indice n.117

15 anni dopo l’inizio dell’invasione USA in Afghanistan
Bombardamento aereo Usa contro lo Yemen
la guerra delle multinazionali della floricoltura in etiopia
Sugli accordi della UE con i paesi di origine dei/delle migranti
Egitto: Il carcere della dittatura uccide!
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Similitudini fra le galere in Germania e in Turchia
Sassari: Interrotto seminario di guerra all'Università
lettere dal carcere di massama (or)
reclamo dal 41 bis di bancali
Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Lettere dal carcere di Milano-Opera
LETTERA dal carcere di Caltanissetta
Lettere dal carcere san michele (al)
Lettera dal carcere di avellino
Lettera dal carcere di Rebibbia (rm)
Lettera da Lucca di un ex prigioniero, mauro rossetti busa
Lettera dal carcere di Nuoro
Lettera dalla “libertà”
Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
MARCO CAMENISH: aggiornamenti
OPERAZIONE SCRIPTA MANENT: aggiornamento
E’ comiciato l’appello del processone contro il movimento notav
torino: RIDERS IN LOTTA


15 anni dopo l’inizio dell’invasione USA in Afghanistan
Il 7 ottobre 2001 prese avvio nel quadro dell’ “Operation Enduring Freedom” l’intervento militare USA in Afghanistan. Gli USA e i loro alleati (NATO, Italia compresa) perseguivano l’obiettivo di abbattere il governo dei talebani al potere dal 1996 e per combattere contro l’organizzazione “terrorista” Al Qaida, responsabile degli attacchi condotti negli USA (torri gemelle) l’11 settembre 2001.
Nel corso degli anni in Afghanistan (A.) la NATO ha inviato migliaia di soldati, oggi se ne contano 130.000 (di cui 4.500 dalla Germania). Il governo tedesco, appena qualche settimana, motiva così l’intervento militare in A.: “…per sostenere gli organi di stato provvisori dell’ A. e le istituzioni successive disposte al mantenimento della sicurezza ed anche per far sì che il personale delle Nazioni Unite e di altro personale civile internazionale possano lavorare in un ambiente sicuro.”

L’occupazione NATO è sicura di essere accerchiata
Quella “sicurezza” la NATO non è riuscita a garantirla: la resistenza talebana non è stata vinta, anzi, vi sono pressioni anche internazionali per avviare negoziati.
Vediamo i più recenti avvenimenti accaduti e in corso nella guerra in A.
Gli attacchi talebani sono riusciti a demoralizzare profondamente polizia e esercito messi in piedi dallo stato fantoccio dalla NATO.
Nel 2015 ogni mese sono stati uccisi (dalla resistenza talebana e non solo) più di 500 soldati e poliziotti – addestrati dalla NATO; le diserzioni da polizia e esercito sono oltre un terzo del totale (350.000).
Le forze talebane assaltano caserme, compiono esplosioni “suicide”, come in marzo nei pressi del palazzo presidenziale a Kabul. Negli stessi giorni a Fariab i talebani hanno arrestato 13 soldati dell’esercito afghano. Ai parenti che invocavano il governo di trattare la loro liberazione, altrimenti si sarebbero dati fuoco, il governo ha risposto di non riuscire a trattare perché di simili arresti ne accadevano tanti e che era impossibile seguire le tracce dei talebani.
L’enorme aumento dei civili uccisi dalla guerra, nei fatti, ha tolto ogni legittimazione all’occupante NATO - compreso il governo asservito.
Sempre secondo dati ONU, dal 2009 ad oggi le morti di persone “civili” sono state 59.000; solo nel 2015 la guerra ha ucciso 3.545 persone, ferite 7.457, profughe-immigrate interne e verso l’estero sicuramente milioni: nel solo marzo 2016 oltre 80.000.
Nello stesso mese i talebani sono penetrati nella città di Kundus, nel nord – fino al 2014 controllata dai reparti NATO (tedeschi) e nella città di Musaquala nel sud.
Per la NATO, con i talebani in Afghanistan é come con l’IS in Siria, l’importante è non abbandonare un territorio incuneato fra la Cina e la Russia.
Il ministro degli esteri USA, John Kerry, nel febbraio scorso, ha invitato a Washington Sartai Aziz, consigliere militare e politico del governo afghano. Tema dell’incontro è stata l’esortazione USA a trovare una seria soluzione della guerra in Afghanistan – sostenuta dalla promessa di un’offerta di otto aerei da guerra. Aziz per la prima volta ha ammesso che la direzione dei talebani era di casa nel vicino Pakistan. Ha spiegato che la diplomazia pakistana, dati quegli stretti rapporti, si trova in una posizione di forza; che Khawaja Muhammad Asif, ministro della difesa del Pakistan, in più occasioni ha fatto cenno alla necessità della partecipazione dei talebani, e del suo paese, a negoziati per mettere fine alla guerra. In tal modo la pace in Afghanistan assumerebbe “significato regionale”…
In proposito, è accaduto che alla fine di febbraio 2016 una delegazione militare d’alto rango della Cina si né recata in A. dove ha incontrato il presidente Aschraf Ghani; e, nello stesso tempo, Samir Kabulow, incaricato speciale del governo russo per l’A., si è affrettato a dichiarare che per negoziare con i talebani c’è soltanto un indirizzo: quello del governo di Kabul; fonti del governo afghano affermano che l’ambasciatore russo in A. avrebbe regalato all’esercito 10.000 kalaschnikow. In ogni caso, dei negoziati di pace con i talebani che dovevano iniziare a fine marzo, non è comparso nulla.

Il governo, lo stato, l’esercito afghani sono fantocci della NATO
Il governo di Kabul chiede ai talebani di riconoscere la costituzione afghana e i diritti delle donne, e che consegnino le armi. Mentre il presidente dell’A. Ghani esorta i talebani a “rispettare i diritti delle donne”, il suo stato ne uccide continuamente: nel 2015 nei 5.132 episodi di violenza contro le donne ne sono state uccise 180.
In un bilancio apparso nel gennaio 2016 veniva dimostrato che, nonostante il pesante aiuto finanziario della NATO, delle oltre 100 unità di fanteria dell’esercito, appena una era pronta ad intervenire; che 10 battaglioni, cioè oltre 60.000 soldati, sul totale di 350.000, non erano ancora abilitati al combattimento.
Il 23 dicembre 2015 l’agenzia Tolo-News ha diffuso la notizia che nella provincia di Nangrahar elicotteri inglesi e USA avevano trasferito combattenti dell’IS.
Il 15 marzo Ghani ha tenuto una conferenza stampa assieme al segretario della NATO Jens Stoltenberg dove hanno affermato che parlare di negoziati di pace sarebbe troppo presto, fallirebbero. La strategia della NATO è innanzitutto orientata, hanno sottolineato i due, a indebolire tramite la guerra i talebani per costringerli così a trattare.

La guerra per la NATO non ha alternative
Il 25 marzo 2016 i talebani hanno ucciso il gen. Khan Agha, responsabile di un’intera armata; tre giorni dopo sono riusciti a lanciare missili contro il palazzo del parlamento a Kabul; il 19 aprile nella stessa città, un commando suicida disposto su un camion ha sostenuto quattro ore di fuoco, con armi corte, nei pressi della sede del ministero della difesa. La battaglia ha causato 30 morti e oltre 300 feriti.
Di fronte alle porte di Kabul, nel nord, nella provincia di Ghasni nel centro, i talebani controllano otto distretti, 30 in tutto il paese.
Dal 9 agosto avanzano verso la città Lashkargah (nel sud dell’A.) dove controllano già cinque dei 14 circondari. Da gennaio alla fine di luglio sono riusciti a portare sotto il loro controllo il 60 per cento delle province… dove viene prodotto il 90 per cento dell’eroina mondiale. Alla fine di agosto un commando talebano ha attaccato l’Università Americana che ha sede in Kabul; lo scontro a fuoco è durato circa dieci ore; sedici le persone morte 39 ferite.
In conclusione: il “governo di unità nazionale” si sbrana da sé e non è nella condizione di dare sicurezza alla capitale, ancor meno alle province. Gli USA continuano con i bombardamenti, mentre i talebani avanzano. Questa la situazione in A. 15 anni dopo l’inizio della “guerra contro il terrorismo”.

6 ottobre 2016, liberamente tratto da jungewelt.de


Bombardamento aereo Usa contro lo Yemen
Martedì 11 ottobre gli USA per la prima volta (ufficialmente) hanno direttamente bombardato Sanaa, capitale dello Yemen. Finora si erano impegnati nel “sostegno logistico”, ossia, nella fornitura di armi e di informazioni all’Arabia Saudita (AS), loro stretta alleata.
La rappresaglia diretta USA, dicono loro fonti ufficiali, è collegata a un “incidente” avvenuto due giorni prima in acque internazionali vicine alla costa yemenita. Sarebbero stati lanciati due missili in direzione della portaerei USA “Mason”, finiti però in acqua. Il Pentagono (comando delle forze armate USA) sostiene che quei missili siano stati lanciati dal territorio yemenita controllato dall’Alleanza fra sciiti Ansarollah e parti dell’esercito regolare yemenita.
La “Mason” è una delle tre navi da guerra spostate nelle ultime settimane nella via marina che collega Mar Rosso e Golfo di Aden, successivamente all’attacco contro una nave da guerra battente la bandiera degli Emirati Arabi Uniti (stretti alleati dell’AS e dunque degli USA). Il governo di Sanaa ha rivendicato quell’attacco – la nave non sarebbe stata affondata, come si dice in quel comunicato, ma senz’altro gravemente danneggiata, come mostrano sue foto scattate in un porto dell’Eritrea dove ha trovato riparo.
Il giorno prima, 10 ottobre, l’aviazione dell’AS ha compiuto un lancio di 4 missili contro un corteo funebre pubblico in corso a Sanaa: quei missili hanno ucciso 155 persone (fra loro ci sarebbe anche il sindaco di Sanaa) e ne hanno ferite oltre 500; rimane gravemente danneggiata anche la sede dell’Assemblea Nazionale – luogo della manifestazione funebre.
L’attacco saudita mira esplicitamente a eliminare la coalizione governante nello Yemen sorta dall’accordo fra l’organizzazione sciita Ansarollah e i seguaci dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh.
Il “Governo di Salvezza Nazionale”, che AS, USA e co. vogliono abbattere, viene insediato in quegli stessi giorni. Al suo vertice è posto Abdulasis Ben Habtur, ex capo amministrativo del porto di Aden, membro del partito “Congresso Generale del Popolo”.
Il nuovo governo si trova però a scontrarsi con il governo di transizione guidato da Abed Rabbo Mansur Hadi, il cui legittimo mandato è terminato oltre due anni fa, e lui è fuggito a Sanaa. In settembre (2016) comunica di essere tornato, ma nessuno lo vede.
Di sicuro il pericolo della sicurezza a Aden proviene principalmente dagli islamici armati di Al Qaida e dell’IS. Il gruppo Hadi, con loro, quanto meno è sceso a patti, dato che sia dal sud Yemen che dai quartieri di Aden non sono mai stati cacciati.
Per bocca del portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Price, gli USA, il giorno stesso del bombardamento su Sanaa, precisano che: “La collaborazione con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco. Anche se noi sosteniamo l’Arabia Saudita nella difesa della sua integrità territoriale, esprimiamo i nostri dubbi sul conflitto nello Yemen e sul modo in cui viene condotto.” La parabola dell’assegno in bianco era già stata espressa dal Pentagono dopo il bombardamento dell’ospedale di “Medici Senza Frontiere” che causò 19 morti.
Nei fatti: Obama in agosto davanti al Congresso ha detto che il governo si proponeva di fornire alla casa reale di Riad armi per un valore di 1,15 mld di dollari. La mozione per rifiutare l’affare presentata in Senato il 21 settembre è stata bocciata con: 27 voti contrari, di fronte a 71 a favore. Quel che accade è che le forze armate USA continuano a fornire alla coalizione di guerra araba aerei-caccia, capaci di colpire più obiettivi, lo stesso vale per le informazioni militari più minuziose e no raccolte dal sistema poliziesco-militare USA. Il ritiro degli USA dallo scenario militare descritto è, nella realtà, più lontano della partecipazione ulteriormente rafforzata.
Il 17 ottobre 2016 la Marina USA, comunica che, per la terza volta nell’arco di una settimana, la portaerei “Mason” sarebbe stata colpita da missili, stavolta assieme a una nave simile, la “Nitze” (che con la “Ponce”, nave da sbarco dotata armi-laser anfibie e la “Mason” completa il dispiegamento marino USA in quei mari). La risposta USA è stata compiuta con il bombardamento di stazioni radar yemenite con lancio di missili Cruise. Gli USA dicono che le loro navi non avrebbero subito nessun danno.
Il governo degli Ansarollah dichiara apertamente che gli USA stanno semplicemente predisponendo il terreno per giustificare una loro invasione terrestre nella provincia di Hudaida (sud-ovest di Aden).
Negli stessi giorni il ministro degli esteri USA, Kerry, assieme ai suoi colleghi dell’AS, Emirati Arabi Uniti e dell’Inghilterra, ha lanciato un appello a tutti i partiti yemeniti… “di mostrare flessibilità e disponibilità al compromesso per riprendere i negoziati, per giungere rapidamente ad un cessate il fuoco”. Fino ad ora questi appelli sono naufragati perché l’AS esige dal governo del sud la capitolazione, la resa, intimazione respinta senza preamboli dalla controparte – che ha imbracciato le armi.

13 ottobre 2016, da jungewelt.de

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BOMBE MADE IN SARDINIA – profitto in cambio di morte
Si prepara una nuova guerra in Libia, o semplicemente si rinnova quella del 2011, voluta essenzialmente dal governo francese impegnato, tra le altre cose, a garantire alla compagnia Total il 35% delle concessioni petrolifere.
L'11 gennaio 2016 il Ministero della Difesa francese ha assegnato alla RWM Italia spa una commessa del valore di 225 milioni di euro per lo sviluppo e la fornitura di quattro tipi di bombe MK 82.
La RWM Italia spa ha la sua sede centrale a Ghedi, provincia di Brescia, e uno stabilimento a Domusnovas, nel Sulcis Iglesiente.
Lo stabilimento sardo produce e vende bombe, ordigni con un’alta capacità distruttiva come la BLU-109 ad alta penetrazione e sospetto utilizzo di uranio impoverito o le MK 82 e modelli a seguire. Queste ultime in particolare hanno attirato le attenzioni dell’opinione pubblica per le “strane” spedizioni verso l’Arabia Saudita dove sono state usate per bombardare lo Yemen; uno dei tanti conflitti, magari poco conosciuti ma non per questo meno cruenti.
Si è molto dibattuto negli ultimi mesi sulla legalità di quell’operazione. Ecco ora una nuova importante commessa per un’altra guerra alla luce del sole e perfettamente legale. Ci preme sottolineare che non è questo il punto: non ci interessa trovare cavilli legali all’orrore.
In questo periodo di eterni conflitti, che per alcuni significano esclusivamente business, si prospetta in Sardegna un ampliamento della RWM, grazie ad altre commesse e in vista di nuove guerre. Si sa che le multinazionali fanno i migliori investimenti nei paesi con più difficoltà economiche, non da ultima la Sardegna, dove il ricatto occupazionale è sicuramente più sentito che altrove.
Noi pensiamo fermamente che prosperare sulla vita e la morte delle persone non possa essere un mestiere, che si avviti un bullone o si concluda un’importante commessa. La possibilità di perdere alcuni posti di lavoro in un territorio devastato economicamente e socialmente crea ansia; lo possiamo capire, ma non per questo accettare. Non vogliamo esser ciechi né schiavi, dobbiamo trovare il modo di liberarci dall’idea che per pagare un mutuo trentennale sia necessario far parte di un meccanismo che ingrassa gli interessi di una politica economica fondata sulla guerra. [...]

ottobre 2016, estratti da un dossier diffuso al campeggio antimilitarista in Sardegna
la guerra delle multinazionali della floricoltura in etiopia
La stazione centrale di Milano è abitata da centinaia di persone fuggite da paesi presi di mira dalle guerre imperialiste. L’Etiopia ne è un esempio come le cronache seguenti cercano di descrivere, per riuscire ad affrontare le cause, più in generale il rapporto con la fuga dalle guerre, l’immigrazione…

In Etiopia le ondate di protesta erano già comparse nel novembre 2015, ma da alcune settimane dell’agosto scorso sono sfociate in scontri con la polizia, che ha sparato sui manifestanti, uccidendone 55 (come si dice più avanti), ci sono anche persone ferite e arrestate – secondo l’opposizione almeno 3.000 scomparse nelle carceri senza aver conosciuto né interrogatorio né processo. Il governo è impegnato a dare ogni responsabilità a “elementi terroristi”.
Nelle ragioni delle proteste gioca un ruolo centrale il Piano varato dal governo diretto ad estendere il territorio della capitale Addis Abeba (per cederlo alle multinazionali dei fiori): una decisione che minaccia le condizioni di lavoro e di vita di parecchie migliaia di contadini. Le proteste, inoltre, sono alimentate dalle contraddizioni etniche.
La gran parte, circa il 35/40% della popolazione etiope appartiene all’etnia oromo, al pari dell’etnia amhara, un poco meno numerosa; queste etnie si sentono svantaggiate nei confronti dell’etnia tigray (circa il 6% della popolazione totale) che oggi ha nelle sue mani le redini dello stato.
Le manifestazioni già nel dicembre 2015 avevano spinto il governo a congelare i piani d’estensione della capitale ma sono proseguite mettendo al centro la liberazione di tutte le persone arrestate. In gioco c’è dunque il sistema autoritario dominante nel paese, la brutalità, conosciuta da tempo e impiegata dagli organi dello stato.
L’Etiopia fondamentalmente è uno stato a partito unico. I partiti d’opposizione sono ammessi, ma le loro iniziative vengono drasticamente ostacolate; non sono presenti né nel parlamento nazionale né nelle rappresentanze regionali. Dal 2010 l’opposizione in parlamento usufruisce di un solo seggio. Il governo etiopico, in quanto importante alleato di USA e Europa, è immune da ogni loro critica.
All’inizio di settembre numerose aziende floreali sono state assalite e messe a fuoco da manifestanti. Le aziende colpite sono olandesi, italiane, belghe, indiane e israeliane. Gli attacchi sono avvenuti nel nord, nei pressi della città di Bahir. Da mesi questa regione è percorsa da proteste contro il governo, aggredite dalla polizia che spara uccidendo migliaia di persone.
Secondo informazioni della società giardiniera olandese Esmeralda, presa di mira dalle manifestazioni, i danni subiti dalle sue piantagioni, comprese le distruzioni di frigoriferi e pompe idrauliche, si aggirano attorno a 10 mln di euro…
La ministra olandese per il commercio estero ha dichiarato che i coltivatori di fiori olandesi in Etiopia sarebbero “diventati i pupazzi nel conflitto fra il governo e le etnie”. Non è così: le aziende fioraie estere non sono assaltate a caso dall’opposizione. Loro, come ogni investitore estero, piuttosto, possono fare affidamento su un grosso aiuto del governo comprendente l’offerta di sempre più estesi spazi per la coltivazione, di fonti d’acqua per l’innaffiamento, mentre le superfici coltivabili dei contadini etiopici vengono rimpicciolite.
E’ insensato ma è la realtà: in Etiopia, uno dei paesi più poveri del mondo, spesso colpito da carestie, su una grossa parte della superficie agricola vengono coltivati fiori. Lo stesso vale per le fonti d’acqua. I fiori delle multinazionali tolgono terra, acqua, pane, vita alla popolazione che si tenta di annullare: da qui la rivolta…
La società olandese che ingloba anche Esmeralda, presa di mira dalle manifestazioni, si chiama ‘Royal Flora Holland’ con sede nella città di Aalsmeer. E’ una società formata da oltre 5.000 aziende floricoltrici olandesi e di altri paesi. Suo preciso compito è la vendita della produzione. Commercianti di tutto il mondo ogni giorno si incontrano a Aalsmeer per acquistare tulipani, gigli e crisantemi. L’offerta di fiori è gigantesca: avviene su una superficie di oltre 1 milione di mq (più grande dell’aeroporto di Qatar); i fioristi possono scegliere fra 20.000 tipi di fiori; le rose, i fiori più richiesti, in gran parte vengono coltivate nell’Africa dell’est (appunto, dove ci sono Etiopia, Somalia, Kenia…). Flora Holland nel 2015 avrebbe realizzato vendite per un totale di 4,6 mld di euro.
All’azienda Esmeralda sono andati a fuoco trattori, camion e i capannoni di confezionamento. Da un anno è in Etiopia dove coltiva(va) fiori su 150 ettari; il personale è formato, dalla direzione fino agli operai, solo da persone olandesi – 560, ora ritornati in patria. Il capo di Esmeralda: “Se continua la violenza non possiamo restare. Il governo deve aprire gli occhi e riflettere sul come trattenere gli investimenti esteri in Etiopia.”
Per il momento, in apparenza, non ci sono conseguenze sul mercato. A Aalsmeer la Germania è, con ampio margine, il maggior acquirente di fiori.
A inizio ottobre, a Bischofu, città della regione abitata dall’etnia oromo, migliaia di persone raccolte in rito religioso, si scontrano con la polizia, che vuole sciogliere la manifestazione e spara uccidendo 55 persone.
Ad Addis Abeba, la capitale, pochi giorni dopo, nel corso di un’ennesima manifestazione contro il governo, vengono uccise dalla polizia 450 manifestanti. In queste battaglie di strada sono andate distrutte: una dozzina di fabbriche, oltre 60 auto-camion.
Le proteste sono sollevate dalle conseguenze di un’industrializzazione che attira gli investitori stranieri. Chi manifesta accusa il governo etiopico di rapinare il loro paese per venderlo benevolmente alle aziende (estere).

agosto-settembre 2016, estratti da jungewelt.de


“Reprimerli a casa loro”
Sugli accordi della UE con i paesi di origine dei/delle migranti
L’accordo con la Turchia non rappresenta una novità della politica dell’unione europea in materia migratoria ma un’inquietante accelerazione di un processo di condizionalità degli aiuti alla cooperazione che l’unione elargisce ai partner dell’altra sponda del mediterraneo in cambio del supporto al controllo dei flussi migratori diretti versi l’europa.

