indice n.107

turchia: Barricate della libertà
E' troppo tardi per l'ipocrisia; A proposito dei fatti di Parigi
Gli HotSpots made in UE, zone franche del diritto?
A Parigi lo stato d'emergenza non fa paura
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma: Perquisizioni a chi partecipa alla lotta contro i CIE
venezia: Corteo contro i fogli di via
lettera dal carcere di venezia
La linea repressiva dell’Unione Europea
sulla manifestazione in sardegna contro trident juncture
In Germania compas turchi e kurdi condannati a anni di galera
arresti per il corteo del primo maggio a milano
Resoconto del processo per i fatti del 15 ottobre 2011 a roma
sOLIDARIETÀ NEL PROCESSO CONTRO IL MOVIMENTO FIORENTINO
no tav: Appello per una solidarietà ovunque
Lettera dal carcere di Viterbo
41 bis = tortura: presidio al tribunale di milano
lettere dal carcere di Opera (Milano)
lettera dal carcere di agrigento
pesaro: Resoconto presidio in memoria di Eneas
Lettera dal carcere di Sulmona
Lettera dal carcere di Livorno


turchia: Barricate della libertà
Per nove giorni in settembre la polizia turca ha infierito nella città di Cizre, dove la popolazione continua a lottare.
Questa città turca, collocata nel triangolo disegnato dai confini della Turchia con Siria e Irak, oggi è considerata, detto in breve, roccaforte del movimento di liberazione kurdo. Barricate di sacchi di sabbia alte metri ostacolano l’accesso in parecchi quartieri; anche i bambini prendono parte ai lavori. Sulle barricate sventolano le bandiere del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e delle Unità Popolari di Difesa (YPG).
Negli ultimi mesi si è combattuto contro le milizie dello stato islamico (IS) anche nel vicino territorio autonomo di Rojava situato nel nord della Siria. Da un anno il Movimento Rivoluzionario-Patriottico Giovani si adopera per la sicurezza, per respingere la criminalità, in particolare il commercio della droga. Allo stato qui nessuno dà più fiducia. Nei mesi scorsi dalla polizia sono state uccise numerose persone.
Fra il 4 e il 13 settembre diversi quartieri sono stati setacciati, le abitazioni messe a fuoco, mitragliate. Le persone lì abitanti hanno affrontato i carri armati della polizia, dietro i quali avanzavano i militari dell’IS. 21 civili, fra i quali numerosi bambini, in quei nove giorni sono stati uccisi; il governo ha detto di aver “neutralizzato una dozzina di terroristi”.
“Scopo degli attacchi era l’espulsione della popolazione”, ha detto Mehmet Tunc presidente del consiglio popolare di Cizre, impedita proprio dalla resistenza della gente.
Negli ultimi anni a Cizre, che conta 120mila abitanti, sono state costruite strutture di autogestione, come i consigli di quartiere, ispirate dalle idee di Abdullah Ocalan (presidente del PKK, in carcere da decenni). In tutti gli organi dell’autogestione le donne devono essere presenti almeno con una quota pari al 40%. Per una città conservatrice quale è Cizre, dove la gran parte delle donne indossava in strada la completa velatura, era vietato loro di prendere parola nelle riunioni dei consigli, i cambiamenti subentrati sono un fatto tanto più radicale.
Il Consiglio popolare ha proclamato l’“autonomia” della città dopo che il governo di Erdogan in agosto aveva messo fine al processo di pace con la popolazione kurda.
“Con le nostre scelte abbiamo voluto chiarire di non riconoscerci più nello stato turco, colpevole di aver calpestato gli accordi raggiunti negli anni precedenti”, dice Tunc.
19 sindaci di altrettanti comuni autonomi, nel frattempo erano stati arrestati in base all’accusa di “separatismo”, altri sette sono stati destituiti, fra i quali Leyla Imret, vicesindaca di Cizre. La donna, vissuta per 22 anni in Germania, è stata arrestata per aver fatto appello alla guerra civile. Lei continua a ricevere il sostegno della popolazione che si riconosce nel modello dell’auto-amministrazione.
Nelle ultime elezioni, svoltesi il primo novembre, il Partito Popolare Democratico (HDP, al quale fa riferimento la gran parte della popolazione kurda) ha conseguito un record con la raccolta del voto del 92% della popolazione. Le persone elette tuttavia non si illudono, non credono nelle elezioni, ancor meno nel parlamentarismo, ripetono che “al centro della nostra agenda non ci sono le elezioni ma la costruzione dell’autogestione”.

Il ministero degli esteri della Turchia blocca ogni aiuto umanitario alla città di Kobane
Dal tentativo del governo Erdogan di piegare la popolazione kurda, di cancellare la sua resistenza è nata l’idea della “Giornata di mobilitazione internazionale per la libertà e la ricostruzione di Kobane”, alla quale hanno preso parte anche oltre 25 città tedesche. Idea che l’1 novembre 2015 è divenuta realtà. Il cantone di Kobane è così divenuto simbolo della resistenza contro le crudeltà compiute dalle milizie dell’IS.
Per dare sostegno politico alle e ai combattenti kurdi/e sono scese in strada persone a Berlino, Parigi, Londra, Roma, Stoccolma, Washington, Toronto, Città del Messico, Mosca, Erbil, Istanbul, Johannesburg e Il Cairo. Riguardo all’anniversario vale ricordare l’autogestione a Rojava al pari del modello dei tre cantoni autonomi nella Siria del nord, cioè, Afrin, Kobane e Cizire hanno urgente bisogno di sostegno: questo anche nell’interesse dell’Unione Europea che può rimuovere le cause della fuga di massa dalla Siria. La popolazione kurda in Siria e Irak fa appello agli stati europei affinché sostengano i progetti riguardo a Rojava in modo che le persone riescano a guadagnarsi il necessario per il proprio sostentamento lì dove vivono.
Segue una conversazione con Songül Karabulut membro della presidenza del Comitato Esecutivo del Congresso Nazionale del Kurdistan.

