indice n.116

L’ITALIA E’ IN GUERRA
15 anni dopo l’11 settembre 2001
CONTRO CIE, HOTSPOT E TUTTI I LAGER DI STATO
Egitto: carceri sotto dittatura
USA: MIGLIAIA DI PRIGIONIERI IN SCIOPERO CONTRO LA SCHIAVITù
UK: Le detenute di Yarl’s Wood in sciopero della fame
Uno sguardo sulla privatizzazione delle carceri italiane
resistere alle “misure cautelari”
lettere dal carcere di Milano-Opera
Lettera di Davide dal carcere di Augusta (sc)
“pagine contro la tortura”: Report dell'assemblea a Roma
lettera dal carcere di s. michele (al)
Lettera dal carcere di Massama (or)
Lettera dal carcere di Secondigliano (na)
"AVANTI... SIAMO QUI"
Continua la caccia alle streghe della Procura de l’Aquila
Migliaia in corteo a Piacenza, per Abd Elsalam


L’ITALIA E’ IN GUERRA
Con la decisione dello scorso 13 settembre, l'Italia torna ad avventurarsi in Libia: oltre 300 militari, di cui 200 paracadutisti della Folgore, una portaerei, uno stormo di cacciabombardieri, diversi droni e tre basi militari impegnate in Italia (Trapani, Gioia del Colle, Sigonella), per una missione che, ipocritamente spacciata come missione “umanitaria” dal nome evocativo di Ippocrate (in onore del “padre” della medicina), si configura a tutti gli effetti come una missione di guerra, con un impegno pesante in uomini e mezzi, che espone ancora di più l'Italia al rischio di ritorsioni ed accelera la militarizzazione in corso nel Mediterraneo.
L'Italia era già attivamente presente in Libia dallo scorso 10 febbraio, con l’intervento di forze speciali, al fianco di quelle britanniche, presso Misurata, in un'altra operazione dal nome altisonante (Solida Struttura), a difesa dei pozzi e delle infrastrutture petrolifere. Con lo schieramento di questo ulteriore contingente militare, proprio nel momento in cui cresce la battaglia tra le fazioni libiche ed i loro sponsor internazionali per l’accaparramento della cosiddetta “Mezzaluna Petrolifera”, l'Italia si conferma protagonista nell’aggressione ai Paesi dell’Africa, nord e sub-sahariana, e del Medio e Vicino Oriente.
Oltre alla Libia, infatti, i soldati italiani sono presenti in Afghanistan, dove il contingente italiano si è addirittura rafforzato superando i 700 militari, e anche massicciamente in Iraq, non solo con un proprio contingente (500 uomini) a difesa della Diga di Mosul, ma anche nell'operazione strategica (Prima Parthica) di addestramento dell'esercito iracheno e nell'operazione delle forze speciali (Centuria) che impegna circa 100 uomini, di base a Taqaddum, non distante da Ramadi e da Falluja, con compiti di coordinamento e di sostegno alle forze armate irachene. In totale oltre 1000 militari, vale a dire, la seconda forza militare straniera nel Paese dopo quella USA.
A tutto ciò si deve aggiungere la presenza italiana nell'ambito della “Coalizione Internazionale”, a guida USA, in Siria, con compiti di appoggio logistico e di supporto militare, nella guerra civile e per procura che, da più di cinque anni a questa parte, ha già provocato più di 250 mila vittime, e il rinnovato attivismo militare del nostro Paese in Africa. La cosiddetta “lotta ai trafficanti di uomini” e la strategia di “contenimento” dei flussi migratori e di militarizzazione delle rotte dei migranti lanciata proprio durante il semestre italiano di presidenza della Unione Europea (“Processo di Karthoum”), sta “legittimando”, oltre alla massiccia partecipazione e al coordinamento delle missioni militari nel Mar Mediterraneo, gli accordi bilaterali di collaborazione militare con diversi Paesi dell’area.
All'inizio dello scorso mese di agosto, ad es., Italia e Sudan hanno sottoscritto un protocollo di cooperazione anti-migranti, che prevede il blocco e il rimpatrio, vere e proprie deportazioni forzate, verso il Sudan. Il governo italiano, insieme a quello tedesco, sta finanziando, addestrando e supportando i reparti scelti delle forze armate sudanesi per bloccare con ogni mezzo il flusso di migranti, in fuga da guerre e povertà, verso il Mediterraneo.
Non meno significativo è l'impegno del governo Renzi per un riarmo in grande stile dell'Europa: va in questa direzione il piano elaborato dai Ministri Gentiloni e Pinotti, anticipato nella lettera a “Le Monde” e già portato al tavolo del summit con Merkel e Hollande, per una “Schengen della Difesa”. Il piano prevede che un’avanguardia di Paesi - la troika costituita da Italia, Francia e Germania - lavori in tempi rapidi all’integrazione europea nel campo della difesa per rafforzare le capacità militari comuni ed accrescere l’autonomia di azione dell’Europa con la costituzione di un vero e proprio Esercito Europeo ed un'aggressiva struttura di Difesa Militare dell'Unione. Insieme a questo andrebbe rilanciata anche l'industria europea della difesa. Ad es. c’è l’accordo per lo sviluppo del drone europeo Euromale tra Francia, Germania e Italia e procede il completamento del sistema satellitare europeo Galileo che renderà i paesi aderenti alla Ue – e non solo – del tutto indipendenti dal sistema satellitare Usa, il Gps.
Ovviamente, gli stanziamenti necessari per tutto saranno fuori dal Patto di Stabilità, quotidianamente invocato per avallare le politiche antisociali di tutti i governi europei. Già oggi, la spesa militare europea ammonta a centinaia di miliardi e i dati SIPRI ed il rapporto (http://www.iai.it/sites/default/files/pma_report.pdf) stimano per i 31 Paesi europei presi in considerazione un aumento in media nel 2016 pari all’8,3 per cento rispetto al 2015. Solo in Italia spendiamo in strutture militari, armamenti, missioni all'estero, circa 100 milioni al giorno.
Anche il fatturato militare nel continente è stratosferico; solo l’Italia nel 2015 ha esportato per un valore di oltre 8,2 miliardi di euro, un boom del 186 per cento rispetto al 2014! Si tratta di armi vendute, per esempio, agli Emirati Arabi e all’Arabia Saudita, che le usano per armare i gruppi della jihad e per la guerra contro lo Yemen; oppure alla Turchia e all’Egitto, dove vengono violati in modo scandaloso i diritti umani.
La necessità del riarmo dell'Europa e dell'esercito europeo è stata richiamata da un’altra italiana, Federica Mogherini. Nel minaccioso intervento dello scorso 3 settembre, a Bratislava, l'Alto Rappresentante UE, da una parte ha confermato il “pieno sostegno” al governo turco (nei giorni stessi dell'invasione della Siria da parte dell'esercito turco e della durissima repressione che in Turchia sta colpendo il popolo curdo, gli attivisti e gli oppositori al regime di Erdogan); dall'altra ha auspicato un rafforzamento, anche e soprattutto militare, dell'Unione Europea, una vera e propria “Fortezza Europa”.
A dispetto, quindi, della propaganda renziana sulla cooperazione civile e la “inclusione attraverso la cultura”, l'Italia, con i suoi oltre 7000 militari impegnati nelle missioni internazionali, è oggi uno dei Paesi al mondo più attivi sul fronte della guerra e della militarizzazione. La presenza delle forze armate italiane negli scenari più sensibili degli approvvigionamenti strategici e delle risorse energetiche (Libia, Iraq, Afghanistan) mostra chiaramente il carattere strategico ed imperialistico di questa proiezione internazionale, che nulla ha di difensivo né, tanto meno, di “umanitario”.
L’utilizzo strumentale della lotta al terrorismo, la paura diffusa a piene mani nei confronti del “pericolo islamico”, le campagne razziste e xenofobe contro gli immigrati, sono parte della macchina di propaganda finalizzata ad ottenere il consenso a questa politica di aggressione ed al militarismo crescente e ad arginare e criminalizzare qualsiasi opposizione. Perfino la modifica del processo decisionale e del modo come vengono discusse in Parlamento le missioni militari è coerente con questa esigenza di compattamento sciovinistico e militare.
Nel silenzio tombale dei media, lo scorso 14 luglio, è stata approvata in via definitiva la nuova “legge quadro sulle missioni internazionali”, la quale disciplina (art. 1) «la partecipazione delle forze armate, delle forze di polizia … e dei corpi civili di pace a missioni internazionali istituite nell'ambito dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) o di altre organizzazioni internazionali cui l'Italia appartiene» (in particolare, come ben si comprende, la NATO), toglie (art. 2) al Parlamento, che può intervenire solo con generici “atti d'indirizzo”, la facoltà di approvare o respingere, in modo vincolante, le missioni militari, e dà, viceversa, al Governo (art. 2 e art. 3), pieni poteri nella realizzazione e nella conduzione delle missioni di guerra del nostro Paese.
In pratica il Parlamento italiano (che certo non si è distinto nell’opposizione alle missioni militari passate e presenti) è stato esautorato (o meglio, votando questa legge, si è autoesautorato) da qualsivoglia potere decisionale in merito alle iniziative militari, delegando totalmente ogni decisione sulla guerra al potere esecutivo, che può agire senza, in alcuni casi, che il Parlamento venga neppure messo al corrente di tali iniziative.
A questa accelerazione nella svolta autoritaria si accompagna la crescente repressione di quanti lottano contro la guerra e la militarizzazione del territorio. Solo poche settimane fa, proprio mentre il governo Renzi imponeva il dissequestro del MUOS, decine e decine di attivisti NO MUOS sono stati denunciati per la loro strenua opposizione a questo micidiale strumento di guerra.
Contro la messa in funzione del MUOS, contro l’uso delle basi militari presenti in Sicilia, contro le politiche razziste, gli hotspot e i CIE, il movimento NO MUOS ha indetto la manifestazione del 2 ottobre.
Come “Rete campana contro la guerra ed il militarismo” siamo schierati al loro fianco. Facciamo appello a tutti gli antimilitaristi, ai comitati, alle associazioni, ai compagni tutti a sostenere e rafforzare questa mobilitazione anche con iniziative sui propri territori per rilanciare sul piano nazionale un movimento contro la guerra. Opporsi al governo Renzi, contrastare questo stato di cose significa, oggi più che mai, lottare contro la guerra e la militarizzazione.
Non possiamo, infatti, illuderci di difendere i nostri diritti e di contrastare gli attacchi alle nostre condizioni di vita rimanendo indifferenti o dimostrandoci concilianti con l’oppressione e la violenza del “nostro” Paese su altri Paesi. Le aggressioni economiche e militari verso altri popoli e la politica dei continui sacrifici per “uscire dalla crisi economica” che ci impoverisce quotidianamente, sono due facce della stessa medaglia e hanno identici responsabili.
Diciamo NO all’intervento militare in Libia e chiediamo il rientro delle truppe italiane impegnate nelle missioni all’estero.
Diciamo NO alle spese militari che continuano a crescere mentre si continuano a tagliare le spese sociali.
Schieriamoci dalla parte dei dannati della terra rivendicando il diritto all’accoglienza per tutti gli immigrati.

Napoli, 16 settembre 2016
Rete campana contro la guerra ed il militarismo
da facebook.com/retecontroguerramilitarismo.na


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Comunicato della Lista Comitato No Guerra No Nato, Rete No War Roma
Pur avendo sostenuto per anni la lotta del popolo curdo, siamo molto preoccupati delle scelte che una parte della sua dirigenza ha imposto in Siria. Queste scelte e le loro conseguenze non sono assolutamente messe in discussione dall’appello per il 24 settembre:
1) Non viene minimamente condannato il fatto che l'esercito turco ha invaso uno stato indipendente, la Siria, in cui gli stessi Curdi vivono, violandone platealmente la sovranità.
2) Non viene chiarito che gli stessi Curdi della Siria, ed i loro alleati delle "forze democratiche siriane" (spezzoni di vecchie formazioni jihadiste facenti capo al sedicente Esercito Libero Siriano), hanno per primi essi stessi violato la sovranità del loro paese consegnando nelle mani dell'alleato esercito statunitense una serie di basi su suolo siriano.
3) Viene taciuto che gli stessi statunitensi si servono di queste basi per attaccare e minacciare l'esercito nazionale siriano che difende l'unità, l'indipendenza e la sovranità del paese, mentre contemporaneamente l'esercito nazionale viene bombardato anche da Israele, che cura anche i feriti di Fateh al-Sham (ex al-Nusra) e dell'ISIS nei propri ospedali..
L'ultimo deliberato bombardamento dell'esercito USA sulle posizioni dell'esercito siriano a Deir Es Zor, città assediata dalle bande dell'ISIS, che ha causato decine di morti, favorendo così gli attacchi dell'ISIS, dovrebbe far riflettere sulle reali intenzioni degli USA. Gli Statunitensi stanno anche sabotando la tregua umanitaria concordata con la Russia, non onorando l'impegno preso di costringere le formazioni armate da loro controllate a cessare il fuoco ed a distaccarsi dai terroristi estremisti dell’ex al-Nusra ed ISIS.
Fin dagli anni '90 i neocons USA nei loro documenti indicavano una serie di paesi da distruggere perché non compatibili con i loro sogni di domino mondiale, tra cui la Siria, la Jugoslavia, l'Iraq, l'Iran, la Libia e altri paesi. A partire dall'amministrazione di Bush jr le indicazioni dei neocons sono state adottate ufficialmente come strategia della politica estera statunitense. Di questo ci sono oltre che i fatti, varie testimonianze, a partire da una famosa intervista rilasciata nel 2008 dal generale Wesley Clark.
Come conseguenza, fin dal 2011 è stata formata una vasta alleanza filo-imperialista con l'intento di distruggere lo stato siriano laico e progressista, uscito dalle lotte anticoloniali, così come già è stato fatto per la Jugoslavia, Libia, Iraq, Ucraina, Somalia, Costa d'Avorio, Sudan.
Di questa alleanza fanno parte USA, UE, NATO, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, e bande di mercenari jihadisti terroristi che fanno capo all’ex al-Nusra, ISIS, e presunte formazioni "moderate" legate agli USA.
Il movimento curdo siriano, che dichiara di voler lottare per una Siria democratica, dovrebbe precisare se intende portare avanti le proprie rivendicazioni nell'ambito dello stato laico e progressista siriano, che ha assicurato pieni diritti alle donne, e alle numerose religioni ed etnie presenti nel paese, o cercare illusoriamente di realizzare le proprie aspirazioni a costo della distruzione della Siria, programmata da tempo dall'imperialismo, con la creazione di uno staterello fantoccio, stile Kosovo.
Altrettanta chiarezza richiediamo a tutte quelle organizzazioni sedicenti pacifiste e di sinistra, che non mancano occasione di attaccare e demonizzare il governo della Siria, e che oggi trovano un facile alibi nell'adesione all'ambigua manifestazione del 24.

Roma, 19 settembre 2016
Lista Comitato No Guerra No Nato, Rete No War Roma

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breve resoconto della manifestazione di roma del 24 settembre
“Totale appoggio alla lotta del popolo Curdo del Rojava e al suo autogoverno”; “Al fianco della resistenza in Kurdistan. Viva la rivoluzione sociale, fino alla libertà!”; “Con il popolo kurdo che lotta per costruire una società equa libera e solidale”.
Questi i temi dei tanti volantini diffusi, degli striscioni alzati nella manifestazione di sabato 24 settembre a Roma, partita da Porta Pia, a sostegno della guerra di liberazione del popolo kurdo in pieno svolgimento in Medio Oriente. Per l’intero pomeriggio il corteo che si è esteso fino a superare cinquemila manifestanti, ha urlato, cantato, espresso a testa alta le proprie convinzioni, scelte di campo. Un corteo composto da collettivi territoriali, come quello degli insegnanti, apertamente schierati contro la guerra della NATO, dal movimento No Muos “Via le basi USA dalla nostra terra No al MUOS a Sigonella, No alla guerra”, a “Fora sa NATO da la Sardinia”, fino a “Lottiamo senza confini - Solidarietà e Autodifesa Femminista”… in testa al corteo ci sono gli striscioni “In piazza per il Kurdistan”, “Jin Jivan, Azadi – Donna Vita Libertà”, “Ocalan libero” portati e urlati da ogni componente della manifestazione.
Il corteo non passa lontano dall’ambasciata della Turchia, presidiata dalla polizia, ricoperta dall’urlo “Erdogan assassino”, passa di fronte al ministero della Difesa, esprimendosi con “Basta con la ‘guerra umanitaria’ in Irak, Siria, Solidarietà internazionalista”, così davanti a una caserma dell’aviazione militare. Dopo tre ore viene raggiunta piazza Vittorio, qui attraverso le casse montate su un camion ogni collettivo esprime vicinanza, solidarietà, impegno con il tema portato in strada; viene diffuso anche un messaggio di Nicoletta del movimento No Tav che rifiuta di sottomettersi alle “misure preventive”.
Tutte le voci concordano che il pomeriggio è stato vivo, partecipato da ogni collettivo e individualità che ha deciso di andare in strada oggi contro la guerra della NATO per spazzarla via, per la lotta di liberazione. Una giornata dunque di buon auspicio per il futuro.

