indice n.119

I rapporti, oggi, fra Unione Europea e NATO
Non si arresta la vendita delle bombe della RWM Domusnovas
La Turchia ha venduto Aleppo per avere in cambio al-Bab
La fortezza Europa si estende all’Africa
Fuga dall’Egitto, passaggio obbligato degli esodi dall’Africa
AGGIORNAMENTI SULLA LOTTA CONTRO LA MACCHINA DELLE ESPULSIONI
aggiornamenti dal carcere di opera (mi)
lettera dal carcere di monza
Nel carcere di Spini si pesta, nel carcere di Spini si muore!
Volo diretto dal carcere di Venezia per rappresaglia
lettera dal carcere di belluno e resoconto del presidio
Restrizioni a Rebibbia dopo la riuscita evasione
DI NUOVO IN CARCERE
dalla “questione meridionale” al 41bis
VAL SUSA: resistenza e repressione
TORINO: LA LOTTA PAGA
Genova: Comunicato sullo sgombero di Pellicceria Occupata
Firenze, 3 gennaio: Ancora un attentato al Rovo
Cremona: altra tappa dei processi contro l’antifascismo
CONTINUA LA LOTTA DEGLI OPERAI DELL'INNSE


I rapporti, oggi, fra Unione Europea e NATO
Sullo sfondo la Guerra NATO contro l’IS
Pur se lentamente, la NATO sta spingendosi nella guerra contro lo “stato islamico” (IS). Il suo inizio, giugno 2014, scatta quando gli USA decidono di schierare 270 soldati in Irak per garantire la sicurezza del personale USA in quel paese; ad agosto dello stesso anno viene dato il via libera agli attacchi contro le postazioni dell'Isis (in seguito quella guerra prenderà corpo anche anche in Siria).
Solo nei mesi successivi gli USA riusciranno a dare un nome con “Operazion Inherent Resolve”, cioè “Operazione Soluzione Delicata” alle loro penetrazioni che si prolungheranno fin dentro la Siria.
Nei primi mesi gli stati europei membri della NATO si sono tenuti fuori. Nel mondo arabo la popolarità dell’alleanza militare occidentale poggia ed è rimasta circoscritta, fino ad ora, all’appello degli stati arabi che prendono parte alla guerra contro l’IS, vale a dire Giordania, Tunisia, Egitto. Per esempio: la NATO ha addestrato in Giordania centinaia di ufficiali iracheni, sostiene la Tunisia nell’adottare “misure per la stabilizzazione”, cioè mettere il catenaccio all’IS. Il tutto avviene tenendo lontano il disturbo dei media.
Il segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, in un recente vertice dell’organizzazione ha detto che “La collaborazione fra la NATO e l’UE è più stretta che mai. Nel mar Egeo l’alleanza sostiene l’UE con il suo intervento che respinge i profughi… nel Mediterraneo la NATO coopera all’operazione “Sea Guardian” (Guardiani del mare) e all’operazione ‘Sophia’ (*).
Dei 22 stati membri della NATO, 21, la maggioranza è parte dell’UE, che da tempo persegue il progetto ambizioso di intensificare la collaborazione militare all’interno dell’UE. Nel mese scorso i ministri della difesa di Francia e Germania hanno presentato un documento che definisce passi concreti da compiere in quel senso. Per esempio: coordinare l’armamento dei paesi membri, in modo da avere più denaro a disposizione al fine di rafforzare le capacità militari dell’UE. Questo segnale certamente ha un impatto sull’adesione alla NATO. Ha subito aperte contestazioni, in particolare, il punto in cui il documento franco-tedesco accenna alla “costruzione di strutture parallele alla NATO, cioè, di un comando logistico dell’UE fino ad arrivare alla realizzazione di un vero e proprio Quartier Generale dell’UE. Tutto ciò deve concludersi in un’aperta ‘Autonomia strategica europea”.
L’attuale segretario dell’alleanza condivide questi passaggi, poiché, secondo lui “un’Europa forte rende ancor più forte la NATO”. Lui in una dichiarazione comune conclusa con i presidenti della Commissione e del Consiglio dell’UE, diffusa dopo il vertice NATO in luglio a Varsavia, sostiene: “Noi crediamo che sia giunto il tempo di dare nuovo slancio e nuova sostanza al collegamento (partecipazione) della NATO con l’UE.” Da quel momento l’alleanza ha avviato una cooperazione pratica: in appena due settimane sono state inviate nel Mediterraneo navi militari e navi veloci per il sostegno logistico all’operazione ‘Sophia’. Agli incontri per realizzare questa ‘operazione’ hanno preso parte Svezia e Finlandia che non sono paesi membri della NATO.
E l’UE? È ancora protetta dalla NATO.
Commenta la Fondazione Scienza e Politica di Berlino: “Il significato degli Stati Uniti per la sicurezza dell’Europa, non può essere sottostimato. Nessun paese europeo può ripagare il contributo militare che gli USA prestano al potenziale intimidatorio della NATO. Berlino ha ancora bisogno dell’alleanza atlantica per far fronte a conflitti e guerre tramati in tanti casi.
Sul lungo periodo certamente ci saranno sviluppi. Non per niente la cancelliera Angela Merkel ha annunciato di voler elevare il versamento annuo al Consiglio militare tedesco a 60 mld di euro, pari al 2% del PIL (prodotto interno lordo) della Germania.
Germania e Europa nei loro progetti per il futuro non dovrebbero abbandonare gli USA. In Germania dobbiamo tanto più riflettere sulla forma da dare al futuro ordine mondiale.”

Gli stati NATO in Afghanistan
Un bombardamento aereo NATO nel nord, provincia di Kundus, ha causato la morte di oltre 30 persone, fra le quali mamme con loro figlie-figli. L’ONU ha ufficialmente preso le distanze, ha definito l’attacco “inaccettabile”, perché “sotterra gli sforzi per la costruzione della pace e della stabilità in Afghanistan”. I funerali si sono svolti in un clima furente.
Nei giorni immediatamente successivi a Masar-i-Sharif esplode una battaglia vera e propria fra talebani e unità della NATO, in cui i combattenti afghani riescono a sistemare e far esplodere un camion carico di esplosivo accanto alle mura che circondano il consolato tedesco. L’irruzione del camion e l’esplosione scatenano una battaglia fra soldati NATO che proteggevano il consolato e talebani. Il giorno dopo i soldati tedeschi che pattugliano il consolato uccidono due persone in moto che non si sarebbero fermate all’alt.
Il 13 novembre un talebano ricoperto di esplosivo riesce ad avvicinarsi e a realizzare l’esplosione nei pressi della mensa della base militare di Bagram (la più grossa insediata dagli USA in Afghanistan). L’azione causa, oltre alla morte dell’attentatore, il ferimento di 17 soldati USA.

(*) L'operazione Sophia, ufficialmente denominata European Union Naval Force Mediterranean, è un'operazione militare lanciata dall'Unione europea in conseguenza dei naufragi avvenuti nell'aprile 2015 che hanno coinvolto diverse imbarcazioni che trasportavano migranti e richiedenti asilo dalla Libia. Lo scopo dell'operazione è di neutralizzare le consolidate rotte della tratta dei migranti nel Mediterraneo. La sede operativa è situata a Roma.

ottobre-novembre 2016, da jungewelt.de


Non si arresta la vendita delle bombe della RWM Domusnovas
La nave Bahri Tabur dopo aver sostato a Port Said in Egitto è in questo momento diretta con il suo carico di morte nel porto di Jeddah in Arabia Saudita dove dovrebbe arrivare il 16 dicembre alle ore 09.00. Ricordo che la Bahri Tabur è quella nave che alcuni giorni fa ha fatto il carico di bombe prodotte dalla RWM di Domusnovas (300 container) dal porto canale di Cagliari. Come previsto quindi questa produzione made in Sardegna come anche in altre occasioni, sarà linfa vitale per l’Arabia Saudita per bombardare città, civili inermi, donne e bambini. Contro la fabbrica di Domusnovas abbiamo fatto svariate iniziative e sono certo che non ci fermeremo. Stiamo parlando di una multinazionale tedesca i cui utili, sono passati dai 2,5 del 2014 ai 4,1 milioni di euro nel 2015.
Il principale utilizzatore dei prodotti della Rwm continua ad essere l’Arabia Saudita, che utilizza le bombe della serie Mk confezionate in Sardegna nella guerra dello Yemen.
Sono consapevole che il capitalismo non è riformabile, credo che se ne possono limitare gli effetti nefasti; allora sono da incrementare tutte quelle tematiche in grado di complicare l'espansione capitalistica. Alla necessaria denuncia delle produzioni di morte ed inquinanti deve seguire una proposta concreta in grado di unire i lavoratori e popolazioni locali (cosa difficile) o impossibile in questo contesto storico, evitando di spostarli sempre di più dalla parte dei padroni. Tutto questo non risolve i problemi, ma ci consente di partire da un terreno più favorevole alla lotta contro le produzioni nocive e di morte, i capitalisti hanno prodotto armi per la guerra e distrutto l'ambiente, i capitalisti dovranno ripagare tutto. Nel contempo in questo contesto noi come movimento possiamo e dobbiamo incrementare l’informazione e la controinformazione e le azioni dirette di disturbo alla industria bellica, come la fabbrica di Domusnovas.

***
Nella mattina del 24 dicembre 2016 si sono svolte 2 azioni antimilitariste a Domusnovas e Teulada. A Domusnovas l’iniziativa è stata fatta per ricordare il carico di 3.000 bombe partito alcuni giorni fa dal porto canale di Cagliari, tutto con la copertura e la complicità dello stato italiano, i bombardamenti produrranno e hanno prodotto migliaia i morti civili e i bambini devastati dalle bombe prodotte dai tedeschi in Sardegna.
Ricordiamo che la RWM secondo i dati forniti dall’Istat, infatti, tra giugno e settembre del 2016 l’interscambio commerciale tra la provincia di Cagliari e Riyadh per la categoria merceologica “Armi e munizioni” ha raggiunto i 20,6 milioni di euro.
L’azione si svolta con uno striscione appeso in bella vista nel ponte che dopo 10 minuti è stato stracciato crediamo dagli operai del comune di Domusnovas, mandati sicuramente da qualcuno a cui non frega niente dei bambini yemeniti. Abbiamo continuato con volantinaggi e scritte varie nel paese. Per ultimo abbiamo fatto anche una capatina davanti alla fabbrica di morte.
A Teulada abbiamo appeso qualche cartello e fatto una bella passeggiata lungo e dentro il perimetro della base. Ne è valsa la pena con il bellissimo sole che c’era.
Il tutto è correlato da un pò di foto scattate qua e la.
NESSUNA PACE PER CHI VIVE DI GUERRA
ANTIMILITARISTE E ANTIMILITARISTI

dicembre 2016, da ilminatorerosso.blogspot.it


La Turchia ha venduto Aleppo per avere in cambio al-Bab
Segue un’intervista con il componente del Consiglio Esecutivo della KCK (Unione delle Comunità del Kurdistan) Murat Karayılan, da Firat news agency.

Attualmente in Medio Oriente sono in corso importanti e rapidi sviluppi. Ad Aleppo gruppi come il Fronte Al-Nusra e parti dell’Esercito Libero Siriano hanno perso la battaglia decisiva contro il regime siriano e la Russia. Gli sconfitti di questo scontro quindi sono stati i gruppi che venivano sostenuti dalla Turchia. Dopo questo esito ad Aleppo alcune aree già parlano di nuovi rapporti di forza in Siria e nell’intera regione. Ci può dare il suo punto di vista su questi sviluppi?
È giusto, possiamo parlare di una nuova fase della guerra in Medio Oriente. Ogni attore in questa guerra sta facendo nuovi calcoli per poter fare una nuova valutazione sullo svolgimento degli scontri e poter rivalutare in questo contesto la propria posizione. Uno dei fattori più importanti in questi calcoli è la domanda su come sarà la politica del futuro Presidente USA Donald Trump in Siria e in Medio Oriente. Si specula molto e tutte le parti si preparano a possibili evenienze che possono toccare la loro posizione e i loro interessi.

Il secondo punto importante in questa nuova fase è la domanda su quale politica seguiranno il regime siriano e la Russia dopo l’esito vittorioso della battaglia per Aleppo. Naturalmente qui conta anche il ruolo dell’Iraq. Quindi anche il ruolo di questi attori nel futuro svolgimento della guerra è oggetto di calcoli. [...] Il regime può ottenere una soluzione attraverso il dialogo?
In effetti il regime e gli attori che agiscono insieme ad esso, Russia, Iran e gli Hezbollah libanesi hanno una buona occasione. [...] La base di una soluzione del genere dovrebbe essere una Siria democratica nella quale tutti i popoli si sentono sicuri e possono amministrarsi e rappresentarsi politicamente in modo autonomo. Penso che ci sia una prospettiva di successo. Ma se il regime decide l’altra strada e agisce secondo il motto “io con Aleppo ho vinto, posso vincere anche da qualsiasi altra parte”, allora il conflitto e gli scontri diventeranno ancora più profondi.

Vorrei sapere da Lei quale ruolo ha svolto la Turchia nella battaglia per Aleppo?
A questo proposito devo dire in primo luogo che la politica della Turchia sulla Siria era a terra già prima della battaglia di Aleppo. E ora ad Aleppo non sono stati battuti solo il Fronte Al-Nusra e l’ESL (Esercito Libero Siriano), ma allo stesso tempo anche l’AKP e Erdoğan. La ragione principale per questo fiasco della politica della Turchia sulla Siria sta nel fatto che è indirizzata completamente su una linea anti-curda.
All’inizio aveva ancora l’obiettivo di far cadere Assad in Siria e di impedire possibili conquiste dei curdi in una nuova Siria. Ora ha rinunciato al primo obiettivo e si concentra unicamente sulla politica anti-curda in Siria. Solo per questa ragione ha appoggiato gruppi come il Fronte Al-Nusra e rafforzato anche la sua base ad Aleppo. L’obiettivo era di impedire il rafforzamento del Rojava con l’aiuto di questi gruppi. Poi la Turchia ha concretizzato ulteriormente i suoi obiettivi e si è messa d’accordo con la Russia sul fatto che i cantoni di Afrin e Kobanê non vengono collegati tra loro. La Turchia quindi ha venduto Aleppo e in cambio di questo ha preteso al-Bab. In seguito a questi i gruppi ad Aleppo, che in precedenza venivano ancora definiti dalla Turchia come suoi “fratelli”, sono stati abbandonati e allora ad Aleppo non hanno avuto più possibilità di resistere all’attacco.

E la Turchia in cambio ha ottenuto la consegna di al-Bab? Nei media turchi viene già celebrata un’atmosfera come se la città fosse già stata conquistata...
No. La Turchia non è ancora riuscita a prendere al-Bab. Al-Bab è un argomento a sé. Come hai già detto, da quattro mesi nei media turchi si parla della marcia vittoriosa da Jerablus fino ad al-Bab. Il territorio da Jerablus fino a Dabiq è stato conquistato dall’offensiva turca senza alcuno scontro. Ma appena c’è stata resistenza da parte di IS, come è successo alle porte di al-Bab, l’operazione si è arenata. Questo chiarisce che l’esercito turco e i suoi alleati non hanno veramente successo. Perché nonostante tutti i vantaggi dal punto di vista tecnico-militare, non riescono a penetrare nella città. Le notizie nei media turchi quindi ingannano sulla realtà sul campo di battaglia.
Quindi la propria popolazione viene ingannata. Anche le perdite nelle proprie file vengono nascoste. Di volta in volta si parla di singoli soldati turchi che hanno perso la vita, ma le perdite effettive dell’esercito turco in terra siriana sono senza dubbio chiaramente più elevate.

“Responsabile per lo spargimento di sangue è il governo dell’AKP”. Nelle scorse settimane si sono verificati due attentati contro le forze di sicurezza turche. Dopo in tutta la Turchia ci sono state campagne di linciaggio contro la popolazione curda. Come vanno valutati questi ultimi sviluppi in Turchia?
Siamo sempre stati contrari a questa escalation. I popoli in Turchia dovrebbero sapere che il PKK non è stato mai a favore della guerra. E non lo è neanche ora. Ma se la controparte nega a un popolo tutti i diritti che gli spettano per natura e cerca di cancellarlo con la violenza, allora naturalmente il PKK si opporrà. L’obiettivo del PKK è di stabilire giustizia e democrazia nel Medio Oriente e di sostenere i diritti del popolo in Kurdistan che dovrebbero essergli riconosciuti in modo naturale.
Guardiamo un attimo indietro alla dichiarazione che è stata annunciata il 28 febbraio 2015 nel palazzo di Dolmabahçe come risultato intermedio del processo di pace. Il nostro presidente vi aveva invitato il PKK a convocare un congresso straordinario per discutere di deporre le armi. Se Erdoğan non avesse rifiutato questa dichiarazione e non avesse di colpo dichiarati conclusi i negoziati di pace, ci saremmo ritrovati in aprile per parlare della deposizione delle armi. Questo avrebbe aperto una fase completamente nuova, nella quale le armi avrebbero taciuto.
Sostenere quindi che il PKK è responsabile per il divampare della violenza non ha nulla a che vedere con la verità. La realtà è invece che Erdoğan ha sognato di rafforzare la sua posizione di potere e di costituire un sistema a un solo uomo in Turchia. E per la realizzazione di questo obiettivo si è deciso per la guerra contro i curdi. Quindi non ha deciso per la pace, ma per la guerra.
Che si tratti dell’attentato a Istanbul- Beşiktaş, o ora dell’attacco al comando militare a Kayseri che non è stato ancora rivendicato [N.d.T. il 20.12.2016 è stata resa nota la rivendicazione dei TAK], per lo spargimento di sangue è responsabile unicamente l’AKP. Questo vale anche per gli scontri e per le perdite da entrambe le parti che si sono verificati già in precedenza. Per questo sono responsabili coloro i quali per il loro potere sono pronti a far scorrere sangue. E proprio questa è la mentalità dell’AKP.