Qual è la situazione a Kobane?
La città è liberata ma distrutta per l’80%. Lì la gente rimuove le mine abbandonate dalle milizie IS e seppellisce i cadaveri nascosti dalle macerie. Le Organizzazioni Internazionali Non Governative di Italia, Spagna, Svezia aiutano, così come la Germania è impegnata nel Medicamento Internazionale. La ricostruzione di Kobane è faticosa poiché la Turchia vieta che prenda corpo un corridoio in cui possano passare beni necessari. Le persone europee che vogliono portare aiuto vengono fermate sul confine. Manca ancora la decisione formale degli stati europei di prestare aiuto a Kobane. Il ministero degli Esteri tedesco fino ad ora ha bloccato, fatta eccezione per piccole offerte, ogni sostegno umanitario diretto a Rojava.

Inoltre la Turchia attacca militarmente…
Questa la situazione. Anche se deputati dell’UE avevano ripetutamente chiesto alla Turchia di aiutare Kobane, essa, al contrario, attacca persino le unità di difesa popolari. Nei territori kurdi piuttosto, ci sono zone utilizzate dall’IS come corridoi. Il governo di Erdogan minaccia bombardamenti nel caso in cui le unità YPG vogliano conquistare territori combattendo in modo che Kobane possa essere direttamente raggiunta da Cizire – situazione necessaria per mettere fine al pericolo degli attacchi stabili dell’IS.
Nella notte del 25 ottobre l’esercito turco ha colpito le posizioni dell’YPG e i territori abitati. Nell’attacco sul villaggio di Bubane sono state ferite due persone (civili). Noi attendiamo che l’UE e la comunità internazionale degli stati mettano sotto pressione la Turchia e non si fermino soltanto a guardare – in modo da realizzare il corridoio umanitario e così rendere possibile la ricostruzione.

I kurdi si sentono traditi dagli stati occidentali?
Sì. La Turchia ha aperto le sue basi agli USA, che hanno dato il via libera agli attacchi al PKK – in tal modo gli USA hanno indirettamente sostenuto l’IS. In una regione in cui le etnie vengono permanentemente messe le une contro le altre, il progetto multietnico autogestito di Kobane è un progetto democratico che deve essere sostenuto, se si vuole la pace in Siria.
Gli Usa e la Germania tradiscono i loro principii. Nell’ultima visita ad Ankara della cancelliera Angela Merkel, il suo partito (CDU) ha lanciato un segnale falso. Nella situazione esistente la Germania deve esercitare pressione sulla Turchia affinché metta fine agli attacchi su Rojava – e non le conceda mezzi finanziari. L’ONU deve intervenire perché i kurdi sono gli unici partner affidabili nella lotta contro l’IS. Essi non lo fanno soltanto per proprio interesse. Se i kurdi devono salvaguardare il loro ruolo di forza della democrazia e della pace, il loro modello di cantone autogestito deve essere riconosciuto sul piano internazionale. Soltanto così è possibile democratizzare la Siria.