Milano, settembre 2016

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Guerra in Siria: gli USA conducono bombardano l’esercito siriano
Nel pomeriggio di sabato 17 settembre 4 caccia USA hanno bombardato le truppe del governo siriano dislocate presso la città assediata di Deir Essor - nell’est della Siria. Le unità colpite, stazionate nel porto della città, hanno comunicato di essere state bombardate, prima, da due aerei F-16, poco dopo, da due Jet A-10; in entrambi i momenti gli aerei erano USA. Le morti risultano essere stati 62, 100 i feriti e riguardano soltanto soldati (siriani).
Immediatamente dopo unità dell’IS, che da tempo accerchiano la stessa città, hanno tentato via terra di conquistare il colle Al Tharda nei cui pressi c’è un importante aeroporto controllato dall’esercito siriano. Contro questa offensiva dell’Is Washington non ha mosso un dito. L’esercito siriano è riuscito, con l’aiuto dell’aviazione russa, a riconquistare le posizioni. Il porto è la sola possibilità che gli abitanti di Deir Essor hanno per ricevere ogni tipo di aiuto.
Solo venerdì 16 USA e Russia avevano trovato accordo, a parole, di estendere per altri tre giorni il “cessate-il-fuoco”. Gli USA, per parte loro sul merito, rifiutano da tempo di sottoscrivere i cinque documenti usciti dagli incontri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
In Siria gli accordi sul “cessate-il-fuoco” non hanno vita facile. I gruppi armati IS utilizzano le pause per organizzarsi nel proseguimento della guerra; in particolare, per rifornirsi di armi provenienti dalla Turchia (che le riceve dalla NATO, giusto?).
In conclusione, l’IS si trova di nuovo in grado di ri-presentarsi attorno ad Aleppo, in particolare da sud; di poter ripianificare l’attacco sulla città di Hama. L’esercito siriano potrà contare comunque sul sostegno dell’aviazione russa che ha trovato base nell’aeroporto di Hmeimim (Latakia).
I portavoce dei governi di Mosca e Damasco puntano il dito contro Washington. Il ministero degli esteri della Russia fa sapere che Washington, mentre fino a poco tempo fa si limitava a proteggere Fatah-Al-Scham, capo di “Al Nustra Front” (la componente delle forze siriane che vogliono abbattere il regime di Assad, che nel tempo si è intrecciata all’IS e agli USA) ora lo difende. A volta il governo siriano al Consìglio di Sicurezza dell’ONU la condanna dell’attacco subito, degli accordi non rispettati.

da da jungewelt.de, 19 settembre 2016
15 anni dopo l’11 settembre 2001
Sono passati 15 anni da quando gli aerei esplosero nei due grattacieli del World Trade Center a Mahattan. Da allora il mondo arabo è precipitato in un vortice infinito di violenza, caos e morte. La gran parte dei morti vanno sul conto delle bombe e soldati USA. E gli interventi militari degli Stati Uniti in Afghanistan e in Irak hanno scatenato un odio enorme sull’impero e ha portato ad un aumento – non alla diminuzione – del terrorismo. Nel frattempo l’organizzazione temuta, Al Qaida, è mutata in “Stato Islamico” e la gran parte dei paesi arabi e islamici si è trasformata in obitori moderni da dove il puzzo si spinge verso l’esterno. In quali stati del mondo arabo va meglio? Egitto? Libia? Palestina? Dove gli USA infilano nel gioco le loro dita sporche, sempre, prima o poi tutto si trasforma in una fossa di serpenti velenosi.
Lo scienziato politico USA ed ex-consulente della CIA - Berater Chalmers Johnson (1931–2010), già nell’anno precedente l’11 settembre 2001 nel suo libro “Blowback: The Costs and Consequences of American Empire” (Contraccolpi: i costi e le conseguenze dell’impero americano), pubblicato nel marzo 2000, apparso in Germania sotto il titolo “Un impero va in rovina. Quando finisce il secolo americano?” In quel libro l’autore descrive le operazioni coperte e i trucchi velenosi della CIA in Medio Oriente e altrove. Dopo l’11 settembre 2001 aumentano in misura astronomica le vendite del libro perché lettrici e lettori speravano di capire meglio attraverso la sua lettura quanto accadeva e di trovare risposta alle domande che si ponevano, perché quell’attacco?
Oggi sono passati già 15 anni e i cittadini USA sembrano capire sempre meno quel che è realmente accaduto quell’11 settembre 2011. Il fattore dominante è che il governo USA percorreva allora, sotto il presidente George W. Bush, la via letale della guerra e dell’occupazione, permetteva alle forze armate di giocare a mettere in mostra i muscoli per mettere in mostra la potenza dell’impero.
Negli USA da allora la vita è diventata più sicura? La società USA è diventata più saggia o addirittura “migliore”? Solo negli stati arabi questa politica ha spezzato la vita di oltre un milione di persone che non avevano nulla a che fare con quanto accaduto l’11 settembre 2001, ciononostante “Shock and Awe” (spavento e paura) vennero sparsi non soltanto a Bagdad. Le forze armate USA hanno distrutto città e villaggi e provocato un esodo di profughi di quattro milioni di persone. Soldati USA torturavano gli arrestati nei loro lager carcerari in Irak, a Diego Garcia, Guantànamo e nei “Black Sites” cioè le carceri segrete. Gli Usa fanno cadere i governi dei paesi stranieri a loro non graditi e sono perciò responsabili dell’attuale disastro in cui è caduta un’intera regione. E tuttavia essi non smettono con ipocrisia di chiedersi: “Perché soltanto loro ci odiano in questo modo?”

19 settembre 2016, di Mumia Abu-Jamal, da jungewelt.de


CONTRO CIE, HOTSPOT E TUTTI I LAGER DI STATO
Roma: sul presidio al CIE di Ponte Galeria del 17 Settembre
Sabato 17 settembre, un gruppo di circa 50 persone è tornato sotto le mura del CIE di Ponte Galeria per salutare e restare al fianco delle donne recluse.
La giornata è iniziata alle 13 ed è andata avanti fino alle 16:30 circa, con musica, cori e interventi dal microfono aperto. La risposta delle detenute, che urlavano rispondendo ai cori dei/delle solidali si è fatta sentire, finché non sono state rinchiuse nelle celle dalle guardie. Durante i presidi questa è la normalità: se c’è comunicazione tra dentro e fuori le guardie fanno di tutto per impedirla. Allo stesso modo, succede spesso che guardie e digos presenti in forze provochino e tentino di dar luogo a inutili scaramucce con lo scopo di alzare la tensione. Anche questa volta non si sono smentiti.
I presidi al CIE di Ponte Galeria, che hanno cadenza mensile, hanno il preciso scopo di tenere viva la comunicazione con chi è reclusa, visto il silenzio o le false informazioni che circolano intorno a questi luoghi. I presidi sono importanti per sapere cosa succede all’interno dei lager dalle stesse persone che vivono questa prigionia sulla propria pelle.
Al momento le ragazze recluse sono circa un centinaio, provenienti da diversi paesi. Continua a essere molto forte la presenza di persone di origine nigeriana, visti gli accordi che esistono tra l’Italia e la Nigeria in materia di deportazioni. Purtroppo da Ponte Galeria continuano le espulsioni con una certa regolarità: il CIE romano, come è stato detto più volte, è anche un polo logistico importante dove inviare le persone catturate durante le retate in tutta Italia e trattenerle in vista di una imminente deportazione.
Mentre continua a rimanere inutilizzata la parte maschile, ancora chiusa dopo la rivolta di dicembre, la situazione nella sezione femminile è molto difficile, visto anche il grosso numero di persone recluse. Le detenute raccontano di condizioni igieniche pessime, dei soliti problemi con il cibo (sopratutto degli alimenti scaduti) e di una lunga estate, in cui sappiamo che le condizioni della prigionia sono ulteriormente peggiorate.
Come succede ormai da molto tempo, gli ingressi e le uscite dal CIE romano hanno una frequenza settimanale. La durata della detenzione si allunga molto per le richiedenti asilo (la media è ormai di 5-6 mesi), mentre per chi deve essere espulsa la permanenza può anche essere meno di una settimana.
Continueremo ad andare sotto queste carceri, complici e solidali di chi ogni giorno lotta per la propria esistenza. Nemici e nemiche delle frontiere

Aeroporto Milano-Malpensa 24 agosto 2016: occupata una torre
Nel pomeriggio una trentina di compas ha raggiunto l’aeroporto Malpensa per bloccare una deportazione (di 48 sudanesi); in tre riescono a salire in cima ad una torre radar dove aprono anche lo striscione, “No Deportation”. Però è accaduto che la polizia, per vanificare la solidarietà attiva, ha spostato la deportazione all’aeroporto di Torino-Caselle, comunicando tale spostamento ai compagni sulla torre nel tentativo di forzarli a scendere. Sono invece rimasti in cima una mezzora e infine portati in questura e lì arrestati, sotto l’accusa di “procurato allarme, interruzione di pubblico servizio e resistenza a pubblico ufficiale”.
Il processo per direttissima si è tenuto la mattina successiva al tribunale di Busto Arsizio. La presenza di compas è chiarita anche con l’apertura davanti al tribunale di uno striscione: “Fermare le deportazioni non è reato – Europa complice – Libertà per i 3 della torre”. I compagni vengono tutti liberati; rimangono accusati di “resistenza a pubblico ufficiale” il cui processo è fissato per il 13 settembre. Quel giorno, presente la solidarietà accresciuta, i compas vengono condannati a 4 mesi, ma con la “condizionale”…

Frontiera Como-Chiasso: cortei e sgombero
Segue il comunicato dei/lle solidal* dell’Infopoint, liberamente tratto da yallahcomo.wordpress.com e informa-azione.info.
Il 19 settembre 2016 è stato aperto il nuovo campo governativo, gestito direttamente dalla Croce Rossa e dalla Caritas. Il campo dei container è stata la risposta anche a Como, come in molte altre città d’Italia, al problema posto dal massiccio arrivo di persone in fuga da altri paesi in guerra. Il nuovo campo è pronto in via Regina vecchia, via industriale e secondaria, dove l’intento è di incasellare questi esseri umani in attesa che vengano prese decisioni sulla loro stessa carne, il tutto nel luogo più lontano e nascosto dagli occhi e dalle orecchie della cittadinanza Comasca.
Nel mese di settembre era stata annunciata la sua apertura ed erano iniziate da parte della polizia varie azioni di provocazione volte a limitare l'attività dei solidali e dei compagni presenti a Como. Tra queste segnaliamo lo sgombero della cucina, montata dai solidali la notte del 3 settembre e sgomberata dopo il pranzo del giorno successivo, con ingente coinvolgimento di reparti anti sommossa, che prima si sono scagliati sui migranti in attesa di ricevere da mangiare, poi, non contenti, hanno rincarato la dose pretendendo di farsi consegnare la pasta (cruda) che si tiene nelle tende. Tolta la pasta, è la volta dei vestiti portati da alcuni solidali svizzeri: non possono restare al campo, ma devono essere consegnati alla Caritas.
A questo punto la misura è colma: i migranti, informati di ciò che sta succedendo, si radunano in assemblea, mentre i solidali ottengono che i vestiti restino dove sono. La decisione dei circa cento migranti radunati in assemblea è forte è chiara ed estesa a tutti i presenti: le provocazioni poliziesche non sono state accettate e la risposta è univoca, ovvero decidono di rifiutare qualsiasi pasto che non sia cucinato all'interno del campo. Da questo episodio è evidente come l'intenzione reale della Polizia, della Caritas e della Croce Rossa non sia tanto quella di aiutare i migranti, quanto di controllarli, fino a quello che mangiano e con chi lo mangiano. Il cibo diviene quindi oggetto di particolari attenzioni sbirresche, che il giorno successivo, il 5 settembre, si concentrano su alcuni solidali diretti al campo, che vengono fermati e perquisiti, alla ricerca del tanto temutissimo cibo da portare ai migranti. Gli sbirri non trovano nulla, ma tengono in stato di fermo i compagni, tre dei quali svizzeri. Verranno rilasciati tre ore dopo circa; agli svizzeri viene minacciato un decreto di espulsione. Il cibo giunge in stazione, ma, non appena si sta iniziando a servire, un plotone di sbirri si avvicina minacciosamente e, poco dopo, prova una piccola carica di alleggerimento a suon di spintoni per afferrare la tanto temuta pentola. Risultato: un tavolo rotto, qualche bacheca ribaltata, ma una gran risposta dei presenti che si incordonano di fronte al cibo permettendo a tutti di proseguire il pasto. Vengono intonati cori come "Go away!" verso gli sbirri. La Digos non accetta un altro suo passo indietro e così inizia a chiedere ai solidali i documenti, riuscendo (praticamente circondando alcuni compagni) a prenderne qualcuno. Nel frattempo, un finanziere in giornata da eroe decide di scagliarsi da solo contro il cordone di migranti e solidali che si era ricompattato, ma viene respinto sia dai presenti sia rimbrottato dalla Digos, che lo spedisce in punizione. I migranti, a questo punto, "scortano" i solidali addocchiati dagli sbirri lontano dalle loro attenzione ponendosi tutti intorno a loro. Ai compagni identificati viene promessa una vaga "misura di prevenzione per l'allontanamento da Como”.
Di fronte all'autorganizzazione di migranti e solidali, la polizia risponde con la solita brutalità e sgombera il campo, con il beneplacito di Caritas e C.R.I.
Il 19 settembre, fin dalla mattina, un centinaio di migranti si riunisce compatto al parco della stazione San Giovanni, determinati a resistere all’annunciato sgombero del campo che da mesi si era formato intorno alla stazione. Verso le 9 ecco comparire Roberto Bernasconi, capo della Caritas di Como, accompagnato da alcuni esponenti di C.R.I e Caritas e decine di giornalisti, scortati ovviamente dalla polizia. Bernasconi con l’aiuto degli interpreti cerca di convincere i migranti a trasferirsi nel nuovo campo ma, di fronte al loro secco rifiuto, i metodi di “persuasione” si fanno più decisi e i toni si accendono anche con alcuni solidali presenti, accusati di aver strumentalizzato i migranti e di essere la causa della loro resistenza. Il primo giorno si registrano al nuovo campo solo in un centinaio. In serata la polizia vieta la distribuzione di cibo e coperte in stazione. Ancora una volta forte è la retorica coloniale, che vuole il migrante selvaggio ed infantile, incapace di prendere decisioni in autonomia, riprodotta a ruota libera dai media non solo locali. Di certo si tratta di una visione comoda, che permette di additare e criminalizzare i solidali e di far passare l’accoglienza governativa come l’unica accettabile.
Il 21 settembre, sotto la pioggia, viene sgomberata la stazione con decine di poliziotti in antisommossa: le coperte iniziano ad essere strappate dalle mani dei migranti e gettate nella spazzatura ed è solo grazie alla “mediazione” dei solidali e volontari presenti che, ancora una volta, non sale la tensione oltremisura e si riesce a salvare qualche coperta dalla furia cieca della normalizzazione. Il 22 settembre termina lo sgombero del parco di S.Giovanni, effettuato tranquillamente dalla polizia date le poche persone rimaste, sicuramente dissuase anche dal peggioramento climatico.
L’estrema ricattabilità dei migranti, la loro necessità di avere semplicemente un luogo dove dormire, mangiare e lavarsi, il fatto che il cibo non venisse più distribuito perché “o vieni nel campo o muori di fame”, le minacce del prefetto e anche un po’ di scoramento hanno fatto cedere molti (ma non tutti) i migranti e li hanno rassegnati ad accettare le condizioni del campo “di transito” governativo. Non si è trattato di una libera scelta, ma di pura necessità di sopravvivenza. Varie decine di loro, però, non hanno accettato il ricatto delle autorità e hanno così deciso di lasciare il campo, di riprovare per l’ennesima volta a passare il controllo alla frontiera svizzera, o di andare fuori città.
Nella notte tra il 22 e il 23 settembre si manifestano i primi problemi all'interno del campo regolare della C.R.I.: nel cuore della notte, viene effettuata una ronda all’interno dei container, dove già dopo tre soli giorni si dorme in più persone delle sei previste. Volevano controllare i badge. Pare che una ragazza abbia provato a far entrare con il proprio badge altre persone che, così facendo, non sarebbero state identificate. L’operazione si è conclusa con decine di persone, tra cui alcuni con il badge, buttate fuori dal campo a scopo punitivo, lasciate in mezzo alla strada, tra le 3 e le 4 di notte. Questo è il ruolo del campo governativo: identificare più persone possibili.
Dal nostro punto di vista non è per nulla difficile comprendere come le persone che già hanno vissuto in dinamiche di campo e che ne hanno impressa nella carne l’esperienza, nelle sue varie forme, dagli hotspot alle strutture di “accoglienza”, decidano in maniera spontanea di svicolarsi da questo sistema. L’obiettivo di queste persone è quello di cercare una vita migliore in questa Europa cinta da frontiere invalicabili, muri e filo spinato, e non di rimanere incastrati e marginalizzati nelle maglie del sistema d’accoglienza, che li obbliga il più delle volte a posizioni d’irregolarità, facendoli letteralmente divenire un business e successivamente un esercito di braccia invisibili da sfruttare.
Noi abbiamo deciso di sostenere le loro scelte e le loro lotte, nelle quali ci riconosciamo e che sono figlie delle stesse dinamiche di sfruttamento, gerarchizzazione, subordinazione e repressione che viviamo sulla nostra pelle. Nei migranti non abbiamo mai visto soggetti da sovradeterminare, tantomeno da gestire, ma persone con cui condividere percorsi e pratiche, uniti nella rabbia verso le discriminazioni. Abbiamo sempre visto le differenze che intercorrono tra di noi come punti di forza e crescita e non come qualcosa che ci permettesse di ergerci sopra di loro. A chi dice di essere realisti ed accettare il nuovo campo governativo come unica soluzione possibile, rispondiamo che questa “politica dell’emergenza” è una soluzione ancora meno realistica del problema e non fa altro che costruire campi e muri ovunque. Ormai vige la “normalizzazione dell’emergenza” e la sua regola generale è la “gestione di esseri umani", tramutati in merce da smistare, una volta “differenziati e catalogati” condannando le persone ad essere utenti passivi e non capaci di determinare le proprie vite. Si creano così le condizioni per decidere chi ha il diritto di sopravvivere e chi solo quello di scomparire nella maniera più silenziosa possibile.
Anche se sappiamo benissimo che le persone non sono tutte uguali, rifiutiamo la visione moraleggiante che divide i migranti buoni da quelli cattivi, i profughi dai migranti economici, che seleziona soggetti idonei alla riproduzione del loro stesso sfruttamento dai soggetti devianti, insubordinati, di troppo.
La violenza del confine e la frustrazione di progetti di vita spezzati non preoccupa nessuno? Si tratta della stessa violenza di chi arriva a negare persino il cibo, pur di spezzare la determinazione e la resistenza di chi è perennemente senza voce; è lo scandalo di una presa di parola di questi soggetti che tanto imbarazza la nostra società. Chi è complice della resistenza, poi, va immediatamente additato ed allontanato: ecco la reale funzione delle denunce in arrivo e dei fogli di via che la Questura ha emesso nei confronti di alcuni solidali.
Lo sgombero del campo spontaneo non ha risolto il problema. Il campo governativo continua a non essere una soluzione. Aprire il confine e fermare le deportazioni sono le prime cose da fare.
Nei giorni precedenti allo sgombero del campo della stazione, diverse iniziative hanno coinvolto migranti e solidali; tra le tante si da conto nei prossimi scritti del corteo serale di giovedì 15 settembre e del corteo di domenica 11 settembre di cui rispettivamente, di seguito, riportiamo delle riflessioni post-corteo e un resoconto.