L’obiettivo degli ultimi attacchi sono state le forze di sicurezza. Lo sostengono anche gli enti governativi. Vuole dire qualcosa in proposito?
Nei Paesi normali democratici la politica e l’esercito sono responsabili per la sicurezza di un Paese. Ma in Turchia queste forze sono specializzate nell’attaccare oppositori e la propria popolazione, perfino ad assassinarla. Così a Istanbul il 15enne Berkin Elvan o Ethem Sarısülük sono stati effettivamente giustiziati dalla polizia. Anche la giovane donna Dilek Doğan è stata giustiziata dalla polizia nella sua abitazione. La polizia in Turchia picchia veramente la gente con i manganelli, la attacca con granate di gas, usa violenza contro l’intera società, e appunto uccide anche. Queste forse per questo non sono più forze di sicurezza, ma una forza di guerra. In questo senso quindi vanno anche gli attacchi contro le forze di polizia vanno letti come parte della guerra in corso.
Sull’attacco al comando militare di Kayseri va detto anche che queste unità sono responsabili per molti massacri in Kurdistan. Questo lo dicono i media stessi. Si tratta quindi delle stesse truppe che in Kurdistan sono responsabili per la distruzione delle città, l’incendio di villaggi e l’esecuzione extragiudiziale di innumerevoli persone. Nelle scorse settimane nei social media è apparso un video che mostra l’esecuzione di due giovani guerrigliere. Anche di questo fatto sono responsabili le unità del comando militare di Kayseri.
A chi ora a livello internazionale condanna questo attacco a questa unità militare a Kayseri, voglio chiedere se ha condannato anche le scelleratezze di questa unità in Kurdistan? Perché hanno taciuto sulle atrocità di questa unità?
Se allora ci confrontiamo con la situazione attuale, dobbiamo avere chiaro che al momento in Kurdistan c’è una guerra. E chi nonostante questo vuole parlare di terrorismo, dovrebbe prima guardare al terrorismo di Stato in Kurdistan che ha portato alla morte di migliaia di persone e alla distruzione di innumerevoli città. Per fare un confronto: in questi giorni gli sguardi dell’opinione pubblica sono rivolti al dramma ad Aleppo. Ma ad Aleppo per fortuna non abbiamo assistito al fatto che persone ferite che cercavano rifugio nelle case sono state ricoperte di benzina e bruciate vive. Ma proprio questo è quello che ha fatto lo Stato turco a Cizre con le persone. La realtà è questa.
Chiarisco ancora una volta, non siamo stati noi la parte che ha voluto che si arrivasse a tanto. Le persone che vogliono ragionare sulla situazione attuale, per questo devono chiedersi seriamente perché siamo arrivati al punto dove ci troviamo ora? Perché è stato chiuso il processo di pace? Queste domande necessitano di una risposta.

Si specula regolarmente su legami della sua organizzazione con il Falchi per la Libertà del Kurdistan (TAK). Alcuni sostengono che lei stesso sostiene componenti a azioni dei TAK. È vero?
Su un attivista della sinistra turca che molti anni fa ha commesso un attentato suicida ho detto che ha perso la vita in modo dignitoso per la sua lotta. E naturalmente tributeremo rispetto anche a questi giovani. Noi abbiamo le nostre critiche nei confronti della loro organizzazione e le esprimiamo anche. Critichiamo un gran numero delle azioni di questa organizzazione che si definisce TAK. Alcune azioni in passato le abbiamo anche condannate apertamente. Ma non possiamo neanche condannare ogni loro azione. Così le loro ultime azioni in parte sono da considerare nell’ambito delle leggi di guerra. Non condanneremo azioni che rientrano nell’ambito della legge di guerra internazionale. Quello che però troviamo critico e sbagliato, sono azioni che trascurano questa legge di guerra e nelle quali subiscono danni dei civili. Questo è successo per esempio nell’esplosione a Istanbul. E questo è triste. Esprimiamo a nostro nome le nostre condoglianze ai parenti dei civili deceduti. Cose del genere non devono succedere. I TAK non dovrebbero ricorrere ad azioni nelle quali esiste la possibilità che possano subire danni dei civili. Se si sentono legati alla lotta di liberazione, dovrebbero tenere a questo in modo particolare.
Si deve prendere in considerazione anche l’atteggiamento della controparte. I rappresentanti dello Stato turco agiscono da guerrafondai. Dichiarazioni come, “d’ora in avanti non mostreremo più alcuna pietà; bruceremo le loro vite; li cancelleremo”, ormai si sentono tutti i giorni dalla bocca di un rappresentante dello Stato turco. Se vengono uccisi giovani curdi, dalle loro file si sentono applausi e grida di gioia. E perfino questo a Erdoğan non basta, per cui ultimamente ha fatto appello alla “Mobilitazione Nazionale”. In effetti con questa dichiarazione ha fatto appello alla “Mobilitazione Nazionale di Agenti”, cosa che significa che ciascuno deve denunciare ogni “elemento sospetto” allo Stato. Questo significa che il suo intero apparato di polizia, le sue forze militari, gli arresti quotidiani, non gli bastano. Fa appello anche alla popolazione perché si attivi. Queste sono pratiche che solitamente conosciamo dal fascismo. In un’atmosfera dove è possibile che chiunque faccia la spia contro tutti gli altri, come può svolgersi una vita normale? Come possono vivere le persone in condizioni del genere?
E naturalmente i curdi sono in prima linea gli obiettivi di questa “Mobilitazione“. Dichiarazioni come “noi li annienteremo”, sono rivolte contro la società curda. Solo nei primi due giorni dopo la “Mobilitazione Nazionale” numerosi uffici dell’HDP sono stati attaccati da teppa fascista. Questo è il risultato delle dichiarazioni di Erdoğan. Implicitamente invita questi gruppi ad azioni del genere. Qual è l’obiettivo di tutto questo? Vogliono costringere in ginocchio la popolazione curda. La polizia si tiene fuori da questi attacchi. Immaginiamo che ad Amed o a Batman una grande folla di persone attaccasse gli uffici dell’AKP. La polizia non individuerebbe in pochissimo tempo l’identità degli assalitori? Non esaminerebbe le riprese delle registrazioni video e non arresterebbe i responsabili? Lo farebbero certamente. E perché non fanno lo stesso negli attacchi contro gli uffici dell’HDP? Perché loro stessi ne sono responsabili e aizzano la gente a farli. Per questo non fanno niente.

Da mesi in base allo stato di emergenza viene mantenuto un terrorismo latente contro la popolazione curda. In questo contesto sono state arrestate migliaia di persone. Tra loro ci sono anche sindaci e parlamentari. Come valuta questa situazione?
Ho già detto che cercano di mettere in ginocchio la popolazione curda. Per questo in base allo stato di emergenza cercano di marginalizzare il nostro movimento. Per questo, se gli riesce, prolungheranno ancora lo stato di emergenza. Anche gli attacchi contro HDP e DBP vanno intesi come parte di questo piano. Perché la popolazione trae forza dai loro parlamentari e sindaci. Si vuole togliere questa forza alla popolazione per costringere l’intera società alla capitolazione. E infatti non sono stati colpiti solo i partiti. Complessivamente 190 associazioni curde sono state chiuse. La maggior parte di queste associazioni si occupavano piuttosto di obiettivi apolitici come lavoro culturale o formativo o la lotta alla povertà. Ma l’obiettivo di questi attacchi è di vietare tutto ciò che è minimamente in contatto con la popolazione curda. Perseguono questa politica in modo assolutamente perfido. In uno o due posti arrestano i sindaci, li mettono in carcere e poi mettono la città in amministrazione forzata. Penso che continueranno fino a quando in questo modo avranno preso tutte le amministrazioni locali.
Altrimenti come si può spiegare l’arresto di un uomo anziano che porta un pace-maker come Ahmet Türk? Ahmet Türk è una persona che non parla di altro che di pace. E quando in carcere deve andare ai controlli medici, ora gli impongono le manette. Come si può spiegare un comportamento del genere, se non con il fatto che lo Stato turco vuole mettere completamente in ginocchio la popolazione curda. Un’altra spiegazione per questo non può esserci. E con i curdi vengono attaccati e ridotti al silenzio anche la sinistra, i democratici, perfino alcuni kemalisti, che criticano l’entità di questa violenza. Quindi il loro obiettivo non è solo di vincere la popolazione curda, ma di distruggere insieme ai curdi anche l’intera opposizione.

dicembre 2016, da uikionlus.com
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L’intera città di Aleppo nelle mani dell’esercito siriano
L’accordo raggiunto intorno al 15 dicembre fra Russia, Turchia e Iran ha aperto la strada - come contropartita al ritiro (in Turchia) dei combattenti dell’IS (e non solo) da Aleppo-est - al ricovero in ospedale di migliaia di persone ammalate e ferite dai quartieri occupati di Aleppo come anche dai villaggi di Kefraja e Al-Fua (provincia di Idlib, occupata da Al-Nusra nella primavera 2014). Le persone evacuate sono almeno 35.000, delle quali ferite gravi 435; bambin* denutrit* sono più di 1.200.
Questa la premessa che quest’anno, per la terza volta in Siria, un cessate-il-fuoco ha concesso a migliaia di persone di prendere fiato.
Nella notte di venerdì 30 dicembre è entrata in vigore una tregua concordata fra Russia, Iran e Turchia. Poco prima l’esercito siriano aveva ufficialmente confermato la propria adesione. Sono rimaste escluse la Nusra-Front, l’ISIS inserite dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nella lista delle “organizzazioni terroriste” come pure i gruppi che cooperano con queste ultime.
Secondo una lista pubblica compilata dal ministero della difesa russo i gruppi armati islamici accordati fra loro, che “ufficialmente legittimano gli attacchi”, sono sette. Questa precisazione è condivisa anche dalle Forze di Difesa Popolari kurde (YPG) e dal battaglione delle donne (YPJ), entrambi kurdi.
In totale tra combattenti, almeno 60.000, dei diversi gruppi, l’esercito siriano e rispettivi alleati hanno aderito alla tregua d’armi. Turchia e Russia garantiscono la riuscita. L’accordo è far trascorrere un mese di tregua, per dare quindi inizio ai negoziati fra le parti ostili. Nello stesso tempo è stata confermata la ripresa dei negoziati di Ginevra, fissata per l’8 febbraio prossimo. Un calendario composto insomma in modo da impedire la ripresa dei combattimenti.
I negoziati, tanto al Consiglio di Sicurezza dell’ONU che a Ginevra poggiano su tre documenti: il primo, è stato sottoscritto dal governo siriano, dai gruppi di opposizione siriani e riguarda la condizione delle ostilità sul territorio siriano; il secondo, fissa i punti della tregua, il terzo, è una dichiarazione sul come deve venir risolta la situazione in Siria.

dicembre 2016, da jungewelt.de


La fortezza Europa si estende all’Africa
La Germania assume un ruolo chiave nel respingimento sempre più intenso dell’emigrazione verso l’Europa con la costruzione di posti di guardia direttamente in Africa.
Già dal 2012 la “Società Tedesca per la Collaborazione Internazionale” ha fatto proprio l’impegno dell’Ufficio Esteri di realizzare il “Programma della polizia in Africa”, che prevede, fra l’altro, la costruzione di impianti visivi ecc. lungo i confini, l’armamento e l’addestramento della polizia confinaria.
Il governo, nella risposta in parlamento a reclami della sinistra, ha precisato che quel “programma” si è già concretizzato in Mauritania, Niger, Nigeria e Ciad nella costruzione di 13 posti di guardia lungo i confini e nella fornitura a ciascun paese di auto, laboratori per il controllo dei passaporti, delle impronte digitali. Il “programma”, che doveva concludersi nel 2015, è stato prolungato di ulteriori 3 anni.
In sostanza, il “programma” è soltanto un pilastro di una strategia più ampia dell’UE diretta a fare dell’Africa un corpo di guardia a sostegno della fortezza Europa. Per questo gli stati africani vengono spinti a cooperare nel respingimento di profughi e migranti. La collaborazione è stata resa appetitosa da pacchetti di offerte, facilitazioni segrete ai diplomatici con promesse di denaro agli stati che accettano di “cooperare”.
Inoltre, nei paesi africani l’UE ha avviato altri numerosi progetti, finalizzati a respingere l’emigrazione, la fuga. Per esempio, finanzia la costruzione del campo di internamento in Niger, l’erezione sul confine di recinzioni invalicabili in Mauritania e l’addestramento-armamento delle forze di sicurezza in Etiopia – un paese in cui l’opposizione viene perseguita, uccisa.
La “Società Tedesca per la Collaborazione Internazionale” si fa forte del fondo fiduciario per l’Africa, 1,9 mld di euro, stanziato dall’UE, impegnata a sottolineare che quel denaro serve innanzitutto a mettere fine alle cause della fuga dai paesi africani.
Questa affermazione non è sostenibile perché non è proprio credibile di poter risolvere i problemi dei paesi africani con quella cifra; inoltre da uno sguardo aperto sui progetti finanziati dal fondo fiduciario dell’UE, risulta che il 48% dei mezzi sono spesi per il respingimento e il rimpatrio forzati, e per impedire la formazione dei movimenti per l’emigrazione. A sostegno della spesa a favore dell’emigrazione, va solo il 4% del fondo.
Il senso della strategia perseguita dall’UE e dal governo federale in Germania è di proseguire in Africa l’estensione della fortezza Europa.
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Algeria: Polizia a caccia di migranti. Lo chiede l’Europa
La situazione dell’Algeria illustra bene le condizioni di vita nei paesi africani, sia di transito che di origine dei migranti, le tante lotte che avvengono in questi paesi, la repressione che colpisce chi alza la testa e la complicità dell’Unione Europea sia nel sostenere i governanti locali nelle politiche contro la popolazione sia i loro provvedimenti in funzione anti-migratoria.
Nel paese vivono da 100.000 a 150.000 immigrati, provenienti soprattutto da Nigeria, Niger, Mali, Camerun, Guinea e Liberia. La maggior parte di queste persone si fermano in Algeria per recuperare le forze dopo la prima tappa del loro viaggio dall’Africa sub sahariana e per guadagnare, lavorando anche anni, il denaro necessario al tentativo di passare in Europa attraverso il Marocco o la Libia.
I/le migranti sub-sahariani lavorano soprattutto in cantieri edili pubblici o privati, in ristoranti, caffè, come ambulanti sulle strade. Gli stessi che costruiscono intere zone residenziali nelle grandi città, come la capitale Algeri, sono costretti a vivere in edifici diroccati o a pagare prezzi superiori a quelli di mercato per una sistemazione in piccoli alloggi o garage. Racconta un migrante: “Ad Algeri ci sono cantieri ovunque. Viviamo dentro i cantieri abbandonati, lavoriamo in quelli aperti: la nostra vita si riassume così. Facciamo tutto quello che le persone di qui non vogliono fare.
Per legge, chiunque entri illegalmente in Algeria rischia due mesi di carcere, una multa e la deportazione. Tuttavia dal 2012, anno in cui è cominciata una guerra civile e scontri armati nel sud del paese, pur continuando gli arresti, le detenzioni e i decreti di espulsione, si era assistito ad un forte decremento delle effettive deportazioni: i migranti irregolari erano infatti “tollerati” per soddisfare il fabbisogno di manodopera a nero e ricattabile.
Infatti, dal 2014, solo i nigeriani sono stati arrestati e deportati (secondo i dati ufficiali, 17.000 persone) come parte di un accordo tra Niamey e Algeri.
Le cose sono cominciate a cambiare nel 2016. Nell’ambito del quadro di partenariato con i paesi terzi, adottato nel giugno di quest’anno, l’Algeria è stato identificata come uno dei 16 paesi “prioritari”, con cui la Commissione europea vuole stipulare accordi. In cambio di vari “incentivi”, come gli aiuti allo sviluppo e al commercio, l’UE chiede cooperazione per prevenire i flussi di migranti che raggiungono le coste europee e nell’accettare i rimpatri dei migranti dall’Europa. I paesi che si rifiutano di firmare rischiano quello che la Commissione UE definisce “incentivi negativi”.
Con gli accordi noti come Processo di Khartoum, siglato il 28 novembre 2015 a Roma e con il precedente Processo di Rabat del 2006, l’Unione Europea sta cercando di bloccare la rotta migratoria attraverso il Maghreb.