Questo processo di esternalizzazione dei controlli delle frontiere esterne della UE, infatti, è stato avviato oramai anni fa. Senza andare troppo indietro nel tempo, è sufficiente citare il Processo di Rabat del 2006, il Processo di Praga del 2009, la strategia di Dakar del 2011 fino ad arrivare al recente Processo di Khartoum del novembre 2014.
Partenariati questi che hanno aperto la strada ad un’interpretazione estensiva delle politiche di cooperazione allo sviluppo: in pratica, in cambio di ingenti finanziamenti da parte dell’unione europea, gli stati partner – principalmente africani, ma il processo abbraccia anche territori molto più vasti dell’area asiatica e pacifica, si pensi all’accordo di Cotonou del 2000 – si impegnano a supportare le politiche migratorie europee, a facilitare il rimpatrio dei propri connazionali etichettati dall’europa come clandestini ma anche di persone provenienti da altri paesi che hanno transitato nel paese africano in cui poi vengono rimpatriati.
Gli aiuti elargiti dall’europa sono destinati sia a finanziare processi di sviluppo capitalista all’interno del Paese – nell’ottica di depotenziare i cosiddetti “push factors” ovvero i fattori di natura economica e sociale che spingono le persone ad emigrare verso l’europa – sia a fornire allo stato partner le adeguate conoscenze tecniche, di polizia e di intelligence, nonché i necessari macchinari, per implementare un rigido ed efficace controllo delle frontiere. Questa strategia di esternalizzazione – che evidentemente mira a contrastare a monte le partenze dei migranti – è stata ribadita nell’Agenda Europea sulla Migrazione del maggio 2015, documento base della strategia comunitaria in materia di politiche migratorie, i cui quattro pilastri sono rappresentati dalla riduzione degli incentivi alle migrazioni irregolari, da un più rigido controllo delle frontiere esterne, dal rafforzamento della politica di asilo comune e dall’introduzione di meccanismi di ingresso regolare temporaneo per lavoratori stranieri altamente qualificati, detentori ad esempio della famosa “Blue Card”.
È stata riconfermata, inoltre, anche dal “Partnership Framework” del giugno 2016, una strategia di azione con la quale la UE mira a stabilire rapporti strategici con i Paesi di origine e transito dei flussi migratori – a partire da Niger, Nigeria, Senegal, Mali ed Eritrea, i 5 paesi pilota – al fine, nel breve periodo, di contrastare l’immigrazione irregolare e, nel lungo periodo, di utilizzare strumentalmente la cooperazione allo sviluppo per spostare sempre più in là le frontiere esterne dell’unione. Il “Partnership Framework” – la cui implementazione è stata oggetto in questi giorni di un monitoraggio che ha raccolto l’ipocrita entusiasmo dei rappresentati istituzionali della Ue che continuano a presentarlo come una misura essenziale per ridurre il numero dei morti in mare – costituisce, ad oggi, lo strumento principale di esternalizzazione dei controlli alle frontiere e si sostanzia, da un punto di visto finanziario, dello “EU Trust Fund” – un programma di aiuti finanziari mirante a contrastare alla radice i flussi migratori irregolari in partnership con numerosi paesi del continente africano.
D’altronde già all’inizio di quest’anno le intenzioni della Ue in materia di politiche migratorie venivano esplicitate dalla comunicazione della Commissione europea n. 85 del 10 febbraio 2016 in cui oltre a monitorare lo stato di avanzamento dell’Agenda europea sulla migrazione si ribadisce il ruolo strategico dei partner africani nel controllo dei flussi migratori.
Questa Comunicazione del febbraio 2016 riveste un’importanza fondamentale per comprendere l’attuale panorama delle politiche migratorie della UE. Infatti, da un lato, vengono esposti una serie di meccanismi di rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne della UE: si ribadisce l’importanza del sistema hotspot, si invitano gli stati sia al raggiungimento del 100% delle identificazioni delle persone appena arrivate sul suolo europeo sia all’introduzione negli ordinamenti giuridici interni della nozione di “Paese terzo sicuro” – che come sappiamo è alla base delle procedure di esternalizzazione dei controlli – e della possibilità dell’uso della forza come strumento di ultima istanza per piegare la resistenza all’identificazione.
Sempre in materia di controllo delle frontiere esterne, la Comunicazione menziona la creazione della European Border and Coast Guard, ovvero la Guardia Costiera europea destinata a sostituire gradualmente FRONTEX e a cui è stata riconosciuta la possibilità, in caso di emergenza, di agire direttamente sul territorio degli Stati membri.
La European Border and Coast Guard, in effetti, non solo è stata creata ma ha iniziato già ad operare sul campo con l’obiettivo di verificare la sicurezza delle frontiere esterne di alcuni paesi UE quali Grecia, Lettonia, Germania, Finlandia, Romania e Slovenia. Se a ciò si aggiunge la recente riforma del regolamento Schengen del marzo 2016 – che disciplina in maniera estremamente restrittiva i controlli alle frontiere esterne della UE, le condizioni per accedervi regolarmente e ribadisce la possibilità per gli stati di sospendere la libera circolazione interna alla ue in caso di emergenza, come è accaduto varie volte dall’inizio della cosiddetta “crisi migratoria” – risulta evidente che l’europa sta rafforzando la fortezza, colmando i buchi che nel tempo si erano creati nella rete che la circonda. Proprio in questo contesto, assumono rilevanza centrale gli accordi con i partner extra-UE definiti indiscriminatamente Paesi terzi sicuri – come ribadito dalla già menzionata Comunicazione del 2016 – dove per Paese terzo sicuro si intende, secondo quanto disposto dall’art. 35 della Convenzione di Ginevra, ognuno di quei Paesi dove esiste la possibilità di ricevere una protezione conforme ai principi della Convenzione stessa senza che necessariamente lo Stato l’abbia ratificata senza riserva geografica. In tal senso si capisce, perché la Turchia sia stata scelta come volano di questa accelerazione dell’esternalizzazione dei controlli alle frontiere.
Con il cosiddetto Statement del 18 marzo 2016, alla Turchia – firmataria appunto della Convenzione di Ginevra con riserva geografica, ovvero della versione originaria della Convenzione che prevedeva la possibilità di riconoscere la protezione internazionale solo ai cittadini di Paesi europei ed in particolare a quelli che scappavano dal regime sovietico durante la guerra fredda – viene richiesto di riprendersi i “migranti economici” che hanno attraversato illegalmente il confine greco a partire dal 20 marzo; di rimpatriare cittadini siriani e per ogni siriano rimpatriato, un altro verrà ammesso nel territorio dell’unione secondo il meccanismo di “resettlement” (il c.d. sistema 1:1). Viene inoltre aumentato di oltre tre miliardi di euro il volume di finanziamenti da destinare alla Turchia e viene promessa l’accelerazione della liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi e della tabella di marcia per l’adesione alla UE. Su tale accordo tanto è stato detto sia a proposito dell’illegittimità da un punto di vista giuridico sia sull’impatto dei rimpatri sulla vita e i corpi dei migranti in un Paese, la Turchia appunto, che viene definito come paese terzo sicuro e paese di primo asilo nonostante le ripetute violazioni dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Quello che qui rileva, tuttavia, è che questo accordo – caratterizzato da un’informalità giuridica che ne ha velocizzato la stipula e l’applicazione – lungi dall’essere una novità della politica europea rappresenta il prototipo da applicare a ripetizione per rispondere efficacemente a quella che i media e i politicanti descrivono da tempo come l’emergenza migratoria o la crisi dei profughi.
La solita logica dell’emergenza, insomma, che fa crollare come un castello di carte la retorica dei diritti, dell’europa come faro di civiltà e democrazia, della terra dell’accettazione della diversità da opporre al resto del mondo non occidentale, continuamente descritto come retrogrado e sottosviluppato. La realtà ci racconta, invece, che quando le persone arrivano ai confini della fortezza europa e tentano di accedere e di rivendicare la libertà di muoversi a prescindere da frontiere e filo spinato, questi bei diritti diventano degli scomodi optional. Ed è così che la Turchia diventa un partner strategico verso cui deportare i migranti; la Grecia torna ad essere un Paese sicuro verso cui trasferire i richiedenti protezione internazionale secondo quanto previsto dal sistema Dublino; paesi contro i quali la comunità internazionale ha scagliato nel tempo i suoi anatemi imponendo “democratizzazioni” forzate d’un tratto diventano i paladini dell’ordine nel mar mediterraneo.
Non siamo certo nuovi a questi processi di rimozione della memoria politica, basti pensare alla lunga sequela di accordi stretti dall’Italia con la Libia e ai soldi elargiti per la costruzione sulle coste libiche di centri di detenzione per i migranti irregolari rimpatriati. Tuttavia, l’emergenza sta producendo una proliferazione incontrollata di accordi – sia bilaterali che a firma UE – finalizzati a velocizzare le procedure di espulsione e a interrompere le rotte migratorie non solo nel mediterraneo.
Si può menzionare il Memorandum di intesa che la polizia italiana ha firmato con lacontroparte sudanese. Secondo tale accordo funzionari del governo sudanese sarebbero accolti nei porti italiani per identificare i migranti irregolari. Inoltre, in casi urgenti e per motivi di sicurezza, il rimpatrio potrebbe essere disposto anche senza il colloquio individuale di identificazione aumentando in maniera sconcertante la discrezionalità delle forze di polizia italiane. E se poi una persona ritenuta erroneamente sudanese viene deportata in Sudan? Bè, in caso di errore l’Italia si dichiara disposta a ricondurla in Italia senza però dire come ed entro quali tempi. Gli effetti prodotti da questo accordo sono noti: 48 persone sono state rimpatriate senza grandi cerimoniali formali da Torino alla volta di Khartoum. Pare, inoltre, che siano in corso i negoziati per replicare un accordo simile anche con il Gambia.
Ma l’attività diplomatica firmata UE non sembra arrestarsi. Sul modello dello Statement UE-Turchia, di recente due ulteriori accordi informali sono stati firmati. Il 2 ottobre è stata la volta dell’Afghanistan a cui la UE ha promesso 4,8 miliardi di euro di “aiuti umanitari” in cambio di una stretta collaborazione nei rimpatri e nel contrasto ai flussi di migranti irregolari: a tal fine, una serie di voli da circa 50 passeggeri riporteranno gli afghani rastrellati nei Paesi dell’unione a Kabul dove un terminal dell’aeroporto è stato completamente dedicato a ricevere i rimpatriati.
La logica negoziatoria di questi accordi viene candidamente ammessa dal presidente del consiglio europeo Donald Tusk, secondo il quale dai paesi partner “non ci aspettiamo ringraziamenti, ma ci aspettiamo che i Paesi di origine riaccolgano i propri migranti economici irregolari”. Allo stesso modo, il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha affermato che “gli aiuti sono condizionati al progresso delle riforme in Afghanistan e ci aspettiamo cooperazione sul fronte migratorio”.
I negoziati sono stati aperti il 12 ottobre anche con la Tunisia alla quale – in cambio della liberalizzazione dei visti e dall’aumento di canali per l’immigrazione regolare verso l’Europa – viene richiesto di collaborare assiduamente al contrasto delle partenze via mare verso l’europa e alla riammissione dei tunisini irregolari. Si vocifera di accordi simili in procinto di essere firmati anche con Eritrea, Sudan e Niger.
Di fronte a questo fitto quadro di repressione e controllo delle esistenze che dalle frontiere si diffonde a macchia d’olio sia all’interno del territorio degli stati – con retate, controlli di massa e profiling etnico – sia al di là delle frontiere stesse – in territori che vengono alternativamente rappresentati come l’eldorado della repressione contro i migranti in salsa europea o come forze oscure del male generalmente di matrice islamica – le pratiche di resistenza e rivolta sperimentate dai soggetti oppressi, i/le migranti, rappresentano l’unica forza in grado di inceppare l’ingranaggio del controllo. Da parte nostra, la solidarietà e la lotta contro ogni tipo di frontiera e militarizzazione l’unica risposta possibile.

20 ottobre 2016, estratti da hurriya.noblogs.org

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Libia: la guardia costiera assalta un naviglio di profughi
L’organizzazione mondiale di soccorso sul mare, “Sea Watch”, annuncia che ieri la guardia costiera della Libia ha attaccato, con assalto, nei pressi della costa libica, un battello carico di almeno 150 persone profughe, numerose delle quali sono rimaste uccise. Nell’assalto, la polizia ha sparato e manganellato, al punto di costringere tante persone a gettarsi in mare piuttosto che finire immediatamente ammazzate. Quante persone siano state uccise non si sa, di sicuro c’è che quattro cadaveri sono stati ripescati. Ufficialmente la marina della Libia, smentisce persino quanto accaduto.

22 ottobre 2016, da jungewelt.de

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Lampedusa, 3 ottobre 2013, il naufragio della verità
Di seguito riportiamo l’introduzione e il paragrafo di chiusura di una approfondita analisi scritta dai compagni del collettivo Askavusa di Lampedusa (askavusa.wordpress.com) a partire dal lavoro di inchiesta svolto all’indomani del naufragio di un barcone carico di emigranti in cui i morti accertati furono 368 e circa 20 i dispersi presunti.
Il dossier può essere richiesto alla casella postale di Ampi Orizzonti.

Questo lavoro di ricerca e analisi sulla strage del 3 ottobre del 2013 a Lampedusa nasce come un ulteriore approfondimento alla video inchiesta di Antonino Maggiore – Libera Espressione. A 3 anni dall’accaduto pensiamo sia giusto mantenere viva l’attenzione su alcuni punti quali il mancato soccorso e gli interessi economico-politici che stanno alla base di questo e di altri naufragi.
Riteniamo che il problema delle migrazioni contemporanee nell’area del Mediterraneo si debba far derivare dalle leggi che l’UE ha imposto agli stati membri per aderire al Mercato Interno Europeo e a Schengen.
Si possono pagare fino a dieci mila euro e impiegare anche molti anni prima di arrivare in Europa. Spesso si scappa da una guerra, altre volte dallo sfruttamento del proprio territorio, altre volte si è semplicemente alla ricerca di un lavoro.
Se i soldi spesi nella militarizzazione delle frontiere (Sicurezza) e nei centri di detenzione per migranti (Accoglienza) fossero stati impiegati nella regolarizzazione dei viaggi e nelle politiche sul lavoro, sicuramente non avremmo visto morire migliaia di persone con queste modalità. Dal nostro punto di vista il problema rimane il sistema economico attuale che ha fatto del profitto il fine ultimo di ogni azione. Il capitalismo neoliberista, di cui l’UE è una delle espressioni politiche, fa ogni giorno migliaia di vittime che non hanno spazio nei TG e nelle rappresentazioni di Stato, non servendo a giustificare alcun tipo di politica: ne sono semplicemente le vittime. Nessuno parlerà di loro, nessuno nominerà i loro nomi. Una delle cose più aberranti della strage del 3 ottobre è proprio questa: le vittime vengono continuamente evocate divenendo uno strumento per giustificare le politiche di quei soggetti responsabili delle loro morti.
Alle vittime dell’imperialismo capitalistico.

Da anni associamo il nostro lavoro di recupero della memoria con l’analisi politica e storica, con la prassi quotidiana, associando lo studio sulle migrazioni alle lotte sul territorio. Da tempo abbiamo rifiutato di far parte del grande apparato politico/mediatico e rifiutato finanziamenti da personaggi come Soros e la sua fondazione Open Society, che fanno parte di quella galassia dei sostenitori dei Diritti Umani e della democrazia che hanno smantellato le conquiste dei lavoratori e destabilizzato nazioni.
Nella retorica tritacarne sono finiti anche gli stati nazione, ultime istituzioni politiche a potere arginare l’espansione totale del capitale neoliberista. La retorica del mondo senza muri e frontiere viene ripetuta come un mantra svuotato di senso e collocazione politico/storica. Così anche i più ben intenzionati ma sprovveduti si sono ritrovati invischiati nel discorso neoliberale e imperialista.
Anche qui a Lampedusa la declinazione di un tale paradigma gioca un ruolo importante: “proteggere le persone non i confini” è uno degli slogan del Comitato 3 ottobre ed è quello che si legge davanti al muro prima di entrare sul molo Favaloro (il molo in cui i militari portano i migranti e da dove poi vengono trasferiti nell’Hot Spot con dei pulmini).
Ma i confini sono un atto politico, come lo sono gli stati nazione. Non sono dati naturali e non implicano pratiche predefinite e immutabili. Una loro critica e ridefinizione dal punto di vista dei subalterni può allora assumere un certo senso; l’idea di un loro abbattimento, in un’ottica capitalista e globalista, occultata dal buonismo umanitarista, ne ha drasticamente un altro. Lampedusa, quindi, rimane uno dei centri di produzione del mito collettivo contemporaneo, un mito anche questo rovesciato. Un mito senza mito, popolato da “eroi normali”.


Egitto: Il carcere della dittatura uccide!
239 decessi , 597 casi di mancata assistenza medica, 1031 casi di tortura, più 1083 casi di assassini dentro strutture detentive (fonte).
Sono solo alcuni dei casi che si è riusciti a provare, provenienti dall’inferno del sistema carcerario egiziano, da quando al potere si è istaurato il dittatore al-Sisi due anni fa (da cui sono escluse tutti i luoghi di morte a disposizione dei servizi segreti). Per il solo mese di settembre il centro el-Nadeem ha riportato 2 assassini da parte delle forze di sicurezza, 5 casi di morte in luoghi di detenzione, 52 casi di tortura, 28 casi di negligenza medica e 113 casi di sparizioni forzate. Sono invece più di 1840 le condanne a morte inviate al vaglio del mufti d’Egitto in tre anni di regime militare.
La crisi economica che sta uccidendo lentamente il paese non fa che aumentare la repressione del regime egiziano con cui, ricordiamolo, Italia e Ue sono orgogliose di aver stretto accordi per il respingimento e l’espulsione di migranti insieme ad altre due brutali dittature della zona, il Sudan e l’Etiopia.
E’ così che sei sindacalisti del trasporto pubblico che avevano chiamato allo sciopero (un diritto garantito formalmente dalla costituzione) per chiedere un aumento dei loro salari, il 24 settembre, sono stati prelevati dalle loro case e fatti sparire per alcuni giorni in un luogo sconosciuto. I sei – già carcerati durante la presidenza di Morsi per il loro attivismo sindacale – adesso sono dentro accusati di essere degli islamisti in procinto di organizzare una cellula terroristica per sovvertire il regime.
Due giorni dopo tre giornalisti sono stati arrestati mentre intervistavano persone per le strade del Cairo con l’accusa di pubblicare false notizie. I tre sono stati picchiati e sottoposti a shock elettrici durante la loro detenzione. Una prassi comune nei centri di detenzione egiziani.
Un ragazzo di 26 anni a Damietta, invece, è stato ucciso a sassate da uomini della polizia dopo che si era gettato in un canale d’acqua nel tentativo di scappare a uno dei tanti posti di blocco.
Mohanad Ehab, invece, è morto di carcere! Vent’anni, ammalato di leucemia era andato a curarsi negli USA. Mohanad sempre accusato di partecipare a manifestazioni non autorizzate era stato arrestato a 17 anni nel 2013 quando al potere c’era Morsi e poi nel 2015. L’ultima volta, nel marzo del 2016 era già malato quando è stato messo dentro nel carcere di Borg el-Arab. Lasciato senza cure e con le stesse privazioni degli altri detenuti nei mesi della sua detenzione sputava sangue e sanguinava dal naso. Il male lo stava uccidendo eppure la famiglia ha dovuto pagare fino all’ultimo per fargli arrivare del cibo sano dentro la prigione. Così quando è stato scarcerato, solo su pressione di una campagna per i diritti umani, ormai non c’era più nulla da fare.
Quello di Mohaned è solo uno, l’ennesimo caso, di negligenza medica in carcere. Le cure sono vietate. Se sei dentro in qualche modo devi morire!
Libertà per tutt*!!