Nella serata di giovedì 15 settembre un corteo di oltre 300 persone, tra cui solidali e migranti, ha attraversato le vie del centro di Como. La manifestazione è partita dalla stazione S. Giovanni e si è conclusa sotto piazza S. Rocco non lontano dal luogo prescelto per la costruzione del campo istituzionale di ormai imminente apertura. Due luoghi particolarmente significativi per rappresentare la ghettizzazione e l'isolamento di cui è affetta la vicenda migratoria che ha colpito Como agli inizi dell’estate senza mai stabilizzarsi.
Il parco della stazione per centinaia di persone è divenuto luogo di scomoda permanenza per tutti i mesi estivi mentre decine di associazioni portavano il proprio supporto e contemporaneamente gli organi istituzionali temporeggiavano e ignoravano il problema. Nessuna pressione a livello comunale o statale è stata fatta sul blocco delle frontiere: reale ostacolo per cui si creano da mesi e anni disagi e mancanza di risorse nella già pessima gestione organizzativa governativa italiana.
Il corteo è nato dal confronto continuo tra migranti e solidali, dalla condivisione di un percorso e dalle assemblee affrontate ogni giorno in più lingue. Abbiamo costruito momenti di orizzontalità e partecipazione partendo dalla percezione di un problema comune. Questo corteo ha visto l'assoluto protagonismo dei migranti: la presunzione di chi continua a considerare i migranti come bambini facilmente suggestionabili, incapaci di vera autonomia, e che continua a costringerli in forme più o meno mascherate di assistenzialismo, si è scontrata con questo protagonismo che nel corteo e nella sua costruzione ha avuto il suo momento culminante. Migranti e solidali hanno condiviso insieme questo momento, non solo di solidarietà, ma anche di lotta contro quei confini che bloccano, imprigionano e deportano. È stata una presa di parola pubblica da parte di coloro che sono costantemente ridotti al silenzio, o che al massimo sono oggetto di gestione da parte di altri, e che finalmente hanno potuto far sentire la propria voce nel centro della città riservando un momento spontaneo di slogan a tutta quella parte di città che ha voluto essere con loro intonando il coro “Grazie Como.”
Al clima di terrore instaurato dai media locali nei giorni scorsi, con roboanti articoli di quanto questa manifestazione fosse a rischio infiltrazione di non meglio precisati "no borders" e di quanto i migranti fossero delle marionette nelle loro mani, si è risposto con un corteo comunicativo ed energico in cui i veri protagonisti sono stati quelle stesse persone bloccate da mesi che si sono presi l’occasione di esprimere la propria volontà.
Per tutto il percorso hanno scandito slogan contro le deportazioni, contro le barriere ed il campo governativo e per la libertà di movimento. Le provocazioni sono giunte dalle forze dell'ordine e dei media che hanno messo in campo un esagerato dispositivo di controllo volto a scoraggiare i partecipanti all'iniziativa e a demonizzare il corteo agli occhi della città. Anche la presenza fascista non si è fatta attendere palesandosi in più punti del corteo e provocando i manifestanti; si tratta gli stessi fascisti che il 26 agosto sono stati autorizzati a sbandierare la loro ignoranza in un presidio razzista a poche centinaia di metri dal parco, lungo la strada che i migranti percorrono per andare alla mensa.
A queste provocazioni e strumentalizzazioni autorizzate si aggiunge quella del pomeriggio del 16, il giorno successivo al corteo, quando una sfilata di leghisti e razzisti ha attraversato il parco aggredendo verbalmente i presenti, mentre le forze dell'ordine si schieravano in assetto antisommossa verso migranti e solidali. Mentre si continua a criminalizzare la solidarietà, cercando costantemente di spezzare i legami costruiti in questi mesi di condivisione e di lotta, si lasciano agire indisturbati i rigurgiti fascisti.

Domenica 11 settembre, si è tenuto a Chiasso un partecipato e determinato corteo antirazzista contro frontiere, deportazioni e per la libertà di movimento per tutti e tutte. Più di 600 persone, più e meno giovani, qualche passeggino e qualche animale, provenienti da varie realtà, ambiti, situazioni e geografie hanno partecipato alla manifestazione lungo le strade di Chiasso, ribadendo con fermezza la loro opposizione a un sistema fatto di chiusure, esclusioni e controlli. Sistema infame che i migranti vivono quotidianamente alle frontiere di tutti gli stati capitalisti europei.
L’obiettivo era quello di rompere il muro di silenzio, di rassegnazione e di accettazione di una situazione che in Ticino – avanguardia di certe derive e leggi securitarie (operazione Odescalchi, leggi antiburka e antihooligan, bunker del Lucomagno, ecc.) – è diventata inaccettabile. Di fronte all’attuale catastrofe provocata dal dominio capitalista - sfruttamento, saccheggio, colonizzazione del minuscolo mondo occidentale ai danni della maggior parte delle popolazioni del pianeta - non bastano più timidi slogan ma occorrono determinazione e pratiche costanti che vadano a crepare e a distruggere tale visione di muro globale, sempre più assuefatta nelle teste della maggioranza.
Obiettivo del corteo è stato anche quello di uscire dalla dicotomia legale-illegale, rifiutando di chiedere l’autorizzazione a quegli stessi che creano e lucrano su tale sistema. Ancora una volta “giusto” non coincide con “legale” e nella questione dei/delle migranti ancor di più diventa urgente - come già fatto - la diffusione di pratiche e azioni che rompano con le imposizioni della disumana fortezza Europa. In chiara contrapposizione alle attuali tendenze legalitarie della “maggioranza” e ai paternalismi morali della “sinistra” per bene.
Un corteo quindi certamente politico che ha visto una buona partecipazione anche di persone che sul nostro territorio non vogliono più condividere il terrore e l’ignoranza para-leghista. Rivendichiamo quindi in tutto e per tutto il corteo e le pratiche messe in strada, constatando ancora che, pochissime eccezioni a parte, i media nostrani si dimostrano completamente dipendenti da un funzionale sistema di potere e di disinformazione. Non è retorica, basta leggere le cronache da velina di polizia fedelmente riprodotte o la costante falsa e contorta “informazione” sulla questione migranti. Catalogare come pesanti disordini due fumogeni, qualche petardo e delle scritte sui muri vuol dire continuare ad alimentare la diffusione di paura e di controllo sociale, confondendo volutamente le reali violenze del sistema.
Il corteo si è concluso con parecchi controlli, perquisizioni e identificazioni, portando al fermo di 3 persone (rilasciate dopo esser state schedate e fotografate) e all'arresto di altre 3, rilasciate lunedì sera dal carcere della Stampa e dalle pretoriali di Lugano. Invitiamo tutt* coloro che hanno partecipato a non lasciarsi condizionare dalle intimidazioni poliziesche e mediatiche, volte come sempre a dividere tra “buoni” e “cattivi”. Tutta la nostra solidarietà ai migranti. Tutta la nostra complicità ai/alle fermati/e. Nessun muro né frontiera potranno fermarci! No pasarán! Antirazziste e antirazzisti solidali.

Roma. Sgomberati 500 migranti su via Tiburtina: cariche e blocchi stradali
Dalla mattina del 27 settembre è in corso lo sgombero violento di circa 500 migranti da uno stabile occupato in via Vannini. L’edificio che si trova nei pressi di via Tiburtina all’altezza del GRA era in stato d’abbandono ed era stato occupato dagli stessi migranti dopo la chiusura del centro d’accoglienza. In queste ore, gli occupanti hanno provato a resistere cercando di impedire lo sgombero, bloccando la strada con i cassonetti e stendendosi per strada per fermare fisicamente l’operazione. La polizia con ripetute cariche violente ha sgomberato l’edificio e sta caricando gli occupanti sui pullman per portarli nei centri di identificazione. Via Tiburtina è stata bloccata per ore provocando il caos con l’intento di mettere in strada senza nessuna soluzione centinaia di persone.
L’operazione di oggi ricorda lo sgombero di Ponte Mammolo, che aprì la stagione dell' “emergenza migranti sulla Tiburtina” con rastrellamenti sistematici in tutta la zona.
In quei mesi, è stata sgomberata la tendopoli nel retro della stazione Tiburtina che ha provocato il sovraffollamento del centro Baobab prima e lo sgombero subito dopo. In questo modo si va ad aggravare una situazione già molto pesante, che vede le istituzioni soffiare sul fuoco della guerra fra poveri e calpestare qualsiasi dignità delle persone, come per i migranti a cui oggi è stata tolta la casa.
Dietro operazioni come queste continua ad esserci la mano della prefettura e quindi del PD e del governo Renzi, mentre l’amministrazione 5 stelle brancola nel buio e nel silenzio permette ancora sgomberi come quello di questa mattina. Poco distante, sempre questa mattina, è in corso un blocco stradale dei lavoratori dell’ospedale Pertini, in particolare delle lavoratrici delle pulizie della struttura sanitaria che non vengono pagate da mesi dalle cooperative.

Grecia: dopo proteste, rivolte, fughe, distrutto dalle fiamme l’hotspot di Moria a Lesbo
Nella giornata di lunedi 19 settembre nell’hotspot di Moria a Lesbo, verso mezzogiorno, ha avuto luogo una fuga di massa di circa 300 persone, pare in seguito alla circolazione di notizie su prossime deportazioni verso la Turchia. La più recente deportazione dall’isola era avvenuta l’8 settembre e aveva riguardato 13 persone provenienti da Pakistan, Iraq, Yemen, Algeria, Palestina e Libano.
I 300 in fuga dal centro di detenzione si sono diretti in corteo verso Mitilene, la città principale dell’isola, ma sono stati bloccati e rimandati indietro dalla polizia. A questo punto nell’hotspot (dove sono ammassate da mesi circa 5.650 persone, compresi minori non accompagnati, in un centro previsto per contenerne 3.500) si sono diffuse le proteste. I migranti hanno rifiutato il cibo e, gridando slogan per reclamare la libertà, hanno costretto gestori e polizia di guardia a lasciare il campo. Verso le 17 alcune fonti hanno riportato di scontri all’interno, tra varie comunità, sul posto alle 18 è arrivata anche la polizia antisommossa per controllare i/le migranti ma questo ha provocato ulteriori tensioni e dopo poco sono scoppiati incendi ai danni dei prefabbricati adibiti al trattamento delle domande d’asilo e di alcune tende. Il fuoco si è diffuso nel resto del campo e alle 20:30 un altro gruppo di migranti ha provato a dirigersi verso la città e anche stavolta è stato fermato dalle forze dell’ordine.
Dalle prime notizie più della metà del campo è andato a fuoco, risparmiando l’area destinata all’alloggio dei nuclei familiari: solo in serata i vigili del fuoco hanno spento le ultime fiamme che hanno distrutto circa 50 tende dell’UNHCR e 3 container. Migliaia di persone sono state evacuate e circa un centinaio di minori sono stati spostati nel campo di Pikpa.
Nel corso della giornata a Mitilene si era tenuto, per il secondo giorno consecutivo, un raduno di “cittadini” guidati dai fascisti locali di Alba Dorata, i quali hanno aggredito due migranti e tre donne impegnate in attività solidali: una delle tre è stata portata al pronto soccorso. Gli avvenimenti di oggi giungono dopo un mese di mobilitazioni, proteste, cortei dei/delle migranti e solidali, di cui si dà conto qui di seguito, riportando una breve cronologia tratta dal blog No Border Kitchen.
20 agosto – circa 200 persone, per lo più dal campo di Moria, si sono riunite nel centro di Mitilene per manifestare contro le pessime condizioni di Moria e per l’apertura di tutti i confini. Il corteo è arrivato fino al porto gridando slogan come “No rules, no orders, open the borders!” e “Moria is a prison!”.
1 settembre – Molti migranti e solidali hanno manifestato nella piazza centrale di Mitilene con un sit-in e poi in corteo attraversando la città fino al porto, al grido di “We want freedom”. Durante la manifestazione sono state descritte le condizioni insopportabili dell’hotspot, in peggioramento giorno dopo giorno: mancanza di cibo, docce rotte e sovraffollamento.
7 settembre – La polizia cerca, ancora una volta, di impedire la distribuzione di cibo ai migranti, portata avanti dai solidali di No Border Kitchen
9 settembre – Scontri tra i migranti e la polizia nell’hotspot di Moria: inizialmente a causa di 500 persone lasciate senza cibo, poi in seguito i migranti hanno sentito parlare di voci su 8 profughi morti in un container nel porto di Mitilene. Quando la polizia ha rifiutato di fornire ai migranti informazioni circa queste morti, sono cominciati nuovi scontri.
10 settembre – i migranti di diverse nazionalità hanno organizzato una manifestazione al porto con il supporto di No Border Kitchen Lesbo. Hanno partecipato circa 250 persone.
17 settembre – 150 persone, comprese intere famiglie con i bambini, hanno manifestato nuovamente a Mitilene. I cartelli alla testa del corteo recitavano “Open the borders. The world is for everybody”, “Stop Frontex”, “Moria is a jail”. Le condizioni nei campi sono terribili e al di fuori dei campi i e le migranti devono affrontare la violenza della polizia e le molestie, la discriminazione e lo sfruttamento da parte di alcuni dei locali (per esempio prezzi più elevati per i beni e il lavoro non retribuito).
Anche nell’hotspot nell’isola di Kos (dove sono recluse 1.714 persone in una struttura con capienza di 1.000 posti) nelle ultime settimane ci sono state proteste: il 5 settembre circa 150 persone sono fuggite dal centro di detenzione e hanno provato a marciare verso la città: sono state fermate dalla polizia e imbarcate a forza su un traghetto, verso una destinazione sconosciuta. Il 12 settembre i migranti hanno appiccato il fuoco a masserizie, letti e materassi per protestare contro la detenzione e le lente procedure di asilo. La polizia è intervenuta a sedare la rivolta arrestando alcune persone.

Francia, Calais: il Regno Unito nel silenzio generale investe 80milioni di sterline per la privatizzazione della sicurezza dei confini
Continua il progetto di sgombero totale del campo di Calais, il più vecchio e grande d'Europa. Qui di seguito un testo che fornisce qualche elemento di riflessione in più per comprendere i piani degli stati occidentali, nell'economia di sfruttamento e oppressione perpetrata dagli stessi a danno, in primis, di coloro che fuggono dalle guerre imposte dall'Occidente.
Mentre i piani del Regno Unito per la “grande muraglia di Calais” vengono sbattuti in prima pagina, un ben più grande accordo è passato sotto silenzio: lo stanziamento di 80 milioni di sterline per la privatizzazione di gran parte della sicurezza dei confini del nord francese. Senza alcuna enfasi da parte del Ministero dell’Interno, il 9 luglio è apparso un annuncio sul sito dei bandi europei “TED”. Esso richiedeva offerte alle aziende per un contratto di circa 80 milioni di sterline per la fornitura di “40 agenti autorizzati per la perlustrazione, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno” per i porti dell’Eurotunnel, Calais e Dunkerque. Del personale in servizio, tre agenti devono anche essere istruiti per la “custodia dei detenuti”, cioè come responsabili del trattenimento delle persone migranti arrestate e recluse nelle strutture detentive del Ministero dell’Interno presso i porti, prima che siano consegnate alla polizia di frontiera francese. Questo è senza dubbio il più grande contratto di sicurezza privata mai annunciato per Calais. Ciò indica anche una massiccia privatizzazione della sicurezza delle frontiere: questi lavori sono attualmente svolti da agenti di frontiera del Ministero dell’Interno. Fa eccezione la gestione delle “strutture di trattenimento” detentive presso l’Eurotunnel e Dunkerque che è già affidata a Tascor, una società controllata di Capita, come parte di un altro mastodontico contratto di sicurezza delle frontiere per tutte le deportazioni “con accompagnamento” e per le strutture di detenzione a breve termine. Tale contratto è attualmente di nuovo in gara. Il Ministero ha anche contratti privati più piccoli a Calais per addestratori di cani di sicurezza, vinto da una società chiamata Wagtail, e con la società di sicurezza EDS Cork a Dunkerque. Il termine per la presentazione delle domande per il nuovo mega contratto è scaduto il 18 agosto. Non c’è stato ancora un annuncio su chi ha vinto il jackpot da guardia di frontiera. Oltre Tascor, altri contraenti favoriti del Ministero includono G4S, Serco, Mitie e GEO, che gestiscono tutti i centri di detenzione dell’intero Regno Unito.
Più in dettaglio, il contratto include: “ispezionare veicoli (per merci e turisti), perquisire persone, servizi di detenzione e accompagnamento alla frontiera. Al contraente è richiesto di fornire squadre di pattuglia che dovranno: ricercare veicoli usando tecnologia di localizzazione o lavorando collaborativamente con un altro contraente che fornisce squadre di cani da rilevamento; avere funzioni di scorta che potrebbero richiedere il trattenimento di un individuo, per un periodo il più breve possibile e che non superi le 3 ore, in attesa dell’arrivo di un agente della polizia di frontiera o un’altra autorità a cui la persona deve essere consegnata.”
Per contestualizzare questo accordo, qui sotto sono riportati alcuni dei più eclatanti annunci di finanziamento per la sicurezza a Calais degli ultimi anni, che sommati non raggiungono gli 80 milioni di sterline:
– 2014: La Commissione europea concede € 3,8 milioni in “fondi di emergenza” per co- finanziare la creazione del centro diurno per migranti “Jules Ferry”.
– Settembre 2014: £12m (15 milioni di €) del fondo comune sono stati istituiti da Bernard Cazenueve e Theresa May.
– Luglio 2015: il Regno Unito annuncia £2m per una “zona di sicurezza” a Calais per autocarri in direzione UK e £7m per altre misure di sicurezza.
– Marzo 2015: il Regno Unito fa domanda all’AMIF della CE per 27 milioni di € per fondi legati alla migrazione, che riceve pochi mesi più tardi. Anche la Francia riceve € 20 milioni dal fondo nel mese di agosto 2015.
– Agosto 2015: dichiarazione congiunta per la “Gestione dei flussi migratori a Calais”: il Regno Unito si è impegnato a pagare 3,5 milioni di £ (5 milioni di €) all’anno per due anni per le misure previste dall’accordo oltre al denaro in precedenza promesso. La Dichiarazione spiega che ci saranno 500 poliziotti extra dal Regno Unito e dalla Francia, nonché ulteriori squadre di ricerca di merci, cani e voli di deportazione finanziati dal Regno Unito.
– 31 Agosto 2015: la Commissione europea annuncia 5,2 milioni di € per “assistenza di emergenza” per predisporre l’area intorno al centro Jules Ferry e per finanziare il “trasporto” di rifugiati e migranti da Calais in altri punti della Francia.
– Marzo 2016: il vertice Francia-Regno Unito stanzia 17 milioni di £ (22 milioni di €) per la sicurezza Calais (e 2 miliardi di € in totale per i droni).

Egitto: strage di migranti in fuga dai regimi amici dell’Europa, 26 Settembre 2016
L’ennesima tragedia si è consumata in queste ore a largo delle coste egiziane. Un barcone pieno di migranti egiziani, sudanesi, etiopi, somali e siriani è affondato in mare nei pressi di Rashid, un piccolo villaggio sulla costa mediterranea. Non si conosce bene il numero delle persone presenti al momento del naufragio: dai 300 ai 600 dicono i sopravvissuti. Quello che è certo è che fino a ora sono state recuperate 169 salme e più o meno lo stesso numero di superstiti. Gli egiziani sono stati subito arrestati e subiranno un processo per immigrazione illegale. Gli altri sembra che al momento siano liberi, anche se molto probabilmente verranno rimpatriati.
A parte gli arresti e il pessimo trattamento riservato ai superstiti dalle autorità militari egiziane, le attività di soccorso e recupero sono state completamente svolte da pescatori e popolazione locale che non hanno mancato di accusare la guardia costiera di essere intervenuta molto tardi e in maniera molto limitata. Non è una cosa nuova per il regime egiziano che ha fatto della guerra ai migranti uno dei suoi obiettivi primari da utilizzare come scambio durante le trattative con l’Europa, Italia compresa. In effetti, l’Europa è molto preoccupata per il fatto che in quest’ultimo anno ci sia stato un aumento costante di migranti che provano a utilizzare la cosiddetta “rotta egiziana”. Fonti egiziane riferiscono che il regime quest’anno “ha arrestato più di 4.600 cittadini stranieri, la maggior parte di loro sudanesi, somali, eritrei ed etiopi, mentre cercavano di lasciare il paese. Si tratta di un aumento del 28% rispetto all’anno precedente”.
Proprio per questo l’Austria, subito appoggiata da Merkel, ha proposto che con paesi quali l’Egitto vengano stipulati degli accordi simili a quelli siglati con la Turchia. Dall’altra parte il regime egiziano fa sapere che la lotta contro l’emigrazione clandestina intrapresa a favore e per conto dell’Europa costa cara in fondi, uomini e soprattutto accondiscendenza e silenzi sulla repressione interna. Anche se il processo di Khartoum e il Migration Compact hanno dimostrato come le democrazie europee, quando si tratta di migranti, non esitano a stringere accordi con le peggiori dittature, tra cui il Sudan e l’Egitto.
Quanto al regime egiziano, sta facendo tutti gli sforzi possibili, in sede diplomatica e ufficiale, per nascondere la crisi economica e sociale che ormai da anni colpisce il paese. Prova ne è l’aumento del flusso di migranti egiziani che provano a raggiungere l’Europa illegalmente. Un comunicato dell’organizzazione 6 Aprile riassume bene la situazione che si vive nel paese: “Il regime uccide i suoi cittadini con le pallottole e l’abbandono”. In effetti, il presidente al-Sisi è un uomo morto al potere. Con $50bn di debito verso i paesi del Golfo e un altro di $12bn, in trattativa con il Fondo Monetario Internazionale, al-Sisi ha più che mai bisogno del supporto degli apparati di sicurezza e giudiziari, pagati al caro prezzo della più completa autonomia. Di fatti è solo attraverso la repressione più atroce (assassinii, torture, sparizioni forzate, abusi di ogni tipo, pena di morte inflitte da tribunali militari) che il regime riesce a tenere a bada una popolazione ormai alla fame e obbligata a tentare la fortuna su un barcone via mare.