Nel mese di agosto, più di 400 maliani sono stati rimpatriati in Mali dopo le violenze avvenute nella città di Tamanrasset, e a settembre il ministro degli Interni ha annunciato l’espulsione di 1.492 senegalesi e 370 guineani.
A partire da giovedi 1 ° dicembre 2016 quasi 1.500 migranti sono stati arrestati, per decisione del Governatore di Algeri, in diversi quartieri della capitale, molti dei quali nel quartiere Bouchebouk nel sobborgo di Dely Ibrahim. La polizia ha effettuato rastrellamenti nelle strade, nei posti di lavoro, negli edifici abitati dagli immigrati.
I bus della polizia hanno condotto le persone arrestate nel centro di detenzione di Zeralda (a 35 km ad ovest di Algeri). La maggior parte delle testimonianze su quanto sta succedendo arrivano grazie al gruppo “Stop ai massacri a Beni”, in contatto telefonico con alcune delle persone deportate. Il gruppo ha denunciato, pubblicando una foto, che almeno una persona è morta a Zeralda in seguito al lancio di gas lacrimogeni da parte della polizia. La mattina di venerdi 2 dicembre la caccia all’immigrato è ricominciata e la stessa sera un primo convoglio di 11 bus ha deportato centinaia di persone a Tamanrasset, l’ultima grande città del sud, a 2.000 chilometri dalla capitale. Coloro che si sono rifiutati di salire a bordo del bus sono stati picchiati dalla polizia e diversi feriti gravi sono stati inviati in ospedale. Nei campi di detenzione di Zeralda e Tamanrasset le persone sono state costrette a dormire per terra, con scarso o niente cibo e acqua, e gli sono stati sequestrati tutti i soldi che avevano. La “Lega algerina per la difesa dei diritti umani (LADDH)” in un comunicato scrive che tra gli arrestati ci sono bambini, donne incinte, persone malate, e sia migranti in situazione irregolare che richiedenti asilo e rifugiati.
Il 7 dicembre un secondo convoglio di bus della polizia è arrivato nella provincia di Tamanrasset e da qui, nei giorni successivi, circa 1.000 persone sono state espulse in Niger, passando prima per la città di Arlit per poi finire ad Agadez in un centro circondato da una recinzione, in attesa della deportazione nei paesi di provenienza.
Ad Algeri e nelle altre città del paese l’ondata di arresti ha causato il panico. Sophie, liberiana, ha raccontato a una testata locale che non ha praticamente dormito per tre giorni: “Sobbalzo quando sento un rumore. La polizia è arrivata due volte per arrestare le persone nelle loro case”. Molti migranti non escono dalle loro case e non stanno andando a lavoro per paura di nuovi rastrellamenti.
Il regime del presidente Abdelaziz Bouteflika, al potere dal 1999, si trova ad affrontare da tempo le proteste degli algerini contro le politiche di austerità applicate dal governo. Nel 2015 la spesa pubblica è stata tagliata del 9%, e per il 2016 è previsto un ulteriore taglio del 14%, malgrado i proventi per lo stato per la vendita di petrolio e gas passeranno dai 26,4 miliardi di dollari di quest’anno ai 35 previsti nel 2017. Nel corso dell’anno sono avvenuti frequenti scioperi e rivolte locali di disoccupat* e lavoratori/lavoratrici in tutto il paese. La disoccupazione, ufficialmente al 10 per cento, è in realtà più vicina al 30%.
Nel gennaio 2016, le autorità hanno risposto alle proteste contro la disoccupazione organizzate nella città meridionale di Laghouat dal “Comitato nazionale per la difesa dei diritti dei disoccupati” (CNDDC) arrestando attivisti e manifestanti, compresi alcuni che avevano aderito alle proteste in segno di solidarietà con gli attivisti detenuti. I fermati sono stati condannati a uno/due anni di reclusione. Altre decine di arresti e condanne per i/le disoccupat* per la semplice partecipazione a manifestazioni sono avvenuti nel corso dell’anno.
Ad aprile sono scesi in sciopero le/gli insegnati, hanno attuato uno sciopero della fame e la loro marcia verso il parlamento di Algeri è stata bloccata dalla polizia.
Il 17 ottobre ha avuto luogo uno dei più partecipati scioperi generali degli ultimi 25 anni, chiamato da 16 sindacati, e al quale hanno preso parte il 75% dei lavoratori dei settori interessati.
Il sindacato dei lavoratori pubblici SNAPAP ha scioperato per tre giorni dal 25 al 27 ottobre per un aumento dei salari e assunzioni a tempo indeterminato dei lavoratori precari. “L’unico modo in cui possiamo cambiare le persone al potere è quello di scendere in piazza” hanno affermato i manifestanti.
Dal 22 al 25 novembre si sono tenuti tre giorni consecutivi di scioperi per protestare contro i piani di austerità del governo, che prevedono l’aumento delle tasse, il congelamento dei salari e l’aumento dell’età minima pensionabile a 60 anni. Quello degli insegnanti, degli operatori sanitari e dei dipendenti dei servizi pubblici locali erano tra i 12 sindacati che hanno preso parte allo sciopero.
Il 27 novembre le autorità hanno represso violentemente il raduno previsto dall’appello dei sindacati autonomi di fronte alla sede del Parlamento ad Algeri per denunciare il progetto di legge per l’abolizione della pensione anticipata, il nuovo codice del lavoro e la politica di austerità. Un impressionante dispositivo di sicurezza ha portato a decine di arresti di sindacalisti, militanti, e cittadini accorsi a sostenere il presidio.
Questa situazione economica e la repressione nel paese porta molti giovani algerini a emigrare verso l’Italia (recentemente, sbarcando sopratutto in Sardegna) e la Spagna, con l’intenzione, per la maggior parte di loro, di raggiungere in seguito la Francia. Tuttavia in base agli accordi di riammissione tra Italia, Spagna e Algeria, chi riesce a raggiungere l’Europa viene detenuto e rapidamente deportato. Non a caso sono algerini la maggior parte dei reclusi nei CIE spagnoli, e sono costoro anche i protagonisti delle recenti fughe e rivolte.
Dovendo fronteggiare questa forte contestazione di disoccupat* e lavoratori/lavoratrici anche in Algeria i governanti stanno portando avanti campagne e pratiche razziste per spostare l’attenzione e criminalizzare gli immigrati. Per citare solo un esempio, lo scorso 5 dicembre Farouk Ksentini, presidente della “Commissione consultiva nazionale per la promozione e protezione dei diritti umani”, che dipende dalla presidenza della Repubblica, ha dichiarato alla stampa che “noi algerini siamo a rischio diffusione dell’AIDS e di altre malattie sessualmente trasmissibili a causa della presenza di questi migranti. I migranti africani sono responsabili della diffusione di queste malattie in Algeria, e non hanno alcun futuro in questo paese” aggiungendo, come giustificazione che “Non sono Marine Le Pen, io non sono razzista, ma delle soluzioni devono essere trovate”.
Il clima di razzismo ha avuto come conseguenza almeno 4 episodi di aggressioni di massa nei confronti degli immigrati, l’ultimo dei quali proprio nel sobborgo di Dely Ibrahim ad Algeri, nei giorni precedenti i rastrellamenti e le detenzioni del 1° dicembre.

dicembre 2016, da hurriya.noblogs.org


Fuga dall’Egitto, passaggio obbligato degli esodi dall’Africa
L’Egitto è diventata una delle più importanti regioni di transito per chi deve fuggire dai paesi vicini, ma l’irrompente crisi economica mette in cammino per l’Europa un numero crescente di egiziane-i.
Siamo all’ospedale di Raschid, piccola città poco distante da Alessandria, dove, alcuni giorni fa sono state salvate persone finite in mare a causa di guasti all’imbarcazione che le trasportava, entrato in avaria a 20 km dalla costa. Qui a numerosi pescherecci capita di venir trasformati in imbarcazioni per trasportare persone, dirette in Italia o in Grecia. Su uno di questi pescherecci il 21 settembre c’erano stipate oltre 550 persone; si capovolse ancor prima di partire, centinaia di persone salite a bordo morirono annegate. Questa tragedia è soltanto una fra le tante, per le provincie sulla costa mediterranea egiziana sono invece normalità.

E’ iniziato l’esodo?
L’Egitto da anni è certamente il paese di transito più importante per chi viene da Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan e Sud Sudan; la situazione oggi è aggravata dal fatto che sulle imbarcazioni disponibili salgono molte più persone di quelle normalmente trasportabili. Dall’inizio dell’anno le richieste per la traversata del mare in direzione dell’Europa, sono aumentate, anche da parte della popolazione egiziana – racconta Mohammed Al-Kaschef (di EIPR, organizzazione per i diritti umani attiva in Egitto). Poche ore dopo il rovesciamento del peschereccio sulla costa di Raschid, molte erano le persone egiziane alla ricerca dei loro cari saliti a bordo.
Qui sulla costa mediterranea dell’Egitto, le persone che vogliono lasciare il paese a causa della repressione politica, dell’interminabile crisi economica e monetaria, non incontrano difficoltà. Ognuna conosce qualcun’altra che può aiutarla a rimediare un posto su un’imbarcazione diretta in Europa, con prezzi speciali. Invece chi fugge dall’Africa orientale deve pagare il doppio, cioè, 3.000 dollari USA.
Come informa l’Ufficio Internazionale per l’Emigrazione del Cairo: nel 2015 sul totale delle persone che rischiavano la traversata verso l’Europa, con base di partenza sulla costa egiziana, circa il 34% del totale proveniva dal Sudan, il 22% dalla Somalia e il 13% dalla Siria; in queste statistiche la quota egiziana era cancellata. Nel 2016 la pressione sulle coste egiziane è esplosa, afferma l’EIPR, almeno 120.000 persone in totale hanno lasciato in modo illegale l’Egitto, seguendo la traversata del Mediterraneo. Secondo Al-Kaschef circa il 30% sono persone egiziane: “Persino intere famiglie, non più soltanto individualità, in gran parte giovani, oggi cercano di raggiungere l’Italia per lasciarsi alle spalle la crisi economica.” Fra loro ci sono persino minorenni, attirati anche dal fatto che l’Italia non li espelle fino a 18 anni compiuti.

La crisi economica causa della fuga
In tutto l’Egitto si è sparsa la voce che per i giovani l’Italia è una possibilità per scavalcare la crisi imperante. Ormai è una regola non un’eccezione, che le famiglie egiziane con amicizie, conoscenze in Italia, lasciano partire i loro figli, gli pagano la traversata… I numeri parlano da sé: 119 dei 162 sopravvissuti della catastrofe di Raschid sono di origine egiziana, perlomeno 92 sono le morti.
L’economia egiziana è collassata. Dopo il colpo di stato del 2013, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno concesso aiuti elevati che si sono trasformati in debiti micidiali; ciò ha causato una certa svalutazione della sterlina egiziana, con conseguenze su stipendi, pagamenti, tagli della spesa dello stato rispetto a infanzia, sanità, scuola…
Il governo de Il Cairo ha trovato l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI) per un credito di 21 mld di euro da ritornare entro tre anni. Nel frattempo, governo, presidente, banca centrale impongono le condizioni neo-liberali implicite alla concessione del credito. In breve, é stata introdotta un’imposta sull’IVA, subito confermata dal parlamento; le sovvenzioni per i carburanti ed altri gruppi di merci sono state completamente o quasi cancellate, una svalutazione della moneta è prossima. Le merci importate, fra le quali, frumento e articoli sanitari, medicinali sono ora più care, l’inflazione entro la fine dell’anno salirà attorno al 20%.
In questi ultimi mesi sono cresciute le proteste spontanee: nelle ultime settimane il prezzo di un kg di zucchero è raddoppiato, da 50 cts a 1 euro; i media scrivono e parlano di code davanti ai supermercati e di scontri in strada dove dai camion dell’esercito vengono venduti prodotti di prima necessità a prezzi contenuti. L’elevamento della bolletta per la luce elettrica a livelli europei ha scatenato rabbia contro controllori ed esattori del ministero da cui dipende la produzione dell’elettricità.

dicembre 2016, da jungewelt.de

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Marocco: Morti, deportazioni e arresti
Riportiamo questa breve notizia circolata in rete (africa-express.info), rispetto alla quale purtroppo non abbiamo al momento ulteriori dettagli.
Nella mattina del 1 Gennaio, oltre millecento migranti sub sahariani hanno cercato di entrare nell’enclave spagnola di Ceuta, un piccolo pezzettino di Unione Europea in Marocco. La maggior parte degli africani sono stati respinti dalla polizia mentre tentavano di arrampicarsi sulla barriera metallica, alta oltre sei metri, che separa la città dall’entroterra. Venti o trenta migranti sono riusciti a guadagnare la cima della recinzione. Poco dopo sono stati portati a terra con delle gru dalle guardie di frontiera. Solamente in due sono riusciti a penetrare in territorio spagnolo, o meglio hanno ricevuto l’autorizzazione, perché a causa delle serie ferite riportate durante la scalata, è stato necessario il loro ricovero nell’ospedale di Ceuta.
Secondo quanto è riportato in un comunicato del governo di Madrid, tutti gli altri sono stati espulsi in Marocco. Il rapporto spagnolo precisa che molti agenti sono stati feriti. Precisamente cinque spagnoli e ben cinquanta magrebini, perché i migranti, usano pietre e bastoni metallici per fare dei buchi nella rete e oggetti contundenti che lanciano contro le forze dell’ordine.
Seppur non dettagliata questa notizia dà conto di quale sia la situazione in uno degli Stati africani più prossimi all'Europa, dove si consuma la tratta di essere umani.
Qui di seguito un articolo più ampio che riassume la situazione in Marocco e l’esternalizzazione delle frontiere portata avanti, da tempo, dall’Unione Europea.
La politica dell’UE sta bloccando le rotte verso l’Europa per chi subisce lo sfruttamento neocoloniale e capitalistico mentre sostiene (o anche promuove) dei conflitti in tutta l’Africa da parte dei paesi occidentali.

“We are in Morocco / Here, many Blacks have lost their lives / Here, it’s Boukhalef
The Moroccans call us azzia / They talk about us to scare their children
And when they see us they flee / Oh oh, it hurts us”.
Scritto dal musicista e attivista no border senegalese che vive a Tangeri, Xelu Baye Fall, queste parole (tradotte da Wolof) sono dedicate “a tutte le persone che sono morte al confine / A tutte le persone che sono morte alle recinzioni.” La canzone parla di Charles Paul Alphonse Ndour, di 26 anni, ragazzo senegalese ucciso da uomini marocchini a Tangeri nel mese di agosto 2014. I testi fanno riferimento al razzismo e alla violenza subita quotidianamente in Marocco dagli africani sub-sahariani. “Azzia”, che significa “di pelle nera”, è un termine dispregiativo usato principalmente contro i sub-sahariani, insieme all’insulto “Ebola”.
È fondamentale collegare il razzismo quotidiano vissuto dai migranti sub-sahariani in Marocco con il razzismo palese del mortale regime delle frontiere europeo [...].
Dopotutto, sono state le potenze coloniali europee le prime a imporre confini nel Sahara dove non c’erano in precedenza, fermando i precedenti livelli elevati di migrazione che hanno portato al crollo del commercio trans-sahariano.

L’esternalizzazione del controllo delle frontiere europee
Come paese chiave di transito dal sub-sahara verso l’Europa, il Marocco ha dimostrato di essere il partner più affidabile di tutti i paesi del Nord Africa per le politiche strategiche dell’UE di chiusura delle frontiere e di controllo dei flussi migratori verso l’Europa. Nascosto dietro alla retorica umanitaria di “sostenere il buon governo e i diritti umani” – le retate quotidiane (spesso violente), la distruzione dei campi migranti, le “deportazioni a caldo” (il respingimento illegale di migranti subito dopo la cattura da parte delle autorità spagnole prima che possa essere presentata la domanda di asilo), le deportazioni disumane ai confini meridionali del Marocco – sono tutte effettuate con denaro fornito dalla UE.
È difficile credere che gli Stati membri dell’UE siano preoccupati per lo sviluppo della società civile e l’integrazione dei/delle migranti sub-sahariani/e in Marocco quando non riescono nemmeno a offrire cure adeguate per i minori non accompagnati nei propri paesi, come si è visto a Calais nelle ultime settimane.
L’accordo stipulato tra l’UE e il Marocco rappresenta l’esternalizzazione neocolonialista dei controlli alle frontiere e delle migrazioni dall’Europa verso i paesi in Africa, mentre il precedente distoglie contemporaneamente i loro sguardi dalle violazioni dei diritti umani commessi dalle autorità statali – le comunità soprattutto sub-sahariane nel contesto del Marocco.
Questi accordi servono come prototipo per accordi analoghi, spesso realizzati con i dittatori – che, come la Shell ha dichiarato, spesso possono fornire un “ambiente stabile”, in cui gli investimenti e le offerte possono essere più facilmente mediate.
All’inizio di quest’anno, The New Statesman ha acquisito documenti relativi ai piani segreti della UE per limitare le migrazioni dall’Africa, che ha apertamente riconosciuto di dover affrontare “le critiche da parte delle ONG e della società civile per essersi impegnata con governi repressivi in materia di migrazione”, tra cui il Sudan, l’Eritrea e l’Etiopia – i primi due sotto inchiesta per crimini di guerra da parte delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale.
Il riconoscimento dei governi di questi paesi come “repressivi” mette in evidenza la noncuranza esplicita dell’UE per le persone che migrano, che dovrebbero essere classificate come rifugiati ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Piuttosto, l’Unione Europea sta cercando di garantire che le persone che soffrono a causa dello sfruttamento neocoloniale e del sostegno dei conflitti in tutta l’Africa da parte dei paesi occidentali (in Costa d’Avorio, Sudan, Africa Centrale, Congo, Libia), e di molti dei governi repressivi in Africa, non possano sfuggire. Come fa notare un migrante nigeriano che vive in Marocco, “gli europei ce lo hanno insegnato”, riferendosi a come gli stati coloniali europei abbiano agito come una massa di migranti economici – sfruttando e estorcendo risorse e manodopera dalle loro colonie.
Lo scarico di responsabilità su paesi come il Marocco permette alle persone come Juan José Imbroda, capo del consiglio spagnolo di Melilla, di dichiarare: “Non siamo più in prima pagina per l’immigrazione clandestina perché non è più un problema” – mentre l’ospedale di Nador ha curato oltre 742 persone nel 2014 per le ferite riportate durante i tentativi di attraversare le recinzioni e per le violenze delle autorità marocchine e spagnole. Un accordo stipulato tra l’UE e il Marocco nel 2006 – grazie al quale sono stati dati al Marocco 67 milioni di euro per rafforzare i controlli alla frontiera – permette anche agli Stati membri dell’UE di deportare i migranti subsahariani in Marocco, piuttosto che nel loro paese di origine.

Bloccati in Marocco
Una volta in Marocco, persone che cercano di migrare si trovano intrappolate: non sono né in grado di entrare in Europa, né in grado di tornare nel paese da cui sono partiti. Una donna, che vive nei campi di fortuna in Boukhalef, ha detto, “Siamo venuti qui per attraversare i confini, non per rimanere, ma siamo bloccati qui… I marocchini ci vedono come pecore. Non accettano gli stranieri. Non c’è lavoro né la sicurezza per noi in questo paese”.
Un anno dopo l’implementazione dell’Action Plan UE-Marocco nel 2013 – con l’approvazione di un budget di 150 milioni di € a favore del Marocco per creare legami più stretti tra UE e il Marocco – è stato inserito il programma di regolarizzazione. E’ durato per un anno a partire da gennaio 2014 ed è stato presentato come un atto esplicitamente “umanitario” da parte del governo marocchino e dei media.
Tutto ciò per mascherare il fatto che il programma – che offre lo status di residente per un anno – era selettivo e limitante per i migranti sub-sahariani. Molti sub-sahariani non sono stati in grado di dimostrare che avevano vissuto in Marocco per 5 anni – la qualifica primaria necessaria – ed è prassi comune della polizia fermare le persone percepite come sub-sahariana, sequestrargli i documenti e deportarli, nel tentativo di dare l’impressione di fermare i flussi migratori verso l’Europa. Le autorità marocchine sono pagate dalla UE per ciascun migranti “catturato”, presumibilmente per pagare i costi di “adeguate” condizioni di detenzione e per la deportazione nel proprio paese di origine.
Tuttavia, molti sub-sahariani che vivono a Tangeri – compresi quelli regolarizzati – raccontano l’esperienza di essere stati prelevati dai funzionari marocchini che li portano verso il mare, scattando loro una foto mentre vengono catturati nel “tentativo di imbarcarsi” per l’Europa usata come la prova, e poi riportati di nuovo a Tangeri o più a sud in Marocco. I membri della polizia marocchina sono accusati di intascare individualmente i soldi della UE, sollevando dubbi sul fatto che l’UE dovrebbe continuare a finanziare queste pratiche corrotte.
A causa del programma di regolarizzazione, un piccolo numero di migranti sub-sahariani sono ora teoricamente in grado di accedere a istruzione, sanità e assistenza professionale. Tuttavia, la quotidiana discriminazione strutturale e istituzionale e il razzismo persistono: molti sono ancora sottoposti ad arresti arbitrari (indipendentemente dal fatto che possiedano documenti per il loro soggiorno legale in Marocco o meno) e vengono regolarmente negate le opportunità di lavoro o di prendere alloggi in affitto. Il razzismo individuale e personale persiste; il fatto che Charles Ndour avesse ricevuto lo status di migrante regolare in Marocco non gli ha impedito di essere attaccato e ucciso.
Ad esempio, dopo che 232 persone sono riuscite ad attraversare la frontiera a Ceuta (enclave spagnola) il 31 ottobre, le autorità marocchine hanno risposto con arresti di massa a Tangeri. Una settimana dopo, ferendo almeno una persona e tenendo oltre 80 persone (tutt* di origine sub-sahariana) per una notte nella stazione di polizia, comprese le persone con i documenti dell’UNHCR e un passaporto valido (avendo soggiornato in Marocco per meno di tre mesi). 18 persone sono state deportate la mattina seguente a Fes, ad una distanza di 4 ore e mezza di macchina. Spesso la polizia prende il telefono delle persone, i documenti e il denaro che la persona ha con sè, in modo che quando vengono buttati fuori dopo un espulsione non hanno nessuno dei loro effetti personali con loro né mezzi per tornare a Tangeri.
Allo stesso tempo, il programma di regolarizzazione ha reso più facile per il governo marocchino controllare e perseguitare i suoi cittadini – come ben dimostrano le parole di Charki Draiss del ministero degli interni, che ha affermato: “Abbiamo dato loro molte opportunità, e ora se non vogliono rimanere, il Marocco dovrà applicare la legge per il bene della sicurezza”. Per queste ragioni, molti di coloro che ha ricevuto la carta di soggiorno-annuale hanno ancora voglia di raggiungere l’Europa.