13 ottobre 2016, da hurriya.noblogs.org


aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma: saluti solidali alle recluse e aggiornamenti dal CIE di Ponte Galeria
Nel CIE romano di Ponte Galeria al momento ci sono circa 70 recluse, mentre continua a essere chiusa la sezione maschile, distrutta dalla rivolta dell’inverno scorso. La situazione all’interno del CIE che ci viene raccontata quotidianamente dalle detenute è quella che purtroppo ci troviamo spesso a riportare.
I problemi più sentiti sono le condizioni igieniche insopportabili e il cibo scadente, che da sempre accompagnano la prigionia delle detenute e dei detentuti di ogni CIE.
Resta ancora il problema legato all’accesso alle visite ginecologiche: il protocollo d’intesa firmato da Prefettura e ASL Roma D sembra sia servito soltanto alla Questura per non fare uscire le detenute dal centro per effettuare le visite mediche, negando in pratica l’assistenza sanitaria.
Al momento molte delle donne imprigionate sono richiedenti asilo, quindi i tempi di permanenza medi sono abbastanza alti (intorno ai 6-8 mesi), tra la richiesta di asilo, la risposta, il ricorso e i soliti lunghissimi tempi della burocrazia. Diverse le persone che invece dal CIE ci passano solo per qualche giorno, in vista dell’espulsione o del rimpatrio forzato con accompagnamento alla frontiera.
Da dentro ci dicono che la situazione è molto tesa. Spesso ci sono litigi e discussioni, a volte anche accese. Sopportare una lunga prigionia in attesa di risposte che non arrivano mai, farcite di menzogne e false promesse crea un clima di tensione difficile da gestire.
Quello che emerge di più dai racconti delle prigioniere è proprio questo gioco di ricatti continui. I carcerieri di turno promettono libertà o esiti positivi di commissioni sulle richieste d’asilo in cambio di calma e docilità. Provano sempre a dividere le detenute tra di loro e soprattutto con chi è solidale da fuori. Per questo è necessario continuare ad andare sotto quelle mura, finché ogni lager di stato non venga abbattuto.
Domenica 9 Ottobre una decina di compagne sono andate davanti al CIE di Ponte Galeria per qualche slogan di solidarietà nei confronti delle donne recluse, accompagnato da fuochi d’artificio.
Da dicembre, l’unica sezione funzionante nel CIE romano è quella dove sono detenute le donne. Due giorni fa, la violenza degli Stati e dei loro confini ha ucciso Milet, una ragazza migrante che tentava di continuare il suo viaggio attraversando la frontiera a Ventimiglia. La stessa violenza europea che imprigiona e deporta ogni giorno tantissime persone. Il sistema di dominio del patriarcato non ha confini, infatti si riflette in oppressioni specifiche dai luoghi di nascita alla democratica Europa, passando per la repressione, poliziesca e non, inflitta durante il viaggio. Gran parte dei dispositivi di militarizzazione e controllo delle frontiere si sviluppano seguendo il vettore della lotta alla tratta per “liberare le donne”, stessa politica che intensifica le continue retate e la militarizzazione delle strade in chiave securitaria, strumentalizzando la violenza maschile contro le donne per mostrificare i migranti. Il tentativo continuo è quello di nascondere che la violenza sessista è agita dagli uomini, con o senza divisa, ovunque. Mentre l’Italia infantilizza e vittimizza le donne migranti, considerandole soggetti da accogliere e gestire, ogni giorno le donne continuano le resistenze alle deportazioni e alle identificazioni, e i tentativi di passare le frontiere anche a costo della vita.
Il CIE di Ponte Galeria è l’unico, al momento, che imprigiona le donne, poiché gli altri centri di identificazione ed espulsione sono stati chiusi dalle rivolte. Nello stesso CIE, l’infermeria viene utilizzata come sezione per le persone trans, determinando così una triplice oppressione: migrante, detenut*, e isolat* attraverso la negazione della propria identità. Il saluto solidale di oggi vuole essere anche l’invito a tutt* a lottare contro la violenza specifica che gli Stati agiscono sui corpi delle donne e delle persone trans, con e senza documenti.

Spagna: rivolta nel CIE di Aluche a Madrid
Con la fine della rivolta, scoppiata il 18 Ottobre, nel CIE di Aluche è cominciata la ritorsione degli agenti di polizia. Malgrado durante la mediazione per porre fine alla protesta sul tetto le guardie avessero al solito garantito che non ci sarebbero state conseguenze, le cose sono andate in modo molto diverso. “Siamo scesi dal tetto e la conseguenza è stata un tremendo pestaggio.” Secondo H. sono stati aggrediti anche coloro che non avevano partecipato alla protesta. Un ragazzo che si trovava nella sua cella quando la rivolta è scoppiata racconta di essere stato picchiato: “Hanno picchiato tutti, tutti”. Nel settore dove sono recluse le donne, J. racconta: “Ho sentito i colpi e un sacco di urla e mi ricordo una voce che diceva ‘dagli, dagli, che non ci sono telecamere”.
Il giorno dopo tutti i reclusi e le recluse nel CIE hanno dovuto restare chiusi nelle loro celle con la luce accesa per 24 ore e non gli è stato permesso di fare telefonate. H. aveva deciso di non partecipare alla rivolta dei suoi compagni, ora riconosce che la sua decisione sarebbe stata diversa. La sua rabbia è aumentata: “Se si rivoltano di nuovo, non credo che possano fermarli. Le abbiamo prese senza aver fatto nulla. Così la prossima volta sì faremo qualcosa”. Queste testimonianze sono state riportate dai media che hanno anche pubblicato le foto delle ferite inferte ai reclusi. Le autorità come di consueto minimizzano quanto successo, ma il direttore della polizia ha dovuto ammettere davanti al Congresso dei deputati che tre migranti hanno dovuto ricorrere a cure mediche per le ferite ricevute. Il ministro degli interni ha garantito che i reclusi saranno comunque espulsi dalla Spagna, seguendo le direttive europee. Ieri, SOS Razzismo e la Coordinadora de Barrios hanno depositato una denuncia presso il tribunale sull’aggressione subita dai migranti, chiedendo che non siano deportati, per poter testimoniare. In passato inchieste e denunce simili, come nel caso della morte di una persona reclusa, non avevano portato a niente perché tutti i detenuti testimoni erano stati comunque espulsi. Da ieri 21 ottobre, a partire da mezzogiorno, tutti i/le detenut* nel CIE di Aluche hanno iniziato un sciopero della fame per protestare contro il maltrattamento all’interno del centro. Diversi gruppi solidali hanno chiamato una manifestazione che si è svolta sabato 22 Ottobre davanti al CIE di Aluche, a sostegno dello sciopero della fame dei/delle reclus* e per la chiusura del lager. Nel CIE nel quartiere di Aluche a Madrid, che ha una capienza di 214 posti e in cui sono attualmente rinchiuse 93 persone, la sera del 18 ottobre verso le 21.15 una sessantina di reclusi si sono rivoltati e 39 di loro (38 algerini e un marocchino) sono riusciti a farsi strada, dopo aver coperto le telecamere e forzato una porta blindata, fino sul tetto della struttura. La polizia ha completamente isolato la zona per evitare la fuga dei reclusi e ai/alle solidali di avvicinarsi, e le strade adiacenti al CIE sono rimaste per tutta la notte chiuse al traffico. Sul posto in pochi minuti sono intervenute unità della UIP (Unidades de Intervención Policial, polizia antisommossa) e dell’UPR (unità speciali di prevenzione e risposta). I reclusi hanno continuato la protesta trascorrendo la notte sul tetto del lager della democrazia, esponendo uno striscione e gridando slogan come “libertà” e “dignità”, e solo questa mattina, dopo 12 ore e una lunga trattativa con la polizia, sono rientrati all’interno del CIE. Nel corso della protesta alcun* solidali erano riusciti ad avvicinarsi alla struttura per portare il supporto ai rivoltosi. Ricordiamo che il 6 ottobre 67 persone erano fuggite dal CIE di Sangonera la Verde e 18 tra queste sono ancora in libertà. Il CIE di Madrid era invece stato teatro di una fuga quest’estate, il 24 agosto, quando in pieno giorno 17 persone erano fuggite segando le sbarre della finestra di un bagno. Di queste, 7 non sono state catturate. Solidarietà alle persone che si rivoltano nel CIE.

Francia: Val Roya, Spazio occupato da migranti e solidali
Lo spazio sociale autogestito Lucioles è stato sgomberato il 20 Ottobre a a St. Dalmas. Durante l'operazione 4 persone sono state fermate ed è stata perquisita l'abitazione di uno di loro. Nel frattempo poco distante a San Dalmazzo di Tenda, nella Val Roya francese, alcuni tra migranti e solidali hanno occupato un edificio pubblico nella stazione ferroviaria. Dopo due mesi la situazione causata dagli stati alla frontiera franco-italiana non ha smesso di peggiorare: centinaia di persone rimangono bloccate a Ventimiglia, le deportazioni verso il sud dell’Italia si contano a decine ogni giorno, le persone che rifiutano l’identificazione vengono picchiate o colpite con scosse elettriche; l’armata francese si dispiega tra le montagne e rintraccia i minori isolati…
Di fronte alle politiche repressive contro gli/le esiliat*, alle situazioni di angoscia che creano, ai bisogni sempre crescenti delle persone per strada, noi rifiutiamo di giocare al gioco degli stati e delle organizzazioni umanitarie che collaborano a questa gestione di morte. Noi affermiamo la nostra capacità di autorganizzazione e creiamo gli spazi d’accoglienza là dove ne abbiamo bisogno, occupando gli edifici che dovranno esserlo.
Al fianco di chi viaggia, qui e ovunque, appello al sostegno delle persone in lotta contro le frontiere! Una spina in più nel piede di chi resta seduto sulla sua sedia.

Calais: sgombero della Jungle
Lunedì 24 Ottobre è cominciato lo sgombero della “Giungla” di Calais, un’enorme baraccopoli dove si sono raggruppati uomini, donne e bambini in viaggio per la Gran Bretagna. Un viaggio sempre difficile, abbarbicati ai tir, nascosti nelle auto, sempre a rischio della vita e della libertà. Questo viaggio è diventato ancora più arduo dopo la chiusura più secca delle frontiere del Regno Unito e la costruzione del muro lungo la strada che immette nel tunnel sotto la manica. A Calais, dove, ogni notte ci sono scontri tra chi vuole continuare il viaggio e la polizia armata di lacrimogeni, spray al pepe e granate assordanti Hollande sta tentando la politica del divide et impera per disinnescare una situazione potenzialmente esplosiva. Molti vivono nelle baracche da oltre 18 mesi. Secondo i media nella “Giungla” ci sono fra i 6.400 e gli 8.300 migranti. Ieri sono partiti 20 pullman con circa mille migranti a bordo, che si sono messi in fila per farsi assegnare un posto in un centro di prima accoglienza. Molti potrebbero fare richiesta di asilo in Francia, un paese dove la percentuale di respingimenti è altissima. Probabilmente molti torneranno prima o poi a Calais. Chi non accetterà di salire sul pullman potrebbe essere sgomberato con la forza. Difficile fare previsioni su quanto accadrà nei prossimi giorni. 1.250 poliziotti sono stati mobilitati per l’operazione, e secondo le previsioni l’evacuazione completa dovrebbe durare una settimana. Tra i residenti dei comuni che dovranno accoglierli – ad Allex, Saint-Denis-de Cabanne, San Brevin, ci sono state proteste contro il loro arrivo. Ancora in sospeso la questione dei 1291 ragazzi con meno di 18 anni e senza parenti, cui la Francia dovrebbe garantire accoglienza.
(liberamente tratto da radioblackout.org)

Egitto: strage di migranti in fuga dai regimi amici dell’Europa
L’ennesima tragedia si è consumata in queste ore a largo delle coste egiziane. Un barcone pieno di migranti egiziani, sudanesi, etiopi, somali e siriani è affondato in mare nei pressi di Rashid, un piccolo villaggio sulla costa mediterranea. Non si conosce bene il numero delle persone presenti al momento del naufragio: dai 300 ai 600 dicono i sopravvissuti. Quello che è certo è che fino a ora sono state recuperate 169 salme e più o meno lo stesso numero di superstiti. Gli egiziani sono stati subito arrestati e subiranno un processo per immigrazione illegale. Gli altri sembra che al momento siano liberi, anche se molto probabilmente verranno rimpatriati.
A parte gli arresti e il pessimo trattamento riservato ai superstiti dalle autorità militari egiziane, le attività di soccorso e recupero sono state completamente svolte da pescatori e popolazione locale che non hanno mancato di accusare la guardia costiera di essere intervenuta molto tardi e in maniera molto limitata. Non è una cosa nuova per il regime egiziano che ha fatto della guerra ai migranti uno dei suoi obbiettivi primari da utilizzare come scambio durante le trattative con l’Europa, Italia compresa.
In effetti, l’Europa è molto preoccupata per il fatto che in quest’ultimo anno ci sia stato un aumento costante di migranti che provano a utilizzare la cosiddetta “rotta egiziana”. Fonti egiziane riferiscono che il regime quest’anno “ha arrestato più di 4.600 cittadini stranieri, la maggior parte di loro sudanesi, somali, eritrei ed etiopi, mentre cercavano di lasciare il paese. Si tratta di un aumento del 28% rispetto all’anno precedente”. Proprio per questo l’Austria, subito appoggiata da Merkel, ha proposto che con paesi quali l’Egitto vengono stipulati degli accordi simili a quelli siglati con la Turchia.
Dall’altra parte il regime egiziano fa sapere che la lotta contro l’emigrazione clandestina intrapresa a favore e per conto dell’Europa costa cara in fondi, uomini e soprattutto accondiscendenza e silenzi sulla repressione interna. Anche se il processo di Khartoum e il Migration Compact hanno dimostrato come le democrazie europee, quando si tratta di migranti, non esitano a stringere accordi con le peggiori dittature, tra cui il Sudan e l’Egitto.
Quanto al regime egiziano sta facendo tutti gli sforzi possibili, in sede diplomatica e ufficiale, per nascondere la crisi economica e sociale che ormai da anni colpisce il paese. Prova ne è l’aumento del flusso di migranti egiziani che provano a raggiungere l’Europa illegalmente. Un comunicato dell’organizzazione 6 Aprile riassume bene la situazione che si vive nel paese: “Il regime uccide i suoi cittadini con le pallottole e l’abbandono”. In effetti, il presidente al-Sisi è un uomo morto al potere. Con $50bn di debito verso i paesi del Golfo e un altro di $12bn, in trattativa con il Fondo Monetario Internazionale, al-Sisi ha più che mai bisogno del supporto degli apparati di sicurezza e giudiziari, pagati al caro prezzo della più completa autonomia. Di fatti è solo attraverso la repressione più atroce (assassinii, torture, sparizioni forzate, abusi di ogni tipo, pena di morte inflitte da tribunali militari) che il regime riesce a tenere a bada una popolazione ormai alla fame, e obbligata a tentare la fortuna su un barcone via mare.
Milano, ottobre 2016


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Segue la lettera di alcuni migranti del centro di Sammartini, intrappolati da mesi nel limbo dell’accoglienza del “grande cuore di Milano”. La lettera di chi si è stancato di vedere calpestata la propria vita ogni giorno dalla burocrazia degli uffici e dalle condizioni disumane dei centri. La lettera di chi non vuole più accettare di essere semplicemente un esubero.

Siamo tutti ragazzi minorenni, migranti e rifugiati da molti paesi africani.
Da quando siamo arrivati a Milano ci troviamo ospiti nel centro di prima accoglienza Arca di via Sammartini. In quanto minori siamo in attesa di una collocazione in una comunità ed ogni giorno ci rechiamo in via Dogana all'ufficio Pronto Intervento Minori del Comune di Milano. Le risposte che quotidianamente riceviamo sono del tipo "torna domani", "prova in questura" (da dove ci rimandano agli uffici di viale Dogana), "non venite più tanto è inutile". Così da mesi ci troviamo in un limbo: con documenti provvisori (che dureranno solo fino a che non compiremo diciott'anni) e senza la possibilità di andare a scuola, avere una vera casa, semplicemente vivere una vita normale. Con questa lettera vogliamo sollecitare gli uffici di via Dogana a prendere realmente in considerazione le nostre richieste, vogliamo inoltre uscire dal silenzio, mediatico e non, che ci circonda. Che tutti sappiano quello a cui siamo costretti.
Vogliamo innanzitutto raccontare le condizioni in cui da più di due mesi ci troviamo a vivere nel centro Arca per la prima accoglienza di via Sammartini. Ci sentiamo in prigione. Ogni giorno dobbiamo fare i conti con la mancanza di posti letto per tutti; la maggior parte di noi è costretta a dormire in cameroni, gli uni attaccati agli altri, a volte per terra. Il cibo non è mai abbastanza, di scarsa qualità e varietà e sempre freddo. Passiamo le giornate all'interno del centro senza la possibilità di frequentare la scuola per imparare la lingua italiana. Anche l'igiene non ha minimi di dignità: non abbiamo la possibilità ne' di avere nuovi vestiti, ne' di lavare quelli vecchi che ci portiamo dietro dal lungo viaggio. È autunno inoltrato e l'acqua per lavarsi è sempre fredda. Inoltre non riceviamo alcun aiuto economico necessario ad un minimo sostentamento, al contrario di come molti pensano.
Con questa lettera vogliamo porre all'attenzione due richieste a noi molto urgenti:
- Essere assegnati ad una comunità o ad un luogo dove poter vivere degnamente e poter avviare la procedura per l'Asilo in Italia;
- Attraverso la comunità avere la possibilità di andare a scuola per imparare la lingua italiana.
Se non potete garantirci queste minime condizioni di vita, perché ci avete preso le impronte digitali, imponendoci di restare in una città che sembra non avere alcuna intenzione di considerarci?
Sono note le correlazioni tra disagio giovanile, problemi psicologici, criminalità e delinquenza. Non costringeteci a perdere la speranza di poter vivere normalmente. Ci state trasformando in persone senza nulla da perdere, che ricevono solo odio, senza alcuna possibilità di poterci autoaffermare in questo paese. Eppure dobbiamo vivere. Come lamentarsi poi dei criminali o dei ladri? Se non potete garantirci queste condizioni siamo pronti a lasciare questa città, questo paese, per cercare altrove una degna possibilità di costruirci una vita. Se dunque persistete nel vostro rifiuto, cancellate le nostre impronte digitali dagli archivi o lasciateci un permesso per attraversare legalmente il confine e continuare il nostro viaggio. (Refugees under age from Arca in via Sammartini, NoBorderMilano)

Como: lettera aperta dal confino
Dopo l'apertura lo scorso fine mese del campo istituzionale, nel quale sono state trasferite alcune delle persone che sostavano presso la stazione di San Giovanni, sono arrivati altri provvedimenti polizieschi con cui si cerca di allontanare chi continua a dimostrarsi solidale con chi ogni giorno cerca di varcare le varie frontiere. Segue una lettera aperta di una delle persone che è stata bandita da Como, con la quale Fabio dichiara di non rispettare il foglio di via. Come lui anche altri hanno scelto di resistere agli allontanamenti dalla città e rifiutare il foglio di via.