da jungewelt.de, 27 ottobre e 2 novembre 2015

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Togliere l'assedio a Silvan
Appello urgente per la solidarietà internazionale
Il governo turco ha abbandonato il processo di pace in corso negli ultimi due anni nei quali non vi era stato quasi nessun morto negli scontri con le forze di sicurezza. Dopo la campagna per le elezioni generali di giugno, deturpata da 170 violenti attacchi alle sedi dell’HDP e da bombardamenti alle sedi di Mersin e Adana dell’HDP, quattro persone sono state assassinate e molte sono rimaste ferite da una bomba nel comizio elettorale conclusivo dell’HDP a Diyarbakir. Dopo le elezioni che hanno negato al partito AKP una maggioranza in Parlamento, la violenza è aumentata in modo massiccio. Trentatre giovani di una missione umanitaria a Kobane sono stati uccisi da una bomba a Suruç. Mentre aumentava il numero dei morti, alcune autorità locali nelle zone kurde hanno proclamato l' "autonomia" per proteggere i loro abitanti. La risposta del governo turco è consistita in una serie di attacchi a quelle zone da parte delle forze di sicurezza. E' stato dichiarato un coprifuoco di 24 ore, e reparti di soldati e squadre delle forze speciali di polizia hanno attaccato i dintorni, collocando cecchini sui tetti e sparando su chiunque scenda nelle strade. Molti civili, fra cui donne, bambini e vecchi, sono morti.
L'ultimo di questi attacchi sta avvenendo a Silvan.
A partire dal 2 novembre, i quartieri di Tekel, Mescit e Konak nella città di Silvan (provincia di Diyarbakir, nella Turchia sud-orientale) sono sottoposti all'occupazione dell'esercito turco e delle forze speciali di polizia turca. Vi è un coprifuoco di 24 ore. I civili non possono uscire dalle loro abitazioni per le loro fondamentali necessità, neppure per portare i feriti a ricevere le cure mediche o per seppellire i morti. Le persone si nascondono negli scantinati mentre carri armati pattugliano le strade sparando contro gli edifici con le mitragliatrici. Sulle alture circostanti sono stati collocati dei blindati che bombardano questi quartieri di civile abitazione. Sono stati usati anche degli elicotteri per colpire la zona. Il numero dei morti e dei feriti non è conoscibile con esattezza, ma si ritiene che fra loro vi siano donne, bambini e anziani.
Ziya Pir, parlamentare del Partito Democratico dei Popoli (HDP) eletto in quell'area, riferisce di aver tentato di conferire con un funzionario del Ministero delI'Interno, il quale gli ha detto: «Spazzeremo via questi tre quartieri dalla carta topografica».
Ziya Pir riferisce quanto segue: «Sparano ovunque in modo indiscriminato. Soldati, polizia e persone assolutamente non identificate, che posso definire soltanto "cacciatori di teste", rastrellano da cima a fondo gli edifici col fuoco delle mitragliatrici. Sono stati posizionati dei blindati che dominano questi quartieri. Non possiamo entrarvi dentro».
Le informazioni che possediamo dall'interno dicono che le persone si nascondono a gruppi di 10-15 nelle cantine degli edifici, perché vi sono dei tiratori scelti appostati sui tetti delle case. Se essi vedono anche soltanto un'ombra all'interno di una casa, o qualsiasi segno di vita, aprono il fuoco. In precedenti operazioni vi sarebbe stata talvolta un'interruzione di un'ora o due. Adesso la sparatoria dura tutto il giorno senza interruzioni».
Il 15-16 novembre la Conferenza del G20 sarà ospitata dal governo turco ad Antalya. Nel frattempo quel governo è impegnato in un massacro indiscriminato dei suoi concittadini. Questi attacchi hanno avuto luogo nel corso della recente campagna elettorale e continuano dopo di essa. Gli obbiettivi sono le zone nelle quali l’HDP ha riportato un elevato numero di voti.
La riunione del G20 è di notevole prestigio per il governo turco, e purtroppo i governi europei stanno adesso attenuando le loro critiche sulle violazioni dei diritti umani in Turchia, nella speranza che il governo turco restringa il flusso dei rifugiati in Europa. Il vostro intervento può fare la differenza. Esprimete, per favore, la vostra preoccupazione per quanto sta ora avvenendo in Turchia.
Per salvare vite, abbiamo bisogno che le forze di sicurezza cessino le loro operazioni contro la popolazione civile e consentano a parlamentari e osservatori internazionali indipendenti di avere accesso a quelle zone.
Inviate le vostre comunicazioni a: Ministro degli Esteri Feridun Hadi Sinirlioglu, Dr. Sadik Ahmet Cad. No: 8 Balgat - Ankara, Turchia - Tel. (90-312) 10 00
Sito web: www.mfa.gov.tr - www.mfa.gov.tr/contact-us.en.mfa
Per favore, inviate copia delle vostre comunicazioni a:
E Mail: barisbloku@gmail.com - Twitter: barisbloku - Facebook: / barisbloku

L’appello è firmato da:
78’LİLER GİRİŞİMİ (78’s Inıciative), AKADEMİ SUSMAYACAK (The Academy won’t be silenced), AKADER, ALEVİ ÜLTÜR DERNEKLERİ (Alevi Cultural Organizations), ALEVİ BEKTAŞİ FEDERASYONU (Alevi-Bektashi Federation), ASRIN HUKUK BÜROSU (Asrın Law Firm), BARIŞ GİRİŞİMİ (Peace Initiative), BARIŞ İÇİN AKADEMİSYENLER (Academy for Peace), BARIŞ İÇİN KADIN GİRİŞİMİ (Women Initiative for Peace), BAŞLANGIÇ DERGİSİ (Başlangıç Magazine), CHP VEKİLLERİ (Diputies of Peoples’ Republican Party-CHP), DBP (Demokratik Bölgeler Partisi) (Democratic Regions Party), DEMOKRASİ İÇİN HUKUKÇULAR (Lawyers for Democracy), DEMOKRATİK İSLAM KONGRESİ (Demoratic İslam Congress), DEVRİMCİ HAREKET (Revolutionary Movement), DHF (Demokratik Haklar Federasyonu) (Democratic Rights Confederation), DİK (devrimci İşçi Komiteleri) (Revolutionary Workers’ Comitees), DİP (Devrimci İşçi Partisi) (Revolutionary Worker Party), DİSK (Devrimci İşçi Sendikaları Konfederasyonu) (Revolutionary Workers’ Unions’ Confederation), DSİP (Devrimci Sosyalist İşçi Partisi) (Revolutionary Socialist Worker Party), DTK (Demokratik Toplum Kongresi) (Democratic Community Congress), EHP(Emekçi Hareket Partisi) (Labour Movement Party), EMEK VE TOPLUM ARAŞTIRMALARI MERKEZİ (Center of Labour and Society Investigations), EMEP (Emek Partisi) (Labour Party), ESP (Ezilenlerin Sosyalist Partisi) (Socialist Party of Oppresseds), GESOS (Genç Sosyal Demokratlar) (Young Social Democrats), GİYİM SEN (Textile Union), HALKEVLERİ (Community Centers), HDK (Halkların Demokratik Kongresi) (Democratic Congress of Peoples), HDP (Halkların Demokratik Partisi) (Peoples Democratic Party), HELSİNKİ YURTTAŞLAR DERNEĞİ (Helsinki Citizens Association), İHD (İnsan Hakları Derneği) (Human Rights Association), İŞÇİ DEMOKRASİSİ PARTİSİ (Party of Worker’s Democracy), KALDIRAÇ (Magazine), KESK (kamu emekçileri sendikaları konfederasyonu) (Public Workers Unions Confederation), KJA (Özgür Kadınlar kongresi) (Free Women Congress), KÜRESEL BAK (Global Peace and Justice Coalition), ÖDP (Özgürlük ve Dayanışma Partisi) (Freedom and Solidarity Party), ÖZERK SANAT KONSEYİ (Autonomous Art Council), PARTİZAN (Magazine), PİR SULTAN ABDAL KÜLTÜR DERNEĞİ (Pir Sultan Abdal Cultural Association), SDP (Sosyalist Demokrasi Partisi) (Socialist Democracy Party), SFK (Sosyalist Feminist Kolektif) (Socialist Femminist Collective), SODAP (Sosyalist Dayanışma Platformu) (Socialist Solidarity Platform), SODEV (Sosyal Demokrasi Vakfı) (Socialist Democracy Foundation), SOSYAL ARAŞTIRMALAR VAKFI (Foundation for Social Investigations), SYKP (Sosyalist Yeniden Kuruluş Partisi) (Socialist Refoundation Party), TMMOB (Türk Mühendis ve Mimar ve Odaları Birliği) (Turkish Arquitects and Engineers Association), TODAP (Toplumsal Dayanışma için Psikologlar Derneği) (Psychologists Association for Social Solidarity), TÖP-G (Toplumsal Özgürlük Parti Girişimi) (Social Liberty Party Iniciative), TTB (Türk Tabipleri Birliği) (Turkish Medical Association), TÜRKİYE GERÇEĞİ (Turkey’s Reality), ÜNİVERSİTE ÖĞRETİM ÜYELERİ DERNEĞİ (Association of University Lecturers), TYS (Türkiye Yazarlar Sendikası) (Writers Union of Turkey), YEŞİLLER VE SOL GELECEK PARTİSİ (Greens and the Left Party of the Future)