Arresti e deportazioni nei boschi
Violazioni regolari dei diritti umani sono state portate avanti dopo il programma. All’inizio di febbraio 2015, le autorità marocchine hanno teso un’imboscata ai/alle migranti nei pressi del confine di Melilla, distruggendo e bruciando il campo e gli effetti personali delle persone, finendo col detenere più di 1.200 persone compresi i bambini. Tre giorni dopo le incursioni, gli arresti e la totale distruzione dei campi si sono svolte in numerosi boschi nei pressi di Nador. In seguito, molti/e si sono trasferiti/e in foreste più lontane ma le autorità marocchine continuano a distruggere i campi – dove le persone vivono senza accesso all’acqua potabile o un riparo adeguato – arrestare e deportare le persone che trovano. Piccole donazioni di vestiti o cibo, inviati dai/dalle solidali, sono spesso intercettati e distrutti dalla polizia.
Il risultato di questi mesi di attacchi fisici e di terrore psicologico, è lo stato di costante ansia in cui vivono le persone nelle foreste. Una donna, che vive in un campo vicino a Tangeri, ha dichiarato: “Viviamo nella foresta come se fossimo morti… ci trattano come animali… non si può neanche dormire. Anche se si affitta un appartamento, non si ha alcuna sicurezza, la polizia può venire in qualsiasi momento, rompere la porta, bruciare le cose, buttarti fuori… è insicurezza totale, soprattutto per noi donne.”
Il regime di frontiera europea in via di sviluppo – assistito dall’agenzia per la deterrenza all’immigrazione Frontex – dimostra la consapevolezza con la quale l’UE e i suoi stati membri garantisce che le persone non riescano a raggiungere l’Europa o muoiano nel tentativo di farlo. Ma, indipendentemente dal numero di nuove barriere che vengono erette o di guardie di confine impiegate, la resistenza e la lotta per la libertà di movimento per tutti/e continueranno. La gente che in Marocco sogna l’Europa non sta tornando indietro; la gente continua ad attraversare le frontiere quotidianamente. La crescente consapevolezza con cui l’Europa rafforza i suoi confini si traduce solo in più morti – morti che insanguinano le mani dell’UE e dei suoi Stati membri.

dicembre 2016, da hurriya.noblogs.org


AGGIORNAMENTI SULLA LOTTA CONTRO LA MACCHINA DELLE ESPULSIONI
2016 – Cronologia delle proteste nei Centri di detenzione europei per migranti
Anche in questo 2016 migliaia di persone hanno portato avanti dure lotte contro il sistema europeo di detenzione e deportazione: fuggendo, distruggendo le strutture, protestando contro la reclusione e le condizioni invivibili dei centri. Se molti di questi lager non sono più attivi, se migliaia di altre persone hanno evitato le deportazioni, se i rastrellamenti sono stati ridotti per mancanza di luoghi dove recludere le persone, lo si deve a queste lotte, condotte in prima persona da chi non si rassegna ai nuovi campi di concentramento europei.
Lo ricordiamo oggi, 31 dicembre, nel giorno in cui i media riportano le decisioni dello Stato di allestire i CIE in ogni regione, per raddoppiare il numero delle deportazioni.
Ricordiamo inoltre che quelle elencate di seguito sono solo una minima parte delle numerose proteste portate avanti dai/dalle migranti lontano dagli occhi e dal clamore dei media, quotidiane resistenze individuali per combattere questo sistema di controllo e detenzione.

2 gennaio, rivolta e fuga nel centro di detenzione per migranti di Corinto, Grecia. Ingenti danni alla struttura. Dopo la rivolta: 100 marocchini deportati in Turchia, altri espulsi direttamente in aereo in Marocco, col supporto dell’OIM.
14 gennaio, protesta dei reclusi contro detenzione e condizioni del centro detenzione di Corinto, Grecia. Dopo 2 tentativi di suicidio, in 100 cominciano uno sciopero della fame.
16 gennaio, proteste e scontri nel centro detenzione di Kiskunhalas in Ungheria tra decine di reclusi e la polizia.
12 febbraio, rivolta nel CIE di Torino; un incendio distrugge l’area bianca; dodici persone che stavano nelle stanze interessate dall’incendio vengono spostate all’ospedaletto in attesa di rendere di nuovo agibile l’area. 2 reclusi sono stati arrestati.
24 febbraio, migranti in sciopero della fame nel centro detenzione CRA (centre de rétention administrative – centro di detenzione amministrativa) di Rennes, in Francia.
24/29 febbraio, a Bari il CIE è andato a fuoco due volte nell’arco di una settimana e a seguito dei danneggiamenti subiti dalla struttura è stato chiuso.
5 marzo, a Crotone una rivolta ha reso inagibile il CIE, situato in località Sant’Anna e riaperto da soli 6 mesi.
8 marzo, protesta dei migranti all’hotspot / centro di detenzione di Moria a Lesbo, in Grecia.
8/11 marzo, i migranti reclusi nel centro detenzione di Mesnil – Amelot, in Francia, appiccano 4 incendi in 4 giorni.
13 marzo, tre uomini sono riusciti a sfuggire dal centro di detenzione CRA di Palaiseau, Francia.
21 marzo, protesta dei richiedenti asilo nell’hotspot di Vial a Chios, Grecia.
22 marzo, protesta dei e delle migranti nel centro detenzione – hotspot di Moria a Lesbo, in Grecia.
5 aprile, protesta delle 700 persone recluse nell’hotspot/centro detenzione di Vathy a Samos, Grecia.
5 aprile, protesta di pakistani e afgani nel centro detenzione/hotspot di Moria nell’isola di Lesbo, dove sono recluse 3100 persone.
7 aprile, 250 persone sono fuggite dal centro di detenzione/ hotpot di Vathy a Samos dirigendosi al porto.
13/19 aprile, proteste e sciopero della fame, durato 6 giorni, di 43 delle 47 recluse nel centro di detenzione femminile di Elliniko, vicino ad Atene, con una sola rivendicazione: “Libertà!”.
22 aprile, sciopero della fame di 40 reclusi del centro detenzione di Steenokkerzeel in Belgio.
9 maggio, 3 persone sono riuscite a fuggire dal centro di detenzione per migranti (CRA) di Nimes in Francia, segando le sbarre delle celle.
18 maggio, a Lampedusa una rivolta danneggia seriamente parte della struttura dell’hotspot, portando alla chiusura di uno dei tre padiglioni presenti nel Centro. La protesta era scaturita dal tentativo delle autorità di procedere con una deportazione di massa in Tunisia.
1 giugno, protesta di 300 persone nel centro detenzione di Kiskunhalas in Ungheria (dove sono recluse 484 migranti) per poter lasciare il centro e andare a Budapest, da dove continuare il viaggio. La protesta è stata poi repressa dal massiccio intervento di diversi plotoni di polizia antisommossa.
2 giugno, scontri ed incendi nell’hotspot di Vathy a Samos in Grecia. Molte persone ferite dalla polizia, 25 reclusi arrestati.
6-10 giugno, 4 giorni di proteste delle recluse nel centro di detenzione femminile di Elliniko, Atene, Grecia.
30 giugno, protesta dei migranti nell’hotspot sull’isola di Kos, in Grecia.
1 luglio, all’alba i reclusi nel CRA di Vincennes, in Francia, hanno dato fuoco ai materassi provocando un incendio nel centro di detenzione per migranti. L’incendio è stato causato per evitare la deportazione di un detenuto di origine marocchina; i compagni infatti quando le guardie sono andate a prenderlo per portarlo in aeroporto hanno dato inizio alla rivolta. 2 camerate distrutte dal fuoco, su tre presenti nel centro, sono state rese inagibili.
8 agosto, CIE di Brindisi – Restinco in fiamme nel pomeriggio di lunedì 8 Agosto. Due sezioni su tre della struttura detentiva pugliese sono state rese inagibili grazie alla rivolta delle persone in esso recluse. Un ragazzo 22enne viene arrestato il giorno successivo con l’accusa di aver appiccato l’incendio “negli alloggi del dormitorio”; l’arresto sarebbe stato reso possibile dalle telecamere installate all’interno del lager brindisino.
12/19 agosto, reclusi nel CIE di Brindisi-Restinco in sciopero della fame. Le cause rimandano alle conseguenze della giornata dell’8 agosto: migranti costretti a dormire nei corridoi sui tavoli o fuori nel cortile.
24 agosto, alle 20:30 un gruppo di persone recluse nell’Hotspot di Lampedusa ha incendiato dei materassi, danneggiando una cella del primo piano, nel padiglione dove sono reclusi i migranti minorenni.
5 settembre, nell’hotspot nell’isola di Kos in Grecia (dove sono recluse 1714 persone in una struttura con capienza di 1000 posti ) circa 150 persone sono fuggite dal centro di detenzione e hanno provato a marciare verso la città: sono state fermate dalla polizia e imbarcate a forza su un traghetto, verso una destinazione sconosciuta.
9 settembre, scontri tra i migranti e polizia nell’hotspot di Moria: inizialmente a causa di 500 persone lasciate senza cibo, poi in seguito in merito a delle voci su 8 profughi morti in un container nel porto di Mitilene, in Grecia. Quando la polizia ha rifiutato di fornire ai migranti informazioni circa queste morti, sono cominciati nuovi scontri.
12 settembre, nell’hotspot nell’isola di Kos in Grecia i migranti hanno appiccato il fuoco a masserizie, letti e materassi per protestare contro la detenzione e le lente procedure di asilo. La polizia è intervenuta a sedare la rivolta arrestando alcune persone.
19 settembre, nell’hotspot di Moria a Lesbo, in Grecia, tentata fuga di massa di 300 persone, bloccate dalla polizia. A seguito scontri nel campo e vari incendi ai danni dei prefabbricati adibiti al trattamento delle domande d’asilo e di alcune tende
5 ottobre, durante la sera una rivolta si è scatenata all’interno del CIE di Sangonera la Verde a Murcia, in Spagna. 67 migranti reclusi hanno fatto irruzione nelle cucine, si sono impossessati di estintori e altri attrezzi con i quali hanno sfondato cancellate e porte, danneggiato la struttura, messo fuori gioco i poliziotti di guardia e sono riusciti a evadere. Le varie forze di polizia hanno scatenato una vera e propria caccia all’uomo in tutta la città, catturando 41 dei fuggitivi mentre degli altri 26 si son perse le tracce. A oggi 18 dei fuggitivi sono ancora in libertà.
7 ottobre, i richiedenti asilo in rivolta nel campo di Souda, nell’isola di Chios in Grecia hanno dato fuoco a varie strutture. Dopo la completa distruzione di 5 container delle ONG la polizia ha fermato 15 migranti e ne ha arrestati 3.
7 ottobre, rivolta nel Cie di Zona Franca a Barcellona.
18 ottobre, nel CIE di Aluche (a Madrid in Spagna) verso le 21.15 una 60ina di reclusi si sono rivoltati e 39 di loro (38 algerini e un marocchino) sono riusciti a farsi strada, dopo aver coperto le telecamere e forzato una porta blindata, fino sul tetto della struttura. I reclusi hanno continuato la protesta trascorrendo la notte sul tetto del lager della democrazia, esponendo uno striscione e gridando slogan come “libertà” e “dignità”, e solo la mattina successiva, dopo 12 ore e una lunga trattativa con la polizia, sono rientrati all’interno del CIE.
18 ottobre, protesta e sciopero della fame nell’hotspot di Samos in Grecia.
19 ottobre, tentativo di fuga dal CIE di Zona Franca a Barcellona, Spagna.
23 ottobre, sciopero della fame nel CIE di Barcellona Zona Franca per protestare contro le deportazioni.
24 ottobre, 300 migranti afgani hanno protestato nel più grande centro di detenzione della Bulgaria, ad Harmanli, per poter proseguire il loro viaggio verso l’Europa occidentale.
24 ottobre, 70 persone, in maggioranza di origine pakistana e bengalese, hanno prima lanciato pietre e poi appiccato il fuoco a parte della struttura dell’hotspot di Moria a Lesbo, Grecia. Ancora una volta la rabbia è esplosa durante una protesta per i ritardi con cui vengono gestite le procedure burocratiche. Ventidue migranti sono stati arrestati.
24 ottobre, rivolta nell’hotspot di Samos in Grecia: contro le risposte negative alle domande d’asilo 300 persone hanno lanciato pietre contro la polizia e incendiato un container. 2 afgani sono stati arrestati.
26 ottobre, i migranti hanno messo in fuga i funzionari dell’EASO e danneggiato i loro uffici, nell’hotspot di Vial a Chios, Grecia.
27 ottobre, rivolta dei reclusi nel centro di detenzione di Corinto in Grecia. I migranti hanno appiccato il fuoco ad alcune celle e nel corridoio.
1 novembre, rivolta di 50 persone nel CIE di Zona Franca a Barcellona, in Spagna.
2 novembre, sciopero della fame di 200 persone recluse nel centro di detenzione per migranti di Busmantsi, in Bulgaria.
4 novembre, due reclusi nel CIE di Aluche a Madrid evadono per sfuggire a una deportazione.
9 novembre, nuova protesta e incendio nel campo di Souda a Chios, in Grecia. A fuoco i container dell’UNHCR.
15 novembre, rivolta, incendio e fuga di una decina di persone dal CIE di Sangonera la Verde a Murcia, Spagna.
18 novembre, sei prigionieri hanno tentato di fuggire dal centro di detenzione di Bruges, in Belgio. Quattro di loro ci sono riusciti, due invece sono stati ricatturati dalle guardie. Per scappare hanno tagliato la recinzione di una finestra, sono saliti sul tetto, e sono poi saltati sulla vettura di una guardia.
24 novembre, verso mezzogiorno, dopo più di due giorni di quarantena una violenta rivolta è scoppiata nel campo profughi di Harmanli, in Bulgaria. I manifestanti hanno costruito piccole barricate che sono state in seguito incendiate. Dopo un po’, un cannone ad acqua è stato attaccato da diverse persone con le pietre.
9 dicembre, durante la sera una decina di persone tenta la fuga dal CIE di Torino tagliando le recinzioni e provando a scavalcare il muro esterno. Immediato l’intervento della polizia che ha catturato i migranti ribelli rinchiudendoli in isolamento.
11 dicembre, 100 richiedenti asilo nel Centro di detenzione per migranti di Corinto, in Grecia, iniziano uno sciopero della fame per protestare contro la reclusione arbitraria, i trattamenti inumani ricevuti nel centro e rivendicare la propria libertà. La protesta è continuata, da parte di alcuni reclusi, per almeno 5 giorni.
14 dicembre, sciopero della fame di una trentina di reclusi nel CIE di Zona Franca a Barcellona.

Roma: sul presidio al CIE di Ponte Galeria del 17 Dicembre 2016
Sabato 17 dicembre, un gruppo di circa 30 nemiche e nemici delle frontiere è tornato sotto le mura del CIE di Ponte Galeria. Nella settimana precedente, il 13 Dicembre, circa 25 uomini sono stati prelevati dal CIE di Torino e portati a Roma, chiaro segnale di una deportazione imminente, poi nei fatti avvenuta giovedì 15, quando dall'Aeroporto di Fiumicino è partito l'ennesimo volo verso la Nigeria.
Mentre compagne, compagni e solidali si concentravano sotto il CIE, in città un corteo ha attraversato il centro di Roma per chiedere al Comune “l’istituzione di un centro di primissima accoglienza”, ovvero un nuovo Hub, con il riconoscimento del progetto Baobab Experience attraverso “un tavolo permanente di confronto con le diverse realtà che si occupano di accoglienza nella Capitale”, e cioè la cogestione dell’accoglienza in città, con tanto di collaborazione con la Questura per la registrazione delle persone “ospitate”.
Un corteo dalle rivendicazioni apparentemente larghe, raccolte in uno slogan (“Proteggiamo le persone, non i confini”, tra l’altro coniato dal Comitato 3 ottobre, onlus che dal 2014 si preoccupa di coprire le stragi in mare con il velo ipocrita delle commemorazioni istituzionali) che umanizzava il sistema di gestione e controllo delle persone migranti, chiamato sistema di accoglienza. Tutti i media hanno documentato la manifestazione e sotto questi riflettori hanno scelto di esserci anche i movimenti di lotta per la casa, organizzazioni che mai avevano dimostrato prima l’accettazione di un nuovo modello di gestione delle migrazioni, in linea con un sistema di veloci e restrittive riforme che sta riguardando tutta l’Europa.
Ricordiamo infatti che dietro le promesse di “ricollocazione” e “accoglienza degna” si sono nascosti i progetti di costruzione di numerosi nuovi Lager, chiamati Hotspot, che avrebbero dovuto favorire questo progetto di “divisione in quote”, fuori e dentro i confini nazionali, ma che in realtà sono dispositivi per favorire maggiormente le espulsioni e la differenziazione tra “migranti economici” (da criminalizzare) e “rifugiati” (da smistare, almeno in parte, e per un determinato periodo di tempo).
Invece, davanti al CIE si urlavano slogan, saluti e il nostro odio per ogni forma di potere, prigione e controllo.
Risolti i problemi tecnici, di casse e microfono, si è continuato con diversi interventi e musica a spezzare il silenzio e la desolazione di quel luogo attraversato solo da sbirri, militari, suore e complici del lager, oltre che da amanti dello shopping che dopo gli acquisti natalizi sono costretti a passarci davanti restando comunque indifferenti.
Un gruppo di sex workers e alleate-i ha ricordato, nella giornata internazionale contro la violenza che colpisce i lavoratori e le lavoratrici del sesso, quanto l’oppressione suprematista e di genere, la militarizzazione e il regime delle frontiere siano strumenti del potere per controllare i nostri corpi, reprimere e deportare chi vive vendendo sesso.
Numerose infatti sono le sex workers detenute nel CIE romano a seguito di rastrellamenti in ogni parte d’Italia.
Solidarietà è stata dimostrata anche ai lavoratori e alle lavoratrici delle campagne che lottano contro sfruttamento, ricatti e repressione delle persone migranti. Mentre dalle casse si succedevano interventi e saluti in diverse lingue, da dentro le mura le telefonate e le voci delle detenute (come al solito prontamente chiuse a chiave in cella dai loro aguzzini) hanno scaldato i cuori di chi, sotto lo sguardo del solito nutrito nugolo di guardie, tenta come può di comunicare e mostrare vicinanza a chi è privata della propria libertà.
Fuochi d’artificio e un indisturbato lancio di palline da tennis – con dentro il numero di telefono per rimanere in contatto – hanno accompagnato la fine del presidio.
Alcune scritte sono comparse in stazione per ricordare a chi prende il treno che a pochi metri c’è un lager.
Un momento di comunicazione con gli - apparentemente ignari- avventori del treno che riportava i/le solidali in città ha chiuso la giornata.
A un anno quasi esatto dalla rivolta che ha portato alla distruzione della sezione maschile del CIE di Ponte Galeria, un abbraccio solidale va alle persone condannate ad anni di galera per la rivolta avvenuta nel lager di Bari Palese nel 2011.
Sempre a fianco di chi lotta e distrugge ogni gabbia, con la speranza che il prossimo anno sia ricco di nuove macerie.
nemiche e nemici delle frontiere
dicembre 2016, da hurriya.noblogs.org