Milano, settembre 2016


Egitto: carceri sotto dittatura
Il 4 giugno del 2016 il Ministero degli Interni egiziano ha inaugurato, a Sud del Cairo, l’ennesima nuova prigione. Dallo scoppio della rivoluzione, i dati della repressione di tutti i governi che si sono susseguiti al potere sono impressionanti. Secondo un report del Network for Human Rights Information 19 prigioni sono state costruite dal 25 gennaio del 2011 (una nel 2011, 4 nel 2013, 4 nel 2014, 6 nel 2015, una nel del 2016).
Nel periodo seguente la presa del potere da parte dei militari, sono stati emanati i decreti per la costruzione di altre 16 carceri. A questi sono poi da aggiungere altre 122 luoghi di detenzione e 320 stazioni di polizia dove vengono destinat*, i/le prigionier* in attesa di giudizio o con sentenze inferiori a 3 mesi. Non si conosce, invece, il numero esatto dei centri non ufficiali, ad uso dei servizi segreti e militari che svolgono funzioni detentive. È in questi siti che ormai centinaia di persone desaparecidos vengono portate per essere torturate, violentante, spesso uccise, nel più completo silenzio.
Difficile è conoscere i dati esatti del numero delle persone che sono state assegnate in ogni prigione. Sta di fatto che, poiché in maniera approssimativa in Egitto ci sono 106.000 prigionier*, di cui 60.000 solo per reati di natura politica, ognuna delle prigioni ospita migliaia di persone, anche se spesso le strutture sono piccole e adatte a ospitarne solo poche centinaia.
La repressione spietata di questi ultimi tre anni, e la stretta collaborazione tra regime e sistema giudiziario, ha comportato, inoltre, un numero spropositato di detenut* politic* in attesa di giudizio o in custodia cautelare, con tempi che possono giungere anche fino a tre anni. Come nel caso del fotogiornalista Shawkan.
Numerose sono le violazioni accertate cui sono sottoposte i/le detenut*: condizioni di arresto, interrogatori senza avvocato, detenzione preventiva prolungata, detenzione in strutture illegali, negligenza medica, prevenzione per i detenuti nel fare telefonate o ricevere visite (spesso molto corte e irregolari), la detenzione dei minori a fianco degli adulti, isolamento con o senza condanna.
In particolare la pratica vessatoria, crudele e illegale dell’isolamento è diventata prassi comune nelle carceri e dei centri di detenzione, come emerge da tutti i rapporti mensili del centro di riabilitazione contro le torture e gli abusi di Stato, al-Nadeem.
Yousef Shaaban, giornalista appartenente ai socialisti rivoluzionari, scarcerato nel mese di agosto 2016, condannato insieme all’avvocata e attivista Mahienour al-Masry, ha scontato la pena di un anno e tre mesi, sempre solo, in isolamento, in una cella 2mx3m, in cui l’ora d’aria concessa era di due ore al giorno. A Youssef spesso venivano vietati i fogli e le penne, così come tutti i modi per ammazzare il tempo trascorso in cella. Youssef aveva come unico sogno di “prendere la metro, la metro è affollata e così potrò parlare con il maggior numero di persone, quando uscirò prenderò la metro tutti i giorni.”
Youssef, tuttavia, non è stato il solo ad essere sottoposto a questo tipo di tortura dentro il carcere. Ahmed Douma, attivista e blogger, che deve scontare una trentina di anni di carcere per vari processi, è in isolamento da 3 anni. Anche lui passa 22 ore in cella e ha due ore d’aria al giorno.
L’avvocato Malek Adly arrestato a maggio del 2016 e rilasciato dopo due mesi, ha passato i due mesi di detenzione amministrativa in isolamento, in una cella 2mx3 m. Malek racconta: “Immaginati di stare in una cella 2mx3m da solo, vedi gli altri detenuti non politici uscire e entrare dalle celle mentre tu sei rinchiuso dentro. Il tempo non passa. Qualsiasi malore pur se piccolo diventa un problema perché sei solo. Hai il terrore di dormire e di sentirti male durante il sonno. Sei privato della carta e della penna quindi passi il tempo scrivendo con un chiodo sulle mura della cella. Dormi a terra senza materasso. La cattiva areazione e l’umidità ti distruggono le ossa e difficilmente riesci a rigirarti mentre dormi, a causa del dolore. La cella come il cibo sono pieni di insetti e di scarafaggi. Io ho passato 15 giorni con gli stessi vestiti. La mia paura più grande era quella di impazzire. Molti detenuti confinati all’isolamento sono impazziti.”
Le condizioni di vita nelle prigioni sono pessime. I/le detenut* ammassat* in celle piccolissime dove sono costrett* a fare i turni per riposare, denunciano l’assenza di cibo (spesso un solo pasto al giorno, scarso e orribile), di medicine, di vestiti caldi, coperte e libri. D’estate, poi, quando le temperature possono raggiungere anche il 45 gradi, manca l’acqua e non esiste alcun tipo di impianto refrigerante, persino l’ora d’aria è impedita.
Per dare l’idea di come il regime usi la prigione in quanto vera e propria arma per uccidere i/le detenuti basta sapere che dalle elezioni del generale al-Sisi dal giugno del 2014 al giugno 2016 gli assassini di Stato sono stati 1.083, le morti in carcere sono state 239, (nel 2011-2012 furono 52, nel 2012-2013 56, nel 2013-2014 132) e ancora i casi di torture sono state 915 e i casi di negligenza medica 597, questo secondo il rapporto degli ultimi due anni del centro al-Nadeem. Sempre lo stesso centro ha segnalato, solo nel mese di luglio (2016), 11 morti in carcere. Le cause sono varie: maltrattamenti, mancanze di cure mediche, assalti sessuali, pestaggi in cella e tortura (almeno 700 casi nel 2015). La mancanza di assistenza medica, in particolare, è una pratica diffusa e appositamente utilizzata dalle varie amministrazioni carcerarie. Questi dati, tuttavia, si riferiscono alle sole carceri ufficiali monitorate e tengono fuori le centinaia di centri di detenzione illegali dove non vige alcun regolamento.
La storia di Islam Khalil è la storia di centinaia di persone. Arrestato il 24 maggio del 2015 da Tanta e accusato dell’assalto del carcere di Borg al-Arab. È stato rilasciato solo il 21 agosto del 2016, dopo 460 giorni di detenzione e 122 di sparizione forzata e diversi scioperi della fame. Islam, inutile dirlo, era innocente. La testimonianza fasulla di un poliziotto era stata sufficiente a farlo sbattere dentro.
“Lo sappiamo che sei innocente” gli dice un poliziotto. “Tuttavia rimarrai in carcere per un anno, quindi mettiti l’anima in pace.” Islam racconta tutto lo schifo che ha dovuto subire. È rimasto ammanettato e bendato per più di 80 giorni in un corridoio di uno dei luoghi di detenzione dei servizi. Non gli era permesso di andare al bagno per più di una sola volta al giorno, sempre bendato. Se superava i cinque minuti dentro, il secondino contava fino a 3 per poi aprire la porta del bagno. Il cibo era un panino e del formaggio per tutta la giornata. Racconta di aver sentito voci di donne e di bambini che venivano torturati, lui stesso i primi mesi veniva appeso e sottoposto a scosse elettriche ripetute finché non sveniva .

Proteste e scioperi
In queste condizioni tenere il conto delle proteste all’interno delle carceri egiziane, che pure ci sono e sono numerose, diventa davvero difficile. Diversi sono gli scioperi della fame singoli e collettivi, anche di minori, che si sono tenuti - e si tengono - in tutte le prigioni d’Egitto. Nella terribile prigione di al-Aqrab, così come in quella di Wadi Natrun, Zagazig, New Valley soprannominata la “Guantanamo” a causa delle torture, Borg Al Arab e così via dicendo, i/le prigionier* spesso sono costrett* a digiunare anche per settimane, per denunciare le pessime condizioni e i trattamenti brutali a cui vengono sottopost*.
Uno degli ultimi casi, quest’estate, ha visto protagoniste 12 detenute, tra cui l’attivista Mahienour al-Masry nel carcere femminile di al-Qanater. Nell’ultima lettera che scrisse dal carcere, prima della sua scarcerazione l’11 agosto 2016, Mahie dice: “Continuiamo a sognare un paese in cui ci sia posto per i nostri sogni, un paese la cui religione sia la libertà e l’uguaglianza, il cui inno sia l’umanità e la giustizia, un paese segnato dai sorrisi dei bambini che non conoscono privazioni e dalla felicità delle persone che non soffrono più. Abbiamo costatato che l’unico modo per arrivare a un paese cosi, non può esistere se non opponendosi a tutti i nemici della vita e dell’umanità. […] Più passa il tempo e più diviene palese che per chi ci governa lo Stato non corrisponde al paese. Lo stato è autoritarismo, non il popolo. Lo stato è il loro governo e i loro interessi. Cambiano la geografia del paese in nome del nazionalismo. Imprigionano tutto il popolo con il pretesto della “difesa della patria” e dei diritti di chi lo possiede. Questi sono coloro che mentre assaltano e minacciano la vita e la libertà del popolo, parlano di tutela diritti, prendono accordi con la Knesset, non onorano i funerali, né partecipano a quelli di un popolo che ha versato sangue per la liberazione del paese. Lo stesso popolo che adesso è accusato di essere composto di traditori, che non credono nella libertà e nella democrazia, mentre non esiste altro che il loro stato-nazione, l’esercito, la polizia e il sistema giudiziario. […]. Abbattiamo i loro stati e lunga vita ai nostri paesi. Per continuare a sentirci vive/i e pieni di speranza, abbattiamo tutti gli stati repressivi, abbattiamo il regime militare”.


USA: MIGLIAIA DI PRIGIONIERI IN SCIOPERO CONTRO LA SCHIAVITù
"Quarantacinque anni dopo Attica, le onde del cambiamento stanno tornando nelle prigioni americane. Questo settembre speriamo di coordinare e generalizzare queste proteste, per costruire un’unica marea che il sistema carcerario americano non potrà ignorare o reprimere."
Per il 45° anniversario della rivolta della prigione di Attica, in 24 Stati degli Usa ed in 40 penitenziari è iniziato il più grande sciopero nelle prigioni nella storia degli Stati Uniti. Lanciato inizialmente dal Free Alabama Movement (comitato di detenuti attivo dal 2012 in Alabama, lo Stato con il più alto tasso di sovraffollamento nelle carceri) lo sciopero è stato per mesi organizzato dai detenuti in decine di carceri in tutto il Paese usando telefoni cellulari di contrabbando per scrivere ed organizzarsi attraverso i social media, scrivendo lettere affinchè fuori venisse accolto il loro appello allo sciopero ed anche grazie al sostegno dei solidali fuori. Un ruolo importante nella promozione dello sciopero l’ha avuto il The Incarcerated Workers Organizing Committee, organizzazione sindacale dei lavoratori detenuti legata all’Industrial Workers of the World (IWW).
Lo sforzo di mesi di organizzazione è culminato il 9 settembre 2016 con una mobilitazione di circa 20.000 detenuti che hanno deciso di incrociare le braccia e non lavorare. Ci sono state anche altre forme di lotta come ad esempio scioperi della fame, rifiuto del cibo in mensa, rivolte all’interno di un paio di carceri (attraverso allagamenti di celle, distruzione di alcuni oggetti, battiture delle celle, etc).
Dal giorno in cui è iniziato lo sciopero la censura mediatica di ciò che stava accadendo si è messa in moto: pochissime informazioni sono circolate se non dai circuiti militanti, difficoltà a reperirle anche via internet e nessun minimo articolo sulla stampa se non su fanzine o blog seguiti dagli organizzatori e sostenitori fuori in contatto costante con i prigionieri.
Lo sciopero è tuttora in corso in almeno 20 prigioni in 11 stati, nonostante le ritorsioni nei confronti di alcuni prigionieri in sciopero: isolamento di 20 giorni, divieto di ricreazione, pasti in cella, trasferimenti in altri penitenziari sino al divieto di comunicazione con l’esterno (no lettere né telefonate con familiari), tutte azioni repressive finalizzate all’indebolimento delle lotte dei detenuti.

"Questo è un invito ad agire contro la schiavitù in America. Basta con il lavoro gratuito dei detenuti", diceva l’appello che per settimane è circolato dentro e fuori le carceri e per il quale hanno iniziato a fare diverse petizioni per abrogare il 13° emendamento della Costituzione americana che nonostante riaffermi l’abolizione della schiavitù del lontano 1865, consente di utilizzarla legalmente come metodo punitivo.
Bastano alcuni dati per comprendere che il binomio carcere-sfruttamento è vera schiavitù all’interno del sistema carcerario statunitense: gli Usa sono il 5% dell’intera popolazione mondiale e detengono il 25% di popolazione incarcerata (2 milioni e mezzo) dell’intero pianeta con l’8,5% in carceri private.
Di questi 2,5 milioni di detenuti ben 900.000 sono costretti a lavorare in modo gratuito o per 15-20 centesimi all’ora per anche 12 ore consecutive al giorno.
Soprattutto negli ultimi anni, in cui i bilanci statali si sono ridotti, le carceri hanno lanciato nuovi programmi di lavoro sia all’interno del carcere (manutenzioni e costruzione delle carceri stesse) che come lavori socialmente utili esterni. Ma il vero scopo del lavoro carcerario va oltre lo sviluppo personale e dei lavori pubblici: è un ottimo affare per le grandi multinazionali che sfruttano manodopera a bassissimo costo ad esempio per assemblare prodotti per Wal-Mart, confezionare il caffè per Starbucks, cucire vestiti per Victoria 's Secret o fare addetti al call center per compagnie telefoniche come AT&T. Pagare 20 cents all’ora invece che 15$ o non pagare affatto i lavoratori è un business appettibile sia per i governi che per le corporations che annualmente ricavano dall’industria carceraria un volume di affari pari a 2 miliardi di dollari.

Milano, settembre 2016


UK: Le detenute di Yarl’s Wood in sciopero della fame
Il 10 settembre le detenute di Yarl’s Wood hanno annunciato l’inizio di uno sciopero della fame. Yarl’s Wood è un centro di detenzione per migranti situato in Bedfordshire, nell’Est dell’Inghilterra, gestito da Serco e con una capienza di 400 posti.
Lo sciopero della fame segue l’ennesima manifestazione ‘Shut down Yarl’s Wood’, organizzata da Movement for Justice nello stesso pomeriggio, dove centinaia di persone hanno circondato il centro facendo molto casino e comunicando con le detenute attraverso il telefono. Mentre era in corso la manifestazione, i secondini hanno rinchiuso in cella le prigioniere al fine di indebolire la solidarietà, ma le donne hanno risposto con la loro resistenza. Qui di seguito alcuni stralci delle loro lettere.

“Abbiamo deciso di entrare in sciopero della fame. È una scelta dell’ultimo minuto a causa di ciò che ci hanno fatto. Ci hanno rinchiuse. In tutte le sezioni siamo in sciopero della fame. Non siamo sicure per quanto tempo. Se dobbiamo andare avanti lo faremo anche domani. Abbiamo il diritto di fare una manifestazione pacifica. È nostro diritto, è la nostra libertà d’espressione. Quando all’1:30 i/le manifestanti sono arrivat*, ci hanno rinchiuse in cella e non volevano farci gridare dalle finestre ai/alle solidali. Già siamo rinchiuse in questo centro e ci hanno rinchiuse di nuovo dentro. Non volevano che gridassimo all’esterno – noi siamo dalla parte opposta dell’edificio rispetto i/le manifestanti. Noi siamo rinchiuse nella sezione “Crane”. Le donne della sezione “Dove” sono state rinchiuse lì. Anche nella sezione “Avocet” è così. Dobbiamo tutte restare rinchiuse nelle nostre sezioni. È la prima volta che si comportano così. Perché sono spaventati se pensano di non avere nulla da nascondere? Perché sono andati così nel panico? Ci sono molti agenti, alcuni tra le differenti sezioni, alcuni nei corridoi, sorveglianti e agenti per controllare che nessuna possa né gridare né fare qualsiasi altra cosa. Non è mai successo prima. Volevamo ringraziare le persone che ci hanno dimostrato il supporto ma siamo state rinchiuse. Siamo trattate come oggetti e non come esseri umani. Vedremo che ne risulterà da oggi e se continuare domani. Abbiamo chiesto perché ci hanno rinchiuse. È la nostra libertà d’espressione. È un nostro diritto. Vogliamo una risposta. Vorremmo vedere la fine di questa detenzione illimitata."

"Stanno chiudendo un occhio sul perché siamo in sciopero della fame. Loro vogliono solo che mangiamo, ma nemmeno che mangiamo, solo che passiamo il nostro dito sullo scanner in modo che ci contino per la cena. A loro non interessa se mangiamo, è che stanno perdendo soldi. Se non va come vogliono, loro saranno contro di noi. Non sono contenti. Quando il cibo non viene mangiato, stanno perdendo. Per questo vogliono il tuo dito: per dire che hai mangiato. A loro non importa se stiamo bene qui. Anche per comprare qualcosa qui nello spaccio devi usare i sistemi biometrici con le mani.
Dicono che non sto mangiando e perciò non vogliono darmi le mie medicine. Dicono che ci hanno chiuso dentro sabato per ordini dall’altro. Non ci hanno spiegato niente. Durante la notte un agente ha dato un calcio alla porta, come se fosse un animale selvatico che chiude una porta. Fa molto caldo qui dentro e avevamo bisogno di aria. Ero nuda nella mia stanza perché fa molto caldo ed era l’unico modo per avere un po’ di fresco. Ero nuda nella mia stanza e lui è entrato e ha acceso la sua microcamera. Lui è un agente uomo e non dovrebbe nemmeno essere qui. Questo è il 21esimo secolo e succedono ancora queste cose. Non puoi trattare una persona in questo modo.
Noi stiamo lavorando, pagando le tasse, dando il nostro contributo alla società. Perché devono rinchiudere qui le madri, le sorelle, le zie. I nostri diritti e la nostra dignità ci sono state strappate via. Dicono che loro sono la sicurezza e sono qui per proteggerci ma non ci stanno proteggendo. Stanno abusando di noi. Noi stiamo scioperando per il modo in cui veniamo trattate qui. Abbiamo scritto una denuncia e le persone l’hanno firmata; avevamo già intenzione di fare uno sciopero della fame lunedì ma lo abbiamo anticipato a causa di quello che è successo sabato. Dicono che non c’è motivo per cui le persone protestino fuori perché non sta succedendo nulla. Nessuna viene rilasciata e non cambia nulla. Se lo pensano davvero allora perché ci hanno chiuso dentro? Qual è la vostra paura? Le persone vengono qui e stanno fuori sotto la pioggia e si impegnano in tutto il paese per supportarci e noi abbiamo bisogno di dimostrare il nostro supporto. Se pensano davvero che non stia succedendo nulla perché hanno portato ancora più agenti? Perché hanno così paura?"

