero l’infrazione volontaria e pubblica delle prescrizioni.
Devo dire che un anno senza assemblee di sorta mi ha di certo evitato molte rughe di espressione. Ho curato molto i miei interessi, sconfinando talvolta nella frivolezza, talaltra nella solitudine.
In prima persona, non ho partecipato alle lotte, fedelissimo alla legge aurea che chi non fa non parla (lo so, forse questa formulazione è lievemente apodittica, ma son convinto che quasi sempre non avere contezza delle situazioni rende praticamente impossibile capire lo stato delle cose, le mancanze, gli spunti utili, le analisi opportune).
Ho frequentato molti compagni, certo. Ma in certo senso ’singolarmente’, estrapolati da quel contesto che sono le occasioni di – ideazione, discussione, analisi, attuazione della – lotta. Ogni discussione è quindi diventata giocoforza una tessera del prisma caleidoscopico attraverso cui ho percepito le lotte, la repressione, i progetti, le ipotesi di lavoro, i rapporti tra compagni. Questa posizione mi ha fatto sentire a volte un fratino confessore, a volte il grande saggio sulla montagna, a volte il coglione perfetto.

I dubbi
Non si tema che abusi dello spazio scrittorio per sfoghi tardoadolescenziali. Tuttavia mi sento di dover palesare qualche domanda che mi è sorta in virtù di questa misura repressiva, non certo per aspettare risposte, ma per esporre l’ordine dei problemi che eventualmente possono sorgere in tale condizione.
Da subito ho deciso di rispettare tutte le prescrizioni, senza fare pasticci.
La misura comminatami non prevede l’arresto per le sue infrazioni (come invece la Sorveglianza con obbligo di soggiorno), ma eventualmente dei processi penali indipendenti da essa. Non c’è alcun collegamento diretto tra la violazione delle prescrizioni e riapplicazione della Sorveglianza. Tuttavia, senza calcolare la vaghezza giurisprudenziale attorno a tali misure, gli effetti “psicologici” sul sottoscritto sono stati un po’ questi. Nel senso che ho provato a vivere in modo da evitare assolutamente la prospettiva di vivere un anno di sorveglianza, e poi un altro, e poi altri due e poi altri quattro e poi e poi e poi…
Ci tengo a sottolineare invece, orizzonte ben più fosco, che la Sorveglianza Speciale può essere riproposta ogniqualvolta che l’autorità competente ne avverta il bisogno (e si interrompe in caso di carcerazione, salvo poi ricominciare da dove era stata interrotta).
Questo significa che, al di là dell’osservanza o delle infrazioni, per ragioni che possiamo solo ipotizzare un procuratore possa inoltrare ulteriori proposte di Sorveglianza. L’efficacia della prima misura di prevenzione, ulteriori attività criminogene (che nel mio caso sarebbero le stesse che “compio” da anni a questa parte), cattive frequentazioni (che per me sono i miei compagni e amici), o chissà cos’altro. Insomma, davvero una pena infinita.
Un altro passaggio di cui vorrei tentare una rapida analisi. Per me e per chi legge.
La stagione delle infrazioni pubbliche delle misure cautelari, proposta elaborata e messa in atto, credo per la prima volta, dai compagni torinesi in occasione di una pioggia di divieti di dimora comminati nel maggio 2016. Proposta che poi ha avuto eco anche in altri contesti di lotta, raccolta e attuata da altri compagni.
E io? Cosa avrei dovuto fare? Che contributo alla lotta sarebbe potuto essere la mia violazione? Che cosa sarebbe significato per me un simile slancio di volontà?
Ho rimuginato, ho avuto modo di parlarne con vari amici, fratelli e compagni, ma infine me ne son stato nel mio esilio dorato. Principalmente per i motivi già esposti, ovvero il timore di andare incontro a conseguenze di cui poi non avrei saputo accettare il peso. E così è stato anche in occasione delle misure cautelari più recenti, le cui violazioni han portato dei compagni in carcere. Non ho timore di dire che non ho infranto la mia Sorveglianza per paura, per calcolo. Calcolo, sia chiaro, che non è mai stato un asse, e vorrei sia sempre così, dei miei comportamenti.
Per lasciare un pensiero interrotto, su cui ovviamente dovrò tornare a lungo e a fondo, mi spaventa molto di più la vita diminuita della Sorveglianza Speciale che quella reclusa del carcere. O perlomeno, le mie brevi esperienze detentive son state più stimolanti e intense dell’anno da sorvegliato che mi appresto a chiudere. Non mi permetto di avventurarmi in valutazioni, macabre e irriguardose, su cosa sia “meglio”, e ci mancherebbe solo. Come ho scritto, non è mio interesse una pubblica lamentazione. Più fruttuoso spero sia la condivisione di tali dubbi.
Cosa sarà la mia vita dopo la Sorveglianza Speciale? Chiaramente non molto diversa da quella attuale per le sue grandi linee. Ma dovrò mettere in conto che il curriculum giudiziario (affatto faticosamente) affastellato possa diventare parecchio ingombrante nelle occasioni di lotta, soprattutto quelle pubbliche.
Cosa fare? Le ultime file? La sempre comoda poltrona da pensatore? Il minareto da arringafolle? O viceversa, per assecondare anche le radici genetiche, l’entusiasmo del kamikaze? Non so bene, temo che non ci siano linee guida precise o peggio ancora, giuste attorno al da farsi nella condizione di ex sorvegliato speciale.
Qui ho voluto solo raccontare a grandi linee cosa mi è successo in quest’anno. E sono disposto a ragionarne con chiunque sia interessato o semplicemente curioso.
Di certo, magrissima consolazione, le assemblee le potrò tornare a frequentare. Con buona pace delle rughe. Toshiyuki Hosokawa o meglio, Toshi