Borgo Mezzanone (FG): basta violenza sulle donne, basta repressione, sfruttamento e razzismo di Stato
Sabato 10 dicembre, i media hanno riportato la notizia del ritrovamento del corpo carbonizzato di una donna nigeriana nei pressi del CARA di Borgo Mezzanone (FG). Questo femminicidio avviene a pochi giorni di distanza dall’internamento nel CIE di Ponte Galeria di un’altra donna nigeriana, che da anni viveva e lavorava anche lei a Borgo Mezzanone, in seguito a un controllo delle forze dell’ordine.
Due casi emblematici della violenza che le donne sono costrette a subire per mano dell’apparato di controllo e repressione determinato dal regime dei confini: ricatti, sfruttamento, privazione della libertà sono il risultato di politiche che non permettono alle persone di avere riconosciute garanzie e tutele minime. Nonostante i proclami contro tratta, caporalato e ghetti, le istituzioni ignorano le richieste dei lavoratrici e lavoratori che abitano negli slum creati dallo stato: documenti, casa e lavoro a condizioni accettabili.
È più di un anno che gli abitanti della pista adiacente al CARA di Borgo Mezzanone, insieme ai lavoratori e alle lavoratrici che vivono in altri ghetti della provincia di Foggia e non solo, chiedono risposte concrete e adeguate ad una situazione sempre più insostenibile. Sono le istituzioni, con il loro silenzio e con la repressione, a determinare il degrado e la violenza che caratterizzano questi luoghi. Nella scorsa settimana, due incendi hanno distrutto le baraccopoli del Gran Ghetto e di Tressanti, dove è morto un ragazzo di vent’anni, e un terzo la tendopoli di San Ferdinando (RC).
A queste tragedie annunciate, le istituzioni rispondono esclusivamente con un aumento del controllo poliziesco. Non accettiamo che la violenza di cui sono responsabili, e in particolare quella che si accanisce sulle donne, venga strumentalizzata dalle stesse istituzioni per giustificare interventi repressivi che puniscono chi già paga il prezzo più alto per queste politiche. No alla violenza sulle donne, contro tutte le forme di sfruttamento e discriminazione. (da campagneinlotta.org)

Trento: blocco ferroviario contro il razzismo di Stato
Il 6 dicembre, alla stazione di Trento, un nutrito gruppo di compagni ha bloccato il treno per il Brennero delle 18:54. Fumogeni, volantini, interventi al megafono e uno striscione su cui era scritto: “Non scordiamo i profughi uccisi dai treni e dal razzismo di Stato”.
Nelle ultime settimane fra Trentino, Sudtirolo e Tirolo sono stati ben quattro gli immigrati morti schiacciati dai treni nel tentativo di raggiungere la Germania o di sottrarsi agli asfissianti controlli di polizia nelle stazioni (soprattutto di Verona e Bolzano). Secondo i dati ufficiali, soltanto nel 2015 sono stati 180 gli immigrati fermati dalla polizia tedesca a bordo (o addirittura agganciati sotto) treni merci provenienti da Austria e Italia.
Questi viaggi di fortuna, che a volte si concludono in tragedia, dimostrano una cosa sola: il terrore dei controlli (e delle retate) della polizia.
Il blocco ferroviario è avvenuto durante la fiaccolata in città dal titolo “Il Trentino accoglie”, un’iniziativa promossa da un arco di soggetti e sigle che andava dalle cooperative ai sindacati, dai “disobbedienti” a radio e tv, dai partiti del centrosinistra ai dirigenti di Confindustria. Dopo gli attacchi razzisti di Soraga e di Lavarone (dove qualcuno ha cercato di incendiare delle strutture adibite per i profughi), la cosiddetta società civile ha voluto ribadire che “Il Trentino accoglie”. C’è da scommettere che chi si lega a un treno merci per sfuggire alla polizia abbia un’idea diversa di questa bella “accoglienza”. Era il caso di ribadirlo. (da abbatterelefrontiere.blogspot.it)

Milano, gennaio 2016
liberamente tratto dalle varie fonti citate

Cona: La morte di Sandrine Bakayoko e le lotte delle persone migranti contro l’accoglienza che segrega e uccide
Sandrine Bakayoko, una venticinquenne della Costa d’Avorio, è morta lunedì 2 gennaio in un centro per richiedenti asilo di Conetta, frazione di Cona, in provincia di Venezia. La donna, come riferisce il marito, “stava male da giorni, tossiva, aveva la febbre”: al mattino di ieri si è accasciata in bagno e solo dopo molte ore è arrivata un’ambulanza per portarla, quando ormai era troppo tardi, nell’Ospedale di Piove di Sacco, a 15 km di distanza.
È iniziata a quel punto la protesta delle persone segregate nel centro: “Tutti hanno deciso di fare uno sciopero per le condizioni in cui ci troviamo, abbiamo problemi di elettricità, di acqua e problemi di ogni genere. In generale in questo momento tutta la situazione del campo è molto precaria, c’è freddo e siamo molto a disagio, lasciati qui abbandonati a noi stessi sempre.
Vogliamo che queste cose si conoscano, che si sappiano anche fuori. Ora che è anche morta una ragazza non possiamo più aspettare” ha affermato uno dei migranti alla testata giornalistica che per prima ha riportato quanto avvenuto.
Gli accessi alla struttura sono stati bloccati, la corrente elettrica staccata, alcune masserizie sono state incendiate e gli operatori presenti si sono chiusi nei loro uffici, pare su suggerimento della polizia. La protesta è andata avanti per tutta la serata di ieri, con il centro circondato da un ampio schieramento di forze dell’ordine e con tanto di collegamento in diretta di una delle tv che quotidianamente diffonde xenofobia. Solo verso le 2 di notte gli operatori sono usciti dalla struttura.
Come in passato, non la morte inammissibile di una persona ma solo la rivolta dei e delle migranti ha permesso che la notizia circolasse nei maggiori media, con i soliti articoli e servizi criminalizzanti. Nessuno di questi racconta come nei luoghi cosiddetti “di accoglienza”, dove decine di migliaia di persone migranti in realtà vengono segregate e tenute in attesa di una risposta alle domande d’asilo (che per la maggioranza sarà negativa), si muore per mancanza di assistenza medica così come per disperazione.
Sono frequenti le morti nei centri e, la maggior parte delle volte, senza nome.
Solo per citare le ultime: il 30 dicembre Simon, un trentenne del Ghana, era morto in un centro accoglienza a San Vittore (Fr), e il 20 dicembre a Roccasecca (Fr) era morto un quindicenne egiziano. Il 7 dicembre Antonio, un giovane angolano di 28 anni si era impiccato nel bagno del centro accoglienza di Via Fratelli Zoia a Milano.
Eppure migliaia di persone hanno lottato e continuano a farlo, perché tutto questo non accada: sono le stesse persone imprigionate nel sistema di gestione, controllo e selezione che purtroppo tanti continuano a definire “di accoglienza”.
Raccontiamo queste lotte, perché non rimangano più isolate dalla mancanza di solidarietà attiva, anche in vista della prevedibile repressione che si scaglierà contro chi ha protestato.
Nel luglio 2015 i circa 270 richiedenti asilo che vivono presso il residence “Magnolie” a Eraclea, in provincia di Venezia, scendono in strada e bloccano gli accessi al mare per protestare contro le disumane condizioni di accoglienza: dormono per terra su materassini, non hanno saponi, detergenti, dentifricio, lenzuola. La protesta si ripete il 27 luglio. Preoccupati dalle conseguenze delle proteste sulla stagione turistica nella località balneare, le autorità decidono di deportare i migranti in un luogo più isolato: l’ex base missilistica nei pressi di Cona, di proprietà del Ministero degli Interni.
In pochi giorni un luogo abbandonato da circa tre anni diventa magicamente adatto ad “ospitare” persone, in piena campagna, senza collegamenti, a svariati chilometri da un centro abitato. Entro la fine di luglio cominciano i primi trasferimenti. Nello stesso periodo a pochi chilometri di distanza apre un nuovo centro a Bagnoli di Sopra, in provincia di Padova, nell’ex base aeronautica di San Siro.
“Visto che lo Stato non chiede soldi in cambio della struttura, e quindi la cooperativa risparmia, una parte di quello che dovrebbe essere l’affitto finirà nelle casse del Comune” afferma il Prefetto di Venezia.
Entrambi i centri vengono affidati alla gestione della cooperativa Ecofficina, un colosso locale della gestione rifiuti che dal 2011 è entrata nel business dell’accoglienza, già nota dal 2014 per tenere gli immigrati “al freddo e malnutriti”. Ecofficina si trova così a gestire le ex basi militari di Bagnoli di Sopra (Padova), Cona (Venezia) e Oderzo (Treviso) oltre a diverse altre strutture.
Ad agosto 2015 nel centro di Conetta sono presenti già dalle 200 alle 300 persone, comprese una quindicina di donne nigeriane. A un mese dall’arrivo, cominciano le prime proteste dei richiedenti asilo: una trentina escono dalla struttura militare il 29 agosto e attuano un sit in, circondati dai carabinieri, nella frazione di Conetta, per evidenziare le pessime condizioni igieniche e di vita nella struttura.
A settembre altre persone vengono portate a Conetta dove, data la mancanza di edifici sufficienti, sono allestiti dei tendoni.
Il 30 dicembre i/le richiedenti asilo aprono una pagina facebook, per descrivere con foto e testi le condizioni in cui sono costretti a vivere.
Il 27 gennaio 2016 i migranti escono in massa dalla ex base militare per un corteo di protesta, per bloccare la strada provinciale, ma sono fermati da polizia e carabinieri. Ancora una volta denunciano le condizioni di igiene e sanitarie del centro, la mancanza di assistenza medica e medicinali, il sovraffollamento, il freddo dovuto all’assenza di riscaldamento e di abiti invernali.
Ad aprile, dopo una visita nel centro condotta da alcuni parlamentari e avvocatesse, si viene a sapere che nei confronti delle persone presenti sono state effettuati molti ricoveri psichiatrici e due trattamenti sanitari obbligatori (TSO).
Nello stesso mese sono di nuovo indagati il presidente e il vicepresidente della cooperativa Ecofficina e il gestore di una delle strutture adibite all’accoglienza dei profughi per i reati di truffa aggravata ai danni dello Stato e maltrattamenti: “Cibo di scarsa qualità, nessun corso di alfabetizzazione, angherie e soprusi.”
A maggio ennesima inchiesta, per il bando di gestione di uno SPRAR.
L’11 maggio, nuova protesta dei migranti: chiudono e barricano l’accesso alla struttura, contro il sovraffollamento della struttura e per le condizioni impossibili in cui in più di settecento vivono da mesi. In due giorni 24 persone verranno allontanate e circa 40 indagati per manifestazione non autorizzata e resistenza a pubblico ufficiale.
Malgrado la repressione la lotta riprende il 30 agosto: dalla mattina si blocca di nuovo la struttura impedendo l’accesso agli operatori fino alle 17, quando polizia e carabinieri in assetto antisommossa sfondano il cancello e disperdono i manifestanti.
Il 19 novembre una trentina di persone riesce a lasciare la struttura e bloccare la strada provinciale che porta da Cona ad Agna, con cartelli e striscioni, stanchi di aspettare una risposta che non arriva alla richiesta d’asilo o di ricollocamento.

dicembre 2016, da hurriya.noblogs.org


aggiornamenti dal carcere di opera (mi)
Tramite i familiari e l’avvocato di Maurizio Alfieri riportiamo qui di seguito le ultime novità di quello che succede A Maurizio.
Nella prima settimana di dicembre c’è stata la visita di una delegazione composta dai radicali, da alcuni rappresentanti dell’Associazione Antigone accompagnati dal garante dei detenuti di Milano; sono andati alle celle di isolamento e si sono intrattenuti quasi 30 minuti davanti alla cella dove hanno ubicato Maurizio che ha raccontato quello che è successo e ha dato loro il suo reclamo al 14bis.
Il garante ha garantito che andrà subito dal Magistrato di Sorveglianza a chiedere la fissazione dell’udienza di reclamo e per chiedere delle indagini e audizioni ai compagni di sezione. Ricordiamo che Mario, uno dei compagni di sezione presente all’aggressione a Maurizio, è stato prontamente trasferito nel carcere di Monza.
E’ stato anche detto ai parlamentari che al passeggio non c’è una tettoia per quando piove, così l’8 dicembre hanno montato una piccola tettoia, inoltre ora è consentita l’entrata del cibo cotto attraverso i colloqui con i famigliari, per cui hanno ridato un diritto che prima era vietato.
Maurizio ci fa anche sapere che dove si trova la custodia è rispettosa, d’altronde le vigliaccate e infamie nei confronti di Maurizio sono state scritte dalla direzione e dai vari ispettori e sgherri del direttore e della direttrice.
In ultimo, come al solito, a Maurizio viene bloccata la posta in entrata e in uscita.

Per scrivere a Maurizio:
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)

***
Sabato 14 Gennaio, dalle ore 14: manifestazione davanti al carcere
Nel febbraio 2016, un comunicato collettivo firmato da 128 detenuti riaccende l'attenzione sul carcere di Opera.
Alle iniziative di solidarietà dentro e fuori dal carcere la Direzione risponde con l'isolamento punitivo, con la censura della posta, con i trasferimenti, con le aggressioni fisiche, al fine di spegnere la lotta.
All'esterno non manca il sostegno con presidi serali, con un'assidua corrispondenza spesso ostacolata, con iniziative di lotta, come davanti al tribunale contro il 41 bis, presso la magistratura di sorveglianza per dare voce alle rivendicazioni dei carcerati e all'ospedale San Paolo per informare sulla misere condizioni sanitarie soprattutto di chi e recluso.
Sosteniamo la lotta contro le condizioni disumane e degradanti delle carceri, quello di Opera compreso.

OLGa - Milano

lettera dal carcere di monza
Ciao, ti ringrazio moltissimo di avermi risposto e sapere che ci sono delle persone come te mi riempie il cuore, che ahimè è già impazzito, perché ho subito un intervento ad agosto per un infarto. Avendo solo 35 anni, in questo momento mi trovo in infermeria, perché non posso andare nelle altre sezioni per il problema al cuore. E ti dirò che sto subendo degli abusi veramente allucinanti da parte degli agenti penitenziari, soprattutto dei pestaggi e dei maltrattamenti continui che io sto continuando a denunciare […]
Sono un ragazzo che si è sempre battuto per tutti questi abusi che fanno dentro le carceri italiane con il problema di dover anche litigare con gli altri detenuti, perché gli agenti ti fanno passare anche per infame, perché qui sei a casa loro e fanno quello che vogliono loro, è una cosa che se non la vivi non la potrai mai capire. Però io andrò sempre avanti a combattere per tutte queste ingiustizie. E spero tanto un giorno di potervi conoscere tutti voi e poter combattere insieme per tutti questi abusi che fanno nelle carceri. Ti dirò che non scenderò mai a patti con gli agenti penitenziari (se io ritirassi la denuncia per quello cui ho assistito nei confronti di Maurizio, qui dentro me la passerei meglio, ma ti garantisco che non lo farò mai!) Il giorno che uscirò da qui spero che ci sia un processo nei loro confronti e pagheranno per quello che stiamo passando noi, io e Maurizio. Perché loro ci vogliono far passare come delle persone pericolose, ma noi siamo solo dei ragazzi che hanno sbagliato nel loro tragitto della vita.
Mi trovo in infermeria dal giorno 2.12.16 perché dal momento del mio arrivo nel carcere di Monza erano già pronti in 10 agenti per darmi un bella lezione, così ho avuto una colluttazione violenta con tutti loro, io ho preso la parte peggiore, e così mi trovo ancora in una cella senza suppellettili e con le finestre rotte, con un giubbotto e un paio di pantaloni addosso. Mi tengono per il momento in queste condizioni perché temono una mia reazione violenta nei loro confronti. Così mi ha spiegato il comandante. […]
Riguardo a quello che avete spedito (pacco di vestiti) ad oggi non mi è ancora arrivato nulla. [...]