"Ad Agosto sono stata riportata a Yarl’s Wood quando sono andata a fare una denuncia. Non so perché mi hanno riportata indietro. Il mio passaporto sarebbe scaduto dopo una settimana e ho visto un biglietto per pochi giorni dopo, perché stavano cercando di sbarazzarsi di me in fretta.
Vivo in questo paese da 20 anni. Ho 4 figli e 8 nipoti qui. Appena ho finito la visita con mio figlio loro mi hanno detto che erano venuti per portarmi in isolamento. Ho risposto che non sarei andata. Hanno chiamato la sicurezza. Quattro energumeni sono arrivati e mi hanno malmenata, messo le manette e sbattuta contro il pavimento.
Ho 52 anni, ho avuto un attacco di cuore l’anno scorso e ho molte malattie. Sono una vittima di tortura. Tutto questo mi fa ricordare, mi fa riaffiorare i ricordi della tortura. Uno degli omoni mi ha messo il suo piede o la sua grande mano sulla testa per schiacciarmela sul pavimento. Mi hanno portato a Kingfisher, che è la sezione d’isolamento. Mi hanno gettata per terra, il pavimento è davvero sporco. Ero molto traumatizzata e ho desiderato morire. Ho preso alcune pasticche. Mentre andavamo all’aeroporto ho detto agli agenti che avevo preso delle pasticche e di portarmi all’ospedale per ripulirmi lo stomaco. Quel volo è stato cancellato perché hanno provato ad affrettare le cose. Così mi hanno portato di nuovo a Yarl’s Wood. Ogni volta che vedo le guardie ho paura. Mi chiudo a chiave nella mia stanza adesso e non l’ho mai fatto in vita mia. Scappo via quando vedo le guardie.
Questa è la vita a Yarl’s Wood. Sabato ci hanno chiuse tutte dentro. Noi volevamo solo vedere le persone che erano qui fuori per noi ma non abbiamo potuto. Tutte le donne erano davvero arrabbiate. Non sapevamo che tutto questo potesse accadere in un paese in cui dovrei essere al sicuro. Ti aspetti che questo accada in Africa ma non in Gran Bretagna. Così non stiamo mangiando e siamo deboli. Qui è come a Guantanamo. Davvero. Stiamo camminando intorno come fossimo pazze. Non lo siamo. Le guardie non rispettano assolutamente le donne. Non nel modo in cui ci trattano qui. Non stiamo più parlando con loro. Siamo solo nelle nostre stanze e ci spostiamo quando loro provano a parlarci."
16 settembre 2016, da hurriya.noblogs.org,
traduzione da rabble.org e detainedvoices.com


Uno sguardo sulla privatizzazione delle carceri italiane
Come succede spesso nuove misure repressive, leggi restrittive, limitazioni di libertà vengono prima praticate e sperimentate su settori della popolazione considerati “emarginati” o in difficoltà. È questo il caso per esempio della gestione delle “emergenze” e delle persone coinvolte, che siano migranti o vittime di catastrofi naturali (terremoti, alluvioni etc.), o come nel caso del lavoro obbligatorio non pagato. Qualcosa del genere sta avvenendo in Italia anche nell’ambito della reclusione, con la sperimentazione dell’ingresso dei privati. Entro il 2018 aprirà il primo carcere del genere a Bolzano, realizzato grazie al “Project Financing “. In realtà la presenza delle imprese nei luoghi di riduzione della libertà, nel nostro paese, è cominciata anni fa con la gestione dei centri di identificazione ed espulsione per migranti, e ha visto l’ingresso nel business dei colossi multinazionali della carcerazione, come la francese GEPSA.

Introduzione
La privatizzazione delle carceri è un fenomeno oramai diffuso su tutti i continenti. Si è scritto e indagato tanto sulle sue origini, la sua storia e sui mostruosi effetti che si verificano nei contesti in cui si sviluppa. In paesi come gli Stati Uniti, l’Australia o la Gran Bretagna le prigioni private rappresentano da più di trent’anni una triste normalità e le grandi corporation che vi operano, hanno modellato i penitenziari statali secondo l’ottica liberista, riuscendo a capitalizzare, con precisione e a fondo, ogni aspetto della vita carceraria. Un processo che, mettendo a profitto la funzione base del carcere, quella detentiva e repressiva e sfruttando il lavoro, coatto o meno, dei detenuti è andato insomma ben oltre la semplice esternalizzazione del servizio lavanderia.
In molti luoghi, infatti, le carceri, in questo caso sia pubbliche che private, riforniscono una fetta non indifferente del mercato del lavoro, attraverso la fornitura di migliaia di detenuti -lavoratori a salario ridotto, un esercito di uomini e donne impegnati nei diversi comparti della sottofiliera industriale e agricola; manodopera a bassissimo costo capace di produrre lauti profitti per le imprese coinvolte. Molte volte gli stessi impianti di lavorazione sono presenti addirittura all’interno dei penitenziari. Ciò che si va a creare è un arcipelago di carceri – fabbrica, disseminati sul territorio nazionale, connessi con i gangli commerciali principali di un territorio. [...]
Il carcere privato è definibile come una vera e propria fabbrica della reclusione, dove la presenza effettiva del prigioniero è di per sé fonte di guadagno e dove, quindi, è interesse dell’impresa-carceriere tenere costantemente piene le celle, assicurarsi, cioè, un flusso costante in entrata per garantirsi tariffe giornaliere o rimborsi dei costi. E’ facile immaginare quali siano le conseguenze sociali di un sistema come questo, i cui principi animano, d’altronde, anche la gestione dei Centri d’identificazione ed espulsione in Italia.
L’intero processo di privatizzazione segue svariate vie, assume forme differenti e si sviluppa lungo fasi nello specifico anche molto diverse tra loro, il più delle volte però è sorretto da un discorso politico emergenziale simile, correlato al secolare problema del sovraffollamento o giustificato dal sicuro risparmio per le casse dello Stato in un momento di recessione.
Cosa succede in Italia? Alla luce di quanto è in opera in altre parti del mondo, il sistema italiano, la cui privatizzazione è ancora agli albori, necessita di un approfondimento ulteriore, allo scopo di comprendere meglio le sue possibili evoluzioni ed essere in grado di sviluppare prospettive di lotta adatte a questo contesto in piena trasformazione.
Questo testo, cercherà di offrire un piccolo scorcio, breve e limitato al contesto nostrano, su alcuni aspetti particolari del fenomeno sopra citato.

Un processo lungo un ventennio
Negli anni ’90, sulla lunga scia delle politiche in atto in Gran Bretagna e Stati Uniti, venne avviato un programma generale di modernizzazione della pubblica amministrazione in un’ottica di razionalizzazione e trasformazione di tutti i suoi comparti e settori. Venne coniato così il termine di “New public management”, dottrina imposta allo scopo di rendere più efficiente il sistema pubblico, riducendone i costi e aumentandone i profitti, utilizzando modalità e metodologie proprie del settore privato.
In quel momento presero il via le prime esternalizzazioni del settore pubblico italiano, carceri comprese, e si decretò il cosiddetto “arretramento dello Stato”, in linea con le richieste generali d’imponenti istituzioni sovranazionali come FM, BM e Ocse.
Tale processo si inserì per di più nella cornice dei vincoli dettati dal trattato di Maastricht. Sebbene già dalla fine degli anni ’80 alcune aziende fossero entrate nel settore pubblico, ivi compresi i penitenziari, offrendo alcuni servizi come la pulizia delle strutture, solo dagli anni ’90 il fenomeno iniziò a diventare una procedura regolare nella fornitura di prestazioni delle più svariate.
Nel 2001 l’allora guardasigilli Fassino, nell’intento di proseguire verso la direzione di privatizzazione oramai avviata, dispose la dismissione di 21 carceri e l’individuazione di un modello inedito di prigione di media sicurezza e a trattamento penitenziario qualificato. Vennero create imprese apposite con l’intento di riconvertire le carceri considerate vetuste e, attraverso il coinvolgimento dei privati, individuare nuove aree edificabili per nuovi e moderni penitenziari. Benché i primi passi in tale direzione risultarono allora macchinosi e infine poco produttivi, le intenzioni rimasero comunque in piedi, addirittura rafforzandosi sotto la guida di Castelli.
Proprio in quegli anni, sotto la spinta di una politica repressiva senza precedenti nei confronti dell’utilizzo di sostanze stupefacenti, vide la luce quello che molti definirono il primo carcere privato in Italia. Il 21 Marzo 2005, dopo quattro anni dalla presentazione del progetto, nacque, infatti, a Castelfranco Emilia in provincia di Modena, la cosiddetta “Comunità agricola”, un comunità terapeutica di stato per la reclusione e il recupero di 140 detenuti tossicodipendenti. La gestione della struttura andò in mano, senza gara d’appalto, alla famigerata Comunità di San Patrignano. Al di là delle proteste che scaturirono per la scelta dell’associazione di Muccioli, famosa per le pratiche terapeutiche a dir poco ributtanti e violente, e al di là delle critiche per le politiche repressive che l’allora governo stava attuando, l’attenzione si concentrò, in parte, sulle modalità gestionali stesse, che mai avevano visto dei precedenti in Italia. Un ente privato, nello specifico un’associazione, prese in gestione tutte le mansioni e prestazioni, salvo quelle più schiettamente repressive e custodiali, di un vero e proprio carcere per detenuti tossicodipendenti. In questo caso non si parlò, infatti, di semplice esternalizzazione di uno o più servizi nell’ottica di un protocollo d’intesa, ma di una perfetta partnership pubblico-privato.

A piccoli passi
Nel 2012 sotto il Governo Monti venne emanato il Decreto-Legge 24 gennaio 2012, n. 1, meglio conosciuto con il nome di “Decreto Liberalizzazioni”. Uno degli elementi più rilevanti di tale testo è contenuto nel Titolo II Capo 1, art. 43, in cui si affrontano importanti novità riguardanti l’edilizia carceraria. Intese come disposizioni urgenti per “fronteggiare la grave situazione di emergenza conseguente all’eccessivo affollamento delle carceri” si introdusse, questa volta in modo più concreto di quanto avesse fatto il governo di Centro-sinistra nel 2001, lo strumento del Project financing applicato al business della reclusione.
Ebbene che cos’è questo strumento? Il Project Financing è un dispositivo economico, già in uso in Francia e Gran Bretagna da molto tempo, che permette la partecipazione di grosse aziende, imprese private o Banche (quest’ultime solo se finanziano almeno il 20% del costo d’investimento) alla progettazione, costruzione e infine gestione di nuovi penitenziari. Infatti, lo Stato che partecipa con una percentuale al finanziamento, permette all’azienda che ha progettato e costruito il penitenziario di gestire la struttura in tutti i suoi servizi e mansioni, escluso quello custodiale, per 20 anni, ricavandone tutti gli utili e i profitti del caso. Allo scadere del ventennio la gestione ripassa, debiti compresi, allo Stato. Una volta iniettata la riforma, il processo non tardò certo ad avviarsi.
Ai giorni nostri, qualcuno, come meravigliarsi d’altronde, ha colto la palla al balzo.

Il carcere di Bolzano
L’inaugurazione del nuovo carcere di Bolzano si sarebbe dovuta tenere nel giugno 2016, ma a causa di alcuni ritardi nei lavori, è slittata a giugno 2018. Questa struttura, voluta fortemente dalla provincia autonoma di Bolzano – Alto Adige, è definibile a tutti gli effetti come un vero e proprio penitenziario privato, il primo di questo genere in Italia. Il carcere – progettato per 220 detenuti e comprendente una sezione di 20 posti per semiliberi, una caserma per 30 agenti e moduli abitativi esterni per un centinaio di famiglie di secondini – è il primo esempio in Italia di partnership pubblico-privato applicata alla reclusione ed il primo caso di project financing riferito all’edilizia carceraria. Sarà una “rivoluzione trattamentale” secondo le parole dell’Avv. Massimo Ricchi, professore alla LUISS e consulente PPP per la provincia di Bolzano, in grado di andare incontro ad un sistema penitenziario che “come tutti i processi produttivi, (…) crea delle diseconomie e delle esternalità”. I punti forti del Project Financing sono la velocità nei tempi di attuazione, risparmi nella spesa per lo stato, possibilità di negoziazione con l’affidatario scelto per il progetto; elementi che creano un modello giuridico, tecnico ed economico- finanziario ripetibile.
È interessante notare come la possibilità di realizzazione di questa struttura sia stata permessa dapprincipio da una normativa emergenziale, decretata nel 2010 a causa del sovraffollamento carcerario, che ha consentito al Capo del DAP di ricoprire anche il ruolo di Commissario governativo per l’emergenza carceraria e quindi di essere al tempo stesso anche Commissario delegato con poteri emergenziali di protezione civile. Tale situazione, nel caso d’Intesa tra Governatore della regione o della provincia autonoma e il capo del Dap, ha permesso la concentrazione in un unico atto di tutti i punti della localizzazione, rendendo così il procedimento più veloce e derogando alle norme del codice civile e al codice dei Contratti. Quindi un contesto emergenziale che una volta annunciato, come spesso accade, permette al legislatore stravolgimenti giuridici e burocratici difficili da far passare in una situazione normale.
In linea generale, l’appalto ideato prevede la concessione di lavori pubblici in primo luogo per la progettazione e la costruzione della nuova prigione che, secondo lo studio di fattibilità, ammontano a circa 72 ml di euro, e in seconda battuta riguarda la gestione dello stesso per i vent’anni successivi. Più precisamente, da un lato, all’impresa vincitrice del bando spetta una parte del finanziamento della struttura, della sua progettazione definitiva ed esecutiva, secondo le linee guida progettuali, della sua costruzione, della fornitura di arredi, apparecchiature, attrezzature e suppellettili, dall’altro lato, secondo un profilo prettamente gestionale, l’impresa privata si farà carico della manutenzione ordinaria e straordinaria dell’immobile e degli impianti, della gestione delle utenze, del servizio lavanderia, della mensa collettiva e dello spaccio alimentare, del bar interno, della pulizia dell’edificio e della gestione delle attività sportive e di quelle formativo- ricreative. Questo carcere si presenta come un esempio innovativo, un modello di carcerazione al passo coi tempi, moderno nei metodi e nelle strutture, nell’utilizzo della sorveglianza dinamica e nella creazione della prima mensa collettiva in un penitenziario italiano.
All’ente in questione spetta il 67% dei costi di progettazione e costruzione, mentre il restante 33% grava sulle casse dello Stato. Per la gestione di tutti i servizi sopracitati, invece, l’impresa scelta incasserà un canone annuo di 2,4 ml di euro nella cornice di un possibile canone di disponibilità annuo di 5,8 ml. Quest’ultimo indica la somma stanziata dallo Stato al soggetto privato nel caso in cui tutto il procedimento gestionale vada a buon fine, ovvero senza intoppi, ritardi e vizi di forma che comportino il non effettivo funzionamento e la mancata disponibilità, anche temporanea e parziale, della struttura.
Ma che significato ha il termine “disponibilità” se traslato dal vocabolario dell’economia all’interno della semantica dell’universo carcerario? Innanzitutto significa certezza che i servizi offerti ai reclusi siano presenti e funzionino bene, che le strutture siano agibili, pulite e integre ma, cosa forse più importante e tremendamente banale, che all’interno del carcere ci siano costantemente uomini e donne internati. Insomma, l’utilizzo dello strumento della “tariffa giornaliera fissa”, attraverso la quale lo stato paga all’azienda una somma relativa al numero di detenuti effettivi all’interno della struttura, utilizzato d’altronde nelle carceri private statunitensi o nei Cie italiani, ha una sua origine, un suo modello evolutivo le cui prime fasi sono rintracciabili proprio nel concetto di “disponibilità” sopracitato.
L’appalto per la costruzione del carcere di Bolzano se l’è aggiudicato l’impresa INSO – sistemi per infrastrutture sociali, un’azienda multinazionale, con sede legale a Roma, presente in diverse zone d’Europa e del mondo. L’impresa si occupa soprattutto di progetti di costruzione e fornitura di tecnologie nei settori della sanità, dell’industria e del terziario. Essa è inserita in una rete di aziende e imprese subordinate a Ferfina spa, meglio conosciuta come Condotte per l’acqua spa, leader italiano e mondiale nel settore delle costruzioni civili, autore di diverse opere devastanti in giro per il mondo come la Centrale Elettronucleare Montalto di Castro e quella di Trino Vercellese, l’alta velocità Torino – Milano e Roma – Napoli, il progetto Mose a Venezia e quello del ponte sullo stretto di Messina, solo per citarne alcune delle tantissime presenti sul territorio italiano. I terreni su cui sorgerà il penitenziario, invece, 18 mila metri quadri d’estensione, sono stati acquistati, a scopo speculativo dal Gruppo Podini e Rauch di Bolzano, anche grazie ai compensi della Provincia Autonoma.
La costruzione di un nuovo carcere è sempre un evento molto grave, in questo caso, però, assume un significato ben più profondo. Esso è il precedente che spianerà la strada ad una privatizzazione più ampia del sistema carcerario italiano con le conseguenze e gli effetti che tutti conosciamo.
Il processo in atto, tuttavia, non si conclude certo con la costruzione di un solo carcere “modello” al nord Italia; esso è una piccola espressione di un movimento più ampio dove gravitano altri fattori e dinamiche. Il carcere di Bolzano, insomma, non è l’unico indicatore di tale evoluzione, elementi diversi possono essere scovati anche altrove.