13 novembre 2015, da caneliberonline.blogspot.it


E' troppo tardi per l'ipocrisia; A proposito dei fatti di Parigi
"Gli oppressori e i soverchiatori sono responsabili non solo del male che infliggono agli oppressi e ai soverchiati, ma anche dell'odio che infondono nei loro cuori". (A. Manzoni, I promessi sposi)
Si potrebbe sintetizzare così, con le parole del tutt'altro che rivoluzionario Manzoni, il nostro giudizio sui tragici fatti di Parigi.
Ragazzi nati e cresciuti nelle periferie che forse, fino a qualche anno fa, non avevano mai letto le sure del Corano, sono disposti a darsi e a dare la morte per un nuovo Califfato islamico.
La categoria del "fanatismo religioso" da sola non spiega davvero nulla. La spiegazione di una violenza furiosa e indiscriminata non va cercata nel Cielo delle promesse, ma sulla Terra delle umiliazioni.
Dal 1991 le truppe occidentali - comprese quelle italiane - hanno esportato la loro splendida civiltà del dialogo e della pace a suon di bombe e di massacri. Stragi come quella di Parigi sono state e sono quasi quotidiane in Iraq, Afghanistan, Palestina, Siria, Libano, Mali, Somalia... Non più di due mesi fa, in una piazza di Istanbul, lo stesso numero di persone morte a Parigi è saltato in aria per una bomba messa dal governo turco di Erdogan contro l'opposizione curda.
Basta confrontare la diversa reazione di istituzioni e media occidentali di fronte alle due stragi per cogliere tutta l'ipocrisia delle lacrime di Stato e del "siamo tutti francesi". Evidentemente, i morti occidentali pesano infinitamente di più di tutti gli altri.
A parte i finanziamenti diretti della CIA ai gruppi islamisti per destituire questo o quel governo, è la guerra permanente scatenata dal capitalismo per accaparrarsi le risorse energetiche e spartirsi le zone di influenza mondiale ad aver apparecchiato le condizioni ideali per l'ISIS. I massacri di Gaza e di Falluja hanno fatto da soli la più potente propaganda anti-occidentale che si possa immaginare. Come diceva qualcuno, è troppo tardi per i discorsi da maestri di scuola impartiti a un'umanità per tre quarti annegata. La violenza indiscriminata non abbiamo voluto vederla. Abbiamo fatto come se nulla fosse, perché era lontana. Sorprendersi ora è ipocrisia.
Siamo in guerra. "Noi vi facciamo qui quello che voi ci fate in Siria": sembrano queste le parole urlate durante la sparatoria al Bataclan.
La logica del "siamo tutti francesi" è proprio quella che nutre la guerra globale (e dunque l'ISIS). Riflettiamoci. Se si considera legittimo bombardare case e ospedali in Iraq, in Afghanistan o in Siria con il pretesto di colpire questo o quel tiranno locale, perché non si dovrebbe considerare legittimo colpire a caso dei francesi per la politica imperialista di Hollande e delle multinazionali di cui serve gli interessi? Se sono terroristi gli attentatori parigini, non sono forse infinitamente più terroristi i militari della NATO? E' poi più vigliacco farsi esplodere per strada o sganciare bombe dell'alto di un aereo?
Siamo in guerra. Lo stato d'assedio dichiarato in Francia è lo stesso che veniva decretato nell'Algeria coloniale. Mancano solo i campi di internamento. E già militari in passamontagna stanno pattugliando le strade di alcune città italiane.
Non facciamoci illusioni. Non esiste controllo poliziesco e militare che possa metterci al riparo dal gesto più tremendo e più facile: colpire nel mucchio. Chi pensa di potere barattare le sue già magre libertà in cambio della sicurezza promessa dallo Stato, perderà le prime e non otterrà la seconda.
La guerra della civiltà contro la barbarie è una menzogna. Tra l'altro, a combattere l'ISIS senza violenza indiscriminata contro la popolazione civile sono le guerrigliere e i guerriglieri curdi. Ma siccome vogliono anche autorganizzare territorio, risorse e società, le loro basi vengono bombardate da Erdogan con il sostegno di tutti i capitalisti del mondo: meglio il Califfato della rivoluzione sociale.
Chi vuole compattare popolo e istituzioni ("siamo tutti francesi") dà ragione alla guerra globale, e dunque anche all'ISIS.
Siamo stati silenti e complici per tanto, troppo tempo.
Tempo in cui milioni di cuori si sono gonfiati di odio.
Tempo in cui siamo diventati tutti potenziali obiettivi di guerra.
La strada da imboccare è tutt'altra: dissociarci dalle politiche di rapina e di morte perpetrate in nome nostro; dimostrare praticamente che Renzi, Hollande, Obama, Merkel ecc. non ci rappresentano affatto. Che i primi responsabili di una guerra che ci sta ritornando indietro sono proprio loro. Loro e tutta la classe dominante.
Disertiamo il fronte occidentale! Nessuna guerra fra i popoli, nessuna pace fra le classi!
Fuori le truppe NATO dal Mediorente!