21 dicembre 2016
Mario Mancuso, via San Quirico, 9 - 20900 Monza


Nel carcere di Spini si pesta, nel carcere di Spini si muore!
Venerdì 16 dicembre, lo stesso giorno in cui uscivano sulla stampa locale stralci del rapporto stilato dal Garante nazionale dei detenuti contenente denunce precise e circostanziate di pestaggi ai danni dei prigionieri avvenuti nel carcere di Spini di Gardolo, nel reparto infermeria di quello stesso carcere veniva trovato impiccato Luca Soricelli. Il quarto suicidio a Spini.
Luca era stato arrestato in evidente stato confusionale la settimana precedente, dopo aver incendiato un distributore di benzina a Rovereto. Nonostante da giorni lanciasse appelli di aiuto in internet (“Sono arrivato agli sgoccioli non ho più idee per andare avanti contattatemi per piacere o faccio follie”), e nonostante la richiesta dell'avvocato di ufficio di una soluzione diversa dal carcere, una psicologa aveva definito il suo stato mentale “compatibile con la detenzione”. Già, perfettamente compatibile.
Ora tutti, sindacati dei secondini, istituzioni e media, si lamentano della carenza di organico della polizia penitenziaria quale causa di questa morte. Scompaiono i pestaggi, scompare la “cella liscia” (la 2076) o “cella delle percosse”, e i carcerieri diventano vittime del troppo lavoro e addirittura dello stress che provocano loro i suicidi.
Durante le ispezioni condotte dal Garante (nel maggio e nel luglio scorsi), nella “cella liscia” sono state trovate macchie di sangue. Nel corso di una vergognosa intervista apparsa su “l'Adige” del 18 dicembre, il direttore del carcere Valerio Pappalardo dichiarava testualmente: “Non posso escludere che ci sia una macchia di origine ematica su uno dei muri della stanza. Del resto non potrei escludere che una macchia del genere ci sia anche a casa mia”. Pesta moglie e figli, il signor Pappalardo? Secondo il sindacato di polizia penitenziaria Sappe non è escluso che il sangue sia quello di qualche agente ferito da un detenuto…
Pestaggi e celle lisce esistono in tutte le carceri, da sempre. Il carcere è un'istituzione totalitaria. E quello “modello” di Spini (dove sono stipati 368 detenuti a fronte della capienza massima prevista di 245) non fa eccezione. Noi lo sapevamo già, ed è emerso pubblicamente persino con una nota istituzionale (il Garante dei detenuti non è un nemico del carcere, ma una figura che ne controlla il “corretto funzionamento”).
Il carcere è anche un'istituzione classista. La stragrande maggioranza dei detenuti è costituita da poveri. Se Luca fosse stato ricco non sarebbe finito in galera.
La sua morte è il risultato di un sistema, non è una terribile anomalia. La sentenza di morte era già scritta in qualche riga burocratica, magari stesa in fretta prima di andare a pranzo: “compatibile con la detenzione”.
Ma tanto di un proletario, per di più “folle”, chi se ne importa? Qualche giorno di polemica, e poi si torna alla normalità, ai piccoli soprusi, alle tante disperazioni e, quando serve, alla cella 2076.
Il carcere non è un pianeta così distante. Quello che è successo a Luca potrebbe capitare a chiunque. I responsabili della morte di Luca – la psicologa, i magistrati, il direttore del carcere Pappalardo, il comandante delle guardie Cotugno – si sentono a posto. Ricorderemo a lungo le loro responsabilità.
Ma proprio noi, che non conoscevamo Luca, che carcerieri non siamo e non vogliamo esserlo, non ci sentiamo a posto. Non ci sentiamo a posto. Per Luca. Per le tante vite recluse, offese, stroncate. Non ci sentiamo a posto. E vogliamo dirlo. Vogliamo urlarlo.
Venerdì 23 dicembre, dalle ore 18: PRESIDIO SOTTO IL CARCERE DI SPINI

assemblea degli amici e solidali di Stefano Frapporti
circolocabana.sitiwebs.com


Volo diretto dal carcere di Venezia per rappresaglia
Il 5 e 6 novembre scorsi in molte carceri italiane hanno avuto luogo delle proteste a favore dell’amnistia e dell’indulto, promosse in concomitanza con la manifestazione romana del Partito Radicale.
Tra i molti detenuti che hanno aderito a questo appello anche quelli del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, dove ci sono state battiture concentrate in tre diversi momenti di ogni giornata.
Pare che l’iniziativa in questione, dato il suo carattere prettamente rivendicativo e “ufficiale”, sia stata persino autorizzata dal comandante delle guardie. Eppure si sa per certo che un detenuto, ma forse più di uno, è stato trasferito in tutta fretta nel carcere calabrese di Paola proprio per aver promosso queste due giornate di mobilitazione. Un trasferimento avvenuto nottetempo via aereo, senza informare l’interessato della destinazione e dei motivi del provvedimento, di cui si è venuti a conoscenza solo giorni dopo.
Un comportamento di certo inusuale, ma che può aiutarci a delineare il quadro di come viene trattato il dissenso dei detenuti del carcere veneziano. Se possibile, seguiranno aggiornamenti.
12 dicembre 2016, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org


lettera dal carcere di belluno e resoconto del presidio
Ciao [...], come stai? Qui per il momento quasi bene a differenza di qualche settimana fa.
Sono contento che veniate qui il 10 dicembre […] e più siete meglio è.
[…] Dovreste scrivere che nel carcere di Belluno non c’è l’acqua calda in cella e nemmeno la doccia. Abbiamo quelle comuni e sono non igieniche, c’è la muffa verde nei bagni. Il mangiare del carrello non cambia mai, è immangiabile.
Le istituzioni all’interno del carcere non funzionano: l’educatrice non si sa che ruolo abbia, non chiama i detenuti e per avere un colloquio dobbiamo aspettare settimane.
In questo carcere non danno permessi o permessi premio e l’articolo 21 non esiste proprio!

***
Il 10 dicembre alcuni solidali con tutti i reclusi si sono ritrovati sotto le mura del Baldenich, per la terza volta in un anno. Abbiamo già avuto ampiamente modo di parlare delle tante problematiche riguardanti il carcere bellunese le quali, a sentire le voci dei ragazzi dentro e non quelle dei giornalisti, paiono ben lungi dall’essere risolte.
Aspetto positivo, dato dalla continuità di attenzione a questo penitenziario, è sicuramente il fatto che il presidio sia stato avvicinato da più di qualche residente del quartiere, uno dei più popolari della città, per chiedere informazioni su quanto stava avvenendo e notizie dall’interno. Calorosa come sempre la risposta dei detenuti con i quali, nonostante qualche problema tecnico, si è riusciti per tutto il tempo a comunicare agevolmente.
Anche stavolta un pensiero particolare è stato rivolto a Mirco, ragazzo morto tra le mura di quel carcere nel 2010, in circostanze mai chiarite. Un fatto la cui memoria è ancora viva, grazie alla caparbietà dei suoi parenti e a quei fili invisibili che riescono a legare chi finisce privato della propria libertà.

12 dicembre 2016, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org


Restrizioni a Rebibbia dopo la riuscita evasione
Ciao sono Gimmy, grazie per l’opuscolo (117). Dal G9, un braccio del carcere di Rebibbia, la notte del 27 ottobre sono scappati tre prigionieri (utilizzando lenzuola per scavalcare il muro di cinta). Le cose al G9 da quel giorno sono più ristrette, fanno problemi nel consegnare i pacchi, libri compresi. Si vocifera che vogliono chiuderlo per ristrutturazione, passeranno dei mesi. Intanto tutti i nodi sono venuti al pettine.
Un ragazzo che era qui, scriveva a Ampi Orizzonti, è andato in “tilt” per via dell’ergastolo divenuto definitivo, sicuramente. Quanto a me tutto ok. Allora vi auguro tutte cose ok! Ciao, Gimmy.

28 novembre 2016
Francesco Puglisi, via Majetti, 70 - 00156 Roma

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Apprendiamo che oggi, 4 gennaio 2017, alle 6.30 o poco più, è deceduto Gianpaolo Contini, recluso nel carcere di Rebibbia, che abbiamo avuto modo di conoscere ed apprezzare tramite la corrispondenza e l’opuscolo. Di seguito ripubblichiamo una sua lettera di due anni fa. Ciao Gianpaolo.

LA CENA DELLE “FESTE”
Nelle carceri spesso assistiamo, da parte delle istituzioni, a comportamenti vergognosi ai quali non possiamo opporre la benchè minima resistenza materiale ma soltanto esprimere il nostro più sprezzante giudizio. Qui nelle carceri il colore della quotidianità è il grigio, colore non definito, tra il bianco e il nero, in sintonia con l'animo e l'umore della maggior parte dei suoi "residenti".
Per le "feste natalizie" questa tinta, certamente non fulgida, acquista tonalità ancora più fosche per merito di episodi al limite della decenza.
L'amministrazione penitenziaria per le sere del 24/12/2013 e 31/12/2013 si è distinta ed ha brillato per ignominia selezionando due "menu" a dir poco oltraggiosi e vergognosi sia per qualità che per quantità. Ve li proponiamo avvertendovi di non impreziosire le vostre tavole, nelle cene con gli amici, con tali prelibatezze... perdereste non solo l'amicizia ma ben altro...
Sera del 24/12: 1 minestrina in brodo, 2 wurstel e contorno di carotine lesse.
Sera del 31/12: replica di brodino con verdure finocchi finemente tagliati alla julien; fettina, molto ina, di non si sa quale povera bestia deceduta per raggiunti limiti di età. Solo la sera del giorno 24 è stata "addolcita" da una fetta di panettone dello spessore rigorosamente millimetrico.
Si è così avvertita ancor più, oltre la fame onnipresente, la disparità e la diseguaglianza di chi ha le possibilità economica e può provvedere alla spesa, di chi effetua colloqui familiari e riceve pacchi con cibi e chi invece non ha nè l'uno nè l'altro.
Siamo comunque grati ai nostri carcerieri i quali si preoccupano di non contribuire alle cause di obesità tra la popolazione detenuta e di bandire il sovrappeso in cui potrebbero incorrere i carcerati saldati e stipati dentro le celle per 22 ore al giorno, incoscienti dei benefici delle diete e sempre avidi di cibo! Se si ingrassa, si sa, gli spazi esigui si ridurrebbero ulteriormente ed il sovraffollamento risulterebbe ancor più aggravato.
Altrettanta attenzione dovrebbero però riservare nei confronti degli "ospiti illustri" che spesso si affacciano alla nostra prigione, per loro riservano rinfreschi sontuosi e luculliani, ricchi di calorie farcite da dosi generose di colesterolo attentando così non solo alla linea dei malcapitati bensì anche al loro sistema cardiocircolatorio. Loro però sembrano gradire tant'è che preferiscono trascorrere il loro tempo conversano amabilmente, tra una pizzetta ed un tramezzino, con direttori, educatori, comandanti ecc... godendo delle delizie del buffet piuttosto che intrattenersi insieme ai pedanti, noiosi, lamentosi e ripetitivi detenuti che "tanto sciorinano in continuazione le solite lamentele sul nostro illegale, illegittimo, anticostituzionale e barbaro sistema carcerario".
Anche qui, per chi non lo sapesse, vige un rigoroso codice di ospitalità e l'amministrazione su questo non transige... l'ospite è sacro!
Anche i detenuti, loro malgrado, "sono ospiti" delle patrie galere, ma vi assicuriamo che saremo felici di non esserlo più, così come vi garantiamo che non soffriremo nemmeno un pò della mancanza dei vostri "deliziosi menù".

Gianpaolo Contini
Rebibbia, gennaio 2014
DI NUOVO IN CARCERE
Claudio (Perrone) è stato condannato e riportato in carcere. La notizia ci viene data da un amico, che ci fa avere le parole di Claudio, perché al momento dal carcere in cui si trova non è gli è possibile scrivere e ricevere lettere.
L’arresto, a quanto pare, è avvenuto dopo soli 26 giorni dalla sua scarcerazione da Viterbo. L'amico che ci scrive rileva come "una volta uscito, carabinieri e polizia ti stanno addosso e trovano ogni scusa per rinchiuderci e questo hanno fatto con lui, anche dentro poi gli vanno sempre contro e tutte le guardie gli fanno dispetti e cattiverie, perché sanno come la pensa e come è fatto".
Claudio augura a buone feste a tutte le compagne e i compagni.
Nel prossimo numero cercheremo di recuperare l'indirizzo per scrivergli.


dalla “questione meridionale” al 41bis
Di seguito pubblichiamo alcuni contributi da noi sollecitati sul tema del 41 bis e, più in generale, sulla “questione meridionale” visto che questo regime carcerario è perlopiù riempito con persone del Sud Italia.
E’ da tempo ormai che cerchiamo di portare avanti questo lavoro di approfondimento, a tal fine, negli ultimi mesi, abbiamo inviato alcune copie di una raccolta di scritti di taglio storico-politico sul tema per stimolare il confronto e la discussione. Questo materiale è a disposizione di chiunque ne faccia richiesta.

Ciao Compagni, ho ricevuto la vostra busta con la lettera e il fascicolo con la storia dall'unità della penisola a oggi. Ho letto il fascicolo e ho trovato qualche inesattezza. Vi mando alcuni scritti miei che vi possono essere d'aiuto nel completare una visione della realtà delle due Italie.
Partiamo da un realtà nascosta fino ad oggi, il Risorgimento, contrabbandato come il momento storico più alto del paese, è una menzogna, che ha coperto un genocidio dei meridionali, o forse è più giusto dire, l'ex Regno delle Due Sicilie, che causò un milione di morti, mezzo milione di arrestati e schiavizzati, cinquantaquattro paesi rasi al suolo e con la legge Pica la repressione e l'oppressione diventarono dogma governativo, il tutto per saccheggiare le ricchezze del meridione, saccheggio che dura tutt'ora. Una grande rapina, coperta dal glorioso Risorgimento.
La legge Pica, con nomi diversi, continua la sua opera anche oggi.
I campi di concentramento o lager non li hanno inventati i nazisti, ma sono stati i savoiardi-piemontesi. L'auschiwitz dei meridionali fu il forte di Fenestrelle, situato sopra Torino, dove i prigionieri meridionali dovevano vivere non più di tre mesi, i corpi li squagliavano in una vasca (ancora esistente a Fenestrelle) di calce viva.
Lombroso aveva dato legalità scientifica al razzismo, che servì al genocidio, poi diede le basi ad Alfredo Rosenberg, il teorico nazista della razza. Pertanto i nazisti non si sono inventati niente, hanno copiato quello che avevano fatto i piemontesi, ottanta anni prima.
Il 1860 è stato l'anno della perdita delle liberà di una nazione con circa mille anni di storia, la fecero diventare una colonia e da un secolo e mezzo è trattata come colonia.
Vittorio Emanuele II, ritenuto il padre della patria, è stato peggiore di Hitler. Cavour è stato l'inventore della "finanza allegra" e il più grande truffatore della storia. Garibaldi un bandito della peggiore feccia. Salvo Mazzini, perché non si rese complice in nessun modo, rifiutò addirittura la grazia da parte di Vittorio Emanuele II, e morì in stato di latitanza a Pisa.
Se non si parte da queste basi, non si più capire il permanente stato di soggezione coloniale in cui viviamo nel meridione, questo comporta lo stato di necessità per una dilagante illegalità.
Vedetevi il film "Li chiamarono…briganti!" di Pasquale Squitieri. La Rai l'ha comprato e messo in un cassetto. I poteri che hanno interessa a mantenere lo stato coloniale sono ancora troppo forti e riescono a condizionare gli apparati sociali e controllare il mondo dell'informazione, pubblico e privato. Con un po' di conoscenza della storia, il film fa capire la verità. Questo è l'unico film girato sulla realtà, anche se fu molto peggio. Tutte le leggi di emergenza servono per mantener lo stato di soggezione, l'intimidazione a 360 gradi e con l'aiuto dei media mostrificare il meridione e i meridionali.
La questione meridionale, nata nel 1860, continua tutt'ora. Prima non esisteva, semmai esisteva quella settentrionale. Da quella data, dai più ricchi d'Europa, insieme agli inglesi, siamo diventati i più poveri. Dicono che sono venuti a liberarci, da cosa? Dalla nostra libertà e il nostro benessere. Tramutandoci in brutti, sporchi e cattivi, mafiosi, camorristi e 'ndranghetisti.
Il sistema creato all'epoca della conquista continua e non ha intenzione di cambiare rotta. Non si tratta di politica di destra o di sinistra, tutti, e quando dico tutti mi riferisco alla politica, sindacati, banche, confindustria e chiesa, ma il più feroce a mantenere lo status quo è la magistratura.
Se ci fosse una vera, autentica e reale unificazione, nel giro di dieci anni l'illegalità verrebbe riportata alle medie europee. Invece, vogliono che nel meridione l'illegalità sia un brodo di coltura sempre in ebollizione. Migliaia di ragazzi senza speranza, pertanto, è la conseguenza delle politiche dello stato.
Proprio ieri ho seguito un servizio a Platì, in Calabria: una suora aveva creato un centro per i ragazzi, diceva che non c'è niente, nessuna infrastruttura per i ragazzi, lo stato è totalmente assente, a parte per la repressione, che non manca niente in tutto, per il resto le prospettive sono zero come le speranze. In quello detto dalla suora, si più racchiudere la tragedia del meridione.
Le mafie che tanto vengono decantate, servono come paravento per nascondere il latrocinio del sistema, hanno un colpevole a buon mercato, che ricompensano con le briciole quando c'è bisogno di distogliere l'attenzione dell'opinione pubblica, un po' di rastrellamenti e riempire i notiziari con centinaia di arresti. Con le leggi d'emergenza possono rastrellare e arrestare chi vogliono.
La tragedia continua, perché vogliono che nulla cambi. Ci vorrebbe una rivoluzione, ma l'apparato repressivo non lo permetterebbe, farebbero subito la fine dei "forconi".