Gepsa in Italia
Da qualche anno a questa parte si è inserito all’interno del mercato della gestione degli immigrati in Italia, un nuovo ente gestore, dinamico e intraprendente, dotato di una storia e di un profilo molto significativi, l’azienda francese Gepsa, branca di Cofely, parte a sua volta di Gdf-Suez (Engie). Essa ha pervaso diversi ambiti del business legato ai flussi migratori, proponendosi come gestore di strutture differenti tra loro, dalle carceri per immigrati senza documenti fino ai Centri per richiedenti asilo. Attualmente l’azienda, coadiuvata dall’associazione siciliana Acuarinto, gestisce due dei Cie più grandi d’Italia, quello di Torino e Roma, un Cara a Milano (nei pressi dell’ex Cie di via Corelli) ed è presente in quasi tutte le gare d’appalto per la gestione degli altri Cie o centri per richiedenti asilo sparsi sul territorio nazionale. L’azienda, insomma, in pochi anni è riuscita con successo a penetrare sul territorio nostrano, imponendosi, grazie alle sue qualità, come leader nella gestione di strutture concentrazionarie. La storia della multinazionale francese e le competenze che ha sviluppato negli anni la dicono lunga su quanto essa possa rappresentare un modello aziendale ripetibile e, soprattutto, su quali scenari possa aprire la sua entrata nel panorama italiano.
Gepsa, infatti, è un’azienda nata nel 1987, a seguito di un mastodontico piano carceri in Francia. Attualmente gestisce oltralpe ben 13 penitenziari e 8 Centri d’identificazione ed espulsione, ed è impegnata nel project financing di 4 nuove prigioni, oltre ad essere amministratrice del lavoro di migliaia di detenuti.
Una presenza, la sua, che, come spesso accade, non si limita al semplice intervento nei bandi di gara, ma si concretizza in una vera e propria attività di lobbying nei confronti delle diverse istituzioni, una prassi il cui fine non è esclusivamente l’accaparramento degli appalti, ma la concreta modifica della legislazione vigente. Per un’azienda come Gepsa il mercato italiano della carcerazione, ancora sottoposto ad un modello chiuso economicamente e in pratica ristretto dalle grinfie del controllo statale, necessita di una profonda rivoluzione giuridica, un cambiamento che lo avvicini ai modelli liberali anglosassoni o perlomeno al modello misto francese, in cui Gepsa opera da anni.
Si è scritto tanto sulle pressioni che alcuni colossi della carcerazione operano nei confronti di istituzioni e partiti ed, infatti, non fanno notizia i milioni di dollari elargiti durante le campagne elettorali inglesi, australiane o nordamericane. Tuttavia, in Italia, di tale prassi si sa ben poco. A tal proposito, le notizie in circolazione su queste aziende sono limitate e non si riesce a capire quasi nulla dei loro movimenti sotterranei. Attività che indubbiamente esiste e risulta fondamentale ai fini dell’investimento. Nel maggio 2013, ad esempio, si è svolto presso la Casa circondariale di Saluzzo un seminario di approfondimento sul tema del Partenariato Pubblico Privato nella gestione dei servizi ausiliari penitenziari. All’incontro erano presenti varie autorità, personalità del Dap affiancate da alti rappresentanti sia di Gepsa che di Cofely. Al di là delle spiegazioni su cosa è e come potrebbe essere gestito il PPP, risulta chiaro che lo scopo di un seminario come questo e di altri incontri, sicuramente organizzati, sia ben altro rispetto ad un banale confronto.

Conclusioni
Che peso e che significato ha la presenza di un colosso della carcerazione come Gepsa in Italia e la sua partecipazione all’affare immigrazione? E soprattutto come legare questa figura a quanto detto finora, cioè ai lenti cambiamenti giuridici, alla comunità di Muccioli e al carcere di Bolzano?
La penetrazione dei privati all’interno del sistema carcerario penale non avviene dall’oggi al domani. Come ampiamente documentato, perché verificatosi in altri contesti, tale fenomeno pervade dapprima settori subalterni alla carcerazione. Un esempio classico è, come visto, la banale fornitura di servizi ai detenuti, un canale d’accesso che si può definire privilegiato, diretto e semplice. Ma ciò che rappresenta un vero e proprio banco di prova per le aziende è la gestione di strutture totali diverse dalle carceri, ma in qualche modo ad esse prossime e somiglianti.
In alcuni contesti, infatti, queste strutture hanno preso la forma dei centri di recupero per tossicodipendenti o delle case di riabilitazione, in altri luoghi, si sono invece palesati soprattutto nel settore, ambiguo e complesso sotto il profilo giuridico e legislativo, della detenzione amministrativa per immigrati irregolari.
Così, le aziende private, attraverso la gestione di comunità terapeutiche e Cie, hanno accumulato esperienza in questi settori, captato consenso e accettazione sociale e, una volta assicuratasi un’aurea di normalità, se non di umanitarismo in alcuni casi, hanno permeato il mercato carcerario più ampio. Questo è probabilmente il cammino percorribile in Italia da cooperative, associazioni e aziende, vecchie o nuove, nostrane o transalpine, il cui passaggio da una struttura detentiva per immigrati ad un carcere penale diventerebbe all’oggi molto più agile. Al momento molti di questi enti non dispongono del capitale necessario per la gestione di un penitenziario, ma qualcosa indubbiamente si sta muovendo.
Per questo motivo la presenza di Gepsa nella gestione dei Cie dovrebbe destare una forte attenzione. Essa rappresenta uno dei punti nevralgici di una mappatura più ampia, una topografia del “campo” che collega il Cie di Roma al carcere di Bolzano, il Cara di Milano alla Comunità di Castelfranco, un universo concentrazionario privato in piena ed energica espansione.

settembre 2016, da hurriya.noblogs.org


resistere alle “misure cautelari”
Il 25 settembre 2015 un gruppo di compagni/e fece irruzione negli uffici della Turkish Airlines dell’aeroporto di Torino-Caselle. Il 21 luglio 2016 la procura di Torino chiede il conto per quell’azione a una decina di compagni/e, con l’accusa di “resistenza, violenza privata, violazione di domicilio”, e con l’imposizione dell’obbligo di presentarsi a firmare in commissariato tutti i giorni, due volte al giorno. Ma gli indagati, questa volta, hanno risposto con un rifiuto di cui abbiamo dato conto nell’opuscolo del mese scorso.
Il 2 settembre c’è l’udienza del “riesame” dell’obbligo di firma, dalla quale è escluso il pubblico. Compagne e compagni vanno in aula, dove incontrano Giuliano, ‘computato’, però in carcere per una lotta in valle. Lì leggono il seguente comunicato che rivendica l’azione alla Turkish Airlines.
Intanto davanti al tribunale si sono radunati oltre 50 manifestanti che dopo l’uscita dall’aula danno vita ad un corteo con alla testa gli striscioni “A fianco di chi lotta e resiste”, “RESISTENZA dalle Alpi al Kurdistan!” Raggiunta piazza Statuto su un traliccio viene alzato uno striscione con la scritta “Erdogan assassino” …
La giornata di mobilitazione è proseguita nel pomeriggio con un presidio al carcere delle Vallette. Lo scopo era comunicare a tutte le persone chiuse lì dentro e che tengono la testa alta solidarietà, la possibilità di agire insieme - dentro e fuori -, per urlare a Luca e Giuliano che è stato disposto il loro trasferimento ai “domiciliari”. Si sentono le urla da dentro, senza capire più di tanto, per la distanza, dovuta anche allo schieramento di polizia lungo la cinta ferrata che corre vicino alla cinta carceraria di cemento. Di sicuro Le Vallette è un carcere dove razzismo, sfruttamento, tortura, assenza brutale dell’igiene e della cura medica sono la quotidianità pesante come un macigno. Ed è quello che confermano Luca e Giuliano quando attorno alle 20 escono. Ad attendere la loro uscita trovano una ventina di compas, ci scappa persino un brindisi.
Il giorno successivo giunge l’annuncio che sono: “Annullate le misure a tutti e tutte le imputate per irruzione alla Turkish, cade la resistenza e la violenza privata, si procede per violazione di domicilio… Sempre al fianco di chi resiste!”

Come è noto, in quest’aula si discuterà la nostra sorte in merito alle misure cautelari comminateci nell’ambito dell’inchiesta per l’iniziativa contro la Turkish Airlines di Torino-Caselle. La Procura torinese, in particolare nella persona del qui presente pubblico ministero Antonio Rinaudo, è ormai nota a chiunque per il suo accanimento nei confronti di ogni lotta sociale. Altrettanto noto è il tentativo di genocidio e la brutale repressione del dissenso in corso in Turchia: le purghe, gli arresti di massa, le torture e gli stupri nelle carceri, i bombardamenti e i massacri di civili, sono ormai all’attenzione mediatica internazionale, ben più di quando noi li denunciammo irrompendo nella sede della compagnia di bandiera turca un anno fa. Il procuratore Rinaudo sarà dunque senza dubbio consapevole e fiero del proprio ruolo di difensore del buon nome della Turchia di Erdogan, dei suoi rapporti amichevoli con la Comunità europea, dei traffici d’armi, dei ricatti sui profughi e del suo ruolo di gendarme della NATO. Peraltro, non è difficile immaginare la fascinazione che un ligio funzionario di Stato può provare nei confronti di un Paese come l’attuale Repubblica di Turchia, il sogno realizzato di ogni burocrate di regime in vena di sfogare le proprie frustrazioni su prigionieri e dissidenti.
Le misure restrittive cui siamo sottoposti, del resto, non fanno mistero delle loro motivazioni: impedirci di reiterare le condotte di cui siamo imputati, ovvero sostenere la lotta rivoluzionaria in Kurdistan. A tal proposito temiamo di dover deludere il solerte procuratore: non abbiamo alcuna intenzione di interrompere una solidarietà di cui c’è oggi più bisogno che mai e per la quale, semmai dovessimo rimproverarci qualcosa, sarebbe piuttosto di non esser riusciti a fare abbastanza.
È per questo che la gran parte di noi non sta rispettando le restrizioni ricevute, e vi preannuncia che ha intenzione di continuare a farlo, qualunque sarà la decisione che prenderete in quest’aula. Noi abbiamo già deciso.
Non avendo ancora l’Italia raggiunto il livello di maturità democratica della Repubblica di Turchia, qualche scrupolo sconsiglia ancora di lanciarsi in deportazioni e carcerazioni di massa; è così che, negli ultimi anni, uno stillicidio di misure repressive a bassa intensità, tra divieti, obblighi, fogli di via, è stato messo in campo nel tentativo di soffocare i conflitti crescenti e i movimenti popolari.
Il procuratore Rinaudo è ovviamente in prima fila in questa battaglia, ma – ci spiace dover nuovamente deludere le sue aspettative – è una battaglia persa. Non solo tale strategia non sta ottenendo gli effetti sperati, ma sta ottenendo l’effetto contrario, fornendoci occasioni insperate di rilanciare le lotte, di creare nuovi legami, di acquisire forze inedite. Sempre più persone si rifiutano di sottostare ai suoi stupidi divieti, e sempre più gente solidarizza e sostiene chi resiste. Sta diventando patetico, signor Rinaudo. Si metta il cuore in pace, non fa più paura a nessuno.

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AGGIORNAMENTO DALLA VALLE CHE RESISTE
Negli scorsi opuscoli avevamo dato conto di come, negli ultimi quattro mesi, le numerose misure cautelari, tra obblighi di firma, obblighi e divieti di dimora, arresti domiciliari con o senza restrizioni, fossero stati rimandati al mittente con la ferma decisione dei valligiani e dei compagni colpiti da queste misure, di non rispettarle. Qui di seguito la lettera del 22 settembre di Nicoletta, una militante No Tav, che si è vista aggravare le misure a lei comminate in un arresto ai domiciliari. Nicoletta, con il sostegno del movimento No Tav tutto, ha deciso di non rispettare nemmeno questi arresti.

La mia casa non è una prigione, non sarò la carceriera di me stessa.
Sono arrivati, all’alba, con la notifica dei domiciliari.
Il latrare di Argo al cancello, la mia casa nel disordine del primo mattino, il tuffo al cuore inevitabile anche quando sei preparata e ti aspetti gli eventi, il senso della tua intimità violata. Domiciliari che non rispetterò, come non ho rispettato l’obbligo di firma quotidiana e l’obbligo di dimora.
Il conflitto contro l‘ingiustizia è un diritto e un dovere. La mia casa non è una prigione; non sarò la carceriera di me stessa. Mi sento serena e sicura.
La loro legalità ha più che mai il volto della guerra e dell’oppressione. La nostra lotta è un cuore pulsante e generoso, un pensiero lucido e saggio, bella e struggente come i cieli autunnali, dolce come le albe che rinascono, concreta e generosa come la terra.
Sento intorno a me il sostegno di compagne e compagni, la solidarietà concreta di una Valle che continua a resistere ed a costruire l’idea di un futuro più giusto e vivibile per tutti. Ho ancora in me l’emozione e la ricchezza dei tanti incontri avuti durante le settimane del NOTAV Tour “io sto con chi resiste”. Non è preoccupazione, ma una calma gioiosa quella che provo. Questa sera sarò all’assemblea organizzata a Bussoleno a sostegno della Resistenza Kurda e del PKK.
L’importante è rimanere umani, ossia, come ci dice Rosa Luxemburg in una sua lettera dal carcere, “rimanere saldi e chiari e sereni, sì sereni nonostante tutto. Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola”.
Liberi tutte e tutti! Avanti NO TAV!

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Chiamata a Venezia: una tre giorni contro le “misure preventive e cautelari” compresa la “sorveglianza speciale”
Venerdì 16 settembre c’è stata un’assemblea su questi temi; lunedì 19 una giornata di iniziative contro la sorveglianza speciale; martedì 20, giorno dell’udienza, un presidio a S. Marta (quartiere dove si trova l’ex Ospizio Occupato ben distante dal tribunale, proprio per marcare distanza…libertà), con musica, pranzo, banchetto dei libri.
Lo scopo dell’assemblea era ben chiarito nella chiamata: “…La richiesta di Sorveglianza Speciale formulata dalla Questura di Venezia ai danni di un compagno chiude idealmente quel cerchio di misure preventive iniziato un anno fa nella città lagunare, con l'emissione di una quarantina di fogli di via e di tre avvisi orali. Una strategia volta ad allontanare chi prende parte in una lotta dal contesto in cui vive, isolandolo dai propri legami e affetti. Questi provvedimenti spesso pesano sulla vita di chi ne è destinatario più delle eventuali condanne penali per i reati che le motivano, sempre ammesso che questi siano sostenuti e comprovati in sede processuale…
Recentemente qualcuno, con coraggio, ha messo in dubbio l'inviolabilità di queste misure disobbedendone ai dettami, mettendo in conto l'eventualità concreta di finire in carcere o agli arresti domiciliari. Due compagni, attivi sul fronte No Tav in Val di Susa, sono attualmente detenuti alle Vallette di Torino per aver portato questa decisione fino in fondo...
Ci interesserebbe aprire uno spazio di confronto attorno a questo modo di organizzarsi, consapevoli che il "se" e il "come" farlo, pur partendo da una presa di posizione individuale, possono trovare riscontro solamente in una forza comune e nella volontà di produrre un avanzamento della lotta in tal senso. Per fare questo è necessario dotarsi dei mezzi, materiali e immateriali, per non lasciare solo chi viene colpito ma, soprattutto, per far sì che questa possibilità diventi solida, efficace e alla portata di tutti e tutte”.
Così in effetti si è svolta l’assemblea, anche nelle conclusioni, compresi in serata un caloroso saluto al carcere e un attacchinaggio come si dice, a tappeto.
Nel fare un bilancio compagne-compagni chiariscono che: “i tre giorni contro la Sorveglianza Speciale a Venezia hanno voluto aprire degli spazi di discussione attorno a questa misura, ai criteri con i quali ne viene decisa l’applicazione e alle possibilità che può aprire la decisione di non sottostarvi. Particolarmente interessante è stato il confronto su quest’ultimo tema, grazie anche all’intervento di alcuni compagne e compagni che hanno affrontato, in passate occasioni, la decisione di violare dichiaratamente le misure cautelari a loro imposte… Auspicabile è mantenere un piano di dialogo costante tra chi si sta interrogando sulla questione, mettendo in comune esperienze e pratiche che, se non sul se, possono fare la differenza sul come farlo, nella maniera più efficace…”
Il giorno dell’udienza ha visto una massiccia presenza di forze dell’ordine davanti al Tribunale e nei pressi del carcere.
Mentre si svolgeva un presidio solidale nel quartiere di S. Marta, la giudice relatrice elencava nuovamente tutti gli episodi ritenuti sintomatici della pericolosità sociale del soggetto, compreso l’ultimo regalo della Digos consegnato in tutta fretta durante la pausa pranzo: lo scritto in cui il compagno dichiara di non voler sottostare all’eventuale convalida della sorveglianza. Documento che, seppur presentato fuori tempo massimo e in maniera non “convenzionale”, viene accettato in quanto “fortemente indicativo della sua personalità”. Il tribunale non ha espresso nessuna decisione, rimandando tutto alla prossima settimana. Segue la dichiarazione del compagno.