Trento, 17 novembre 2015
anarchici e antimilitaristi, da informa-azione.info

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Lo stupore è un lusso
Nei giorni scorsi, di botto, Parigi è diventata teatro di diversi attentati kamikaze, tutti conclusi con una strage di civili. Come spesso in questi casi, il sentimento collettivo che è prevalso è lo stupore: stupore nello scoprire di essere possibili bersagli di nuclei di kamikaze: stupore nello scoprire che anche i nostri cari, i nostri figli, i nostri fratelli, le nostre sorelle, possono essere bersagli facili di chi vuole dare vita a un massacro; stupore nello scoprire che questo Occidente tanto tecnologicamente controllato, così attento alle proprie frontiere, così violentemente securitario, continua a rimanere un posto insicuro. Facebook, twitter, i telegiornali non hanno fatto altro che amplificarlo.
A questo sentimento si è unito un altro sentimento, molto più complicato: la paura. Paura per sé, per la propria incolumità fisica. Ogni occasione, ogni evento pubblico, pu diventare potenzialmente teatro di una strage. E’ lo stesso sentimento che vivono quotidianamente le donne e gli uomini di tutti i territori nei quali l’Europa è impegnata a portare “diritti e democrazia”.
Anche per loro qualsiasi occasione pubblica può diventare teatro di rappresaglia, anche loro temono per la propria sopravvivenza e quella dei propri cari, anche loro sanno di essere indifesi, violabili: vulnerabili. Diversamente da noi, per loro non provano stupore. Sanno benissimo di essere in guerra. La vivono ogni giorni sulla propria pelle, sotto forma di bombardamenti, razionamenti, stupri, esecuzioni sommarie, carneficine, carceri che sembrano lager a cielo aperto. A loro, ogni forma di stupore è negata.
Non dispongono della nostra tecnologia. Non dispongono di droni capaci di portare il fronte di guerra altrove, né di caccia di ultima generazione in grado di radere al suolo intere città in poche ore, né di contraeree degne di questo nome. Per loro, il fronte di guerra, sono i quartieri in cui vivono, le strade che percorrono per andare a comprare viveri, acque, le scuole che frequentano, non generiche immagini mandate in onda su rainews24 o sky.
In Siria, in Afghanistan, nell’Iraq perennemente rappacificato, in Palestina, provare stupore è semplicemente un lusso. Un lusso che noi possiamo permetterci per una ragione semplice: perché, pur essendo in guerra, non ne vediamo mai il fronte. E’ sempre altrove, mai in casa nostra. Spesso è situato all’altro capo del Mediterraneo, lontano, troppo lontano, per sentirlo come reale, concreto, brutale. Persino la nostra indignazione è asimmetrica. Totalmente indifferente alle stragi di civili che si compiono quotidianamente lungo i vari scenari di guerra, incredibilmente commossa e partecipe quando quei civili sono percepiti come “gente nostra”, gente che potremmo essere noi. Così, quando la guerra viene a bussare alle nostre porte, noi non la riconosciamo, ci sembra altro.
La chiamiamo terrorismo. La chiamiamo scontro tra civiltà. La chiamiamo guerra di religione. Non contenti, prestiamo orecchio a chi crea mondi fantastici nei quali degli uomini comprano kalasniskov e granate con l’unico intento “di ledere il nostro stile di vita” perché invidiosi delle nostre “libertà”. Tutta gente di destra, come Salvini, come Renzi, come la Le Pen, pronta a lucrare persino sul sangue dei morti, pur di gestire il proprio tornaconto elettorale, pur di far gli interessi di chi, su quelle guerra, crea profitti inimmaginabili. Propongono di chiudere le frontiere, di sacrificare parte delle nostre liberà per avviare politiche di controllo sempre più vincolanti, ci indicano il nemico contro cui scatenare il nostro odio: il migrante, lo zingaro, il nullatenente, il disoccupato.
I conti per non tornano. Le loro politiche non portano a nulla. Partono da un presupposto completamente sbagliato: le nostre guerre attuali non sono guerre religiose, ma squisitamente politiche ed economiche. In gioco ci sono gli interessi delle cordate di capitale che agiscono in medio-oriente e non solo. La partita si gioca sull’acquisizione delle fonti d’energia, sul controllo geopolitico di aree chiave, sulla possibilità di trovare uno sbocco commerciale all’industria delle armi. Rappresaglie come quelle parigine rispondono a questa logica. I kamikaze colpiscono civili francesi non perché infedeli, ma perché percepiscono questi ultimi come parte integrante delle forze d’occupazione. La loro azione mira a costruire uno spazio politico ben definito, a polarizzare il discorso collettivo, a creare nuovi militanti.
La religione non è il cuore della questione, è un fattore aggregante, serve a creare una cornice comune d’azione. Per questo, manifestazioni pubbliche di solidarietà come marce, fiaccolate e presidi secondo noi, servono a poco.
E lo stesso vale per il generico concetto generico di pace a cui tanto spesso ci appelliamo nel tentativo tardivo di lavarci le coscienze. Non esiste un’unica modalità di pace, ne esistono svariate, molte delle quali sono violente, brutali, feroci, imposte con la forza. La storia di questi anni ne è la prova.
Conflitti e dichiarazioni di pace sono all’ordine del giorno. Nulla per è risolutivo. La ragione è semplice: affinché una pace possa aspirare ad essere duratura deve essere anche giusta, e di giustizia, su quel versante del Mediterraneo se n’è vista sempre molto poca. Palestina, Iraq, Afghanistan, Siria sono tutti esempi di paci ingiuste, controllate a furia di raid e bombardamenti: andate a male. Dunque non è solo la pace ci che dobbiamo chiedere, ma anche la giustizia, perché non c’è pace senza giustizia. E dobbiamo reclamare entrambe le cose con forza, con fermezza, e con ogni mezzo, rifiutando la guerra sotto qualunque forma essa si presenti.
Qui in Sicilia veste le spoglie di antenne ultra tecnologiche.
Le hanno piantate con la forza sui nostri territori, fregandosene del pericolo che portino tumori. Servono a controllare i droni che portano terrore e distruzione in medio oriente. Vanno smantellate.
Noi lo diciamo da tempo e con noi il movimento NO MUOS. Rifiutare la guerra, vuol dire impegnarsi in prima persona a smantellare quelle antenne, vuol dire difendere i compagni colpiti dalla repressione per aver dato il proprio contributo, vuol dire abbandonare lo stupore, e tornare, finalmente, a lottare.