Oristano, 14 dicembre 2016
Pasquale De Feo, località Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)

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Cari amici di Olga, con grande piacere ho ricevuto il vostro opuscolo con allegati altri libri e lo scritto sulla storia della Sicilia dal'Unità d'Italia a oggi.
Bene! Voi mi chiedete di aiutarvi a capire meglio il rapporto tra il popolo siciliano e lo stato italiano e da quello che ho capito (attraverso lo scritto) le origini della mafia.
Ebbene! premetto che non sono certo di essere all'altezza di tale compito, considerato che ho semplicemente il titolo di scuola media inferiore, ma ci provo.
Intanto vorrei precisare che la parola mafia è lo stereotipo del concetto relativamente rigido ed eccessivamente semplificato e distorto di un aspetto della realtà. Qual è la realtà? La realtà è che da sempre i padroni-capitalisti prima e lo stato italiano poi (politici) si sono avvalsi del potere malavitoso per raggiungere i loro obiettivi di potere sul popolo. E questo stato-potere, ovviamente, sin dai tempi antichi, è stato rappresentato dai Borboni, dai Francesi, dagli Inglesi, dagli spagnoli e, infine, dall'Unità di'Italia nel 1875, grazie ahinoi, al famoso Garibaldi e i Mille, aiutato in ogni caso dai rappresentanti locali, aspiranti alla libertà dai padroni-capitalisti, rappresentati da principi-baroni e blasonati vari, detentori del potere di vita o di morte sul popolo ignorante, cadendo in tal modo in una schiavitù istituzionalizzata.
Come tutti sappiamo, i vari uomini politici in carica succedutisi uno dopo l'altro hanno fatto ricorso alle loro conoscenze ed amicizie più o meno lecite per affermarsi al potere, se prima erano dettati da un ideale politico, ora sono spinti dall'idea del potere, e per questo noi siciliani abbiamo un motto: "Cumannari è megghiu ca futtiri" (comandare è meglio di fottere). E poco importa i mezzi usati per arrivare al comando, a tal fine voglio rappresentare quel periodo 1944-45, quando Bernardo Mattarella, padre di Sergio Mattarella, attuale Presidente della Repubblica, quale esponente della Democrazia Cristiana, non disdegnò l'amicizia (politica) di Calogero Vizzini (mafioso) esponente del movimento cattolico popolare di Villalba e sindaco. A quei tempi, diversi rappresentanti dello stato non disdegnavano di avvalersi della collaborazione dei cosiddetti mafiosi, ai danni di personaggi che intralciavano i loro progetti di prestigio e di carriera, tra i quali figuravano prefetti, magistrati, questori e giù fino all'ultima ruota del carro.
Certo, oggi non è che le cose siano cambiate più di tanto, diciamo che è cambiato il modus operandi con l'era del pentitismo, a partire dallo storico Buscetta, attraverso promesse concessioni di intoccabilità, pur di raggiungere l'obiettivo. Sappiate che il popolo siciliano è stato quello più penalizzato dalle successioni di cambi di potere e di sostegno alle lotte di potere, è stato esautorato di tutti i suoi beni dai vari governanti per sostenere le guerre oltremare e il benessere degli stessi, e quando a malapena il popolo si ribellava il re mandava qualche reggimento per sedare le rivolte, nonostante il proliferare del banditismo.
Vorrei ricordare, a tal proposito, quel periodo (1500 circa) quando esistevano i Beati Paoli, rappresentati dal principe Coriolano della Floresta, che operava principalmente nel palermitano e che amministrava la giustizia del popolo nei vari sotterranei della vecchia Palermo, contro gli abusi della Santa Inquisizione e lo spadroneggiamento degli Spagnoli.
Naturalmente, non dobbiamo dimenticare che tutta questa storia è stata sormontata da sempre dall'ombra oscura della Chiesa, che deteneva il potere assoluto sulla Sicilia e i siciliani.
Il 41 bis cos'è? Se non uno strumento di coercizione volto alla collaborazione del sottoposto; pena la disgregazione della personalità dell'individuo e l'annullamento totale di qualsiasi sentimento umano. Come dire: "o collabori, o muori lentamente vegetando".
Infine! Fin dagli albori, la Sicilia e i siciliani sono stati rapinati ed estorti dei loro beni patrimoniali e produttivi, costringendo i "cervelli" all'espatrio, all'esilio, alla ricerca di una terra lontana, dove poter vivere liberi dall'oppressione e dall'infamia di venir additati come mafiosi solo perché siciliani.
Come disse il vecchio saggio "l'abito non fa il monaco".
Mi scuso se non son stato più espressivo di tanto, ma credo di aver citato dei punti salienti da approfondire, qualora foste interessati. In ogni caso vorrei proporvi un testo interessante: "La mafia fra stereotipo e storia", di Rosario Mangiameli, ed. Salvatore Sciascia, 2000. Un caro abbraccio a tutti voi e auguri di buone feste.

Caltanissetta, 15 dicembre 2016
Calogero Lo Monaco, via Messina 94 - 93100 Caltanissetta

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resoconto del presidio davanti alla sede centrale del DAP a Roma
L’iniziativa è nata dalla volontà e dalla viva e ampia memoria di Eneas, ragazzo ucciso nel carcere di Pesaro il 25 settembre dello scorso anno nel pieno della sua vita.
Lunedì 19 dicembre si è voluto far avere notizia, il più direttamente possibile, a chi è responsabile della sua uccisione, che non ci siamo dimenticati di Eneas, anche per far avanzare la mobilitazione contro le esecuzioni dei carcerieri, che si susseguono nei più torbidi modi in tutte le galere – e non solo – d’Italia.
In pochi, poco più di venti, davanti alla sede centrale del DAP, in via Daga, abbiamo urlato “Solidarietà a tutti i detenuti – fuoco, fuoco, fuoco al DAP” ai “funzionari” in entrata e uscita, oltre a leggere brani di lettere dalle carceri.
Tante donne e mamme, che hanno perso i loro figli e le loro figlie nelle carceri e che cercano una verità, sicuramente non trovano confortevoli le conclusioni rese pubbliche dalle carceri e dai tribunali su quelle uccisioni e morti.
La lotta contro le morti in carcere è inestricabilmente parte della lotta contro il carcere nella sua totalità. Dobbiamo fare nostra la possibilità di tessere rapporti con chi da anni si batte contro il carcere per rafforzare una lotta che riguarda ogni sfruttamento, ogni aggressione dello stato e dei suoi aguzzini.
Milano, dicembre 2016


VAL SUSA: resistenza e repressione
La mobilitazione intorno all’8 dicembre
La partecipazione dei No Tav alla mobilitazione per l’8 dicembre è stata altissima poiché questa data per noi è davvero importante. 11 anni fa ci riprendemmo Venaus, scrivendo un pezzo della storia di questo movimento ma anche, diciamolo, di questo paese.
La giornata di giovedì 8 è iniziata presto, con una partecipatissima polentata al polivalente di San Didero a cui è seguita una passeggiata presso i terreni che Telt (Turin e Lyone Train) vorrebbe espropriare e l'accensione sul finire, alla presenza di centinaia di No Tav, di un grandissimo falò che ha illuminato il cielo oramai inscurito dall'avanzare della sera.
Attorno alle 22, nonostante i capillari controlli della polizia e la militarizzazione di una porzione di Valle (meno male che dicono che non è militarizzata), in tantissimi hanno raggiunto Ramat dove si è accesso un grande fuoco.
Mentre dalla Ramats partono i No Tav per la traversata luminosa, in decine raggiungono Giaglione dopo essere stati a lungo bloccati dalle forze dell'ordine. Fuochi anche al piazzale di Giaglione e al campo base.
I/le No Tav partit* da Ramat, raggiunta la Val Clarea, lanciano petardi e fuochi d'artificio dentro il cantiere. La polizia risponde con lanci di lacrimogeni verso chi sta percorrendo i sentieri nei boschi. Nel frattempo continuano i posti di blocco in tutta la valle per scoraggiare la partecipazione dei numerosi No tav che stanno raggiungendo l'area del cantiere e Giaglione.
In attesa che le /i No Tav dei sentieri scendano più a valle, al campo base in tantissimi attendono il loro arrivo e si festeggia l'8 dicembre No Tav. Oggi come 11 anni fa la valle è militarizzata. Pattuglie di polizia poste all'ingresso dei paesi e delle borgate e perquisizioni. Inutile prova di forza, noi non molleremo mai! E’ passata da poco la mezzanotte: ancora fuochi contro al cantiere avvistati persino dal campo base. All’una le/i No Tav che hanno attraversato i boschi fanno ritorno al campo base preparato a Giaglione.
Anche venerdì 9 i no tav tornano al cantiere, attaccandolo e bloccando le truppe di occupazione. Ore di lotta intensa in una valle che sta sperimentando un livello di militarizzazione senza precedenti, messa in campo dalla questura di Torino con l’avvallo del comando dei Carabinieri di Susa.
La giornata di lotta è iniziata con l’apericena No Tav ai cancelli della centrale conclusosi con i lanci di lacrimogeni da parte di polizia e carabinieri chiudevano tutti gli accessi all’abitato di Giaglione in vista della fiaccolata prevista alle 20,30 dal campo sportivo.
In centinaia ci si è ritrovati impediti all’ingresso, con la polizia che circondava le auto ed effettuava controlli asfissianti. Strada statale bloccata e celere schierata per intimidire i valsusini. La risposta dei tanti NO Tav non si è fatta attendere ed ecco che lasciate le macchine sulla statale ci si è schierati in blocco davanti ai cordoni della polizia antisommossa per dare tempo ai molti bloccati di raggiungere il bivio di Giaglione e dare manforte ad una protesta più che legittima.
I No Tav hanno deciso di non scendere a compromessi, ancora una volta, e mentre si percorreva un sentiero secondario a piedi per raggiungere il campo sportivo e sottrarsi quindi al blocco della polizia, ecco che dai boschi alcuni No Tav hanno attaccato carabinieri e polizia cogliendoli di sorpresa e facendoli scappare in gran fretta. I boschi, si sa, sono amici dei No Tav e di chi li difende. Raggiunto il piazzale di Giaglione, ovviamente in ritardo sulla tabella di marcia, ci si è messi in cammino verso il campo base in centinaia, con battiture e cori, poco più in là e a ridosso degli sbarramenti disposti sul sentiero dagli sbirri. I lacrimogeni lanciati copiosamente all’indirizzo dei tanti No Tav non hanno sortito il benché minimo effetto, giusto il tempo di riprendere fiato e poi di nuovo avanti.
Siamo pronti a rispondere a questa militarizzazione con determinazione, come il cantiere è stato imposto con la violenza, non accetteremo che ci venga tolta la possibilità di manifestare contro di esso.
In queste due notti lo abbiamo dimostrato. Avanti No Tav, fermarci è impossibile!

Perquisizioni in Valle
Sono scattate all’alba di venerdì 16 dicembre le perquisizioni a danno di alcuni militanti No Tav del Comitato di Lotta Popolare di Bussoleno all’interno di un’indagine aperta dal fido pm Rinaudo.
Il fatto sotto la lente d’ingrandimento della procura torinese è l’apericena del 2 dicembre scorso, quando i fuochi d’artificio hanno dato il via ad un attacco al cantiere che si è protratto per alcuni minuti, con l’ausilio di chiodi a 4 punte e tutto ciò che può essere utile in queste occasioni.
Nel descrivere brevemente la serata, non avevamo potuto esimerci dal deridere la reazione isterica della digos torinese che, dopo l’attacco subito in Via dell’Avanà all’interno della zona presidiata, si era recata dai No Tav che banchettavano nei pressi dei cancelli minacciando tragiche conseguenze.
Le prime conseguenze sono quindi arrivate, con lo stesso approccio isterico, perquisendo tre fra i più attivi giovani della valle col chiaro intento di intimidire il più vasto movimento che nei giorni scorsi si è largamente mobilitato in occasione della 5 giorni per celebrare l’8 dicembre.
Le motivazioni della perquisizione fanno acqua da tutte le parti, con riconoscimenti talmente approssimativi da far impallidire il più inesperto degli investigatori, ad esempio “la p.g. ritiene, per le movenze e le caratteristiche fisiche, trattarsi di tre uomini ed una donna: l’individuo, abbigliato con indumenti di colore scuro, longilineo, alto circa mt 1,80, che impegna nella mano destra una telecamera con la quale riprende tutte le fasi dell’attività violenta corrisponderebbe a XXX, mentre l’individuo travisato di sesso femminile, indossante pantalone tipo jeans di colore chiaro, un giubbotto di colore scuro, di altezza circa 1.65 corrisponderebbe a XXX.”
Sembra uno scherzo, lo sappiamo, ma vi assicuriamo che è proprio così.
Ora, tralasciando questi dettagli, crediamo che tale operazione sia finalizzata ad acquisire più che altro generiche informazioni sul movimento e i suoi attivisti, considerando che le perquisizioni sono state fatte sulla base di elementi insussistenti e che gli unici sequestri sono stati i cellulari dei 3 perquisiti (a parte uno scalda collo e dei guanti, abbigliamento comune in montagna).
Serviva evidentemente una prima risposta (ma per darla così avrebbero potuto farne a meno), alla luce delle difficoltà in cui navigano (vedi Nicoletta in perenne evasione e le mobilitazioni vincenti del movimento nelle ultime settimane) e del fatto che moltissime indagini della “perspicace” questura torinese brancolano nel buio.
Esprimiamo solidarietà ai No Tav perquisiti ed agli altri indagati.

Blocco dei carotaggi in Valsusa aggredito dalle “misure cautelari”
Mentre è in discussione, per modo di dire, l’assenso della Camera alla ratifica agli accordi internazionali, ci viene consegnato l’ennesimo provvedimento giudiziario costellato di misure restrittive.
Questa volta ad essere prese di mira sono le iniziative di contrasto alle trivelle, ai carotaggi della ditta Terna, avvenuti tra il dicembre del 2015 e il febbraio del 2016 presso Bussoleno e l’autoporto di Susa. Una lotta contro il progetto del mega-elettrodotto che dovrebbe entrare dalla Francia attraversare la Valsusa per raggiungere la piana di Torino esattamente a Piossasco.
Oggi arriva il pacchetto della procura con 23 notav denunciate/i in un ‘inchiesta che prende in considerazione più episodi nel solito linguaggio, che trasforma parole in minacce, presenze fisiche in violenza privata. Ci siamo abituati ma mai ci rassegneremo a sopportare questo genere di soprusi nei confronti nostri e della nostra terra.
Come sempre, i pm non si accontentano di criminalizzare chi difende la propria terra, vogliono di più, vogliono arrivare a disporre della libertà personale di chi non si rassegna, e così ecco che il provvedimento porta in sé diverse misure cautelari, elaborate tra divieti di dimora e firme quotidiane, avvisando (scritto bene in grassetto) che non saranno tollerate disobbedienze alle imposizioni. Nemmeno quando, come nel caso di Giorgio, gli viene imposto (la settimana scorsa) il divieto di dimora nel comune di Bussoleno, quindi di non poterci stare: comune dove risiede e lavora; a Nicoletta, inserita anche in questa inchiesta, viene disposto il divieto di andare nel comune di Susa, mentre Andrea, Paolo e Luciano si trovano caricati dell’obbligo di firma quotidiana presso la caserma dei carabinieri.
La crociata della magistratura contro i notav prosegue con un ritmo serrato attraverso l’impiego delle “misure cautelari”, sintomo della difficoltà nel domare un territorio che da tempo ha compreso bene che l’unica lotta che si perde è quella che non si combatte con tutto il cuore.
dicembre 2016, da notav.info

Luca riportato di nuovo in carcere
Ci ritroviamo di fronte all’ennesima vigliaccata da parte della questura torinese che il 31 dicembre, per esecuzione di 4 digos, ha prelevato Luca dalla propria abitazione, presso cui era ai domiciliari, per tradurlo al carcere delle Vallette.
Luca, che pochi giorni fa aveva finito di scontare la condanna per evasione, era ancora sottoposto alla misura preventiva del carcere domiciliare per i fatti del 28 giugno.
Al momento non sappiamo i motivi di tale aggravemento, di sicuro avremo notizie più certe nelle prossime ore.

In attesa di maggiori informazioni questo è l’indirizzo per scrivergli:
Luca Germano, carcere Lorusso e Cotugno, via M.A, Aglietta 35 - 10151 Torino

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SALUTI, FUOCHI E LACRIMOGENI DI MEZZANOTTE
Una notte di San Silvestro diversa non si trova certo tra gli eventi del natale taurino: non la canonica Piazza Castello e spumantino, non un calice dentro al tram ristorante, con il brivido sfiorato di un po’ di nausea tra via Pietro Micca e l’antipasto di salmone Km0. Noi che siamo gente semplice veniamo irritati dal fermento del 31 dicembre, non che non ci siano tutti gli ingredienti per pensare che anche il piatto del 2016 sia da lanciare furentemente dalla finestra.
Proprio per questo l’ultimo dell’anno ci piace andare con un po’ di compagni e conoscenti a fare un saluto rumoroso al Cie e al carcere cittadino, perché c’è chi, rinchiuso in quelle prigioni, di piatti (e non solo) dalla finestra (e non solo) ne lancerebbe parecchi.
Anche ieri abbiamo mantenuto la piccola tradizione e dopo il saluto scoppiettante ai ragazzi costretti in corso Brunelleschi e una cena veloce, ci siamo trovati alle Vallette per illuminare quel pezzo di cielo con qualche favilla pirotecnica. Eravamo in tanti, anche molti amici di Luca, di nuovo in carcere perché gli inquirenti sostengono che non avrebbe di nuovo rispettato la detenzione domiciliare.
Sarà che forse la polizia non si aspettava questi numeri e quando un unico reparto di celere a presidio della recinzione carceraria si è visto arrivare quasi cento persone a intonare “libertà”, lanciare fuochi d’artificio e botti sonori, la reazione del lancio dei primi lacrimogeni in aria non si è fatta attendere di molto.
Ma il fumo bianco del Cs non si è confuso di certo con il resto delle luci della nottata e nessuno ha gradito il regalo augurale delle forze dell’ordine. Così i cori sono diventati più accesi, un bel gruppone di presidianti ha iniziato a pressare i caschi blu, qualche petardone è arrivato ai loro piedi, alcuni piccoli oggetti sono stati lanciati.
Non è piaciuto loro essere così in difetto numerico e il lancio dei velenosi bussolotti ha iniziato ad abbassarsi e colpire qualche compagno e qualche compagna mentre due nuovi reparti giungevano di rinforzo.
In quel momento l’aria colma di gas lacrimogeno e la vista di altri celerini ha iniziato a irritare tutti e il lancio di qualche pietra e di ciò che passava alle mani ha iniziato a essere più frequente, tanto che le forze dell’ordine hanno provato a gestire la situazione anche con piccole cariche manganello alla mano.
Alla fine, marciando a passo inverso sulle zolle fangose, hanno iniziato a retrocedere fino ad andarsene, sparando però qualche ultimo lacrimogeno ben mirato per il quale qualche compagno non avrà solo un ematoma.

gennaio 2017, da autistici.org/macerie


TORINO: LA LOTTA PAGA
Il 16 Dicembre il Tribunale del Riesame di Torino ha annullato seduta stante l’ordinanza del 29 novembre e i conseguenti aggravamenti di misura cautelare.
Ripercorrendo brevemente gli ultimi avvenimenti: il 29 di Novembre vengono invase per delle perquisizioni le abitazioni private di alcuni compagni, l'Asilo e la casa occupata di Corso Giulio, con conseguente arresto in carcere di quattro tra compagne e compagni e l'applicazione del divieto di dimora per altri nove. Il reato contestato è quello di violenza privata aggravata dal concorso, per essersi opposti ad uno sfratto.
Come già raccontato nello scorso opuscolo, i compagni cacciati da Torino, decidono di non lasciare la città in cui lottano e abitano da anni e per questo vengono poi arrestati, martedì 13 novembre, per aver violato il divieto. Ad alcuni compagni in questura viene anche prelevato il DNA. Riportiamo qui di seguito il resoconto dell'udienza del Riesame e della giornata di lotta davanti al tribunale.