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Lo scorso 9 giugno, pioveva ed era l’inizio di un gioioso giovedì, la polizia anticrimine di Venezia ha notificato a chi scrive la richiesta di Sorveglianza Speciale di Pubblica Sicurezza. Un nome da pessimo film-noir che designa la misura di prevenzione più gravosa prevista per chi, come nel mio caso, appartiene alla categoria di persone sospettate di “essere dedite alla commissione di reati che mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Minorenni e lsd negli acquedotti a parte, la richiesta in questione è costruita mettendo insieme una lunga serie di fatti riguardanti la mia persona dal 2008 in avanti, rilevanti o meno da un punto di vista penale, e delle considerazioni generali della Questura tese a dimostrare la mia “pericolosità sociale”, requisito fondamentale per l’applicazione di ogni misura preventiva. Un elenco di “indizi e sospetti” che, oltre a ricordarmi un certo numero di bei momenti altrimenti passati nel dimenticatoio, sono definiti “altamente sintomatici”, con piena appropriazione del linguaggio medico, di una patologia a cui la polizia si sta prodigando a trovare una cura.
Ora, che la mancata lealtà verso l’ordine costituito venga perseguitata anche tramite la costruzione di un immaginario di “devianza” non è più una novità dai tempi dell’Inquisizione ma, prerogativa squisitamente democratica spruzzata di stalinismo, la Sorveglianza fa un passo ulteriore: si propone di mettermi da parte per il mio bene, oltre che per preservare “la pacifica coesione sociale tra le parti”.
Nelle 16 pagine di morbosa e voyeuristica compilazione non è dato sapere quale tipo di coesione sociale tra le parti sarebbe da preservare, se quella tra sfruttati e sfruttatori o, ad esempio, quella tra i detenuti e i loro carcerieri o, per non andare troppo in là, quella tra i ricchi di questa città e chi è costretto ad andarsene.
Così la mia partecipazione ai cortei No Tav in Val di Susa, o a molti presidi sotto il carcere di Santa Maria Maggiore, sarebbero sintomi di pericolosità non di per sè stessi, ma in relazione all’ aver abbandonato gli studi o al non possedere un contratto di lavoro stabile. Conseguentemente, con peloso quanto insopportabile paternalismo, viene proposta una guarigione attraverso quella che è, a tutti gli effetti, una pena senza reato.
Il giudizio del Tribunale del Riesame, che si esprimerà sulla convalida della misura il prossimo 20 settembre in mancanza di dati giuridici oggettivi, non potrà quindi che avere un carattere essenzialmente psichiatrico: ad essere valutate saranno le intere condotte della mia vita, sulla base della suggestione proposta da chi, per mestiere, la spia dal buco di una serratura.
La Sorveglianza, una volta convalidata da un giudice, impedisce la frequentazione di assemblee e locali pubblici, quella delle bettole e delle osterie, obbliga il sorvegliato a stare a casa dall’alba al tramonto e, una specifica del mio e di altri casi, a non lasciare il proprio comune di residenza. Inoltre poichè la Sorveglianza vieta l’incontro con pregiudicati e destinatari di misure di prevenzione, ed essendo praticamente la totalità dei miei compagni affetti da fogli di via o avvisi orali, l’effetto (o lo scopo?) di questa misura sarebbe quello di isolarmi completamente dalle persone con cui ho scelto di vivere e lottare. Il tutto per due anni.
In mancanza di altri strumenti legali per mettermi fuori gioco, la Questura di Venezia cerca di farmi fare lo sbirro di me stesso, delegandomi il controllo delle mie abitudini e delle mie frequentazioni, sotto il costante ricatto di commettere una violazione punibile con la reclusione da 1 a 5 anni.
Un ricatto inaccettabile e un ruolo che non intendo ricoprire.
Per questi, e per molti altri motivi, voglio dire ai miei amici e ai miei compagni che, qualora il giudice dovesse confermare questa misura, non ho nessuna intenzione di sottostarvici. Portare fino in fondo questa scelta significa necessariamente assumersi le conseguenze che potrebbe comportare, non ultima la reclusione. Una prospettiva che non mi fa più paura di passare i prossimi due anni a stare attento a chi incontro per strada, lontano da tutte le cose che faccio, cercando di vivere come la polizia ha detto che dovrei. Del resto, come ci hanno dimostrato le lotte dei detenuti dell’ultimo anno, il carcere non è la fine di niente.
Nei tanti contesti di lotta che ho avuto la fortuna di attraversare ho sempre pensato che l’essenziale, ciò che rende uno slancio generoso realmente rivoluzionario, fosse quanto di noi da quei momenti non sarebbe più tornato indietro come prima. Quante ansie e barriere saremmo riusciti a lasciarci alle spalle, dischiudendo altre possibilità dove prima avremmo visto solo muri.
Più di qualcuno, prima di me, si è trovato per scelta o per necessità ad affrontare a viso aperto lo spinoso terreno della repressione cautelare e preventiva, avendo il coraggio di aprire nuove strade che restano ancora per molti versi inesplorate. Al di là dell’efficacia o meno di questo tipo di risposta, il merito è stato senz’altro quello di rivelare un nuovo campo in cui è possibile battersi, proprio lì dove sembrava più difficile (o nessuno aveva ancora pensato di andare).
Proseguire su questa strada non sarà, per forza di cose, un affare soltanto mio. Ritengo sia imprescindibile un confronto, fra compagni e non, su cosa significa continuare con ciò che si sta portando avanti nonostante le imposizioni poliziesche, e come far fronte ai rischi che comporta la loro violazione trasformandoli, per quanto possibile, in altrettante occasioni di rilancio.
Per ora, semplicemente, intendo proseguire questa discussione non temendo di incontrare i miei affetti, seduto al tavolo di qualche bettola e senza l’ansia di dove tornare a casa la sera.

Nicholas.
settembre 2016, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org


lettere dal carcere di Milano-Opera
Carissimi compagni/e. Un abbraccio fraterno per il presidio in cui vi siete bagnati/e tutti/e noi eravamo sotto la pioggia, alla finestra, inzuppati dal diluvio che è arrivato all’improvviso. Grazie di cuore da parte di tutti noi del 1° padiglione. Continuiamo le lotte per avere i nostri diritti.
Molto è cambiato in meglio per quanto riguarda la custodia, ma manca una commissione di detenuti, dato che quelli del 2° padiglione vanno solo a firmare senza controllare il vitto, per paura di perderlo il 2° padiglione.
Noi non ci faremo intimidire dai ricatti e dalle ritorsioni quando si parla di diritti come l’area sanitaria, visto che qui non c’è un dottore da 45 giorni e solo in casi urgenti chiamano il medico di guardia. Se non risolvono questo problema ci sarà una raccolta firme da parte di tutto il 1° padiglione da portare in tribunale e lo diremo al magistrato di sorveglianza. Se vietare il diritto alla salute fa parte del pacchetto per arrivare alla liberazione anticipata, che è solo uno sporco ricatto, vi aggiornerò di tutto. Se pensavano di prendermi in giro e iniziare a crearmi problemi con la cella chiusa, sono pronto io a creare qualsiasi problema, “si vis pacem para bellum”.
Per il resto aiutiamo ragazzi disabili con vestiario e tutto il resto, e a me pensano di rompermi le palle! Allora le regole fatte da loro non le rispetterò, così come ho sempre fatto quando vogliono creare ostacoli. Come sempre siamo tutti uniti e cerchiamo soprattutto dialogo e confronto per il rispetto dei diritti dell’esistente.
Un abbraccio a tutto il collettivo e alle/ai compagni/e di tutta Italia, Europa, mondo che lottano contro lo sfruttamento e i tiranni. L’anarchia sempre nel cuore. Non un passo indietro.

8 agosto 2016

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Buongiorno cari compagni/e, come va? Noi qua tutto bene, diciamo. Mauri è tornato su con noi per fortuna, ma qua c’è ancora tanto da fare. In ‘sto 2° reparto, regime di custodia attenuata, continuano a fare ricatti a dei bravi ragazzi. Quello che succede qua dentro è assurdo, speriamo cambi presto qualcosa. Diciamo che dove siamo noi, al 1° reparto qualcosina sta cambiando, ma siamo ancora lontani anni luce dalla decenza. Nel frattempo volevamo ringraziare tutti i ragazzi del collettivo che sono venuti qua fuori una settimana fa e si sono presi tutta quell’acqua per noi. A noi dispiace molto che non ci si è potuti far sentire bene, perché non potevamo tenere le finestre aperte chè c’era pioggia e un vento veramente forte e non si sentiva niente. Ma avete scaldato lo stesso i nostri cuori. Siamo sempre con voi. Salute a tutti e un abbraccio solidale da tutti noi del 1° reparto, 4° piano. Ciao vi mando un forte abbraccio, ci sentiamo presto.

8 agosto 2016

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Buongiorno cari compagni/e, sono [...], detenuto da ben 7 anni in questo istituto indegno e ne ho viste veramente di tutti i colori. Sono entrato che avevo 18 anni, ero ristretto al 2° Pad (regime custodia attenuata), reparto di premio-ricatto; dopo più di 3 anni che ero stato al 1° Pad, 4° piano, Sez. B., mi hanno proposto di andare a fare questo percorso al 2° Pad., anche se comunque io già al 1° Pad. frequentavo corsi e scuola di ragioneria per mie ricerche personali.
Dopo essere stato quasi 5 mesi al 2° Pad., 2° piano, Sez. C., sono venuti di mattina, Ispettore di reparto (che non è più Passaretto, è un altro ancora peggio e anche lui come l’altro effettua pestaggi, insieme ai suoi soliti 4 scagnozzi, sui detenuti che non vogliono collaborare o abbassare la testa o innocenti che non sanno di nulla come nel nostro caso), quella mattina del 6/07/2016 sono venuti nella mia cella dove stavo con altri 2 miei coimputati (anche loro entrati in galera a 18 anni) e un altro ragazzo appena ventenne; stavamo cucinando, ridendo, scherzando, avevamo appena finito delle sigarette di tabacco, loro sono piombati dentro dicendo: “Dov’è la droga?”, “Cosa vi state fumando, questo origano o che cosa?”
Immediatamente, senza perquisizioni addosso, cosa che viene sempre fatta in questo casi ma poi capirete perchè non l’hanno fatta, tra spintoni e minacce siamo stati portati in ufficio dall’Ispettore, dove uno alla volta ci hanno chiesto cosa stavamo facendo e noi tutti abbiamo risposto che stavamo cucinando e comunque non stavamo facendo niente di male. Avevano già pronti i fogli da farci firmare per fare le analisi delle urine e per noi non è stato un problema, visto che non facciamo uso di nessuna sostanza. Ad un certo punto mi separano e mi mettono in una stanza perché io sono stato trovato in bagno a lavare la spugna per i piatti, prendono e iniziano a picchiarmi in 7, i luridi porci e continuano a minacciarmi chiedendomi se ero ancora convinto che stavamo cucinando. Dopo che mi hanno picchiato, ho detto loro di scrivere quello che volevano, pure che facevo uso di eroina (sti coglioni), tanto io ero sicuro per me e per gli altri, noi non facciamo uso di niente. Così facciamo le analisi, dopo 5 ore vengo condotto in isolamento così passano i primi dieci giorni in cui avevo tutti i lividi e senza sapere il motivo del perché mi trovavo lì. Mi viene comunicata la notifica da un brigadiere che ero lì perché gli agenti presumono (che parola è???) che durante un giro di perlustrazione dalla mia cella veniva un forte odore di sostanza stupefacente non meglio identificata (vi rendete conto???). Il 15° giorno (termine massimo di isolamento), mi viene fatto il consiglio disciplinare con anche il medico, - che la sera del 6/7/2016 mi ha visitato e vedendo tutti i miei lividi si è girata e mi ha detto: “Ma sì, dai, stai bene”- il Commissario, collega del nuovo Ispettore e della più nota combriccola di picchiatori, e il Dott. Giacinto Siciliano (la massima autorità di questo istituto) a cui ho spiegato tutto, anche delle mani che mi erano state messe nel corpo facendo notare la ferita che avevo in bocca; ha visto e letto le nostre 4 analisi delle urine e ha visto che erano negative a tutto!!! (forse adesso col tempo possono essere cambiate grazie ai loro giochetti). Pensavo che la mia posizione fosse chiara! Invece lui sene è andato e dopo 5 ore mi è stato comunicato che ero in isolamento per dichiarazioni mai date da me. Il mio coimputato/compagno di stanza doveva uscire l’8/6/16 nel suo primo permesso, dopo tutti questi anni: bloccato per questi motivi da nulla.
N.B.: dopo il pestaggio nell’ufficio Ispettori mi è stato detto da un agente se sapevo perché mi trovavo lì; al mio no il merda mi dice che ero lì perché qualcuno mi voleva male (qualche infame) perché al 2° Pad, tranne pochissime persone, le altre sono tutte sporche…questo è il 2° Pad., dove cercano di toglierti l’unica cosa che ci rimane qua dentro, la dignità. L’agente mi ha detto in un secondo tempo che se io me la cantavo e li aiutavo in tutto si sarebbero dimenticati di noi 4 e della nostra storia, sti vigliacchi, così al mio NO è successo tutto quello di cui sopra.
Vi ringrazio di cuore, vi chiedo se possibile di pubblicare questa lettera sul web e son ben felice di unirmi a voi contro gli abusi che vengono perpetrati nella carceri italiane, in particolare qui ad Opera. Ora stiamo bene e vi mandiamo un abbraccio.
P.S.: gli altri tre ragazzi sono anche loro qua sul piano senza rapporti né niente.
Ci sentiamo presto per ulteriori aggiornamenti.

Carcere di Opera, Agosto 2016

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Ciao, di operatori in questa sezione ce ne sono quattro, ma sono qui solo per guidarci nel progetto, per tutto il resto non hanno voce in capitolo; però c’è da dire che per tutte le nostre lamentele loro ci sono e fanno da portavoce, purtroppo inutilmente.
Il ragazzo marocchino, salvato da uno di noi dalla morte, dopo il suo gesto estremo è stato portato in isolamento a cella liscia, senza tv, lenzuola e tutto il resto, praticamente 14bis. Il paradosso è che dopo il suo gesto hanno iniziato a dargli le giuste cure per il suo dolore ai testicoli ed ora sta bene. Mi domando, uno che sta male per essere curato deve arrivare a tanto? Boh. Secondo le guardie, soprattutto i loro capi, è tutta simulazione. Ma, mi domando, se non gli veniva tolto il cappio dal ragazzo che l’ha trovato impiccato, sarebbe morto: chi morirebbe per una simulazione? Non c’è dubbio che il suo male, dolore è stato trascurato da medici e guardie, come spesso accade qui. Al ragazzo che l’ha salvato non hanno detto parola, però quando c’è da fare rapporti e buttare i detenuti in isolamento lo fanno subito.
Dei ragazzi che hanno subito punizioni per la raccolta di firme su richieste di mettere fine a tante schifoserie, ti posso dire che stanno tutti bene e che sono in sezione, alcuni devono ancora pagare il periodo di isolamento. Si vedrà.
Passare l’estate qui a Milano so che non è bello, da libero è capitato anche a me, comunque grazie a questo sporco sistema retto da indegni politici mangia soldi, tante persone si trovano in una situazione di disagio senza lavoro e soldi. Ti giuro darei fuoco alla Camera e al Senato, puzzano tutti di marcio, ma in galera non ci finiscono mai, a differenza dei poveri disgraziati come me che, per far mangiare i propri figli vanno a fare reati. Saluta tutti/e i/le compagni/e sempre a pugno chiuso e a testa alta.

Settembre 2016


Lettera di Davide dal carcere di Augusta (sc)
[...] mi hanno trasferito verso Oriente, dove sorge il sol (non dell’avvenir…), nel giorno in cui la mia compagna ha macinato centinaia di km per venirmi a trovare nel lager di Agrigento, e quando arrivò, l’ultima bastardata che fecero, è stata quella di non dirle in quale carcere mi avessero portato.
Intanto la tua descrizione sulla generalizzazione della sbarrocrazia sociale, rispecchia perfettamente l’attuale condizione delle carceri. Che ci si autosuicidia un poco alla volta, che il dentro e il fuori si caratterizzano a vicenda e che unificare ciò che si è già disperso è divenuto uno spreco di energia.
Chi procede con fermezza invece, anche da solo, nelle oscure segrete di qualche cloaca, ha la volontà per trasformare il difficile col facile, pure se si sbava da una rabbia non accecante, ma lucida di un’abilità che solo i resistenti sanno e vogliono metterla in pratica. Ed è quello che ho sempre cercato di fare, senza tuttavia il confronto e il dibattito in cui possono nascere le idee migliori, per via dell’isolamento paralizzante da un lato, e da quelle astensioni comunicative provenienti dall’esterno che scoraggiano dai primi ostacoli che lo stato/galera ci pone davanti, perché subiscono l’alienante immotivazione di perdersi nella sfiducia, quando non se ne ha abbastanza.
Qui sono stato messo, dopo anni di isolamento e di cella singola, con un altro compagno di cella, nell’unica sezione chiusa per “osservazione”, e a quanto pare, se la discrezionalità dell’amministrazione, non impone di stare solo in cella, cercherò di riadattarmi a diventare un po’ socievole, (dipende dalle circostanze) cosa non facile. Vediamo se il piego di libri da Agrigento lo mandano qui [sappiamo che in seguito glielo hanno mandato, ndr].
Salutami la Panetteria e OLGa, un forte abbraccio anticolonialista! Davide.

Galera di Brucoli, 19 agosto 2016
Davide Delogu, Contrada Piano Ippolito, 1 - 96011 Augusta (Siracusa)
“pagine contro la tortura”: Report dell'assemblea a Roma
Durante questo primo anno di attività la campagna “pagine contro la tortura” ha realizzato diverse attività: la diffusione di un appello rivolto alle case editrici; l'apertura di un blog; i presidi contemporanei all'esterno di 6 carceri con sezioni a 41 bis; il presidio al DAP di Roma ed il presidio nazionale al carcere dell'Aquila.
Sono state inoltre effettuate numerose attività di sensibilizzazione sull'argomento: volantinaggi, interventi informativi sul41bis e sulla campagna nello specifico, in occasione di presentazioni di libri e di fiere del libro, produzione di un video (reperibile anche su you tube) ecc.
Nella riunione di Roma abbiamo fatto il punto della situazione. Sono emersi aspetti critici, sono stati valutati i risultati raggiunti e, inoltre, è stato impostato il prosieguo della campagna e pianificato i prossimi appuntamenti.
La campagna si e scontrata con il “muro di gomma” che circonda le sezioni 41 bis. Abbiamo constatato la quasi impossibilità di comunicare con l'interno, le difficoltà di far conoscere ai detenuti, sepolti vivi, la semplice esistenza di una mobilitazione che li riguarda. I libri e gli stampati spediti dagli editori sono stati bloccati dall'amministrazione carceraria.
Anche se è difficile stabilire il peso che la campagna ha avuto in questo, va registrato che, in ambito istituzionale si sono manifestati critiche e imbarazzi rispetto alla permanenza di questo regime carcerario. É evidente che il semplice fatto che se ne parli dia fastidio.
Abbiamo riscontrato delle difficoltà comunicative, rispetto – ad esempio – all'appello e poca chiarezza in merito all'individuazione di referenti della campagna. Per quanto riguarda la capacità di coinvolgere parti del movimento e della società, alcuni dei promotori hanno incontrato difficoltà. Vi è stato poco interesse nel partecipare ad una lotta contro una struttura che viene messa in relazione con la mafia. E' stata anche ipotizzata una carenza partecipativa dovuta, forse, alle proposte attuative della campagna stessa che possono apparire rigide, lasciando poco spazio a libere iniziative.
Altre realtà, invece, sono riuscite a coinvolgere persone nella lotta facendo intersecare questa mobilitazione con altri piani del conflitto sociale.
Anche per quanto riguarda il presidio all'Aquila i giudizi sono diversificati.
C'è chi ha ne sottolineato l'aspetto positivo poiché il presidio ha obbligato i media a parlare della situazione del carcere abruzzese.
Le critiche sono giunte invece in merito al fatto che, per quella giornata, siamo riusciti a coinvolgere meno compagni rispetto a quelli degli anni scorsi, dando una minore dimostrazione di forza.
É stato proposto di dedicare maggior tempo e cura alla preparazione dei prossimi appuntamenti e focalizzare gli interventi sulla questione specifica della restrizione dei libri. Siamo stati concordi nel continuare la mobilitazione, cercando di correggerne gli errori e superare i limiti emersi.
Per quanto riguarda il proseguimento della campagna gli appuntamenti su cui lavorare nei prossimi mesi saranno i seguenti:
– proporre ai compagni di Roma di inserire la campagna tra i contenuti del presidio che si tiene tutti gli anni a capodanno fuori le mura del carcere di Rebibbia;
– organizzare un presidio davanti al carcere di Novara;
– contattare i compagni sardi e proporre loro di organizzare un presidio davanti un carcere dell'isola;
– verso primavera indire un presidio al Tribunale di Sorveglianza di Roma, con la partecipazione delle case editrici che hanno aderito alla campagna.
Rimane da fissare una nuova data per una prossima assemblea, da tenere entro la fine dell'anno.