Buongiorno a tutti, sono Fabio Gabaglio, ieri mattina mi è stato notificato un “foglio di via” da Como della durata di un anno. In questo atto mi si accusa di avere preso parte ad una manifestazione non autorizzata in cui si denunciava la complicità della ditta di trasporti Rampinini nella deportazione dei migranti, di essere una persona socialmente pericolosa e di frequentare la città di Como col solo scopo di compiere reati. Con questa lettera aperta, per chi avrà la pazienza di leggerla, io intendo spiegare il mio punto di vista, rivendicare pubblicamente il mio operato, la mia identità e produrre quella difesa politica che in altre sedi non mi è consentito di dare. La doverosa premessa è quella che fa dei lettori a cui mi rivolgo, dei “giudici impectori”, il cui giudizio è quello che maggiormente m'importa, supponendo che anch'essi, come me, si pongano propositi di cambiamento radicale della società, interpretando il presente come profondamente ingiusto.
Dal luglio scorso, quando la città di Como si è trovata al centro di quella che è stata definita “emergenza migranti”, ho iniziato ad interessarmi a quanto stava accadendo tra il confine Italo-Svizzero e la stazione di Como san Giovanni. Una sorte ironica fece che tutto il mio tempo libero, ferie incluse, lo trascorsi in quello che è anche un mio luogo di lavoro, in quanto di mestiere sono Macchinista Ferroviere. La storia è nota, ma non è mai superfluo ripeterla: L'autorità doganale svizzera chiude quasi completamente le dogane ai numerosi profughi che tentano di attraversarla e ai richiedenti asilo che vi si vorrebbero insediare, e a Como si crea quindi un ingorgo e l'accampamento che tutti abbiamo conosciuto. Chi cerca di passare il confine viene respinto a piedi sul suolo italiano nel migliore dei casi, altrimenti viene deportato nei centri di smistamento del sud Italia, Taranto quasi sempre.
Con alcuni sodali decido esprimermi e spendermi sulla questione dando un apporto politico all'enorme e meritorio sforzo civile che la città, la parte migliore della città, ha profuso per dare ai “Ragazzi” un' accoglienza dignitosa, un trattamento umano e un sostegno materiale. Il mio proposito aggiuntivo è quello di animare il dibattito generale sulla questione migratoria, ponendo degli interrogativi politici sugli interessi che influenzano la gestione dei flussi ed evidenziando le innumerevoli contraddizioni che ne emergono. Iniziai cosi, implementando il lavoro quotidiano di centinaia di volontari, a produrre una critica che spingesse ad andare oltre il livello della necessaria accoglienza che da più attori viene messa in campo, per costruire una solidarietà diretta, capace di mettere in relazione la condizione dei migranti, vittime estreme del sistema economico in cui viviamo, e la nostra, di indigeni, esposti agli effetti della crisi e della conseguente precarizzazione totale delle nostre vite. Per farlo in modo organico, occorreva però toccare con mano le questioni, conoscerle a fondo, e mediante l'inchiesta, guadagnarsi la libertà di parola, il titolo di potersi esprimere a ragione veduta. La prima iniziativa per cui mi spesi in prima persona fu il 7 agosto, una giornata di giochi, sport e socialità. Bastarono quattro palloni, un paio di canestri da basket, e una merenda collettiva per scoprire che quello che ne sarebbe seguito sarebbe stato molto di più della semplice inchiesta politica, ma sarebbe diventato anche una relazione di profonda amicizia, di empatia, di auto-riconoscimento. Senza quasi rendersene conto il rapporto si strinse molto, il “noi” ed il “loro” si fusero, i nomi impronunciabili e forestieri divennero familiari, e quelli che rifiutammo di considerare “utenti-destinatari” della nostra elemosina divennero compagni delle nostre infinite giornate campali, narratori delle storie più incredibili, portatori della più legittima delle volontà. E noi ne diventammo complici.
Si sperimentò un percorso di autogestione da cui nacque l'infopoint: un gazebo in cui si cercava di dare le principali informazioni pratiche e una primissima accoglienza materiale (cibo e vestiti) a chi arrivava al “campo informale”, si organizzarono corsi di italiano ed inglese, e ogni sera si tenevano riunioni interetniche tradotte in inglese, arabo, francese, tigrino, amarico, oromo... Fu in questo contesto di confronto virtuoso che si decisero le molte e diverse iniziative messe in campo, tra le quali la lettera aperta che i migranti scrissero alla città, il presidio tenuto a Pontechiasso, dove decine di migranti reclamarono il loro diritto di superare il confine e di non essere trattati da animali, e il corteo del 15 settembre, forse il più bello che nei miei trent'anni (molti dei quali vissuti da militante politico) possa ricordare, e per il quale personalmente chiesi l'autorizzazione alla questura. Quel corteo per me fu una scommessa: 500 persone dalle più diverse sensibilità ed esperienze, migranti in testa, veicolavano il messaggio lanciato dall'appello, “Il campo non è una soluzione, aprite il confine!”. Rimandate al mittente le provocazioni dei fascisti che minacciarono costantemente la coda del corteo, disattese le aspettative allarmiste di chi paventava la calata dei barbari in città, dissolta la coltre di terrore imposta dallo sproporzionato spiegamento di militari, il corteo, fortemente comunicativo, sfilò per la città senza intoppi. La scommessa fu vinta. Il clima tuttavia cambiò repentinamente quando aprì il campo governativo, la non-soluzione sulla quale sollevammo tanti dubbi e contro la quale gli stessi migranti si sono sempre espressi. Nei giorni immediatamente precedenti alla sua apertura la solidarietà iniziò ad essere sempre più criminalizzata, cucinare o portare cibo divennero pretesti per far intervenire la polizia, le docce e la mensa vennero chiuse, e i migranti, in un paio di giorni, furono costretti a lasciare i loro ripari di fortuna per entrare nel campo governativo. I dubbi diventarono certezza quando la natura del campo governativo si manifestò in tutta la sua burocratica freddezza. Le garanzie date dal prefetto sul funzionamento del campo furono prontamente disattese, le richieste di modelli alternativi di accoglienza non furono accolte, le tutele specifiche per minori non vennero attuate, il regolamento interno non fu pubblicato, i volontari furono estromessi, e chi riponeva speranze nel “circuito legale dell'accoglienza” rimase amaramente deluso. Lo stato così ha ripreso il controllo della situazione anche fuori dal campo, tutto quello che prima era socialmente accettato e tollerato, ora è proibito. Distribuire cibo, incontrare, parlare con chi ha l'aspetto di un rifugiato, porta ad essere identificati, intimiditi, segnalati. Trovare un riparo di fortuna per chi non ha accesso al campo governativo è reso quasi impossibile dalle decine di pattuglie che ogni notte perlustrano ogni angolo di Como, ogni anfratto, con l'ordine di sgomberarlo, di rendere inospitale la città, cercando in questo modo di arrestare il flusso in arrivo. E su Como, la città bella e solidale che riscoprimmo quest'estate, cala un invernale clima di apartheid.
Ora al sottoscritto, come ad altri attivisti, viene presentato il conto per il ruolo attivo tenuto in tutto questo. Il foglio di via, nella fattispecie, è una misura preventiva di natura fascista, in cui il questore, senza una vera e propria indagine, senza un processo e senza la possibilità di difesa, intima arbitrariamente al destinatario di non fare ritorno su un determinato territorio, riconoscendo in lui una presunta pericolosità sociale. La reale intenzione di chi emette questa misura non è tuttavia punire qualcuno per un reato specifico commesso, ma semplicemente colpirlo ed allontanarlo per le proprie idee e per le pratiche che potenzialmente ne derivano, isolandolo dai suoi percorsi di lotta e dal contesto sociale in cui è inserito.
Nel mio caso, accade che ieri, 13 ottobre, mentre presenziavo in qualità di uditore alla conferenza stampa tenuta dalla rete di “Como senza frontiere” di fronte al campo governativo vengo avvicinato da alcuni funzionari di polizia che mi intimano di presentarmi in questura per notificarmi un foglio di via obbligatorio che mi inibisce dal fare ritorno nel comune di Como per un anno. Mi si contesta nello specifico di aver manifestato contro la ditta di trasporti Rampinini, che dal luglio scorso si occupa anche di deportare i migranti, che respinti in Italia dal confine elvetico, vengono caricati su dei pullman e, scortati da un ingente pattuglia di polizia, sono spediti nell'hotspot di Taranto, contro la loro volontà, senza avere contezza del loro status giuridico, interrompendo, mortificando e umiliando in maniera violenta il loro progetto migratorio, che per queste persone, rappresenta l'umana e innata pulsione a migliorare la propria condizione materiale. Per rimettere questa azienda davanti alla sua palese responsabilità di collaborazionista il 12 settembre si è tenuto un presidio simbolico davanti alla sua sede di via Napoleona, in cui si diffondeva un volantino e si esponeva uno striscione: Rampini complice delle deportazioni. Lo scrivevamo allora, lo ribadisco ora, assumendomi la responsabilità di quanto fatto. Se esprimere questo, senza chiedere il permesso a chi quelle stesse deportazioni le dispone e le realizza sia più vergognoso dello stesso compierle, lo lascio decidere a voi.
Questo foglio di via mi descrive inoltre con l'infamante appellativo di “persona socialmente pericolosa”, che usa frequentare Como “col solo scopo di commettere reati” e di accompagnarmi a persone già oggetto di “segnalazioni all'autorità giudiziaria.” Io credo, che se vi sia una minaccia reale per la società, essa stia proprio nel fatto che certe dittatoriali limitazioni della libertà personale possano essere comminate a chi invece è parte integrante della società, a chi ne anima i moti di cambiamento, a chi ha la pretesa attiva di renderla più giusta, includente e civile. Essere riconosciuto come frequentatore abituale del campo informale della stazione è una cosa di cui non mi vergogno affatto. Farlo in concorso con altri solidali non ritengo sia un aggravante. Essermi riunito innumerevoli volte con dei migranti, averci discusso, essermi organizzato con loro per dare voce alle comuni istanze è una cosa di cui non sono in alcun modo pentito. Sfidare il clima di piombo che si respira in città per continuare a mantenere il rapporto con i migranti incontrati fino ad oggi, o per costruirlo ex novo con chi tuttora continua ad arrivare, non credo faccia di me un pericolo sociale.
Ebbene, con questo foglio di via, la questura, l'apparato immunitario dell'ingiusto sistema politico-legale che abbiamo di fronte, pone nella mia vita un ostacolo giuridico che si frappone tra me ed i miei propositi che lascio a voi giudicare. La città di Como inoltre, come è normale che sia, per me, rappresenta anche un luogo fisico in cui si intrecciano interessi personali, abitudini, relazioni sociali ed affettive dalle quali ora con questo provvedimento si cerca di isolarmi in un assurdo accanimento. É lì che abitualmente trascorro il mio tempo libero, è lì che sono solito incontrarmi con amici e amiche, è lì che talvolta mi trovo a esercitare la mia professione, ed è lì che voglio liberamente poter tornare.
Lungi dal voler elemosinare la pietà di alcuno, io credo che il mio dovere, a fronte di quello che mi è toccato, sia in primis mettere in guardia ognuno di voi: quello che oggi si abbatte su di me, domani potrebbe succedere ad altri. Quando il divario tra legalità e giustizia si fa cosi sfacciatamente evidente tutti sono chiamati a prendere una posizione. Ed è quello che io ora vi chiedo.
Grazie della vostra attenzione.
La parte più bella di questa città rifiuta il razzismo e l'indifferenza, e io sono (ancora) lì.

Fabio Gabaglio, Como, venerdì 24 Ottobre 2016.

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Da Saronno alla Val Susa, da Torino a Venezia, passando da Como e dintorni, si è diffusa una pratica di resistenza che intende rimandare al mittente l’abuso di misure restrittive “minori” piovute nell’ultimo periodo su compagne e compagni che lottano su diversi fronti. In vari momenti e in diversi luoghi si è scelto di non rispettare i fogli di via, gli obblighi o i divieti di dimora, di opporsi alle richieste di sorveglianze speciali e anche di evadere dai domiciliari. Per non rischiare di far passare inosservata questa coraggiosa resistenza, invitiamo chi fosse interessato a fare richiesta, scrivendo alla casella di Ampi Orizzonti, dell’opuscolo/intervista “...Noi, semplicemente, facciamo la nostra parte...” di cui riportiamo qui di seguito un estratto significativo.

Il carcere poi, nella nostra società, è l’ultimo baluardo dell’ordine capitalista e statale, l’ultima minaccia contro la gente. Se la gente impara a non avere più paura del carcere, lo Stato non ha più argomenti. Riuscire a rompere il ruolo intimidatorio del carcere è qualcosa di dirompente, non sarà facile, certo, e non saremo certo noi a farlo, ma l’idea è di fare un passo in quella direzione, anche se ora siamo ancora pochi, come sempre qualcuno deve cominciare… noi, semplicemente, facciamo la nostra parte…

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VENEZIA: RIGETTATA LA SORVEGLIANZA SPECIALE
In questi giorni è stata comunicata la notizia del rigetto della richiesta di Sorveglianza Speciale ai danni di un compagno di Venezia, in seguito all’udienza dello scorso 20 settembre. Misura a cui, comunque, il proposto aveva dichiarato di non voler sottostare.
Le motivazioni del rigetto si basano essenzialmente sull’impossibilità (per ora, come viene più volte sottolineato) di stabilire un giudizio prognostico sulle future condotte dell’interessato, sebbene venga più volte ribadita la non legittimità di quelle portate avanti fino al momento della richiesta.
Per adesso chi scrive non può che rallegrarsi del fatto che la richiesta della Questura di Venezia, con tutto il suo corollario di militarizzazione e portate giornalistiche, si sia rivelata nient’altro che una scommessa persa.

ottobre 2016, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org


Similitudini fra le galere in Germania e in Turchia
Segue un’intervista a Sadi Ozpolat, compagno turco che ha passato nelle galere turche 17 anni, condannato a 6 anni in carcere in Germania per “appartenenza a associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale” art. 129b (il pari del 270bis in Italia). Dovrebbe uscire il 12 maggio del prossimo anno.

Ci sono differenze fra le carceri turche e tedesche?
In entrambi i paesi esiste la tortura dell’isolamento. Ed è tanto scientifica come mostrano alcune sentenze giuridiche, al punto che l’isolamento rappresenta una prassi di tortura. In Turchia come in Germania la tortura viene soprattutto impiegata contro i prigionieri rivoluzionari; adottata anche e in misure sottovalutate, contro prigionieri non colpiti da accuse politiche.
In entrambi i paesi la logica del carcere ha un’eguale funzione. Cerca di allontanare i prigionieri rivoluzionari dai pensieri e dagli intrecci rivoluzionari per costringerli attraverso il pentimento ad abbandonare. Persino la lettura può essere effettivamente ostacolata e vietata, questo vale anche per le letture legali e serve allo scopo di annientare l’identità rivoluzionaria. Io, per esempio, sono stato costretto, per avere i libri in cella, a portare avanti uno sciopero della fame di 18 giorni e successivamente di 44 giorni. Fra i libri e le riviste vietate in carcere qui ci sono persino libri pubblicati da me, come anche la rivista “Yuruyus” legale in Turchia e “Gefangenen Info” altrettanto legale qui.
In entrambi i paesi si cerca di interrompere collegamenti e possibilità di contatti con il mondo esterno, al fine di intensificare l’isolamento. Per questo in Turchia come in Germania viene ostacolata la corrispondenza; le visite e i contatti con persone, conoscenti e avvocati vengono ridotte il più possibile.
La differenza fra i due sistemi carcerari, in fondo, esiste soltanto nei modi e nella frequenza di esercitare però la medesima prassi.

In Turchia sei stato portavoce di scioperi della fame durissimi (1). Come consideri questa lotta?
In carcere lo sciopero della fame fino alla morte è un metodo di lotta efficiente. Gli esempi nel mondo sono tanti. Uno di questi, quello condotto dai prigionieri dell’IRA (2), si è concluso con una vittoria. Nel nostro paese, noi prigionieri del DHKP-C (Fronte-Partito Rivoluzionario di Liberazione Popolare) più volte abbiamo intrapreso lo sciopero della fame illimitato, cogliendo delle vittorie. Questo tipo di sciopero è riconosciuto come forma di resistenza, resa necessaria in considerazione degli attacchi dello stato contro l’identità rivoluzionaria dei prigionieri.
In particolare noi prigionieri del DHKP-C ci siamo adoperati a far sì che questo metodo venisse modificato. La discussione non ruotava attorno al quesito se lo sciopero della fame illimitato è o non è una forma di resistenza, ma, al contrario se suscita o no resistenza. Nelle forme di resistenza sono assieme compresi il rifiuto dell’appello (della conta), l’elevamento di barricate in diversi punti del carcere e la presa in ostaggio di guardie e direttori.
Lo sciopero della fame illimitato si presenta come la forma di resistenza più efficace e più forte. Dursun Karatas (3) spiegava allora, che quel tipo di sciopero della fame è una forma d’azione piena di possibilità, potrebbe concludersi nelle prime battute, come anche essere portata avanti mesi, anni. Tende, fra l’altro, a politicizzare la popolazione, a unirla nella resistenza, a smascherare lo stato, a rafforzare le fila rivoluzionarie e a mettere a prova le volontà e l’ideologia rivoluzionarie. Per tanti aspetti questo è un metodo colmo di effetti. Gioca un ruolo importante e decisivo nella storia della resistenza del nostro paese. Secondo noi quello sciopero rappresenta uno schema di resistenza che i movimenti rivoluzionari del mondo devono analizzare.

Qual’è la situazione generale dei prigionieri in Turchia?
I prigionieri rivoluzionari in Turchia vengono sottoposti in misura permanente alla politica della repressione e della tortura. Ma, sotto la spinta della resistenza, gli attacchi non hanno efficacia, così il carcere invece di essere un luogo dove lo stato oligarchico turco può portare colpi forti alla rivoluzione, diventa luogo in cui si rafforzano volontà e identità rivoluzionarie. Così si formano i rivoluzionari per la lotta fuori. Questa è la lotta della volontà in cui il capo del nostro partito, Dursun Karatas, anni fa ha intrapreso fino a raggiungere obiettivi importanti. Lui non ha permesso che lo stato riuscisse a adoperare le carceri per distruggere l’identità rivoluzionaria. Piuttosto le carceri sono diventate ‘scuola di rivoluzione’.

Facendo di Stammheim esempio, l’Unione Europea (UE) e la Germania hanno giocato un ruolo importante nell’introduzione delle carceri F-Typ. Sei d’accordo?
Sì è così. Il sistema imperialista sviluppa rapporti attraverso esperimenti che si influenzano reciprocamente. Questo vale anche per la politica carceraria. In Turchia l’isolamento è direttamente alimentato dalla prassi d’isolamento nel mondo. In concreto, sì, crediamo che l’UE e la Germania hanno dato vigore alla costruzione delle carceri d’isolamento F.Typ (4) in Turchia.

Perché oggi non ci sono collettivi di prigionieri?
Il fatto che in Germania non esista più nessuna organizzazione fra prigionieri la considero una grave carenza. Un’organizzazione integra prende vita dalla lotta. L’estensione della lotta contro la situazione nelle carceri porta con sé organizzazione. La lotta suscita la necessità, fenomeno che a sua volta porta con sé la soluzione alle carenze.

Note:
1) Lo sciopero della fame fino a morire in Turchia, contro l’introduzione dei bracci di isolamento – sul modello di Stammheim - iniziò nel 2000 e terminò nel 2007. Vi trovarono la morte 122 prigionieri.
2) Nello sciopero della fame del 1981 morirono sette militanti dell’IRA e tre dell’INLA (Irisch National Liberation Army). La richiesta centrale dello sciopero della fame del 1980 era di indossare abiti civili in connessione al riconoscimento di prigionieri politici - che non venne accolta; lo sciopero, stavolta a staffetta, per rendere possibile una più lunga durata, venne ripreso nel marzo 1981. I precedenti, a cominciare dal 1976 furono i Blanket Protests (protesta della coperta adoperata al posto della divisa), che sfoceranno nella Dirty Protest (protesta della sporcizia per eludere i controlli …)
3) Dursun Karatas (1952-2008) venne arrestato nel colpo di stato del 1980 (in Turchia); nel 1989 riuscì a fuggire. Come prigioniero prese parte allo sciopero della fame illimitato del 1984 contro l’introduzione della casacca; successivamente venne eletto presidente del DHKP-C.
4) Nel 2000 in Turchia venne introdotto il carcere d’isolamento modello Stammheim-Stoccarda (allo stesso tempo è il carcere dove vennero uccisi nell’ottobre 1977 militanti della Raf Jan-Carl Raspe, Gudrun Ensslin, Andreas Baader).

ottobre 2016, tradotto da Gefangenen Info

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Arrestato in Germania un altro “attivista” del PKK
Mentre in Turchia, come scrive il Partito Democratico del Popolo (HDP) kurdo, solo in questa settimana fra le sue fila sono state arrestate 180 persone, la giustizia tedesca condanna di nuovo politici kurdi in esilio. Il 13 ottobre la corte d’appello di Stoccarda ha condannato l’attivista kurdo Ali Oezel a 3 anni e mezzo di carcere, sulla base dell’art. 129b (il 270 bis tedesco), per “appartenenza ad associazione con finalità di terrorismo internazionale”.
Il tribunale ha elevato a prova la sua considerazione secondo cui Oezel dalla metà del 2010 ad oggi sia stato il principale responsabile del PKK nei territori di Kiel, Saschsen, Stoccarda e nella regione del lago di Costanza.
Dato il costrutto del 129b, l’accusa nei confronti di Oezel non deve portare prove di sua partecipazione a azioni penali; gli è sufficiente di mostrare la sua militanza nel PKK, organizzazione inserita nella lista “nera” delle organizzazioni “terroriste” compilata dall’ONU, comunque voluta dagli stati NATO dopo l’11 settembre 2001.