L’udienza del Riesame dell’operazione del 29 novembre si è svolta giovedì 15 dicembre mentre fuori si teneva un presidio solidale. Sul marciapiede di fronte al tribunale si è accalcato un folto gruppo di persone: qualche occupante della casa dove vivono alcuni degli arrestati, solidali ancora più motivati dal fresco aggravamento delle misure, qualche partecipante dell’assemblea contro gli sfratti e alcuni compagni da fuori città. Attendendo la fine dell’udienza, non solo per scaldare i piedi intirizziti, i presidianti si sono mossi in un piccolo corteo attorno all’isolato del Palagiustizia. Srotolato uno striscione che recitava “Meglio senza salario che Ufficiale Giudiziario”, il gruppo si è fermato davanti all’Ufficio Notifiche Esecuzione e Protesti, il luogo da cui partono gli ordini di sfratto e i funzionari addetti all’esecuzione. Come se non bastasse gli ufficiali giudiziari sono anche responsabili di vari riconoscimenti all’interno delle indagini che stanno colpendo chi resiste agli sfratti, è il caso delle identificazioni dell’ufficiale Giuseppe D’Angella in occasione degli ultimi arresti.
Dei tredici colpiti, erano in aula i sei a cui la polizia è riuscita a notificare l’aggravamento di misura rispetto al divieto di dimora a Torino, alcuni scortati direttamente dal Lorusso e Cutugno, mentre qualcuno arrivato dalla propria casa trasformata in luogo di detenzione. Erano presenti anche Silvia, Stefano e Daniele, usciti da poco dal carcere dove erano costretti sin dal primo giorno dell’ordinanza e ora agli arresti domiciliari; Antonio, invece, non ha ricevuto l’autorizzazione a presenziare perché la presidente di commissione del riesame Domaneschi non ha autorizzato la traduzione all’udienza. Si è appellata ad alcune sentenze di Cassazione che sanciscono che la richiesta, per chi come Antonio era già detenuto da giorni, doveva essere fatta nello stesso momento in cui veniva richiesto il Riesame stesso.
Cavilli e procedure speciali, odiose, utilizzate in maniera eccezionale da un’odiosissima e già nota giudice che ha impedito così ai compagni presenti in aula di salutare un compagno da tempo rinchiuso.
La giornata tribunalizia si è svolta di fatto con la lettura di un comunicato da parte degli incriminati che sostiene la volontà di continuare a vivere e a lottare in questa città contro qualsiasi dettame volto all’allontanamento, l’arringa dei difensori e il farfugliamento dell’accusa, ovvero del fulgido Pm Andrea Padalino.
Un’argomentazione piuttosto scarna e mal condita la sua, basata non sulla descrizione del fatto specifico, ovvero la resistenza a uno sfratto il 2 maggio scorso in Barriera di Milano, ma sulla lotta in generale contro gli sfratti. Il 2 maggio - sostiene il Pm con arguzia tutta sua - non è un episodio sporadico e benché non ci sia molto da dire su quella mattinata bisogna tenere a mente l’ostinazione degli imputati a far parte delle lotte. Bene, siamo fin qui d’accordo con lui. Del resto non ci stupiamo delle possibilità del diritto che, meglio assortite delle strade di Dio, permettono a un Pm all’udienza di Riesame per un fatto specifico di sostenere la sua accusa annoverando tutt’altro: il quartiere, episodi di resistenza precedenti e successivi, attitudine di compagni e compagne. Viene da chiedersi se Padalino, con tanta acutezza da non poterla contenere dentro alla toga, non sia quanto mai nostalgico di inchieste all’odor di associazionismo.
Di che stupirsi poi, si fa pourparler, tutto fa brodo e Padalino se lo mangia tutto.
Che stia attento alle congestioni.

Qui di seguito condividiamo il comunicato diffuso dai compagni che hanno scelto di rifiutare il divieto loro imposto.

Il possibile è solo l’insieme delle situazioni che ci si presentano davanti oggi. È necessario tenerlo bene a mente quando attraversiamo strade costellate da frammenti di ripetizione dell’identico solo apparentemente cangianti, da neon di sirene che lacerano le rètine, dalle vite costrette all’inerzia della sopravvivenza senza mai intravedere l’altrove. Ma ciò non è il risultato di un gioco a somma zero: c’è nella miseria generalizzata chi ha un ruolo gestionale o di responsabilità, chi progetta o mette in atto i rapporti di dominazione, e chi invece deve costituire il bacino di manodopera da spremere. Sono queste le condizioni di esistenza e riproduzione del capitalismo stesso. Anche se di questi tempi, soprattutto nei contesti urbani d’avanguardia, i governanti vorrebbero far credere il contrario, non esiste nessuna orizzontalità e la cittadinanza attiva, la partecipazione dal basso e mescolanza sociale di cui si riempiono la bocca hanno il solo scopo di eliminare dalla testa delle persone l’idea stessa di conflitto e di lotta contro i vari dispositivi di sfruttamento.
L’apocalisse della quiete a cui vogliono relegarci non è però un tuttotondo. Lo dimostra il fatto che le persone non siano sempre disposte a subire silenti e che nella nostra piccola esperienza di lotta in alcuni quartieri a nord di Torino abbiamo potuto sentire in tante persone un po’ di odio galvanizzante contro padroni e governanti.
Solo un sentore piccolo - ben poco, si dirà - ma abbastanza per continuare ostinatamente a organizzarsi insieme.
Questo ha le sue conseguenze a cadenza frequente, come qualche giorno fa in cui i tutori dell’ordine hanno arrestato Daniele, Stefano, Silvia e Antonio, e notificato a noi il divieto di dimora a Torino per aver fatto un picchetto contro uno sfratto. Non staremo qui a raccontare di come è andata quella mattinata perché non ci sarebbe niente di succoso da annoverare, ma ci interessa sottolineare come non solo per queste strade, non solo in questa città, la morsa della legge è sempre più stretta attorno a chi decide di lottare: arresti, allontanamenti coatti dal luogo di vita, misure restrittive, avvisi orali e la sorveglianza speciale. Le misure cautelari sono scattate stavolta perché il Gip Loretta Bianco ha ratificato l’impianto accusatorio del PM Padalino basato sul reato di violenza a pubblico ufficiale. Niente di nuovo, è un buon passepartout nelle azioni repressive di ogni risma anche perché la figura del pubblico ufficiale, con l’esternalizzazione dei servizi, è diventata onnipresente.
Come agire e continuare a lottare di fronte a operazioni così cadenzate e pesanti?
Non crediamo che si possa e neanche che si debba capire quali sono gli equilibri tribunalizi. Il diritto - lo sappiamo bene - non è una struttura rigida, ciò che lo sostiene è quell’insieme di norme che impongono un certo vivere comune; se è vero che non può esaurire l’esplicarsi delle forme di potere sugli individui, è uno strumento fondamentale attraverso cui si passano al vaglio le condotte delle persone affinché i rapporti sociali continuino a riprodursi secondo le esigenze economiche capitalistiche.
Un’illusione nauseante e pericolosa, dunque, quella di cui talvolta si legge che vorrebbe andare a cercare una soluzione alla repressione dialogando con le toghe meno accanite.
Dal canto nostro a questi dialoghi preferiamo cercare di rincarare la dose in strada e nelle lotte cosicché sia la forza, che lì scaturisce, ad approntare il contropiede e impedire che ogni passetto conflittuale sia immediatamente punito.
È un sentiero percorso non solo da noi, non solo qui. È una sfida continuamente tentata e che non è certo facile da ingranare alla prima. Per questo non possiamo far altro che continuare imperterriti a lottare nonostante le offensive della controparte, in primis quelle nei quartieri in cui viviamo. Ad Aurora e Barriera di Milano i nuovi investimenti diffusi tracciano la strada per la cacciata della popolazione indigente e di chi cerca di mettere i bastoni tra le ruote ai progetti della riqualificazione.
Sala rossa, piccoli politicanti, tribunale e nuovi investitori come Lavazza, Sanpaolo, Baricco ci stanno provando in tutti i modi a “bonificare il terreno”: arresti, sgomberi, allontanamenti coatti, retate, il distacco dell’acqua a interi palazzi in morosità, sfratti e pignoramenti sono ascrivibili a una progettualità ampia di rivalorizzazione urbana di questo pezzo di città. Non ci faremo cacciare via e con un divieto di dimora in tasca continueremo a stare in queste strade, violando la misura imposta e continuando a farlo ogni qualvolta i dettami tribunalizi arriveranno per allontanarci dalle lotte. Molto probabilmente la polizia a breve verrà a notificarci l’aggravamento di misura con l’arresto ma fino ad allora staremo nei luoghi che ci siamo scelti a combattere contro il possibile.

I colpiti dal divieto di dimora a Torino
Torino, 7 dicembre 2016
liberamente tratto da autistici.org/macerie

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Torino: altri arresti e ‘misure cautelari’ contro chi combatte gli sfratti
Torino è tra le città d’Italia che conta il maggior numero di sfratti per morosità incolpevole. La crisi morde, il lavoro manca e ben spesso i soldi per l’affitto, se si vuole continuare a mangiare, semplicemente non ci sono.
All’alba del 3 gennaio, sbirri Digos hanno fatto irruzione nelle case di otto compagni per eseguire: due arresti in carcere, uno ai domiciliari e disporre cinque obblighi di firma.
Al centro dell’indagine, c’è la resistenza allo sfratto della famiglia di Said, di Kadija e dei loro tre figli. La storia di Said è fin troppo banale di questi tempi: ha pagato regolarmente l’affitto per più di 10 anni ma nel 2014 ha perso il lavoro e non è più riuscito, come tanti, ad arrivare a fine mese.
Il 14 ottobre esce a fare la spesa dopo aver accompagnato i figli a scuola ma, mentre è via, una squadraccia inviata dal noto palazzinaro torinese Giorgio Molino, proprietario di più di 1.850 appartamenti in Torino e provincia, di 200 ettari di terreno agricolo, palazzi, negozi e perfino di una caserma – entra nel suo appartamento, distrugge i sanitari e cambia la serratura. Un gesto che ha messo per strada una famiglia con tre bambini, senza che il Comune o chi altro competente proponessero una qualche soluzione abitativa.
Quella mattina si formò un presidio via via ingrossato, si riuscì a bloccare i furgoni che stavano portando via i mobili della famiglia sfrattata, a riportarli nell’appartamento, reso riabitabile sotto gli occhi della polizia e i colpi delle sue cariche. Insomma, fu una bella giornata di resistenza e di riscatto, continuata nei giorni seguenti con una mobilitazione fin dentro al consiglio comunale per pretendere che la giunta “5 stelle” si schierasse effettivamente dalla parte dei “cittadini”, come promesso in campagna elettorale.
Oggi è arrivata la vendetta. Giusto non vuol dire legale, noi stiamo con chi resiste e si organizza, le soluzioni ai nostri problemi non arriveranno da nessun politico ma dal mettersi in gioco tutti in prima persona.
Un’abbraccio a chi lo ha fatto quel 14 ottobre dimostrando una volta di più che resistere è possibile e che farlo tocca a noi.
TROPPE CASE SENZA GENTE, TROPPA GENTE SENZA CASA.
CECCA, VALERIA, FORGI, MATTIA, STELLA, DONATO, STEFANO E RICCARDO LIBERI! TUTTI LIBERI!
gennaio 2016, liberamente tratto da infoaut.org


Genova: Comunicato sullo sgombero di Pellicceria Occupata
Mercoledì 14 dicembre, alle 6.30 i vicoli attorno alla Maddalena sono stati invasi da polizia e carabinieri per lo sgombero di Pellicceria Occupata.
Alle 15.30, un palazzo vissuto e abitato per 4 anni è stato restituito all’abbandono in cui ha versato per 15 anni. Alcune tra le più ricche famiglie di Genova, proprietarie, oltre che di Pellicceria, anche di castelli, palazzi, terreni, boschi di mezza Liguria, sono finalmente tornate in possesso di una briciola del loro patrimonio, con la speranza di vendere allo speculatore di turno.
Ciò contribuirà all’ulteriore svuotamento dei vicoli da tutto quello che non è finalizzato all’interesse privato, al commercio, al turismo, alla socialità basata sul denaro.
Pellicceria ora è vuota, non ci sono più un’abitazione per i suoi occupanti, uno spazio disponibile per chi vive in centro storico, il cinema, la libreria, la palestra popolare, la ciclofficina, il Gran Bazar e, in generale, un luogo di discussione e socialità libero dalla logica del profitto e del mercato.
Hanno sgomberato quattro mura, ma continueremo a difendere idee e pratiche, a partire da quelle dell’occupazione e dell’autogestione.
Pensiamo che occupare case per vivere e sottrarsi alla rapina dell’affitto, aprire spazi in cui incontrarsi e autorganizzarsi sia giusto e necessario; come il costruire rapporti fondati sulla solidarietà e sul mutuo appoggio. In questi anni molte sono le relazioni nate sul sentito comune di prendere in mano le nostre vite e di partire dai nostri bisogni e desideri per trasformare noi stessi e la società in cui siamo immersi.
La lotta è il nostro strumento, in tutte le sue declinazioni dalla casa, al lavoro.. per chi ce l’ha, alla guerra, alle grandi opere; il conflitto è il motore del nostro agire contro un’organizzazione sociale basata sul privilegio di pochi e l’esclusione di molti; sfruttati, salariati, disoccupati, immigrati.
Donne e uomini esclusi dal banchetto sono i nostri alleati. I nostri sguardi tutti e i nostri cuori vanno oltre gli ostacoli del presente, verso una prospettiva di rottura e di liberazione; per questo nessuno sgombero potrà limitarci o annullarci, ci potrà forse rallentare nell’immediato, ma non potrà nulla su ogni legame intessuto, sulla forza acquisita insieme, sulla convinzione e sulla ostinazione di avere intrapreso la strada giusta, per quanto aspra e tortuosa, l’unica che valga la pena percorrere! Troveremo il modo di realizzare le iniziative in programma nei prossimi giorni, ancora e comunque!

17 dicembre 2016, da informa-azione.info
Firenze, 3 gennaio: Ancora un attentato al Rovo
Il 3 gennaio, allo "strano" orario delle 11 del mattino, c'è stato ancora un attentato a I' Rovo. E' stato incendiato il locale dove tenevamo le attrezzature agricole e di utilità: sono stati fatti, nella migliore delle ipotesi, 2000 euro di danni. Tra le attrezzature andate distrutte, oltre al locale: attrezzi agricoli in grande quantità, decespugliatori professionali, una motozappa, i tubi di irrigazione, 100 metri di cavo elettrico, flessibili, suppellettili, un frigorifero ed altre cose.
Appare quindi chiaro che non si voleva colpire soltanto l'immobile, ma anche e soprattutto la produzione.
È stato un attacco mirato perfettamente all'idea di una terra senza padroni e al progetto di appropriazione della produzione che sia in grado di rompere un processo di sfruttamento. Si tratta, evidentemente, di concetti e pratiche che, secondo noi, danno molto più fastidio di quanto si creda. Ed è bene averne piena coscienza.
Noialtri, però, non ci piangiamo addosso. LA LOTTA CONTINUA

Le Compagne e i Compagni del Fondo Comunista e del Rovo
Per una terra senza padroni


Cremona: altra tappa dei processi contro l’antifascismo
Il 21 dicembre si è conclusa la fase “preliminare” relativa al processo per lo scontro con i fasci, avvenuto il 18 gennaio 2015 al CSA Dordoni.
Sette furono i compagni arrestati quella sera, accusati di “rissa aggravata” e fra loro Emilio, che per i colpi ricevuti rimase in coma all’ospedale per oltre un mese. Emilio è stato salvato dai feroci pestatori grazie al getto di un estintore, attivato da un compagno, che riuscì ad allontanare i fasci e così permise agli altri di prendere Emilio e portarlo in ospedale.
Uno dei sette compagni ha scelto il “rito abbreviato” (e nella stessa udienza è stato assolto), mentre tutti gli altri proseguono nel “rito ordinario”, permettendo quindi di sostenere anche in aula l’antifascismo, dunque la giustezza di cacciare i fascisti dalla città, con azioni come quella del 18 gennaio, con mobilitazioni determinate e consapevoli, come la giornata del 24 gennaio 2015, quando ci fu un corteo partecipato da migliaia di giovani, accorsi da ogni parte del paese.
Lo striscione appeso oggi di fronte al tribunale di Cremona recitava: “L’ANTIFASCISMO NON SI PROCESSA!”
Lo stesso tribunale ha fissato la data di inizio del processo vero e proprio al 2 maggio 2017. Da oggi dobbiamo perciò impegnarci affinché anche quel giorno si rafforzi la solidarietà, per dare continuità all’antifascismo, alla lotta contro ogni sfruttamento, contro le guerre razziste e saccheggiatrici, fasciste più che mai!


CONTINUA LA LOTTA DEGLI OPERAI DELL'INNSE
Agosto 2009 - I lavoratori della Innse iniziano una dura lotta per impedire la chiusura della fabbrica, considerata allora “l’eccellenza della meccanica pesante”.
Dopo un anno e mezzo di duro scontro e con cinque operai per una settimana sul carroponte, la battaglia si conclude con una vittoria. La fabbrica non chiude. Il nuovo padrone è Attilio Camozzi, industriale bresciano che compra dal comune il terreno e la fabbrica ad un costo irrisorio con la promessa di investimenti, aumento della forza lavoro sino a 150 unità e l’impegno di attuare un piano di rilancio industriale. Piano che però non verrà mai attuato. Il numero dei lavoratori da allora è sceso a 28.
Settembre 2015 - parte la cassaintegrazione ordinaria, a novembre gli operai vengono richiamati a lavorare perché entra una commessa per dei motori elettrici.
Gennaio 2016 - parte la richiesta di cassa integrazione straordinaria, malgrado gli operai sostengono che il lavoro c’è: 22 macchinari su 27 sono in vendita. Da ottobre ad oggi la loro resistenza è costata 39 tra provvedimenti disciplinari e sospensioni, in più trattenute sui salari. “Una manovra calcolata preventiva per lasciarci senza lavoro dentro e pensare di poter fare quello che vogliono all’interno dell’azienda” è quanto sostiene un lavoratore.
Oggi - Camozzi continua la politica di smantellamento della fabbrica. Due giorni di presidio dei lavoratori della Innse davanti alla portineria e dei solidali che li hanno sostenuti, hanno però impedito lo smontaggio di una delle grandi alesatrici che Il piano Camozzi prevede di eliminare. Una sconfitta per l’azienda e una vittoria per gli operai della Innse.
La logica capitalistica, che distrugge ricchezza sociale e che condanna gli operai a vivere di elemosina è una logica che va rifiutata concretamente difendendo i posti di lavoro.
Sosteniamo gli operai della innse la cui determinazione dimostra che l'arroganza padronale può essere vinta.

Milano, dicembre 2016
Panetteria Occupata