Roma, settembre 2016


lettera dal carcere di s. michele (al)
Ciao, sono Porcedda Roberto vi scrivo per farvi sapere un po’ di cose (sono quello della lettera “Grido d’aiuto”) vi racconto: io sono in galera perché 12 anni fa ho inventato una formula per sopravvivere che forse avrete visto in giro per Torino, ho tappezzato la città con i miei cartelli con la scritta “uomo in affitto” dove mi proponevo per fare manutenzione di ogni genere dentro le case dei torinesi: idraulico, elettricista, tapparellista, fabbro, ecc. e con questo “sistema” mi sono barcamenato negli ultimi anni (erano 20 anni che non cascavo in galera).
Questa mia pubblicità ambigua ha fatto si che La Stampa e Torino Cronaca mi dedicassero più di un articolo con foto e mie esperienze sul campo. La Littizzetto mi aveva intervistato in diretta su radio DJ e su QuartaRete Tv ho fatto un programma in 5 puntate su come istallare il Digitale terrestre sempre comunque rimarcando il mio “uomo in affitto”.
A gennaio 2015 ho bruciato un furgone di uno che mi ha copiato la pubblicità perché dopo che gli ho telefonato per dirgli che era scorretto e lui mi ha minacciato che mi rompeva il culo a me e a mia madre, comunque basta che andate su internet e digitate “uomo in affitto” e lo vedete. Intanto mi hanno dato estorsione, 5 anni, ’sti giudici di merda per uno che non ho mai visto e gli ho fatto solo 3 telefonate, comunque mi sono venuti a prendere 3 mesi dopo senza avviso di garanzia che stavano indagando su di me.
Non vi ho potuto scrivere prima perché mi hanno trasferito ad Alessandria S. Michele e la posta delle Vallette mi è arrivata Lunedì. Io sto combattendo anche qui dove siamo abbandonati a noi stessi e non funziona nulla: matricola, educatrici e persino per telefonare al proprio legale se non metti i motivi validi ti rifiutano la chiamata, mi è successo a me la scorsa settimana.
La bomboletta di gas alle Vallette 1,50 €, qui 1,80 ‘sti ladri.
Ho letto il libro “i Dannati della Terra” e ho visto che in 50 anni non è cambiato nulla. L’unica cosa in cui l’Italia si è adeguata agli altri Paesi europei è prenderti il DNA, così adesso hanno qualcosa o prova da mettere nei reati insoluti e clamorosi (troppo facile avere materiale gratuito) basta vedere Bossetti, ergastolo per una scappatella della madre e come in una fiction televisiva l’intreccio è servito comprendendo il paese del delitto e limitrofi che hanno fornito le comparse dando il loro codice genetico, con un disgusto di noi innocentisti che non riescono a vedere la fine dell’imbuto del tritacarne umano. Per il momento ringraziandovi per tutto vi posso dire che non mollo, sono sardo quindi testa dura, non ho nulla da perdere tranne la mia integrità morale che senza paura mi spinge a far conoscere a tutti questo schifo.
Un saluto ai detenuti\e del pianeta.

Settembre 2016
Porcedda Roberto, 3^ Sezione, Via Casale 50\a - 15122 S. Michele (Alessandria)



Lettera dal carcere di Massama (or)
Ciao a tutti, sono Salvatore che scrive dal carcere di Oristano. Prima di tutto volevo ringraziarvi per l’opuscolo, che mi arriva sempre puntuale.
Oggi sto scrivendo con un po’ di noia, visto che mi trovo da più di ventitré anni in carcere: (l’ergastolano ostativo), non ho un fine pena, anzi adesso c’è 31/12/9999, non riesco a capire perché hanno messo questa data, sono convinto che giova a quei grandi… per mettersi apposto con la coscienza, visto che prima non avevamo una data, adesso c’è e si vede molto bene, nessuno può dire che non esiste.
Oggi l’ergastolo ostativo non è una cosa di niente, bisogna riflettere attentamente su questo argomento, se siamo in uno stato democratico non mi sembra corretto e neanche giusto che una persona deve passare gli ultimi giorni della sua vita in carcere, specie quando un detenuto riesce del tutto a superare quegli automatismi che l’hanno portato alla distruzione e mantenere una linea corretta sulla base del cambiamento: essere rieducato e inseriti nella società.
Certe volte è capitato per caso che mi sono confrontato con persone dell’esterno, e non riescono a crederci che con l’ergastolo ostativo non si esce dal carcere, mi sembra assurdo che ancora tutt’oggi ci sono persone che fanno fatica a comprendere cosa sia veramente l’ergastolo ostativo. Pure il nostro Santo Padre ha dichiarato apertamente: l’ergastolo ostativo è una pena di morte mascherata.
Ho letto un articolo che si parlava della pena di morte dove si diceva: la pena di morte è un atto disumano. Ma allora io mi chiedo cosa sia l’ergastolo ostativo che ti fanno morire in carcere piano piano? Se noi facciamo un paragone tra la pena di morte e l’ergastolo ostativo, è più umano la pena di morte, perché con l’ergastolo ostativo devi soffrire tutta la vita, in un luogo senza via d’uscita, mentre con la pena di morte morirai subito, e se la su c’è un modo migliore? A questo punto non sarebbe meglio morire subito?
Tutti i giorni cerco di combattere l’ergastolo ostativo, io non lo vedo come è scritto nella carta: fine pena 31/12/9999, mi do un’altra raffigurazione: è l’oscurità tenebrosa che si unifica alla morte.
Lui si presenta tutte le sere, fa avanti e indietro per la sezione, aspetta che qualcuno muoia per portarselo con sé, lui è un tipo molto astuto, ma io non cadrò mai nella sua trappola: vivrò sempre come se non dovessi morire mai. Salvuccio Pulvirenti.

Oristano, Settembre 2016.
Salvatore Pulvirenti, loc. Su Pedriaxiu - 09170 Massama (Oristano)


Lettera dal carcere di Secondigliano (na)
Amici carissimi, ho ricevuto l’opuscolo 115 qui a Secondigliano. Voi avete ancora il mio indirizzo di Voghera, dove sono stato prima, per 9 anni.
Sono stato trasferito in questo istituto circa due mesi fa, per cui non spedite più l’opuscolo a Voghera, onde evitare un inutile quanto tardivo tragitto prima che giunga al sotto scritto.
Ventidue anni fa entrai in questo istituto, nel 1995, ci rimasi due anni, poi iniziò un giro per i vari carceri d’Italia, circa una decina, dopo otto anni di 41bis, trasferito a Voghera e lì come dicevo sono rimasto otto anni e adesso qui, al Centro Penitenziario di Secondigliano Napoli.
Come se il contenuto della clessidra, relativo alla mia pena si fosse esaurito e la clessidra fosse stata capovolta. Si ricomincia daccapo… è l’eterno ritorno dell’identico? Di cui parlava Nietsche?
In tutti i carceri in cui ho girato, ho notato spesso quello che chiamano “Rimozione Freudiana”. L’ergastolo, questa pena di morte nascosta, come ha detto qualcuno, l’ostatività di art. non ci permetteranno mai di uscire, e comunque sia le diseguaglianze sociali, la privazione di libertà sono argomenti “sensibili” che dovrebbero interessare l’individuo specie se coinvolto di prima persona. Invece ho notato una sorta di strategia inconscia o conscia per vivere più “normalmente possibile”; il meccanismo della RIMOZIONE che non è stato scritto ovviamente solo da Freud, consiste nell’utilizzo della ben nota capacità umana di ignorare, dimenticare e cancellare dalla mente quello che propriamente è “intollerabile” per l’individuo o il gruppo coinvolto dal fenomeno.
E’ inutile d’altronde notare come non è certo il fatto di rimuovere dalla propria mente un problema che fa sì che questo se ne vada… il problema resta lì, si cronicizza, e può peggiorare, più raramente può estinguersi da solo.
Conclusione. Non possiamo rimanere a guardare, occorre partecipazione attiva, che ognuno faccia nel suo piccolo la sua parte. Chi insiste e persiste raggiunge e conquista. Come si può pretendere di raggiungere obiettivi se siamo disuniti?
L’opuscolo a mio avviso è una forma di confronto perché da tante prigioni, lontane tra di loro fisicamente, ci si ritrova a leggere esperienze, situazioni, storie, ecc. ecc., e questo significa partecipare alla conoscenza e le riflessioni poi che confluiscono sull’opuscolo sono CONFRONTO, sono presa di coscienza. Forza e coraggio.
Una stretta di mano come di persona. Pierdonato.

16 settembre 2016
Zito Pierdonato, via Roma-Verso Scampia, 350 - 80144 Secondigliano (Napoli)


"AVANTI... SIAMO QUI"
Alle luci dell'alba di martedì 6 settembre, la DIGOS, su mandato della Procura di Torino, pistole spianate, irrompe in casa di decine di persone in tutta Italia. Alla fine della giornata saranno due le notifiche di custodia cautelare in carcere e sei gli arresti, di cui cinque inerenti l'operazione e uno conseguente all'esito delle perquisizioni.
All'interno di un copione già visto si consuma l'ennesima operazione repressiva su scala nazionale, chiamata a sventare la cospirazione anarchica e la sua "organizzazione associativa", grazie al famigerato e mai troppo attempato 270bis.
In provincia di Bologna, si consuma una vicenda emblematica del "modus operandi" delle forze dell'ordine. Nel corso della perquisizione dell'abitazione di un compagno e dei terreni a essa limitrofi, due agenti di polizia vengono sorpresi dal compagno stesso, grazie al suo atteggiamento vigile e diffidente, a trafficare con una pistola, non di ordinanza e posta all'interno di una busta trasparente. Accortisi di essere stati notati i due raccolgono da terra la pistola in questione e la ripongono in tasca. A voi l'interpretazione di questo inquietante episodio.
Ai/lle colpiti/e da questa ennesima operazione repressiva va la nostra solidarietà e vicinanza. In un mondo che ci vorrebbe inermi a lamentarci stiamo dalla parte di chi ha ancora dei nemici, li sceglie tra i responsabili della propria miseria e si organizza per fargliela pagare.

Questi gli indirizzi dei compagni arrestati:

Bisesti Marco, Mercogliano Alessandro, via Raffaele Majetti, 70 - 00156 Roma
Beniamino Anna, via aurelia nord km 79,500 - 00053 Civitavecchia
Cortelli Daniele, via della Lungara, 29 - 00165 Roma
Cremonese Danilo Emiliano, via San Donato, 2 - 65129 Pescara
Speziale Valentina, via Ettore Ianni, 30 - 66100 Chieti
Alfredo Cospito e Nicola Gai si trovano sempre a Ferrara in AS2

***
“Tra queste quattro mura sempre più strette, coltivo il mio odio nei confronti del sistema”. Se sei anarchico mettiti nell’ordine di idee, se non lo hai già fatto, che prima o poi il carcere potrebbe toccarti, e che sono diverse le strade che possono condurtici.
Se sei anarchico, per cominciare, devi stare attento a ciò che hai in casa: cose banali, di tutti i giorni o quasi, nelle perizie delle guardie diventano componenti di ordigni o esplosivi, una storia tra l’altro già vista di recente anche a Bologna, con un compagno finito in AS2 a Ferrara. Anche libri, opuscoli e scritti, il così detto “materiale cartaceo”, diventano prove di affiliazione ad organizzazioni terroristiche.
E poi ci sono i classici reati associativi, il 270 bis di solito, che permettono alle guardie di sbatterti dentro senza neanche prendersi la briga di fornire elementi “concreti”. Insomma le strade sono tante, ma il motivo è uno: essere irriducibilmente schierati contro il potere.
Se dico questo non è certo per lagnarmi dell’iniquità della giustizia democratica, ma per sottolineare quanto sia facile per un anarchico finire in carcere, a prescindere da quanto uno sia cauto. La consapevolezza di questo rischio non deve spaventare, ma solo farci trovare pronti.
Così “Scripta Manent” non giunge certo inaspettata, ma è un attacco repressivo sul quale l’unico dubbio era “quando”, non certo il “se”. Un attacco del regime democratico contro chi, al suo interno, ancora rifiuta di sottomettersi ai valori ed alla morale del dominio, ponendosi non in un’ottica conciliante di dialogo e compromesso ma di scontro aperto col potere.
“Lo stato non è pensabile senza sovranità e schiavitù. Per lo Stato è necessario che nessuno abbia un’idea propria, se qualcuno l’avesse lo Stato dovrebbe escluderlo, se l’avessero tutti si perverrebbe alla sua abolizione”.
Del resto che tu ci finisca o meno il carcere è comunque parte del percorso di un’anarchico. Perché è uno spettro che aleggia sulla tua testa, perché si è preso amici o persone care, o anche solo perché è il fondamento di questa società che odiamo (“repressione è civiltà”).
Ma la minaccia costante del carcere non basta a soffocare la rabbia che proviamo di fronte alle centinaia di migliaia di animali uccisi e torturati ogni giorno, di fronte ad interi ecosistemi spazzati via dalla voracità della società tecnologica, di fronte ai milioni di individui costretti all’alienazione sui posti di lavoro o infami carceri o in lager per migranti, alle persone uccise da fame e guerre. E come si può chinare la testa rassegnati davanti alla continua ingerenza dello Stato nelle nostre vite?
Questa società nella quale, come in un centro commerciale, a tutto viene dato un prezzo, nella quale tutto può essere venduto e comprato, purché si abbiano i soldi per farlo, questa società fondata sul profitto ad ogni costo avrà sempre uno stremo nemico in chi non è disposto a barattare la propria vita e la propria dignità a nessun prezzo.
I soldi sono l’unico motore di questo sistema di morte e miseria. Lo Stato lo legittima, la polizia lo difende, i giornali danno voce alle sue menzogne. Gli anarchici lo rifiutano e lo attaccano.
Solidarietà agli arrestati, agli indagati e ai perquisiti per l’operazione “Scripta Manent”.
Solidarietà a chi nel mondo paga il prezzo di essersi opposto a questo sistema di dominio. A fianco di chi sotto un cielo plumbeo sceglie di procurare tempesta.
Per un mondo costruito sulle macerie di questo.
“Denunce su denunce, condanne su condanne, ma quello che conta è l’ora della resa”.

Daniele
Eccheccazzo

21 settembre 2016, da radioazione.org


Continua la caccia alle streghe della Procura de l’Aquila
La mattina del 13 settembre i carabinieri di l’Aquila hanno perquisito la casa e l’auto di una compagna del Movimento Femminista Proletario Rivoluzionario (mfpr), indagata per il reato di cui all’art. 595 c.p., diffamazione aggravata. Hanno sequestrato 1 PC fisso, un portatile, uno smartphone e diversi pen-drive, dove si presume possano ritrovare la “lettera diffamatoria”.
Sul mandato non si dice nulla di chi sarebbe la “vittima” del reato, né si specifica in che cosa consisterebbe la “diffamazione aggravata”, tantomeno gli agenti che hanno effettuato la perquisizione hanno voluto dire nulla in proposito, ma sembra chiaro si tratti dello stesso procedimento repressivo intentato nei confronti di una compagna di Roma, anche lei perquisita lo scorso maggio.
L’avvocato aquilano di un efferato stupratore l’aveva denunciata per aver diffuso una lettera in cui si diceva che era meglio che il difensore di uno stupratore alla Casa Internazionale delle Donne non entrasse. Grazie anche a quella lettera, un’ampia solidarietà della rete femminista fece sentire forte la sua protesta e riuscì a difendere uno spazio di tutte le donne, nato contro la violenza di genere, dall’ingresso di chi quella violenza aveva agito in perfetto stile di “processo per stupro”.
Una criminalizzazione inaccettabile!
La procura di L’Aquila si fa strumento dell’arroganza e vendetta di chi ha difeso uno stupratore nel modo più oltraggioso per tutte le donne e ora vuol farla pagare a chi lo ha mostrato per quello che è. Così si è aperta la caccia, ieri a Roma, oggi a l’Aquila, a chi ha scritto e diffuso quella lettera.
Ma chi ci persegue si illude se crede che le loro accuse possano farci mai tacere.
Le donne che quella lettera hanno condiviso e diffuso sono tante, molte più di quante possano mai perseguirne. Centinaia hanno già risposto all’invito lanciato dal sito ciriguardatutte.noblogs.org/ a sottoscrivere la lettera incriminata e altre ancora lo faranno perché non staremo mai zitte e non ci stancheremo mai di lottare contro gli uomini che odiano le donne, contro le istituzioni che vorrebbero tapparci la bocca, contro lo stato che reprime le donne che si ribellano!
Perché “CI RIGUARDA TUTTE l’efferatezza e la viltà degli uomini che in una notte di febbraio hanno massacrato il corpo e la vita di una donna lasciata sulla neve a morire.”

13 settembre 2016, MFPR


Migliaia in corteo a Piacenza, per Abd Elsalam
Il corteo parte poco dopo le 15 dal piazzale della stazione di Piacenza, anche se già da prima un grosso corteo composto da sindacalismo di base e centri sociali si era mosso dai quartieri popolari bloccando la circonvallazione della città.
Nel percorso verso piazza Cavalli, nel centro cittadino, divengono progressivamente molte migliaia le persone che compongono la manifestazione. Indubbiamente una delle piazze più partecipate degli ultimi anni, che ricorda la crucialità delle lotte nella logistica nel panorama dei conflitti all'interno del nostro paese. Il tutto nonostante il terrorismo messo in atto da Comune, Questura e media locali, che han fatto chiudere molti negozi e addirittura i musei, e svuotare i parcheggi.
All'interno di una città blindata sfilano tantissimi lavoratori organizzati nel sindacalismo di base e solidali di Piacenza e con svariate delegazioni da altre città, tra slogan di rabbia e le continue grida “Siamo tutti Abd Elsalam” e “Gls assassini”.
Ad aprire il corteo l'Usb, mentre seguono svariati spezzoni. Tra i più nutriti e combattivi quello del Si Cobas - asse portante delle lotte nella logistica degli ultimi anni nel territorio piacentino e nella pianura padana, che oltre al tributare onore ad Abd Elsalam scandisce continuamente cori e ribadisce negli interventi al megafono l'importanza di un rilancio a tutto campo della battaglia per la dignità, i diritti e l'organizzazione di una forza di parte.
Nonostante la pioggia il corteo si prende tutto il centro cittadino, sfilando anche sotto la casa dell'operaio ucciso. Un grande applauso di saluto parte dai partecipanti alla piazza. La manifestazione prosegue fino a tornare al punto di partenza, dove vari interventi che indicano nel governo Renzi e nelle sue politiche come il Jobs Act alcuni degli attuali nemici da abbattere, si sottolineano le responsabilità del padronato per quel che è successo all'operaio della Gls – purtroppo solo l'apice di un atteggiamento di costante minaccia e repressione delle istanze operaie all'interno degli ambienti di lavoro.
L'assassinio di Abd Elsalam si colloca in una fase importante per le lotte nel settore e non solo. Si va infatti verso un autunno in cui il conflitto contro il governo Renzi vedrà anche nel protagonismo operaio uno dei vettori cruciali per costruire l'opposizione sociale. I numeri di oggi dicono che le potenzialità e la rabbia sono intatte e accresciute, invece che paura l'omicidio di Piacenza infonde ulteriore determinazione. Tuttavia certamente la prova di unità in piazza oggi non basta. La risposta a quanto avvenuto a Piacenza dovrà ancora far sentire la propria eco a lungo. Le iniziative di questi giorni, a parte singoli momenti di scontro come quello di due giorni fa a Bologna, non sono infatti certamente sufficienti rispetto alla gravità di quanto accaduto. Dal punto di vista dei lavoratori della logistica i rapporti di forza vanno rovesciati a favore degli interessi di classe così come da sempre il movimento operaio della logistica ha determinato. Da qui bisognerà ricominciare. Contro i crumiri, i padroni e il capitale.

17 Settembre 2016, da infoaut.org