14 ottobre 2016, da jungewelt.de


Sassari: Interrotto seminario di guerra all'Università
Giovedì 13 ottobre un gruppo di studenti e militanti dei movimenti contro l'occupazione militare della Sardegna hanno interrotto un seminario tenuto da graduati della Marina Militare de La Maddalena presso l'aula Mossa della facoltà di giurisprudenza di Sassari.
Il seminario in questione fa parte di una serie di incontri volti a presentare il nuovo corso di studi in Sicurezza e Cooperazione Internazionale, attivato quest'anno all'ateneo Turritano in collaborazione con l'Esercito Italiano.
I contestatori, a seminario appena iniziato, hanno esposto uno striscione recante la scritta "Fuori la guerra dall'università" interrompendo i militari e impadronendosi del microfono così da spiegare ai partecipanti i motivi dell'azione, denunciando la subdola funzione del corso di laurea pensato con l'obiettivo di formare figure professionali che si posizionino a metà strada tra l'ambito civile e quello militare. Durante l'intervento altri militanti hanno distribuito il volantino sotto riportato per poi scandire cori contro la militarizzazione dell'università.

UNISS – UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI SASSARI
AL SERVIZIO DELLA GUERRA
Il seminario che stai per seguire è organizzato dal Corso di Laurea in Cooperazione e Sicurezza Internazionale. Di cosa si tratta?
Dietro le belle parole dell’Ateneo che assicura che si tratta di “un progetto culturale altamente innovativo che si discosta dai corsi incentrati unicamente sulle Scienze della Difesa e della Sicurezza a indirizzo militare” si nasconde in realtà un progetto ben più ampio.
A partire dagli ultimi anni, infatti, sono nati anche nel panorama universitario italiano diversi corsi di laurea finalizzati a creare nuove figure professionali che operino nell’ambito dei conflitti, delle calamità naturali e dei problemi di sicurezza.
Come mai? Dieci anni fa i paesi NATO scrissero un documento: “Nato 2020 Urban operation” con l’obiettivo di individuare le linee guida di una politica internazionale per prevenire e gestire situazioni di conflittualità, tanto nei lontani scenari di guerra quanto nei vicini confini dei paesi europei. Tra le guida spiccava quella denominata “l’impegno”, ossia “gestire una situazione di conflittualità, non solo con l’attacco diretto alle forze nemiche, ma anche con la gestione degli effetti del conflitto sulla popolazione non combattente”. E poiché, secondo Nato 2020, il campo d’azione va “dal conflitto su larga scala all’assistenza umanitaria”, diventa necessario lavorare su un aspetto: stringere il piano militare a quello civile.
A tale scopo non basta solamente rafforzare l’immaginario del militare come “operatore di pace” ma è necessaria la creazione di nuove figure professionali a carattere civile, capaci di affiancare il lavoro del militare sul campo. Una figura fondamentale non solo per la gestione del conflitto in sé, ma anche per rendere più “umanitario” il volto di una guerra, in grado di gestire la fase di transizione del paese in un nuovo regime.
Ecco che da lì a qualche anno, prima nei paesi anglosassoni poi in quelli vicini, iniziano a fioccare nuovi corsi di laurea in “gestione del conflitto”, “sicurezza e cooperazione” e via dicendo… e così, anche se in ritardo, arriva a Sassari il corso di “sicurezza e cooperazione internazionale”.
Questo corso (finanziato per il 50% dal ministero della difesa e del tesoro) si rivolge a due categorie di studenti: quelli standard, ovvero civili, e quelli militari (per la cronaca questi ultimi secondo il regolamento di ateneo pagheranno solamente 500 euro di tasse all’anno). Le figure professionali che ne usciranno saranno dei tecnici al servizio tanto del ministero della difesa, quanto di aziende che operano e investono in zone di guerra, del ministero dell’interno nella gestione dei flussi migratori e dei campi della protezione civile dopo le calamità naturali. Tutti questi contesti sono accomunati dal concetto di “emergenza” che si traduce praticamente nella militarizzazione delle dinamiche civili, resa possibile dall’infiltrazione dei militari nella società.
Sta a te ora decidere se essere complice della macchina da guerra oppure farne a meno. Se essere un granello che inceppa la macchina bellica o un suo ingranaggio.
FUORI L’ESERCITO DALL’UNIVERSITA’! NO ALL’UNIVERSITA’ DELLA GUERRA!

ottobre 2016, da informa-azione.info


lettere dal carcere di massama (or)
Le segrete medioevali
Scrivo per non dimenticare questo sfregio all’umanità, che ho subito nel regime di tortura del 41 bis nei sotterranei del carcere di Bancali a Sassari.
Mi chiamo Chessa Federico, nato in provincia di Salerno dove attualmente risiedo, mio padre è sardo della provincia di Sassari, mi trovo detenuto dal 2005, dopo pochi mesi dall’arresto fui trasferito a 41 bis, lo sono stato ininterrottamente fino a quattro mesi fa. Gli ultimi 11 mesi del regime di tortura del 41 bis sono stato trasferito nelle segrete “medioevali” di Sassari.
Il 23 giugno 2015 giorno della mia deportazione da Cuneo a Sassari. Erano giorni che aleggiava una voce nefasta, del possibile trasferimento di massa nella nuova sezione del carcere di Bancali a Sassari. Qualche settimana prima erano stati trasferiti in tre, ma non sapevamo se erano stati portati a Sassari. Nessuno di noi sapeva cosa ci aspettava a Bancali, eravamo fiduciosi che una nuova struttura fosse a norma europea, questo pensiero si rincuorava, eravamo fiduciosi e allo stesso tempo un pensiero tetro albergava in me; forse dipendeva dai racconti che avevo sentito sull’Asinara, pertanto i trasferimenti in Sardegna li vedevo sotto una luce diversa.
Verso mezzogiorno viene l’agente a informarmi di prepararmi per partire, la cosa che mi lasciò perplesso, fu il modo di come avvenne la comunicazione, aveva una luce sinistra e di compiacimento negli occhi, questo mi inquietò molto. La cosa che mi allarmò ancora di più, fu che aveva ordine che mentre preparavo i miei bagagli, lui faceva la guardia davanti alla cella affinché non parlassi con nessuno. Dopo essere arrivato a Sassari ho capito perché.
Mi portano giù al magazzino dove c’erano altri dieci reclusi, anche loro dovevano essere deportati in Sardegna a Sassari. Facciamo operazione magazzino, dove prendo una bottiglia d’acqua per il viaggio.
Ci mettono per due in cinque furgoni e ci portano all’aeroporto militare di Cuneo, dove veniamo imbarcati tutti e dieci su un areo della Guardia di Finanza. Sull’aereo i GOM della polizia penitenziaria avevano abbassato i finestrini, un senso claustrofobico mi aveva assalito, avevo chiesto al brigadiere dei GOM di alzare la tendina del finestrino, mi rispose di no senza spiegazione, constatato che era inutile insistere conoscendo la mentalità. Mi rivolsi al capitano della finanza che era il più alto in grado, chiedendogli se potevo alzare la tendina perché stavo male, diede subito l’assenso, ma il brigadiere del GOM si voleva opporre, con autorità, il capitano disse che sull’aereo l’unico responsabile era lui. Alzai la tendina e ringraziai il capitano. Con uno sguardo al brigadiere gli comunicai di avere pena di lui, chi si abbassa a certi soprusi, mi fece venire in mente le SS tedesche, cattiveria gratuita, o forse è meglio citare Hannah Arendt sulla banalità del male.
Dopo un paio d’ore siamo arrivati all’aeroporto di Alghero, scesi dall’aereo i dubbi e le ansie che mi avevano accompagnato durante il viaggio sono svaniti, perché respirai l’aria che conoscevo bene, essendo che mio padre è sardo, mi portava in ogni occasione nella sua amata Sardegna.
Scendiamo dai furgoni, stanchi e affamati, ci aspetta un cordone che ci fa temere il peggio, comunque l’impressione è che ci volevano intimidire.
L’impatto fu tremendo perché a parte l’impatto climatico, dall’esterno si vedevano i palazzi all’interno del carcere, a noi toccò il piano zero, una sezione situata sottoterra, senza finestre, pertanto senza aria e né luce naturale, pensai che sarei uscito con la pelle verde, per mancanza di aria e luce all’aperto.
Mi portarono insieme ai miei due compagni di gruppo, nel reparto a noi assegnato, entrato in cella rimasi meravigliato perché la finestra affacciava nel passeggio, ed era anche con una rete attaccata alle sbarre, che non consentiva di vedere quasi niente, neanche il muro che rappresentava il mio orizzonte.
Chiedemmo qualcosa da mangiare, ci risposero che la cucina era chiusa, e ci lasciarono fino al giorno dopo senza mangiare, l’unica consolazione fu la bottiglia d’acqua portata da Cuneo, perché in caso contrario neanche l’acqua ci avrebbero portato.
La mattina successiva avevo chiesto la caffettiera al magazziniere, mi rispose che non era possibile perché non potevamo usufruire del fornello, lì c’era una piastra ad induzione, però non funzionava perché mancante di un pezzo. Siamo stati otto mesi senza poterci fare un caffè.
Passò il porta vitto e ci rifilò un po’ di acqua sporca fatta passare per caffè. Per lenire i crampi allo stomaco ho dovuto aspettare fino alle undici che passarono il pane e la frutta. Attendevo dalla fame il pranzo, ma con sommo stupore mi passarono sette penne, tre pezzettini di carne striminziti e tre fette di patate bollite. Credevo che fosse il primo giorno, invece anche gli altri giorni, settimane e mesi fu sempre così.
Da Cuneo mi avevano dato solo dieci euro più 52 euro di fondo vincolato. Feci un telex per informare i miei familiari che mi trovavo a Sassari e non me lo fecero partire, perché avendo fatto un po’ di spesa – acqua, una confezione di biscotti e un kg di mele – avevo finito e dieci euro, e loro non mi avevano sbloccato i 52 euro di fondo vincolato, pertanto per loro non avevo i fondi per pagare il telex, burocrazia ottusa a sfondo cieco, esclusivamente per opprimere.
A Cuneo si erano trattenuti illegalmente i miei soldi, perché mi fecero pagare i pacchi postali con la mia biancheria, che sono a carico dell’amministrazione, pertanto un abuso.
La mia famiglia mi aveva fatto un vaglia a Cuneo, invece di girarlo al carcere dove ero stato trasferito, l’avevano rimandato indietro. Siccome i miei familiari non sapevano che ero stato trasferito, erano tranquilli, anche perché il vaglia indietro gli ritornò dopo un mese e mezzo.
Dopo quindici giorni riuscii a telefonare all’avvocato e lo informai che mi trovavo a Sassari, lui informò i miei familiari, che subito mi fecero un vaglia a Sassari, che non veniva cambiato perché lì avevano la brutta abitudine di cambiare i vaglia due volte al mese. Nel frattempo sono stato costretto a bermi l’acqua non potabile della fontana della cella. Acqua gialla che di potabile non poteva averne in nessun caso. La direzione aveva il dovere di passare almeno una bottiglia di acqua al giorno, invece ne passavano tre a settimana, lo fecero per alcune settimane.
Non potendo fare la spesa, per mia fortuna nella mia roba c’era un sapone di marsiglia portato da Cuneo, con quello dovevo fare tutto per l’igiene personale.
Quando sono arrivati i pacchi da Cuneo, non mi hanno dato quasi niente, come se il 41 bis di Cuneo fosse diverso da quello di Sassari. La spesa era misera e striminzita, si compravano poche cose, dopo vari reclami al magistrato di sorveglianza, l’hanno aggiornato e aggiunto altri prodotti.
L’area sanitaria era da brividi, perché sotto le direttive dei GOM, i dottori non facevano niente per timore di questi signori.
Avevo bisogno di una pomata per problemi di pelle, la dottoressa mi rispose che doveva chiedere al grande capo, pensavo che era il dirigente sanitario, invece era il comandante dei GOM, gli risposi che non ci troviamo nella Corea del Nord.
In undici mesi, sono riuscito ad avere solo una visita urologica, due giorni prima che mi revocassero il 41 bis.
L’impressione della struttura era micidiale, perché dava quel senso di oppressione, di claustrofobia, di tortura psicologica, più peggiore dei racconti su Pianosa e l’Asinara.
Sulle due isole la tortura era fisica e di alimentazione, viceversa a Sassari era tutto l’insieme, ti devastavano moralmente, alfine di violentare la tua dignità, calpestare i tuoi sentimenti, per annichilire la personalità e ridurci a dei vegetali.
Tutti quelli che passeranno almeno un anno a Sassari, avranno problemi psichiatrici, perchè la tortura maggiore è psicologica, insieme alle angherie quotidiane, ne racconto una per far comprendere a che punto arriva la crudeltà di certi personaggi: finita la cassa d’acqua che ero riuscito a comprare, ero rimasto senza acqua, un mio compagno mi aveva portato una bottiglia al passeggio, l’agente se ne accorge e informa l’ispettore. Dopo un quarto d’ora venne l’ispettore davanti alla cella, voleva farmi la paternale, gli spiegai che dovevo bere, ed era loro dovere rifornirmi di acqua potabile, invece lui insisteva che non dovevano passarmi l’acqua e voleva farmi rapporto. Constatando che non si poteva discutere con una visione mentale così chiusa, lasciai perdere. A onore della verità, dopo un paio di giorni mi mandò una cassa d’acqua. Un paio di settimane dopo venni a sapere che all’ispettore gli avevano fatto capire che era andato troppo oltre, aveva capito e mi aveva mandato l’acqua.
L’Italia che si vanta di essere la culla del diritto, non ha avuto nessuna remora a costruire un obbrobrio come Bancali, equipararlo alle segrete medioevali non è una esagerazione. Quando mi hanno revocato il 41 bis, mi hanno portato in una sezione a regime AS-2, dove sono stato due giorni. Quello che mi è rimasto impresso è stato il tempo trascorso alla finestra, ammirare il panorama che si vedeva dal secondo piano, sensazione difficili da spiegare, ma profonde e molto sentite. In quei momenti mille pensieri affollavano la mia mente, quello più ricorrente era il colloquio con i familiari, poterli di nuovo abbracciare dopo undici anni. Immaginavo il momento, vivendolo come se fosse reale.
Non potrò mai dimenticare questi undici anni trascorsi a regime di tortura di 41 bis, ma principalmente gli undici mesi nei sotterranei di Sassari. Una vergogna per la civiltà italiana, ma anche per l’Unione Europea. Un paese che vorrebbe progredire usando la crudeltà e la tortura contro i suoi cittadini, non ha un grande futuro.

Oristano, settembre 2016
Federico Chessa, loc. su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)

***
Gli amici della biblioteca dell’evasione, nel mese di maggio mi scrissero una lettera chiedendomi notizie dello sciopero, per pubblicare sul loro giornalino e la newsletter. Mi scrissero dieci domande a cui rispondere. Come ho sempre fatto risposi e le spedii, ma non sono mai arrivate. In questi casi per cautelarmi conservo sempre le domande fino a quando non ho notizie che sono arrivate. Deriva da tante esperienze avute nelle patrie galere. Siccome sono passati quattro mesi, qualche risposta che ho dato allora sarà un po’ diversa.
1) Ci puoi raccontare com’è nata l’idea dello sciopero?
2) Quali sono le vostre rivendicazioni?
3) Lo sciopero è servito ad ottenere quello che chiedevate?
4) Come vi siete organizzati tra di voi per portare avanti la protesta?
5) Come prendevate le decisioni tra voi?
6) Pensate che la vostra esperienza possa essere importante anche per chi è fuori?
7) Avevi mai preso parte all’organizzazione di uno sciopero fuori? Pensi che ci siano delle differenze?
8) Ci sono state delle difficoltà? Quali? C’è qualcosa che secondo te sarebbe stato necessario fare?
9) Fuori quasi sempre gli scioperi sono mediati dai sindacati. In carcere invece questo non è possibile e le persone si auto organizzano. Cosa ne pernsi? Ci sono degli aspetti positivi in entrambe le situazioni? Porteresti qualcosa dell’esperienza fatta dentro (rispetto allo sciopero) in uno sciopero da organizzare fuori?
10) Se dovessi fare un tuo bilancio generale cosa diresti?