Torino, Gennaio 2017, da autistici.org/macerie


DALLA LOTTA IN VAL SUSA
Stamane il tribunale del riesame ha annullato totalemente l’ordinanza cautelare disposta dal gip dietro richiesta di Padalino a danno di 5 No Tav il 20 dicembre scorso.
Nell’operazione in questione, 23 No Tav erano stati denunciati, con solerti annotazioni dei carabinieri di Susa, per le iniziative di contrasto alle trivelle dei carotaggi di Terna avvenuti tra il dicembre del 2015 e il febbraio del 2016.
Iniziative per noi legittime, contro il progetto del mega elettrodotto che avrebbe dovuto attraversare la Valle verso Piossasco dalla Francia proposto ben prima del progetto dell’Alta Velocità e che in valle ha sempre trovato la popolazione contrapporsi.
Il Riesame dunque, per mano del giudice Capello (lo stesso che aveva già assolto i No Tav per terrorismo in corte d’Assisi), ha liberato completamente i 5 che erano ancora sottoposti a misure cautelari (tra cui Nicoletta), quali divieti di dimora e obbligo di firme quotidiane. Gip e il pm Padalino totalmente sconfessati, a dimostrazione di un accanimento giudiziario che da tempo denunciamo e di un comportamento ridicolo che la procura continua a mettere in scena.
Nel festeggiare la liberazione di Nicoletta, Paolo, Luciano, Andrea e Giorgio, ricordiamo i compagni in carcere alle Vallette. Oggi alle 18 sotto al Carcere delle Vallette per Luca, Donato e Stefano. Libertà per tutti i No Tav!

gennaio 2017, tratto da notav.info

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Liberi tutti, liberi subito! Presidio al carcere delle Vallette
Il 5 gennaio 2017 attorno al carcere delle Vallette oltre cento persone si sono ritrovate per portare la propria solidarietà a Donato e Stefano, in arresto dal 3 gennaio per aver partecipato ad un presidio contro uno sfratto avvenuto il 14 ottobre a Torino.
Tra i tanti interventi anche quello di Nicoletta, attivista no tav, che ha sottolineato la vicinanza della lotta popolare NoTav a quella contro gli sfratti in difesa del diritto all'abitare; ha portato i suoi saluti e quelli di tutto il movimento anche a Luca, compagno No Tav portato in carcere il 31 dicembre con l'accusa di aver infranto gli arresti domiciliari. Un saluto è stato inviato anche a Tepepa, prigioniero all'età di 80 anni.
Assieme ai saluti, ai messaggi di sostegno delle proteste sono stati lanciati anche fuochi d'artificio. La polizia era schierata lungo la palizzata di ferro che attornia la cinta muraria del carcere.
Ancora volta si è dimostrato quanto la lotta unisca e quanto i percorsi si intersechino per costruire la resistenza comune contro palazzinari, procura, questura ecc.
Con la certezza che il sostegno e la solidarietà sono arrivati a Donato, Stefano, Luca, Tepepa e a tutte le persone che in carcere si ribellano agli abusi e alle prepotenze e che manifestazioni come questa rafforzano anche la lotta fuori. Tutt* Liber*, Liber* Subito