Collettivo Experia Catania
19 novembre 2015, da cpoexperia.it


Gli HotSpots made in UE, zone franche del diritto?
Due mesi fa circa, in corrispondenza della forte pressione migratoria dalla Siria (ma anche da Pakistan e Afghanistan) ai confini est e sud della UE, le autorità europee si erano accordate per il rafforzamento delle procedure di controllo all'ingresso dei migranti, soprattutto sui territori italiano e greco, i cui governi avrebbero avuto nuovi finanziamenti per avviarli entro la fine di novembre.
In un breve documento della commissione europea si può trovare la logica del provvedimento adottato, ovvero “il sostegno operativo fornito con il metodo basato sui Hotspots si concentrerà su registrazione, identificazione e rilevamento delle impronte digitali e debriefing dei richiedenti asilo, e sulle operazioni di rimpatrio. Le richieste di asilo trattate più velocemente possibile con l’aiuto delle squadre di supporto dell’EASO. Frontex aiuterà gli Stati membri coordinando il rimpatrio dei migranti irregolari che non necessitano di protezione internazionale”.
Nonostante il nulla di fatto finora, alcune dimensioni riguardanti questi HotSpots vengono a galla in questi giorni: all'insegna di una sostanziale negazione dello stato di diritto, i centri saranno di fatto – anche sfruttando l'emergenza terrorismo post 13 novembre parigino – destinati ad un controllo capillare dei migranti, in sostanziali zone franche di frontiera.
Al momento è stato inaugurato solo l'hotspot greco di Lesvos, che ha poco dell'accoglienza e molto della prigione, mentre tra le ipotesi messe sul tavolo da parte del governo italiano ci sono l'estensione della durata del trattenimento per l’identificazione dalle attuali 12-24 ore fino a 7 giorni; la previsione del rilevamento forzoso delle impronte digitali; la previsione del trattenimento fino a 30 giorni del migrante che rifiuti di sottoporsi al rilevamento.
I migranti negli hotspots potranno così non solo essere sottoposti ad identificazione coatta, ma rischieranno l'allontanamento, in caso di rifiuto a sottoporsi a qualunque cosa venga chiesta loro dalle autorità, anche se in contrasto con le disposizioni minime sui diritti umani. Ma del resto, è bastata l'attribuzione di un passaporto siriano – poi dimostratosi falso – ad uno degli attentatori parigini, per poter riproporre a gran voce, tramite i media, l'opzione reazionaria della chiusura e del controllo delle frontiere e soprattutto delle espulsioni di massa.
Qualunque migrante non appartenente alla categoria del “rifugiato politico” rischierà infatti il rimpatrio immediato, in un'implementazione de facto della distinzione tra migrante economico e migrante politico tutta ad uso e consumo degli interessi degli stati riceventi, che selezioneranno in base alle esigenze delle proprie economie.
Il tutto è giustificato dalla necessità di “nuovi controlli” per respingere la minaccia terroristica che così viene immediatamente identificata e sovrapposta a quella migratoria, in un ulteriore momento di utilizzo della tragedia parigina per giustificare la denigrazione del movimento migrante e l'imposizione di nuove forme di controllo sociale all'interno dei singoli paesi.
23 novembre 2015, da infoaut.org


A Parigi lo stato d'emergenza non fa paura
Riportiamo la corrispondenza di M. da Parigi sul corteo tenutosi il 22 novembre in sostegno alla lotta degli immigrati ma che nel corso dello svolgimento si è presto trasformato in un momento di lotta contro lo stato d'urgenza e il pesante clima di militarizzazione che si respira in città dopo gli attentati del 13 novembre.