a) Come ogni sciopero cova sempre sotto la cenere. La maggioranza dei reclusi venivano dal carcere di Nuoro, dove avevano una direttrice e un commissario, che a detto di tutti erano l’umanità in persona, ma principalmente diritti e doveri e non solo doveri come certe direzioni propugnano, tutti li rimpiangevano, essendo che il confronto con Oristano non ha paragoni. Dopo tanti discorsi di mesi, é scoppiata la scintilla per un piccolo episodio accaduto a un detenuto. Mentalmente erano tutti predisposti, ci voleva l’input ed è partito.
b) Le nostre rivendicazioni sarebbero diritti che gli organi predisposti dovevano tutelare e non lasciare all’arbitrio della direzione. La direzione rimasta con la mentalità del vecchio carcere, dove erano ristretti solo reclusi locali che per la vicinanza alle famiglie, facevano di tutto per non essere trasferiti, questo ha costituito per anni di imporre un regime al limite della legalità. Non abituati a reclusi con regimi diversi, hanno creduto che potessero trattarci alla stessa stregua.
I punti delle richieste sono dodici: il primo è il blocco del flusso dei detenuti, perché la capienza del carcere è di 246 posti letto. Ogni cella detentiva può ospitare al massimo due persone, secondo i parametri progettuali e corrispondenti alle normative Cedu. La direzione ha messo la terza branda per ospitarvi un terzo recluso.
Il secondo punto è la continuità del trattamento. Perché viene escluso il trattamento delle carceri di provenienza. Il direttore ha una visione restrittiva, quando si riunisce il GOT mette sempre parere negativo insieme al commissario, a prescindere, anche senza conoscere i reclusi.
Il terzo punto sono i colloqui con i familiari. Non c’era la possibilità di fare le sei ore consenntite perché non c’era la continuità materiale. Inoltre all’ingresso della quarta persona-familiare. Il quarto punto sono le telefonate ai familiari, perché i reclusi venivano con la telefonata settimanale, e qui vengono ridotti a 2+2, due consentite e le altre concesse dalla direzione.
Il quinto punto si tratta dei computer e della stampante. Per stampare è un’odissea e costa anche caro. Una copia costa 0,26 centesimi, quindi mille figli costano 260,00. Con le nostre stampanti spendiamo non oltre 60,00 euro, il risparmio è significativo. Inoltre ci creano problemi con le fotocopie riguardanti ordinanze e sentenze.
Il sesto punto sono le domandine che non vengono mai comunicate, sia negative che positive. A parte quelle che si perdono.
Il settimo punto sono i colloqui con le nuove tecnologie. Le videoconferenze per processi ce li impongono, ma non ci consentono i colloqui via Skype. A niente è servita una circolare del 2 novembre 2015 in questo senso. Il punto ottavo si tratta dei pacchi postali inviatici dai familiari. Vengono dati sempre con ritardo.
Il nono punto è la fruizione della palestra.
Il punto decimo è l’entrata del volontariato. Qui non fanno entrare nessuno.
Il punto undicesimo era le mancate visite del magistrato di sorveglianza.
Il punto dodicesimo è la corrispondenza che non viene consegnata quotidianamente.
c) Sulla carta avremmo ottenuto tutto, tranne l’entrata del volontariato. Ma nei fatti abbiamo solo ottenuto solo la giornata intera per i colloqui. Per il resto nulla è cambiato. Dietro pressione del ministero, il direttore ha fatto una piccola area verde di due posti, ma in due mesi abbiamo visto solo un detenuto fare un colloquio per un ora. La stampante: da una per sezione, ne hanno messo una per tutto il carcere, un giorno alla settimana, quando è disponibile l’agente.
d) Il caseggiato è di tre piani. Due sezioni per ogni piano. Noi stiamo all’ultimo piano, una sezione ci siamo noi AS-1, l’altra sezione sono detenuti comuni. Le altre quattro sezioni sono sezioni AS-3 e sono sotto di noi, primo e secondo piano. Pertanto dalle finestre possiamo parlare in modo normale. Questo ci ha consentito di coordinarci sullo sciopero.
e) Quando una delle sezioni aveva un’idea la divulgava alle altre sezioni. Noi ci riunivamo nella sala comune e decidevamo se recepire l’idea, credo che anche le altre sezioni facevano lo stesso. Se eravamo tutti d’accordo si applicava.
f) Credo che fuori ci sia più possibilità di organizzarsi, c’è più spazio, più mezzi, più possibilità di coordinarsi. La repressione avviene quando gli scioperanti vogliono alzare la tensione, andando a protestare in qualche luogo protetto. Qui dentro la repressione è in ogni angolo, e quando non gliene diamo la possibilità, iniziano le piccole repressioni con limitazioni che avvelenano la quotidianità. Loro vorrebbero lo scontro, perché vincono sempre loro. La protesta come la facciamo noi, gli lega le mani, e pertanto nel tempo si vendicano.
Non credo assolutamente che la nostra esperienza possa servire fuori.
g) Premesso che ho passato più tempo in carcere ce fuori, pertanto mi sarebbe stato difficile partecipare a uno sciopero di quelli classici, credo che la differenza sia molto marcata. Sono due realtà molto differenti, perché noi non abbiamo diritti in questi casi, diversamente da uno sciopero fuori.
h) In carcere le difficoltà provengono dal mettere tutti d’accordo. Trovare la squadra è il lavoro puù difficile. Poi bisogna cercare di arrivare all’obiettivo. Spesso per piccole cose non si riesce ad arrivare fino in fondo. Questa volta bastava un’altra decina di giorni e avremmo raggiunto in toto anche gli obiettivi che non ci eravamo prefisso, ma che avrebbero cambiato totalmente la situazione.
i) La mediazione dei sindacati, alla lunga non è mai a favore degli scioperanti. Perché i sindacati sono parte integrante del potere in Italia. Basta vedere quando ci sono degli scioperi che non hanno bandiere, si trovano tutti contro: politica, sindacati stessi e tutto l’apparato repressivo e con la magistratura ferocemente a terrorizzarli con carcere e processi. Basta vedere quello che hanno fatto al movimento dei Forconi. In carcere, può essere chiunque, da un componente della polizia penitenziaria, l’area educativa, oppure direttamente il direttore o il commissario, che chiamano qualcuno per risolvere il problema. Come ho già detto sono due realtà diverse.
Quello che farei fuori, porterei la protesta all’estero, tipo a Strasburgo. Perché in Italia il direttorio che gestisce il potere, con la sua guardia repubblicana che è la magistratura, hanno un controllo di censura che è molto articolato, di quello che succede in Italia poco o niente valica le Alpi. Sono in carcere da troppi anni, può darsi che con internet oggi sia diverso. Faccio un esempio, il lager dei sotterranei di Bancali con il regime di tortura del 41 bis, sono una vergogna alla civiltà di questo paese, ma credo (mi potete smentire) che alla Corte di diritti dell’uomo non sanno niente. Non porterei l’esperienza dello sciopero in carcere fuori. Quello che farei in uno sciopero è di tenere i sindacati “statali” lontano. La gente deve auto organizzarsi, gli consiglierei di stare lontano dai sindacati e dai partiti nazionali, tranne i radicali.
j) Un bilancio dello sciopero? Negativo. Perché anche se il ministero ci ha concesso tutto quello che abbiamo chiesto a parte i volontari, come potrete leggere da questa circolare, il direttore non ha fatto quasi niente, la sua mentalità repressiva-ottocentesca non ha vacillato. Furbamente conosce la galera, sa che una volta terminato uno sciopero, riprenderlo sarà più difficile. In questo modo ha truffato noi detenuti, il Garante Nazionale e il Dap. Ha la certezza dell’impunità, sicuro che la magistratura della sorveglianza non interverrà per imporgli di applicare le disposizioni ministeriali.
Il problema reale nelle carceri italiane, non è la mancanza di leggi e regolamenti che tutelano i reclusi, ma bensì il sistema penitenziario che consente che ogni singolo carcere sia diventato una sorta di baronia feudale. Il barone ritiene di interpretare il codice penitenziario secondo il suo metro di giudizio e non secondo la legislazione dei codici, regolamenti e articoli di legge.
Tutto ciò è possibile perché, il potere al Dap militarizzato da un centinaio di Pm delle varie Direzioni Distrettuali Antimafia (DDA) nazionali, hanno procuratizzato il ministero e credono di poter fare quello che facevano nelle procure. Diritto di vita e di morte civile su tutti i cittadini.
Qui in Sardegna, il marcio era visibile all’inizio, perché se i politici avessero avuto un po’ di onestà, avrebbero capito subito quello che volevano fare. Costruire 2.600 posti letto, a fronte di un bisogno regionale di meno di 1.000 posti letto, il disegno era alla luce del sole. Ora sentirli gridare allo scandalo per l’inquinamento che tanti reclusi meridionali potrebbero portare alla regione. Come se noi non fossimo stati deportati, ma venuti di nostra spontanea volontà.

Oristano, settembre 2016
Pasquale De Feo, loc. su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)
***
Ciao compagni, rispondo alla vostra lettera, grazie per i complimenti del libro, mi auguro che abbia un’ampia diffusione, affinché la gente sappia le nefandezze dello stato.
Cerco di farvi una panoramica del sistema penitenziario: quando nel 1992 hanno emanato il regime di tortura del 41bis, i circuiti carcerari erano due, Comuni e AS.
Nel 1998 con una circolare del DAP, fu istituito il regime EIV (Elevato Indice di Vigilanza).
Faccio un passo indietro, qualche anno prima il capo del DAP, il compianto Alessandro Margara, stava preparando delle riforme per rivoltare il sistema penitenziario come un calzino. Aveva preparato anche l’abolizione del 41bis, voleva creare tre regimi: Comuni. AS (Alta Sicurezza) e SS (Speciale Sicurezza) al posto del 41bis. Il ministro della giustizia Oliviero Diliberto era d’accordo su tutti, anche se i sindacati della polizia penitenziaria erano assolutamente contrari. Purtroppo successe che Giancarlo Caselli, procuratore capo della DDA di Palermo, aveva finito i 9 anni del suo mandato, e siccome era attaccato da tutte le parti per i tanti politici inquisiti e messi alla gogna, e infine tutti assolti. Avendo reso un ottimo servizio all’attuale Partito Democratico (PD) sotto la regia di Violante, dovevano trovargli un posto dove non potevano attaccarlo, scelsero il posto di Alessandro Margara. Dalla sera alla mattina Diliberto licenziò Margara e assunse Caselli. Ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Che sia maledetto. Tutte le riforme in atto andarono in fumo, persino il nuovo regolamento di esecuzione preparato da Franco Corleone, con Caselli ebbe dei tagli molto profondi.
Con Caselli il nuovo regime che doveva sostituire il 41bis, divenne l’EIV.
Nel 2009 il signor Angelino Alfano, segretario di Berlusconi e ministro della giustizia, emanò la legge che istituiva tre regimi: AS-1; AS-2; AS-3.
Questo scaturì da una sentenza della Corte Europea dietro ricorso di Carmelo Musumeci, perché a noi dell’EIV non dicevano i motivi perché ci trovavamo in questo regime, ma come succede spesso in Italia, niente è fatto con correttezza e onestà.
L’EIV divenne AS-1, non cambiò niente, solo il nome. L’AS-2 divenne il regime per tutti i reati politici, con tre sottocircuiti, uno per politici rossi e neri, uno per gli anarchici e uno per gli islamici. L’AS-3 era il vecchio AS. Prima di questi tre regimi, i politici erano con noi nell’EIV. Oggi ci sono cinque circuiti: Media Sicurezza che sarebbero i Comuni; i tre AS 1-2-3; e il 41bis.
La cosa paradossale è che ci sono tante persone che sono diventate pericolose amministrativamente, nel senso che ogni volta che si inventavano un regime, salivano di gradi, perché bastava un comma in più o in meno, faceva la differenza, sic.
Nei regimi AS – 1-2-3 non c’è nessuna valutazione, i burocrati del Ministero non se lo creano il problema, faccio un esempio su di me; sono buttato da oltre vent’anni nel regime attuale, che una volta era AS, poi EIV e in ultimo AS-1.
Il 41bis è una tortura, e siccome avevano nostalgia di Pianosa e Asinara, hanno aperto Sassari e presto ne apriranno uno gemello a Cagliari, e sono molto peggio. L’unica cosa è che non stanno più usando il manganello, ma il manganello psicologico è molto peggiore. Da Sassari non se ne uscirà nessuno sano di mente, ma sicuramente pieno di odio e di rancore nei confronti dello stato: Hanno creato delle moderne segrete medievali, perché la sezione è sottoterra.
Dicono che solo ne dittature usano centri che servono per annichilire il pensiero e distruggere la personalità, da noi ci sono anche in democrazia, forse credono che essendo un sistema democratico, anche la tortura diventa democratica, pertanto accettabile.
Chi viene arrestato per reati comuni verrà allocato nella Media Sicurezza; chi ha reati che rientrano nell’art. 4bis, sarà ubicato nell’AS-3, chi ha reati politici sarà collocato in AS-2. In AS-1 si vieni messi quando è revocato il 41bis.
Il 41bis viene applicato su segnalazione della DDA o della DNA [Direzione Nazionale Antimafia e antiterrorismo, organo della Procura generale presso la Corte suprema di cassazione, istituito nel 1991, ndr]. Il Ministero della Giustizia, che è un ufficio notarile, timbra e manda le persone alla tortura di questo regime infame, non controlla se quello che hanno scritto nelle relazioni sia vero o frutto delle discussioni da “bar”. Il primo decreto se non viene revocato dopo i primi mesi, perché si fa ricorso quando viene notificato, si dovrà aspettare quattro anni per fare di nuovo ricorso. Dopo questi quattro anni, viene notificato ogni due anni e si può fare ricorso ogni due anni.
Abbiamo un sistema penitenziario degno di una dittatura, altrettanto l’apparato repressivo è all’altezza di uno stato di polizia.
La pena non finisce quando l’abbiamo scontata, perché fuori inizia un’altra pena di persecuzioni, tra le varie misure di sicurezza e oppressione per il lavoro. Se ti metti un’attività fanno di tutto per fartela chiudere.
Bisogna fare una distinzione tra le due Italie, in quella del nord tutto è più soft, nel sud invece i metodi sono quelli che si usavano nelle colonie africane, cittadini di serie B, pertanto non ci sono formalità e né rispetto della Costituzione.
La Costituzione stabilisce che la responsabilità è personale, nel sud è collettiva, è perché con l’art. 416bis (“Associazioni di tipo mafioso anche straniere”), un reato non reato, non c’è bisogno di commettere un reato, basta che mettono insieme un po’ di persone. Principalmente quando succede qualcosa, iniziano subito i rastrellamenti e fanno un blitz.
Le procure e la magistratura, avendo acquisito un potere enorme, sono ferocemente determinati nel difendere lo status quo.
Le procure possono rovinare chiunque con tutte le leggi di emergenza che hanno a disposizione, principalmente le DDA locali. Non parliamo della DNA che è diventata una sorta di Minculpop (ministero della cultura popolare) dell’epoca fascista.
Ho deviato dall’argomento, ma purtroppo il sistema è unico, sono tutti agli ordini del “principe” che gestisce il potere in Italia.
Vi saluto con un forte abbraccio a voi tutti, Pasquale

21 ottobre 2016
Pasquale De Feo, Località Su Pedraxiu – 09170 Massama (Oristano)


reclamo dal 41 bis di bancali
Oggetto: reclamo avverso rigetto acquisto libro “Le cayenne italiane” di Pasquale De Feo.
Al Magistrato di Sorveglianza di Sassari.
Il sottoscritto Alessio Attanasio nato a Siracusa il 16-07-1970: Reclama:
Ex art. 35bis O.P., in relazione agli artt. 21 Cost. e 18 comma 6 O.P., avverso il rigetto ( in virtù del principio “silenzio-rifiuto trascorsi trenta giorni dalla presentazione dell’istanza, senza che vi sia stata risposta) della richiesta inoltrata in data 31-08-2016 (che si allega), tesa ad ottenere l’autorizzazione all’acquisto, tramite la direzione, del volume dal titolo “Le cayenne italiane” di Pasquale De Feo, Casa editrice Sensibili alle Foglie.
Per l’ennesima volta si dimostra quindi che non viene rispettata la condicio sine qua non per ritenere legittima la circolare DAP n. 88845 del 16-11-2011, che vieta la ricezione di libri e riviste dall’esterno, consistente nella possibilità del tutto astratta, di acquistare i volumi richiesti per il tramite della direzione.
Il commissario capo del DAP Francesco Picozzi scriveva nella rivista “L’eco dell’issp” (Istituto Superiore di Studi Penitenziari, che forma i dirigenti della Polizia Penitenziaria) n. 2 dell’aprile 2015, che il detenuto 41bis “conserva la piena libertà di scegliere le proprie letture (quotidiani, libri o riviste), con l’unico vincolo di procurarsi tali beni, passando per canali sicuri (impresa di mantenimento o direzione)”.
L’affermazione, lo si è dimostrato decine di volte, è palesemente falsa, poiché la direzione rigetta sistematicamente le richieste di acquisto di libri, riviste e fumetti. Tutto ciò avviene nonostante le pronunce dell’UDS (Ufficio di Sorveglianza) e del TDS (Tribunale di Sorveglianza) di Sassari, rispettivamente con le ordinanze n. 2015/5042 del 21-11-2015 e n. SIUS 201514-04-2016 (quest’ultima citata nell’ordinanza con la quale il MDS (Magistrato di Sorveglianza) di Spoleto ha sollevato sul punto la questione di legittimità costituzionale; ordinanza pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 22 del 01-06-2016).
Prova ne è il fatto che sono sub judice i seguenti reclami:
1) 24-11-2015, rifiuto acquisto codice di procedura civile e fumetto;
2) 19-01-2016, rifiuto acquisto testo universitario chiesto il 27-11-2015;
3) 02-02-2016, rifiuto acquisto rivista “L’Espresso”;
4) 29-02-2016, rifiuto acquisto abbonamento rivista “Ristretti orizzonti”;
5) 08-03-2016, rifiuto acquisto rivista “L’Espresso”;
6) 06-05-2016, rifiuto acquisto abbonamento rivista “Ristretti orizzonti”;
7) 21-95-2016, rifiuto acquisto libri vari;
8) 20-04-2016, rifiuto acquisto Kindle con vari e-book;
9) 27-06-2016. rifiuto abbonamento rivista “Ristretti orizzonti”;
10) 20-06-2016, rifiuto acquisto libro “La perturbanza (lettere dal 41bis)”.
A questo punto non rimane che o disapplicare la circolare DAP citata o sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41bis O.P., nella parte in cui consente – secondo l’interpretazione dominante della giurisprudenza di legittimità che costituisce cosiddetto diritto vivente – all’amministrazione penitenziaria di vietare per i detenuti 41bis, l’ingresso di libri e riviste dall’esterno, per contrasto con gli art. 3, 15,33, 34 e 117 comma 1 della Costituzione (in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU – Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Sassari, 1 Ottobre 2016
in fede Alessio Attanasio


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
[...] Ho letto la lettera dove parla dei prigionieri e della schiavitù nelle carceri americane. Certamente tutte le lotte portate avanti per abbattere le galere sono tutte validissime e vanno sostenute da ognuno secondo le proprie convinzioni e con modalità che ognuno ritiene opportuno.
In queste problematiche sono importanti tutti i contributi, anche critiche, perché aiutano a capire e a lottare. Le discussioni valide portano a migliorare e capire le lotte da portare avanti, perché con rivendicazioni diverse si acquista più coscienza, esperienza e determinazione. La realtà è che esistono diverse idee che portano alla libertà, a migliorare in tutto quello che facciamo. Solo con la ricchezza dell’esperienza collettiva, che raccoglie le idee di ognuno, si cresce e si fa ogni giorno un passo avanti verso la propria emancipazione.
Spero di non essere frainteso. Tutte le lotte per abbattere le galere, la tortura, la schiavitù, sono tutte validissime e vanno sostenute da tutti, ma spero che non passi in secondo piano il problema delle carceri in Italia, della tortura e del regime del 41bis, e quello che subiscono i prigionieri nelle galere in Italia, come le violazioni dei diritti fondamentali della persona. Perché, anche nelle prigioni italiane il lavoro è una schiavitù (sottopagato) e in tante carceri i lavoranti, come qui a Sulmona, lavorano dalle 8 di mattina fino alle 19 di sera – e gli vengono pagate solo 2 ore. Quindi sarebbe una valida ragione poter bloccare i lavori su una scala nazionale e poter ottenere quei diritti che sono di tutti i lavoratori dentro le carcere come per tutti i lavoratori in libertà.
Il discorso dei lavori nelle carceri è una cosa delicata – e non si può dire alla gente di non lavorare senza una valida motivazione, perché le problematiche sono diverse, soprattutto per quelle persone che hanno 20-30 anni di carcere. E tanti hanno bisogni materiali. E, lavorando c’è la prospettiva di poter uscire, quindi come si può dire alle persone di perdere i benefici e la possibilità di uscire? Ci vuole coraggio e una faccia dura a dire, a chi non ha nulla, di affrontare certe iniziative. Quindi è importante avere rispetto delle idee e delle decisioni di tutti, ed essere coerenti per capire le necessità di tutti e avere ognuno la possibilità di agire come ritiene conveniente. Questa è la libertà delle idee, della sensibilità verso e degli altri e verso noi stessi.
Siamo con voi in ogni manifestazione. Siamo con chi vuole unire le singole rivendicazioni in una lotta per una società senza sfruttati e sfruttatori, oppressi e oppressori – per un mondo di uomini liberi.
Saluti cari a tutti, Antonino.

2 ottobre 2016
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L’Aquila)


Lettere dal carcere di Milano-Opera
[...] La Cayenna mi ha rotto davvero le palle, abbiamo le docce che fanno schifo, almeno hanno rimesso la finestra, il mangiare è sempre più indegno. Un giorno ero in infermeria e c’era un ragazzo appena arrivato, poverino è privo di dentatura e ha l’epatite C., a parte quella stronza della dottoressa che l’ha costretto a dire le sue problematiche davanti ad un estraneo (io), il ragazzo lamentava del vitto che non era idoneo per primo la masticazione, secondo per la salute, infine lamentava la situazione che qui a Opera non c’è la consegna regolare della colazione e se uno non ha soldi non può permettersi manco un pasto dignitoso, la risposta di quella merda della pseudo dottoressa è stata: “io non posso farci niente”, senza nemmeno provare ad avere un finto briciolo di comprensione...
Credo di essere arrivato al culmine della sopportazione, togli tutti carcerati indegni che leccano il culo ad ogni divisa che gli passa davanti solo per avere un occhio di riguardo, per me sono porci quanto gli sbirri che governano qui. Questo posto mi opprime sempre di più, parto dal merda di Pizzuto (l’educatore), ‘sto lurido ti fa fare tutta la galera, non vuol farti ottenere alcuna misura alternativa, nemmeno l’art. 21, che per molti di noi è l’unica possibilità per vedere un filo di luce.
Sono molto incazzato con tutto il sistema di merda in cui sono costretto a vivere. Salutami tutti/e compagni/e. Ti mando un abbraccio fraterno. Con stima a pugno chiuso.