gennaio 2017, liberamente tratto da infoaut.org

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sull’assemblea generale in Val Susa (S. Didero, 8 gennaio 2017)
Si è svolta, nel fluire di centinaia di persone, per oltre tre ore, un’assemblea popolare in Val Susa, per fare il punto sui vari nodi nel vivo della lotta. I temi affrontati negli interventi (circa una quarantina) sono stati: il lento ma marcato distacco della popolazione della valle dalla lotta contro il progetto TAV; il ricambio generazionale è parziale; i rapporti con altre lotte contro la devastazione ambientale (per esempio con chi si mobilita contro la costruzione del Terzo Valico fra Genova e la Svizzera) non si sono confermati in mobilitazioni effettive.
Il richiamo a confrontarsi e a scendere in strada è stato chiaro e sentito: non dobbiamo rassegnarci, bisogna far si che la gente si preoccupi in modo da non scivolare nell’accettazione “ormai non si può fare niente, non resta che asfaltare, stendere i binari”… non c’è stata la necessaria attenzione per le pene pecuniarie e gli espropri delle proprietà dei No TAV condannati.
In diversi interventi sono state avanzate proposte di lotta per ridare fiducia, spinta e coraggio alla mobilitazione nell’intera valle, tenendo conto della recente e definitiva decisione dello Stato italiano (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica, CIPE, febbraio 2016) insieme all’UE, di realizzare il TAV.
E’ stato spiegato che, in conclusione, la società ‘Torino Lyon Train’, in breve TELT, dispone già di 2.500 mln di euro e che in ogni caso il CIPE non dà il ‘via libera’ sull’intero progetto TAV ma su determinati lotti: per esempio sul tratto Chiomonte-Susa per il quali il denaro c’è e/o comunque dovrà sbucare da nuove tasse e imposte (ad. es. gli aumenti su diversi servizi postali decisi pochi giorni fa); anche questo tratto deve correre dentro un tunnel, a Susa dovrà essere costruita una nuova stazione (internazionale) che richiede, fra le altre, lo spostamento dell’autoporto a S. Didero, già deciso, per costruire infine nel tratto da Chiomonte a Susa, Bussoleno, S. Didero, Rivalta, Torino.
Per posare i binari e costruire le stazioni TAV sono perciò stati disposti gli espropri di terreni, adibiti a deporre lo smarino (nome dato ai detriti risultanti dallo scavo per realizzare il tunnel). Sindache, sindaci, persone inserite nelle amministrazioni comunali della valle e di Rivalta, hanno chiarito che contro le “acquisizioni fondiarie”, in fondo, non si riesce a fare niente; si possono rallentare, magari modificare, alla fine vengono eseguite con la forza. Così come già accade per lo smaltimento dello smarino risultante dallo scavo del tunnel “geognostico” da Chiomonte (in direzione di Francia-Venaus, lungo 7 km, realizzato negli ultimi 4 anni e ormai giunto a conclusione), che è stato deposto sulle sponde del fondo valle Clarea, annullando completamente con gradoni di detriti le sue sponde naturali compresi i vigneti capaci da secoli di contribuire a dare vita alla popolazione.
I cantieri per realizzare il tratto Susa-Bussoleno-S.Didero (circa 15-20 km) dovranno essere aperti a cominciare da quest’anno. Il tratto successivo fino a Rivalta-Torino non richiede tunnel ma certamente espropri e scavi per deporre la linea TAV. Il finanziamento disposto dall’UE sicuramente non è sufficiente a soddisfare i costi e i latrocini previsti da TELT&Co., dunque lo Stato lo dovrà irrobustire.
Il movimento No Tav è stanco, bisogna riprendere la comunicazione porta-porta per verificare le basi legali della TELT, per la salvaguardia del denaro pubblico in funzione della casa, della salute… e così essere capaci di costruire un ampio consenso nazionale contro le opere inutili, devastanti per l’ambiente.
Bisogna riscoprire l’uso razionale delle risorse in funzione del trasporto pubblico, della scuola. La gente in valle ha paura… cominciamo a fare assemblee in tutti i Comuni (della valle) a cominciare dalla comunicazione su questa assemblea, per essere capaci di rallentare l’opera fino al punto di interromperla, di vederla abbandonata.
Il movimento No Tav deve generalizzare il contrasto tra il governo e la popolazione, per esempio preparando manifestazioni con le popolazioni colpite dal terremoto, sottolineando il disimpegno sostanziale del governo verso le loro condizioni di vita.
Qualsiasi azione che rallenta i lavori TAV è la benvenuta. Ci stanno rubando il futuro. Bisogna riprendere a scrivere sui muri, a stendere bandiere.
I Consigli Comunali della valle assieme ai medici possono aprire una campagna per mettere al bando i CS così come altri veleni.
Siamo sotto attacco, allarghiamo il confronto e approfondiamo le discussioni anche con le persone che negli ultimi anni si sono allontanate, ad esempio, diversi comitati si sono sciolti. L’ambizione è poter ripetere quello che è accaduto a Venaus l’8 dicembre 2005, o nel giugno-luglio 2011 alla Maddalena: rivitalizzare i comitati, abbandonare i compartimenti stagni, diversificare le iniziative, definire le priorità.
Cosa ci manca? Il coinvolgimento soprattutto dei giovani che ci accolgono come fossimo dio in terra. Ci manca la coordinazione per contrastare il cantiere e la militarizzazione del territorio. Riprendiamo il monitoraggio del cantiere, al momento in smantallamento e probabilmente di prossima chiusura.
I comitati di valle non sono interni alla vita dei paesi, mentre invece bisogna portare nei paesi assemblee che discutano per non marginalizzare le persone, così come le critiche, e non perdere così il principio “o ci salviamo tutti insieme o perdiamo tutti insieme”.
Il movimento No Tav è diventato una macchina, ne dobbiamo essere coscienti. Questo significa che dobbiamo accrescere la sensibilizzazione, la reciprocità, aprirci nella comunicazione e così intervenire più rapidamente con maggiore intelligenza e continuità.