Questa domenica un segnale forte è stato dato a una città ancora paralizzata dallo stato di emergenza, provvedimento preso in seguito agli attacchi del 13 novembre che vieta, tra le altre cose, manifestazioni e presidi.
Il divieto di scendere in piazza è stato prolungato fino al 30 novembre ma lo stesso trattamento non vale per tutti gli assembramenti, come per esempio i mercatini di natale sugli Champs Elysées, i centri commerciali o i musei, quando si dice due pesi e due misure. Il corteo del 22 novembre era stato lanciato da diverso tempo dai migranti che dall’estate scorsa continuano la lotta per ottenere la regolarizzazione e una sistemazione decente, da qualche settimana sgomberati dal Liceo Jean Quarré occupato e ancora da place de la République dove per settimane hanno tentato di installare delle tende che sistematicamente venivano rimosse dalla polizia.
Nonostante lo stato di emergenza in migliaia tra migranti, collettivi e militanti di altre organizzazioni si sono riuniti in place de la Bastille determinati nel voler esprimere la solidarietà ai rifugiati e nel contestare uno stato di polizia e il delirio securitario di questi ultimi giorni. Al grido di “So-so Solidarité avec les réfugiés” e “Etat d’urgence, état policière on nous n’enlèvera pas le droit de manifester” il corteo è partito sotto gli occhi impotenti del copicuo dispiegamento di forze dell’ordine. Imboccato il viale che conduce a place de la République, luogo scelto per la conclusione del corteo, la polizia in assetto antisommossa ha cercato di bloccare il passaggio dei manifestanti attraverso una carica di alleggerimento e l’utilizzo di spray urticante. Non riuscendo nel suo intento ha optato per fiancheggiare il corteo per tutto il percorso mettendo un’evidente pressione rincorrendo a piedi i manifestanti e inseguendoli con una colonna di camionette.
Durante la corsa verso place de la République i cori scandivano il passo sostenuto delle persone che non si sono lasciate intimidire dalla polizia evidentemente disorientata dalla risolutezza di chi ha deciso di scendere in piazza nonostante i divieti. Giunti al termine del percorso il corteo si è riversato in quella piazza che accoglieva i migranti fino a una settimana prima sotto lo sguardo di molte persone presenti sul posto per commemorare le vittime degli attacchi, sopresi ma allo stesso tempo compiaciuti nel vedere che non ci si ferma davanti alla paura.
La giornata di domenica porta con sè il messaggio di chi non si ferma davanti all’imposizione di uno stato di sicurezza come unica (non) soluzione agli avvenimenti che hanno portato sul suolo francese una guerra di cui già era protagonista, di chi non teme la repressione di uno stato che si nasconde di fronte a chi lo identifica come responsabile, e che risponde denunciando 58 persone che hanno preso parte al corteo di ieri, di chi continua la lotta con i migranti, contro le frontiere e per una reale alternativa da costruire dalla stessa parte della barricata, di chi le strade e le piazze se le riprende al ritmo di quella “liberté” tanto proclamata da una Repubblica che non fa altro che terrorizzare e militarizzare dentro e fuori i suoi confini. Una giornata che inaugura le settimane di lotta a venire contro la COP21, l’emblema di chi non ha nessun contatto reale con quelle strade e quelle piazze che quotidianamente vengono attraversate da chi non si ferma davanti alla paura.

23 novembre 2015, da infoaut.org

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manifestazioni contro le frontiere in Serbia, Grecia, Croazia e Slovenia
Oggi 31 Ottobre vari gruppi No Borders hanno organizzato manifestazioni e azioni in solidarietà con le migliaia di persone migranti in viaggio lungo la cosidetta rotta balcanica. Ogni giorno le frontiere blindate della Fortezza Europa continuano ad uccidere: solo negli ultimi due giorni vari naufragi hanno provocato decine di annegamenti a Kalimnos , Rodi , Lesbo e nel tratto di mare tra Spagna e Marocco.
Di seguito, alcuni brevi estratti dalle varie chiamate e i link alle versioni complete.

Serbia, sul confine a Bapska, giornata d’azione di “No Borders Serbia”
“Al fine di aderire alla giornata di azione internazionale contro le frontiere, la Fortezza Europa, i muri e le recinzioni dell’apartheid, e come atto simbolico di solidarietà con i migranti in ogni loro lotta quotidiana per la libertà e la dignità – vi chiediamo di prendere parte all’azione di solidarietà che si terrà Sabato 31 ottobre sul confine serbo-croato, al valico di frontiera di Bapska, sul confine serbo-croato”

Grecia, manifestazione “Abbattiamo la recinzione di Evros”
“Non possiamo rimanere in silenzio di fronte alla morte. Fino a quando il recinto è lì e le frontiere sono chiuse, lo Stato greco e l’Unione europea stanno commettendo l’uccisione di migliaia di migranti e rifugiati sulle coste del Mediterraneo, che muoiono dentro “carrette del mare” di trafficanti di esseri umani. Per questo chiamiamo ad una mobilitazione, una manifestazione a Evros, sul confine greco-turco, contro il muro e le frontiere, Sabato 31 Ottobre 2015.”