Opera, inizio ottobre 2016

***
Carissimi/e compagni/e, vi scrivo dall’isolamento e brevemente vi spiego degli abusi che stanno facendo qui a Opera.
La settimana scorsa la ‘digos’ ha fatto una perquisizione a casa mia in cerca di “armi e droga”. Cos’è che venerdì al colloquio con mio fratello un brigadiere si è permesso di chiamarlo fuori e dopo aver chiuso la porta, mi dice che il colloquio è SOSPESO. Inizio a dirgli di farmi salutare mio fratello e di aprire la porta. Il motivo era stato un giubbotto scambiato nella saletta. Così gli dico che poteva prendersi il giubbotto, ma di aprire che salutavo mio fratello. Ma lui diceva di NO, mentre gli dicevo di tutto “merda, figlio di …ecc… ecc…
Vedendo mio fratello preoccupato, mi calmo, gli dico di aprire che devo consegnare gli indumenti da far uscire. Appena apre lo prendo per il collo e volevo spaccarlo e rompergli denti, naso e le corna. Vedendo mio fratello spaventato, l’ho preso e l’ho baciato per tranquilizzarlo; sono uscito e lo sbirro è venuto con i rinforzi, e anche lì gli ho ripetuto che gli rompevo le corna, perché lui può sospendere il colloquio, ma non può negarci il saluto.
Così quegli infami della Direzione oggi mi hanno dato 10 giorni di isolamento.
Qui siamo arrivati al limite e tra poco se continuano con gli abusi siamo pronti a tutto. Stiamo raccogliendo firme contro le bastardate che stanno facendo ai colloqui: fanno spogliare donne e soprattutto bambini piccoli, anche con i pannolini. Queste sono violazioni all’infanzia e traumi che i bambini porteranno sempre. E non ci sono scuse che hanno preso alcuni famigliari con un po’ di fumo; se hanno dubbi siamo noi a spogliarci.
Questo digerisce i problemi che gli abbiamo creato.
C’è un ragazzo che sta morendo, si chiama Umberto, è malato di cirrosi epatica-aids: è alto 1,88 e pesa solo 52 kg. Erano 15 giorni che facevo casino per lui, la mattina e la sera ci preoccupavamo noia vedere se era vivo e a dargli da mangiare. Oltre a Umberto (che ora è ricoverato e sta morendo), abbiamo Emanuele, Andrea e altri due ragazzi. Tutta la sezione non gli fa mancare niente, andiamo a lavargli la cella, i vestiti r queste (merde) vorrebbero spezzare la solidarietà, invece, tutti noi siamo veramente incazzati e ci vorrà poco per scatenare la nostra rabbia. Ora pubblichiamo sui socialnetwork tutti questi abusi.
Ai compagni, alle compagne, alle sorelle e fratelli solidali lasciamo ogni iniziativa che scalderà i nostri cuori e infiammerà ancora di più la nostra rabbia. Faremo come i vietcong e venderemo caro con gli interessi tutto quello che stiamo ingoiando.
Qui non abbiamo diritto alla salute, Umberto sta morendo e pensano a fare il teatro e a far vedere i detenuti del 2° padiglione; e invece noi del 1° padiglione non abbiamo diritto a niente. A me rinnovano sempre la censura, non mi fanno arrivare più neanche una lettera. Siamo pronti a fargli vedere come sono fatte le palle, che i limiti sono stati superati. Ora siamo molti in isolamento e tutti abbiamo lo stesso pensiero che hanno i compagni rimasti in sezione: con merde come queste non ci può essere dialogo. Vogliono chiudere le celle? Siamo d’accordo, ci impegneremo con braccia, animo e cuore a far chiudere le sezioni.
Il supporto dall’esterno darà certezza che non siamo soli, così l’opinione pubblica si renderà conto delle violenze, abusi e pestaggi a cui sono sottoposti i ragazzi giovani. Li picchiano solo per farsi dire chi fuma spinelli; gli danno isolamento mentre sono innocenti, poi molto altro, soprattutto le violenze di spogliare bambini e donne. Ora basta. Noi non gli permettiamo più niente.
Un saluto da tutti i compagni che con me: Andrea, Cristian, Piero, Angelo, Seba (seguono lettere loro) e tutti coloro che non abbassano la testa. Sarò felice di un 14bis se il direttore pensa che noi siamo timorosi, il DAP non sa che qui il diritto alla salute è vietato, che ci sono abusi. Questo direttore non è altro che un ipocrita perché vuole sempre farmi chiudere la cella.
Quando risalirò in sezione gli dirò che prima di chiudermi in cella voglio vedere il direttore e dirgli di venire lui a lavare le celle, i vestiti e a preoccuparsi dei ragazzi disabili. Lui è bravo a celarsi dietro il teatro e a godere quando i poveri cristi muoiono. Cos’altro dirvi? Lo scritto parla da sé e i commenti li lasciamo agli altri. Un abbraccio fraterno anarchico e No Tav, a testa alta Maurizio.

[...] Eccoci qui nuovamente isolati senza diritti, presi all’improvviso, portati in una cella di isolamento priva di tutto ciò che il regolamento prevede, come la tv, la privazione di cucinare, così costretti a mangiare freddo e male da schifo, ci sono materassi marci e putrefatti. Mi hanno portato qui con altri due compagni, uno ha solo 20 anni, un ragazzino, chiamati all’ufficio dell’ispettore e da lì, dopo un “consiglio di disciplinare” con la direttrice, portati in isolamento senza neanche la possibilità di prendere le proprie cose personali.
E’ un sistema criminale quello che io vedo qui ogni giorno – sono tutti complici: dottori, infermieri, educatori ecc. ecc.
Sono qua a scontare sto isolamento 23 ore su 24 chiuso, e l’ora d’aria in una gabbia, motivo: perché tra noi abbiamo avuto un diverbio, ma rimaniamo amici più di prima. Alle minacce di ispettori, sovraintendenti di essere mandato all’ospedale mi viene da ridere, perché non ho paura, io grido i miei diritti. Stop!
Concludo dicendo che la direttrice e il direttore sono i più colpevoli di tutto, perché se permettono che ciò accada nel carcere gestito da loro, sono colpevoli di pestaggi, abusi, umiliazioni. Spero che in modo serio intervenga qualcuno. Stop!

17 ottobre 2016
Maurizio Alfieri, via Camporgnago 40, 20090 Opera (Milano)

***
Carissimi amici, io sono Andrea e posso dirvi che hanno spogliato nudo mio figlio, levandogli il pannolino e lasciandolo nudo su un tavolo tutto sporco, e dicendo a mia moglie che se non gli stava bene di non venire ai colloqui, o, di non portare qua mio figlio.
Io ho due figli gemelli di 1 anno, uno con dei problemi; e ho chiesto più volte di farmi fare il colloquio nella ludoteca, in quanto i miei figli hanno bisogno di muoversi e di giocare. Loro, infami, mi hanno rigettato la richiesta senza motivazioni.
Tutti noi stiamo raccogliendo le firme per fermare questi abusi che ingiustamente ci stanno facendo giorno dopo giorno. Io, pensate, che ho già il programma dal SERT esterno di Rozzano la disponibilità in un centro diurno, “la cascina” in Famagosta e il contratto di lavoro. L’avvocato e il SERT esterno sono stati bloccati dal SERT interno che non si decide a farmi una relazione e il magistrato vuole una relazione aggiornata.
Io ho una moglie di 25 anni sola con due figli a casa. I problemi a casa si accavallano, Ho 23 anni e mi stanno trattando da schifo.
Posso dirvi grazie se mi date una mano, non solo a me, ma a tanti giovani ragazzi che si trovano qua. Inutilmente ho fatto 6 domandine per farmi andare a scuola o in qualche corso, ma non mi hanno mai dato risposta. Solo per farmi una relazione pessima, perché già immagino cosa scriveranno; mentre io ho cercato di fare di tutto pur di avere una buona relazione, ma loro me lo hanno impedito. Noi siamo tutti con Maurizio, basta subire abusi da ‘ste facce di merda, facciamoci sentire. Vi mando un abbraccio forte, con affetto Giuliano Andrea.
ottobre 2016
***
Carissimi/e Compagni/i, sono un ragazzo di 30 anni e solo pochi giorni fa sono venuto a conoscenza di voi tramite un mio carissimo amico, che è con voi da molto tempo.
Volevo farvi sapere che qui dentro “C.R. Opera” ci sono continui abusi e violenze, anche se non fisiche, ma mentali. Vi spiego cosa mi è successo. Tutto è partito un mese fa, quando, dopo ogni colloquio venivo denudato, ma non è questo tutto il problema. Poi queste persone, diciamo gli schiavi dello stato, hanno cominciato a denudare anche la mia famiglia, mia moglie, una ragazza che non sa niente di galera. Dopo la perquisa, entrando a colloquio piangendo, mi ha detto: ‘io non vengo più’.
Ho cercato di fargli forza, dicendogli che non sarebbe più successo. Ma, cari/e compagni/e non è stato così. La settimana dopo, oltre ad aver denudato mia moglie per la seconda volta, hanno denudato anche mio figlio di soli 19 mesi. E non è tutto. Lui è stato spogliato, appoggiato non su un fasciatoio, ma su un tavolo freddo e sporco. Questo, scusando il linguaggio, è uno schifo, un abuso bello e buono, che continuano a farci giorno dopo giorno, schiacciando non solo la nostra dignità, ma anche la dignità di chi ogni giorno viene a trovarci. Ora mi trovo in isolamento, ma siamo pronti a tornare su, pronti a lottare con la certezza che voi sarete qui con noi. Nel frattempo vi lascio con un caloroso abbraccio e spero di incontrarvi al più presto. Un abbraccio anarchico, Giovanni.

ottobre 2016


LETTERA dal carcere di Caltanissetta
Cari amici/che di Olga, è tanto che non scrivo, ciò dovuto, principalmente, all’assenza di notizie significative, in quanto, in questo carcere, in linea di massima funziona tutto nella norma, comparata a tutti gli altri carceri esistenti nel globo, niente di particolarmente significativo, se non quello riguardante il Tribunale di Sorveglianza, dove non funziona niente o quasi.
Figuratevi che su 130 detenuti comuni solo in 3 fruiscono dei permessi premio, per altro non continuativi; le misure alternative vengono applicate con il contagocce, la legge 199 [varata nel 2010: ha introdotto la possibilità di scontare presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, la pena detentiva non superiore a 18 mesi] viene concessa negli ultimi due-tre mesi di fine pena, e non sempre; la liberazione anticipata, se non c’è il fine pena di mezzo, viene concessa dopo 5-6 mesi, se tutto va bene; per non parlare, poi, degli affidamenti terapeutici nel limite dei 6 anni, “utopia”; certo, qui non ci sono tanti Corona!
Per quanto mi riguarda, immagino ricordiate la mia posizione giuridica, per la quale sono ricorrente in Cassazione e quindi sono in attesa che firmino l’udienza, nel frattempo ho chiesto il trasferimento ad Alghero, dove mi dicono che sia un carcere sperimentale e dove si riesce a svincolare prima con i permessi anche agli ergastolani con l’art, 21 (lavoro all’esterno); là viene applicata la disciplina di de-carcerizzazione. Spero bene, anche se alla fine, questa scelta comporta l’allontanamento dalla famiglia. Purtroppo la vita richiede sempre qualche sacrificio a fronte di un beneficio, ammesso che lo sarà un beneficio.
L’opuscolo arriva con mio grande piacere nell’essere informato di quanto accade nel mondo umano e carcerario, è sempre più devastante per la dignità e per i diritti umani, ma noi non ci arrenderemo mai a questo sistema destabilizzante e denigratorio. Personalmente penso che lo strumento ideale per chi sta dentro, è la penna, poiché “Scripta Manent” ora e per sempre, per noi e per quelli dopo di noi.
A fuoco tutte le galere di questo mondo!! Un saluto ribelle a tutti voi. Calogero.

30 settembre 2016
Calogero Lo Monaco, via Messina, 94 - 93100 Caltanissetta


Lettere dal carcere san michele (al)
Ciao, sono Roberto, e sì, mi hanno trasferito ad Alessandria, ho ricevute le ‘vostre’ e vi ringrazio che non mi avete dimenticato. Se avete dell’altro inviate perché qui il tempo non passa mai, non c’è nessuna attività da svolgere e passo il tempo a leggere qualsiasi cosa. Mi sono già letto tutta la biblioteca e i vostri libri sono un toccasana.
Inutile dirvi che non funziona niente qua. Dell’ordinamento penitenziario se ne fanno beffe e non devono rispettare nulla perché non c’è barba di controllore che fa un’ispezione mirata. Riguardo ai detenuti che sono qui, è impossibile fargli capire che abbiamo dei diritti (tempo perso).
Qui fa un freddo cane e in famiglia sono rimasto solo. Qui non ci sono né volontari né prete, me la vedo brutta per l’inverno. Ma la voglia di reagire e vivere non me la leveranno MAI, non soccombo e combatto questa società e chi la gestisce in modo inumano.
Intanto vi invio distinti saluti e con piacere mi troverete a rispondervi. Grazie di tutto.
(Conoscete un avvocato sui diritti umani? Sto facendo ricorso a Strasburgo per trattamento inumano e mi serve compilare il ricorso che mi hanno inviato).

6 ottobre 2016
Roberto Porcedda, via Casale 50/A - 15122 S. Michele (Alessandria)

***
Ciao a tutti, sono qui che mi rigiro i pollici, ma intanto impugno la penna e vi scrivo. Qui ieri pomeriggio di sabato 15-10-2016, purtroppo un altro compagno ci ha lasciato nel modo più truce, non poteva o voleva sottomettersi all’imperialismo nazista mascherato dalla parola più abusata dai governi di buona parte del pianeta e cioè “democrazia” che di fatto non si era capito che cosa significa.
Ma questo ragazzo che aveva 22 anni ed era 3 giorni che per una pena definitiva veniva in carcere si è tolto la vita e non c’è stata barba di eliambulanza che poteva resuscitarlo, come sia venuto a questi estremi ci sono voci contrastanti, chi dice che lo ha fatto il “nemico” e poi lo ha mascherato da suicidio e chi pensa che lo abbia risolto in autonomia, ma il fatto è che la privazione della libertà eseguita dalla “costituzione” più schifosa del mondo ha fatto un’altra vittima e io sono convinto che per mettere in posa qualsiasi cosa bisogna essere ferrati nella materia e vorrei che questa cosa si sappia fuori da queste mura attraverso i canali mediatici che disponiamo.
Io mi sento arrabbiato e questo rinnova la mia ribellione a questo “sistema” di ipocriti arrivisti che lo specchio di casa loro si rifiuta di trasmettere la loro immagine perché indignato di essere appeso a casa loro.
Comunque io sono pronto a fare da tam-tam giusto perché non sopporto prepotenze e soprusi e non dubitate non mi faranno tacere mai “Libertà”. Viva la Libertà sempre.

16 ottobre 2016
Porcedda Roberto, 3^ Sezione, via Casale 50\a - 15122 Alessandria S. Michele
Lettera dal carcere di avellino
Cari amici di Olga, il mio percorso nella e per la mala-giustizia italiana volge al termine, e sono lieto di comunicarvi che è stato per me un piacere essermi accompagnato anche solo epistolarmente, con tutti/e voi, condividendo gioie e dolori. Eh sì! A gennaio dovrei finire, il condizionale è d’obbligo, poiché in questo nostro Stato di Polizia, ove la magistratura assume spudoratamente le vesti lise del despota. C’è sempre da stare attenti.
L’animo umano è meschino e ne diviene anima pericolosa nel senno ormai perso di un P.M. che serba rancore.
Infatti mi giunge notizia che il P.M., che ha inscenato il processo farsa che mi ha visto alla sbarra e poi in galera per 8 lunghi anni, ha riferito ad amici e conoscenti comuni che, una volta fuori, dovrò rigare dritto; rancore che serba verso di me per essermi permesso, a suo dire, di sfidarlo, con scritti e parole dentro e fuori l’aula. Ma io ero un avvocato e lui un P.M. misero.
Dunque, in questo teatrino che è l’Italia, presto mi accingerò a fare la mia parte, e che tremi il despota corrotto, poiché non mi zitterò e sarò sempre pronto a denunciare soprusi e ingiustizie sociali e legali. Poveri noi, mentre l’élite e la magistratura sono impegnati in aspre lotte per il potere, la corruzione dilaga e l’economia arretra.
Grazie per i libri e le cartoline. Sino a gennaio aspetto vostre gradite notizie.
Con stima, Antonio.

26 settembre 2016
Antonio Piccoli, Contrada S. Oronzo, 1 - 83100 Bellizzi Irpino (Avellino)

Di seguito un’altra lettera che Antonio ha messo in spedizione il 28 maggio, il carcere ha imbucato il 9 giugno e a noi è arrivata lo scorso 12 settembre.

Cari amici di Olga, in uno stato non-democratico e di non-diritto, ove il dissenso e la controinformazione sono pericoli da debellare e voci da zittire, ecco che il despota padrone interviene con la sola politica che conosce: quella del terrore.
E’ il caso di dire che a me i loro metodi mi fanno una ‘SEGA’, quindi possono trasferirmi anche nel ‘Palazzo d’Inferno’, sarò sempre un nobile oppositore al sistema – soprusi del despota-Stato.
E non ultimo ecco il mio viaggio-punizione per andare da Cosenza ad Avellino e coprire circa 300 km. Sono partito il 25/05/’16 alle ore 06,00 e sono arrivato ad Avellino alle 18,30 del 26 maggio. Ecco il percorso, la passione dei figli di un Dio minore: Cosenza-Catania, in aereo della Guardia di Finanza, da Catania a Roma da Roma a Secondigliano, qui ho pernottato perché tarda ora. Sono ripartito il pomeriggio del giorno dopo; dunque Napoli-Avellino. Ho girato tutto il Centro-Sud, isola compresa, per marcare solo 300 km. Ditelo all’amico Renzi e a questo stato di m… Mentre Pannella, per non piangere, se la ride da lassù. Con affetto Antonio.


Lettera dal carcere di Rebibbia (rm)
Cari amici e compagni, scusate questo periodo di silenzio, ma a volte bisogna staccare la spina per essere di nuovo forti e affrontare le mille ingiustizie di questo mondo chiamato carcere. In questo periodo ho pensato a due cose molto delicate. La prima quella del Partito radicale, la seconda l’uscita del mio nuovo romanzo.
Come tutti sanno, nel carcere di Rebibbia si è svolto il Congresso straordinario del mondo radicale, dopo la morte di Marco Pannella, si doveva chiarire all’interno dei Radicali quale strada proseguire; quella che Marco Pannella ha combattuto in tutti questi anni, cioè difendere i diritti di tutte le persone, detenute e no, i propri diritti sociali, avendo affrontate battaglie molto importanti per il nostro paese (aborto e divorzio), mentre l’altra anima, quella che invece vuole un partito che si giochi il suo futuro nelle battaglie politiche. Per il momento è così, visto che il nuovo gruppo dirigente ha due anni per mettere in ordine i conti del partito, e programmare il futuro. Nell’immediato, e prego voi di fare un tam tam a Roma presso tutti i nostri compagni ci sarà il 6 novembre una marcia da Regina Coeli (altro carcere a Roma) per indulto e amnistia, per riportare nella legalità costituzionale le carceri italiane. Intervenite in tanti.
Poi sono felice perché, entro ottobre ci sarà l’uscita del mio secondo libro, questa volta il romanzo “Senza più cadere”, dedicato a mio figlio. Stare 14 anni in carcere non aiuta nel rapporto.
L’opuscolo mi arriva sempre e lo faccio girare per la mia sezione, così non sprechiamo materiale; devo dire mai come in questo periodo in carcere c’è una calma piatta tremenda, tutti aspettano queste nuove riforme che ancora il senato non firma la legge delega per dar modo al ministro Orlando finalmente di mettere su carta tutte le novità degli Stati Generali. Ma in Italia, si sa, la condizione dei detenuti non porta voti, e in questo caos politico, nessuno si avvicina a questo micromondo. Un saluto a tutti/e e non smetterò mai di combattere per una società senza carcere. Marco.

18 settembre 2016
Marco Costantini, via Majetti, 70 - 00156 Roma


Lettera da Lucca di un ex prigioniero, mauro rossetti busa
Miei cari compagni e compagne di Olga. Scrivo per denunciare la mia precaria situazione che giorno per giorno sono costretto a vivere. A volte mi domando se vale ancora ritornare in galera. Ma questo domandarsi è solo legato alla disperazione. Le cose sono queste:
sono uscito il 24 maggio 2016 dal carcere di Terni dopo nove anni e mezzo di regime (Alta Sicurezza 2).
Uscii con un po’ di soldi che riuscii a risparmiare sulla pensione (189 euro mensili) di invalido 100%: con 104 euro devo pagare il canone d’affitto e la luce, più 19 euro per il condominio… alla fine mi rimangono in pugno briciole.
Prima di uscire i servizi sociali del carcere hanno preso contatto telefonico con i servizi sociali UEPE di Lucca. Trovarono un accordo sul fatto di trovarmi un’occupazione. Ma a tutt’oggi dei signori dell’UEPE non ho visto nessuno, tantomeno il posto di lavoro. Mi hanno solo detto che loro in quanto ministero di giustizia non sono addetti a trovare un lavoro e neppure borse economiche. Così mi hanno indirizzato ai servizi sociali del comune, dove mi sono sentito dire, anche da loro, che loro non si occupano di ex detenuti, soprattutto quando sono sottoposti alla libertà vigilata, che invece è una competenza dell’UEPE che mi segue. Così vengo indirizzato al ‘Centro impiego’ per iscrivermi alla lista della disoccupazione.
Mi sono incazzato, sono andato per gli uffici …per sentirmi dire di ‘avere fiducia’, di fare del volontariato gratuitamente, ma cosa mangio? … sono andato per uffici, mi hanno interrotto la comunicazione… perché gli ho espresso i problemi che abbiamo all’interno della casa: spesso viene a mancare l’acqua, l’impianto del gas e del riscaldamento sono a pezzi. Affrontare l’inverno senza riscaldamento, anche per me, vuol dire andare incontro a peggioramenti della salute… Così ho deciso di intraprendere oggi 28 settembre lo sciopero della fame di lunga durata fino a quando non avrò risolto in tutto o in parte i problemi che ho descritto-sottoscritto.
Vi chiedo di dare massima diffusione a questa lettera. Vi saluto caramente.