Milano, gennaio 2017
Stasera la questura di Modena ha arrestato Aldo Milani
Nel tardo pomeriggio di oggi, 26 gennaio 2016, il nostro coordinatore nazionale Aldo Milani è stato prelevato dalla Polizia, arrestato e tradotto nel carcere di Modena e a tuttora il suo difensore non è stato messo in grado di contattarlo.
E' evidente che ci troviamo di fronte a un escalation repressiva senza precedenti: lo stato dei padroni, non essendo riuscito a fermare con i licenziamenti, le minacce, le centinaia di denunce, i fogli di via, le manganellate e i lacrimogeni una lotta che in questi anni ha scoperchiato la fogna dello sfruttamento nella logistica e il fitto sistema di collusioni e complicità tra padroni, istituzioni e sistema delle cooperative, ora cerca di fermare chi ha osato disturbare il manovratore.
Dopo le leggi liberticide sul lavoro, dopo la riduzione dei salari alla miseria, quanto i lavoratori hanno conquistato fin qui con le loro lacrime e il loro sangue viene messo nel mirino della repressione immediata che cerca di colpire chiunque osi ribellarsi e, soprattutto, osi praticare un’azione politica che vada nella prospettiva della liberazione dalla schiavitù del salario.
Il disegno repressivo vuole distogliere l'attenzione dalle situazioni di sfruttamento in cui versa il mondo del lavoro e la logistica in particolare: contro questa barbarie si è alzato un movimento di lotta che non ha eguale negli ultimi anni, per durezza delle forme di lotta e per i risultati raggiunti.
La sostanza è semplice: con l'arresto di Aldo Milani si vuol mettere definitivamente fuorilegge la libertà di sciopero!
Se il nemico di classe si illude di sbarazzarsi del SI Cobas decapitando il gruppo dirigente, si sbaglia di grosso!
A quest'attacco politico frontale risponderemo da subito con l'unica arma che gli operai hanno a disposizione: l'autorganizzazione e la lotta.
Proclamiamo quindi fin da ora la mobilitazione in tutti i luoghi di lavoro, e chiamiamo le reti di simpatizzanti e solidali a mobilitarsi nelle iniziative che nelle prossime ore saranno indette dal SI Cobas contro la repressione e per la liberazione immediata di Aldo.
Seguiranno altre comunicazioni non appena avremo aggiornamenti.

26 gennaio 2016, SI Cobas nazionale


Dopo due giorni di picchetti in un po’ in tutta Italia e presidi sotto il carcere di Modena, Aldo è stato scarcerato evidenziando il fallimento di questa goffa montatura repressiva.