Per scrivergli: Mauro Rossetti Busa, via Turati, 442 - 55100 S. Anna (Lucca)


Lettera dal carcere di Nuoro
[...] Vi chiedo se potreste farmi avere, se c’è, qualche nuova legge sulla sorveglianza speciale, dove a nostro favore c’è il reinserimento intramurario per chi durante la detenzione lavora, fa teatro e i vari corsi e scuola che si fanno in questi maledetti luoghi.
Perché succede che uno, non solo si fa anni ed anni di carcere, quando è fuori, con motivazioni obsolete riferite a quel che una persona era prima di venire arrestata, deve subire le “misure di sicurezza”, che ci impediscono di fare una vita normale, per esempio, non ci danno la possibilità di trovare un lavoro. Scusatemi, ma quando scrivo di queste cose mi infervoro un tantino. Cordiali saluti. Domenico.

5 ottobre 2016
Domenico Virga, via Badu e Carros, 1 - 08100 Nuoro


Lettera dalla “libertà”
Ciao a tutti/e voi miei carissimi amici compagni/e. Un saluto solidale al collettivo di OLGa e a tutti quelli che mi conoscono… finalmente libero. Sono stato scarcerato il giorno 8 settembre, uscito dall’inferno di “Mammagialla” Viterbo.
Vi faccio sapere che il giorno prima di uscire è venuta la digos di Roma a farmi visita. Mi hanno sottoposto alle misure di sicurezza oltre che a prendermi il dna, impronte, foto, e fotografato tutti i tatuaggi che ho sul mio corpo, compreso quello dei miei ideali!
Sono appena uscito da 8 giorni e ho il loro fiato sul collo… Purtroppo non sono riuscito a uscire da questa situazione in cui ora mi trovo “libero sì ma controllato” con le misure di sicurezza disposte dalla questura di Roma anticrimine, con l’obbligo di soggiorno, obbligo di dimora, sorveglianza speciale, obbligo di firme al commissariato di zona “Castro Nuovo” domenica, mercoledì, venerdì, e ogni qualvolta sia richiesta una bella patata da pelare, con altre nuove prescrizioni, per la durata di anni due.
Tutto ciò mi crea un po’ di difficoltà, ma non per questo smetterò di scontrarmi contro ogni ordine e non lascerò mai la mia convinzione di ideali e principi, non lascerò mai gli amici-amiche, compagni/e in balia del carcere.
Un saluto solidale a tutti e tutte i prigionieri, a testa alta sempre e a pugno chiuso.
Un anarchico ribelle rivoluzionari.


Lettera dal carcere di Firenze-Sollicciano
Ciao cari amici vi scrivo per informarvi del mio ennesimo trasferimento, ora da Livorno mi trovo a Firenze (Sollicciano). Siamo stati trasferiti tutti noi detenuti del braccio ex femminile delle Sughere, perché finalmente si sono decisi a fare dei lavori di ristrutturazione e di estrazione dell’amianto. Era un vero schifo tra celle a pezzi piene di umidità e muffa, per non parlare delle docce.
L’unico rimpianto è di essere separato da tutti i compagni in gamba della mia sezione di Livorno, visto che si erano fatte tante belle amicizie eravamo tutti uniti ed un bel gruppetto. Ora spero che anche qui vada così, visto che ogni trasferimento è come iniziare tutto daccapo.
Qui comunque non si sta male e il carcere non è male. Ci sono parecchie attività, corsi e si è tutti aperti dalle 8 del mattino alle 9 di sera. Per ora mi sto ancora ambientando e, capendo come funziona tutto, nella prossima lettera vi saprò raccontare di più di questo carcere e della detenzione qui. Vi scrivo principalmente per dirvi del mio trasferimento e per poter ricevere la vostra posta qui. Ve ne sarei grato. Mi farebbe come al solito tanto piacere, vi saluto tanto e saluto tutti i compagni.
Un saluto da Seby Biotek. Un abbraccio, ciao a tutti, buona fortuna a tutti ciao ciao!!!

24 ottobre 2016
Sebastiano Del Re, via G. Minervini, 2r - 50142 Firenze


MARCO CAMENISH: aggiornamenti
Settembre 2016: Aggiornamento "discesa".
Il 1° settembre è iniziato il "lavoro esterno“ in zona Zurigo previsto per sei mesi.
Per proteggere la mia (costruenda...) sfera privata e quella dell'ambiente sociopolitico a me più vicino, in seguito non pubblicherò più informazioni sul mio nuovo ambito di vita come per es. soggiorno, casa, posto di lavoro ecc., che ormai non dovrebbero neanche più essere di "pubblico interesse“. Ovviamente questo non vale per lx compas a me più vicinx ed altrettanto è ovvio che continuerò ad informare sul percorso della mia "liberazione“ (a maggior ragione su eventuali, "rovesci“...).
Come in parte ho già informato la stampa solidale di movimento, in questa fase della mia "prigionia“ ho già un accesso abbastanza "libero“ all'informazione, alla rete ecc.… di conseguenza non sono più "legittimato“ a ricevere come finora la vostra stampa gratuita e solidale per prigionierx e vi prego di sospenderne l'invio.
Per questa espressione di solidarietà e in generale per tutta la vostra forte, consistentissima e continua solidarietà rivoluzionaria oltre le tendenze contro la repressione del dominio voglio esprimere ancora una volta il mio amorevole rispetto e la mia più profonda gratitudine.
Ovviamente cosciente del fatto che la solidarietà rivoluzionaria non si può praticare giammai in uno spirito da "prestazione-servitio“, vale a dire a senso unico e perciò, come prigioniero specificamente anarchico, spero che il mio contributo solidale oltre le tendenze e il mio rapporto solidale con la lotta rivoluzionaria bastava basta e basterà almeno un po' allo spirito profondamente reciproco della solidarietà e dell'appartenenza rivoluzionaria.
Sempre resistendo, sempre contribuendo, sempre solidale (anche tacendo...:-))

marco camenisch, inizio settembre 2016, Zurigo, CH


OPERAZIONE SCRIPTA MANENT: aggiornamento
A tutti i compagni, di sicuro, si sa che è stata bloccata alcuna posta in arrivo. In particolare sappiamo che a Danilo è stata bloccata anche della posta di suo figlio. E gli stessi figli ancora non hanno potuto vedere i genitori (Danilo e Valentina) ai colloqui.
I compagni arrestati non possono avere contatti tra di loro, quindi nemmeno scriversi. L’unico segno di vita da un carcere all’altro è stato un telegramma del compagno Nicola arrivato alla compagna Anna. Sembra quasi sfumato il loro progetto di creare carceri speciali solo per anarchici tipo le AS2 di Ferrara e Alessandria. Questo lo si presuppone dal fatto che i primi trasferimenti stanno avvenendo in altre carceri.
L’accanimento sul compagno Marco Bisesti è parecchio pesante, si trova rinchiuso nelle “cantine” del carcere Rebibbia, perché si è rifiutato di fare l’esame per la tubercolosi (pratica normale in alcuni carceri). Quel braccio sotterraneo del lager è umido e al compagno non è stata data alcuna coperta per coprirsi almeno la notte. Per chi vuole inviare pieghi libri, notizie dei quotidiani, comunicati ecc avanti, i compagni chiedono quante più informazioni possibili. Siccome i compagni, però, sono in procinto di essere trasferiti il consiglio è di contattare tramite mail, per maggiori informazioni, i compagni che seguono la situazione più da vicino. Ovviamente seguiranno aggiornamenti costanti sui trasferimenti e la situazione dei compagni sul sito di CNA e RadioAzione.org.
I capi di imputazione caduti alla compagna Anna Beniamino sono il “B” e connessi per lo stesso reato. Il magistrato, per quel che riguarda l’attacco di Parma (capo d’accusa “B”) aveva chiesto il reato di “strage”, ma il G.i.p. ha rigettato questa accusa perchè, secondo lui, sull’ordigno non esploso è stato trovato l’interruttore posizionato su “Off”, quindi non c’era volontà di uccidere e di conseguenza di fare una strage.
Il 7 Ottobre si è svolto il riesame con cui il nuovo inquisitore della Procura di Torino, Roberto Maria Sparagna, farà ricorso per ottenere il reato di “strage” (285 c.p.) nei confronti dei compagni, reato respinto dal giudice, e per ottenere l’arresto di alcuni compagni solamente indagati. Arresti che lui aveva chiesto per la mattina del 6 settembre scorso e che non sono stati accolti e firmati dal G.i.p. Un altro reato specifico caduto a carico di Anna è il capo d’accusa “E”. Il pacco bomba per Sergio Cofferati.
Rompiamo l’isolamento che lo Stato italiano e il suo inquisitore di turno vogliono creare nei confronti dei compagni. Non servono solo i telegrammi di “cordoglio”…

Comunicato di Anna in sciopero della fame
Oggi lunedì 10 ottobre ho deciso di iniziare lo sciopero della fame contro l’isolamento a cui sono sottoposta, come gli altri compagni coindagati, dal momento del nostro arresto il 6 settembre scorso, preso atto che questa situazione continua nonostante il trasferimento nelle diverse sezioni AS2 e l’avvenuto interrogatorio di garanzia.
In solidarietà con Alfredo Cospito in sciopero della fame dallo scorso 3 ottobre, in isolamento nell’AS2 di Ferrara.
Sono cosciente di utilizzare lo strumento dello sciopero della fame come minimo segno di reazione alla barbarie connaturata a cattività ed autorità. Mantengo come sempre l’anarchia nel cuore e nella testa, amore e rispetto per tutti i compagni mai domi fuori e dentro le carceri, la rabbia tra i denti ed il sorriso sulle labbra. (Anna)

Alfredo interrompe lo sciopero della fame
19 Ottobre 2016: riceviamo la notizia dell'interruzione dello sciopero della fame da parte di Alfredo. Dopo 13 giorni di lotta contro l'isolamento a cui sono stati sottoposti tutti gli arrestati per l'operazione Scripta Manent, è stato trasferito di nuovo in sezione e quindi ha potuto reicontrare l’altro compagno Nicola Gai.

ottobre 2016, da autistici.org/cna

E’ comiciato l’appello del processone contro il movimento notav
Il processone contro le giornate di resistenza del 27 giugno e 3 luglio 2011 in Clarea é arrivato all'appello. Nell’udienza di martedì 11 ottobre 2016 al tribunale di Torino i compagni hanno letto un comunicato, riportato più avanti, nonostante l’allontanamento ordinato dalla giudicessa. L’allontanamento ha preso di mira gli imputati e il pubblico (oltre venti compagne/i ben presenti) che già durante l’esposizione della requisitoria, letta e commentata dal pm Saluzzo, si era fatto vivo reclamando l’aumento del volume dell’audio.
In perfetta continuità con la linea tracciata da Caselli e dai pm Padalino e Rinaudo, il procuratore Saluzzo ha cercato di spiegare come l’attacco giudiziario non sia diretto contro il movimento in generale, ma piuttosto contro le “frange violente”, litania che, ormai usata come puro esercizio retorico dalla procura torinese contro i notav, cerca di delegittimare una doverosa lotta di resistenza agli occhi dell’opinione pubblica. Nella sua lunga quanto noiosa esposizione il procuratore Saluzzo dichiarava, fra le altre cose, che : “Noi non criminalizziamo il pensiero, il dissenso, i manifestanti che dimostrano pacificamente le loro idee. Noi perseguiamo gli atti violenti.”
Stanchi di sentire le opinioni dello stato, gli imputati hanno interrotto il procuratore per leggere una dichiarazione collettiva. La giudicessa ha invocato più volte i carabinieri di interrompere la lettura e sgomberare l’aula, ma si è riusciti a leggere l’intera dichiarazione. Anche il pubblico poi è stato allontanato dall’aula e si è unito nei corridoi del palazzaccio agli imputati che insieme hanno sfilato in corteo dentro il tribunale fino all’uscita al grido “Giù le mani dalla Valsusa”, “Grida forte la Valsusa - che paura non ne ha – sulle barricate sventola la bandiera No Tav”… Una volta lasciata l’aula ci si è recate/i a Bussoleno per passare una giornata con l’evasa Nicoletta.
Nell’udienza del 20 Ottobre si sono svolte le arringhe della difesa. La prossima e ultima udienza è prevista per il 3 Novembre.

***
Noi rivendichiamo quelle giornate, la giustezza della lotta Notav! Ci siamo trovati di fronte alla vostra scelta meditata di inserire l'appello di questo processo nella campagna di monito, intimidazione e di impiego delle varie forme di restrizioni che hanno l'obiettivo di disperdere il movimento Notav. Il vostro scopo é semplice - aprire la strada alla devastazione dei territori e alle truffe ad “alta velocità” in Valsusa come in tutto il paese.
Le divisioni cui mirate con le vostre molteplici limitazioni della libertà non ci impauriscono e non ci dividono. Il vostro obiettivo, in perfetta continuità con la più generale strategia della procura di Torino, l'avete da subito mostrato separando addirittura il processone in 2 tronconi.
Constatiamo invece l’alta velocità con cui è stato fissato questo appello, mentre per l’appello riferito alla condanna in primo grado del 2011, per turbativa d’asta (appello TAV Chiomonte), non è stato fissato alcun appello, ci riferiamo al processo in cui sono stati condannati Comastri e Procopio di LTF (Lyon Turin Ferroviaire, la società che deve eseguire il TAV).
Ribadiamo la vicinanza e la solidarietà ad Alessio, Roby, Juan, Filo e Gianluca che avete “separato”, arrivando a proporre sfacciatamente un “processo a latere”, questo perché a voi è necessaria una sentenza punitiva e rapida contro i movimenti di lotta, a cominciare dal movimento Notav!
Sosteniamo la scelta di decine e decine di compagne e compagni, che da mesi contrastano con cosciente determinazione il tentativo di separarli dalle lotte - a Venezia, Saronno, Torino, Ventimiglia, Pisa, Roma compresa la Valle! Oggi, per tutte queste ragioni, lasciamo l'aula, per unirci a Bussoleno, all'evasa Nicoletta!
ORA E SEMPRE NO TAV! ORA E SEMPRE RESISTENZA! GIU’ LE MANI DALLA VALSUSA!

Torino, Ottobre 2016


torino: RIDERS IN LOTTA
Dalla mezzanotte del venerdì appena trascorso allo scadere del tempo dato all’azienda per aprire uno spazio di contrattazione, è scattato lo stato d’agitazione tra i fattorini di Foodora.
L’organico dirigenziale della start-up multinazionale di consegna a domicilio ha fatto orecchie da mercante riguardo alle richieste portate avanti dai lavoratori di Torino. L’azienda è strutturata in modo tale da assumere nuova manodopera a proprio piacimento, rendendo un fattorino facilmente sostituibile all’altro.
Nel scegliere i propri adepti non valuta solamente la capacità tecnica di svolgere in maniera corretta e rapida la mansione, ma anche se il lavoratore è diligente, se accetta senza fiatare le direttive e le condizioni dell’azienda. Non è un caso che oltre a non rispondere alle richieste dei lavoratori, l’azienda abbia diminuito se non azzerato i turni di molti ragazzi e ragazze impegnati nel discutere e nell’organizzarsi per pretendere qualcosa in più.
Le richieste dei lavoratori sussistono in una differente gestione riguardo alla manutenzione dei mezzi di produzione, in una maggiore sicurezza rispetto alle entrate percepite da questo lavoro, quindi avere dei turni garantiti e in un aumento di paga.
La bicicletta, lo smart phone e il piano tariffario con internet illimitato sono totalmente a carico del lavoratore, assieme a questo anche ogni rischio di guasto. I turni non sono regolarmente cadenzati, ma nella gara per accaparrarseli palesano un lavoro basato su una forte concorrenza, flessibilità e precarietà. Inoltre se dapprima i lavoratori chiedevano un aumento di paga a partire dai cinque euro fissi orari, ora devono far fronte al nuovo contratto più che imminente. I nuovi assunti, così come i riders che rinnoveranno il rapporto di lavoro a novembre, devono sottoscrivere un contratto con pagamento a cottimo. Per ogni consegna si percepiranno due euro e settanta senza più un fisso, così la concorrenza aumenterà in maniera esponenziale ma anche il rischio, sarà infatti possibile lavorare un’ora senza alcuna consegna, a stipendio zero, regalando il proprio tempo all’azienda.
Nella struttura dell’azienda del take away digitale ogni rider è connesso con il proprio smart phone ad un’unica piattaforma, ma spesso non conosce gli altri riders che da mesi lavorano nella stessa zona seppur ad orari differenti. Nonostante questa atomizzazione imposta, chi ha deciso di puntare i piedi è riuscito a fermarsi, riconoscersi oltre il caschetto fucsia e condividere il malessere, iniziando così ad organizzarsi e a scendere in strada per manifestare.
Nella tarda mattinata di sabato l’incontro è fissato nella vasta Piazza Vittorio Veneto. Ci sono decine di ragazzi, alcuni con la maglia aziendale al contrario, per coprire il logo, ci sono amici e solidali, gente che fa avanti indietro dalla copisteria capendo man mano quale può essere la portata dell’iniziativa, sventolano stendardi con il brand di Foodora detournato. Ci sono due promoter che da pochi giorni si sono viste azzerare i turni poiché hanno espresso solidarietà con chi ha deciso di lottare ed è stato sospeso momentaneamente dalla possibilità di accedere all’App della gestione dei turni.
Inizia il giro, l’obbiettivo è far tappa nei ristoranti e tutte quelle attività che adottano il servizio Foodora, invitando gli avventori a non utilizzarlo e i lavoratori dei locali a declinare gli ordini. Se alla rosticceria Santa Rita la fretta rende commesse e clienti sordi, al M** Bun i lavoratori applaudono i fattorini di Foodora. La carovana arriva fino a San Salvario per poi tornare indietro fino a Piazza Castello.
L’appuntamento è rinnovato alle diciotto e trenta per un’altra passeggiata, punto di ritrovo a Porta Nuova. Ed è lì che si presenta il responsabile delle risorse umane, ex rider che ha fatto velocemente carriera, a cercare di salvare capra e cavoli offrendo la disponibilità a confrontarsi nel giro di pochi giorni. Ciò che risulta, insieme alla trasudata preoccupazione da emissario degli uffici che brucia una sigaretta dopo l’altra, è che non può far nulla. Attorno a lui capannelli di riders si formano, cambiano, si turnano, ognuno dice la sua ma il verdetto sembra ripetersi come un mantra: “Di te e delle tue parole ne abbiamo abbastanza!”.
Non resta molto altro da fare se non tornare al motivo per cui ci si è incontrati, si parte per il giro. La fisarmonica di biciclette e appiedati si allunga e si condensa per le vie di San Salvario, si incrociano un paio di ristoranti solidali e poi si devia verso il centro. È lì che tra i palazzoni storici echeggia il primo coro, semplice e lineare: “Oggi Foodora non la-vo-ra!”. Compatti si procede ancora un po’, si incrocia qualche fattorino in rosa e gli si ricorda che è in atto una lotta, una di questi si aggrega alla combriccola. Il tour si avvia alla fine scomodando qualche altro ristorante nei servizi di Foodora.
Nelle chiacchiere ai margini tra un coro e l’altro emergono le riflessioni sul prossimo futuro, su come continuare a lottare, quali obiettivi darsi, come incontrare i nuovi fattorini che finiscono tra le maglie dell’azienda. In questa giovane esperienza c’è molto a cui pensare, intanto ci riserviamo la possibilità di ragionare nel prossimo futuro come una tale esperienza potrebbe inserirsi in una trasformazione più ampia del mondo del lavoro e delle possibilità che hanno le lotte che lo attraversano.

9 Ottobre 2016, da autistici.org/macerie