Croazia, manifestazione alla Piazza d’Europa a Zagabria
“I confini della fortezza Europa stanno diventando “campi della morte” con insostenibile leggerezza. Invitiamo tutte le persone a protestare e mostrare la loro solidarietà con i migranti su tutte le frontiere. Dovremmo tutti insieme confrontarci con le limitazioni alla libertà di movimento, i fili spinati, i campi, le deportazioni e le misure repressive dell’Unione europea. Rivendichiamo l’immediata rimozione delle recinzioni, il ritiro delle forze armate, della polizia e di Frontex e la cessazione di ogni forma di violenza e discriminazione contro tutte le persone, indipendentemente dal loro ‘status’ “.

Slovenia, “Lubiana calling“, meeting internazionale e manifestazione al confine
“Da una settimana la cosiddetta rotta balcanica sta passando attraverso la Slovenia. L’obiettivo del governo sloveno è quello di imporre una quota d’ingresso di 2.500 rifugiati al giorno. […] Lanciamo l’appello ad incontrarci a Lubiana, Sabato 31 ottobre alle 11:00, per partecipare a un meeting transnazionale e una manifestazione contro la militarizzazione dei confini sloveni e contro il tentativo dell’ Unione Europea di interrompere il movimento dei rifugiati e dei migranti. Dopo la manifestazione di Lubiana, andremo insieme al confine come volontari internazionali indipendenti per esprimere solidarietà con rifugiati e migranti e per costruire insieme un’altra, e aperta, Europa”.

31 ottobre 2015, da hurriya.noblogs.org


aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma, 7 novembre. Un gruppo di solidali si è recato in presidio sotto le mura del CIE di Ponte Galeria alle porte di Roma per esprimere la propria solidarietà con tutte le recluse e i reclusi che quotidianamente lottano per la propria libertà. Nonostante Trenitalia, con il solerte ausilio delle forze dell’ordine abbia tentato, sia all’andata che al ritorno, di impedire ai compagni e alle compagne di prendere il treno che porta al CIE, chiedendo ad ognun* il pagamento del biglietto, il presidio è riuscito a raggiungere le mura del centro e a trascorrervi un paio d’ore tra interventi, musica e tanto rumore.
La risposta da dentro al Centro è stata forte e bellissima: di fronte alla sezione maschile, le urla dei/delle solidal* si sono unite a quelle dei reclus*, mentre in strada i manifestanti hanno tentato di comunicare con gli automobilisti che passavano sulla Portuense più o meno ignari di cosa ci fosse dietro quelle squallide mura sovrastate dal filo spinato.
Da dentro, ci raccontano, in questo momento il Centro è strapieno: nella sezione maschile ci sono più di 100 prigionieri, così come in quella femminile dove solo le prigioniere provenienti dalla Nigeria sono circa 90. Inoltre si ripetono episodi di cibi e bevande “corretti” con psicofarmaci da parte degli operatori per tentare di annientare qualsiasi capacità di resistenza e rivolta.
Nella serata davanti l’ingresso di una sede regionale della croce rossa italiana sono comparse delle scritte in solidarietà con chi da dentro e da fuori, lotta contro i CIE e le frontiere. In questa sede, domenica 8 novembre sarebbe andato in scena uno spettacolo con i rifugiati del CARA di Casteluovo di Porto, promosso da Auxilium, cooperativa che da anni specula sulle vite dei migranti e che vuole ripulirsi pubblicamente l’immagine con queste iniziative culturali. Contro ogni gabbia e ogni frontiera.
16 novembre. In mattinata un gruppetto di nemici e nemiche delle frontiere è andato all’ufficio postale in una traversa di via di Acqua Bullicante, nel quartiere della Marranella. Con un volantinaggio volto ad informare sulla responsabilità nelle deportazioni di MistralAir, compagnia aerea del Gruppo PosteItaliane, si è trovata l’occasione di parlare delle retate e dei controlli della polizia in quartiere. Nel via vai frenetico, qualcuno ha scelto di fermarsi a chiacchierare, qualcun altro, invece, turbato nel suo ruolo da direttore dell’ufficio, ha scelto di chiamare le forze dell’ordine per scoraggiare i presenti. Il volantinaggio è quindi proseguito nel quartiere di Torpignattara, per poi tornare tranquillamente al punto di partenza, le vetrine dell’ufficio postale sono quindi state tappezzate di manifesti in solidarietà a chi lotta nei CIE per conquistarsi la libertà e contro il business del Gruppo PosteItaliane nella macchina delle espulsioni.

Torino, 11 Novembre. Nella serata prima dall’area rossa, immediatamente dopo da quella bianca e da quella gialla, si sono sollevate le colonne di fumo che in Corso Brunelleschi sono andate a confondersi con la prima nebbia novembrina. Nel Centro sono arrivati celermente gli agenti in anti-sommossa e presto anche il prefetto, per constatare il danno subìto e presumibilmente per cercare di gestire al meglio le conseguenze al più grande smacco dopo le ristrutturazioni invernali al centro detentivo torinese.
I ragazzi sono stati portati fuori, all’umidità del campetto, e tenuti là in attesa di capire come riorganizzare i pochi spazi rimasti illesi. Non è mancata un’altra presenza, sicuramente più vicina negli intenti ai reclusi seppur oltre le mura: una trentina di solidali accorsi per far sentire loro il sostegno caloroso attraverso voci, botti e luci dei fuochi artificiali, luminose nonostante la foschia.
Nella notte, con la temperatura oramai pungente, i ragazzi dell’area rossa tenuti all’addiaccio hanno deciso ancora di non star fermi a subire le decisioni delle forze dell’ordine e hanno sfondato la rete che li separava dall’area gialla per rifugiarcisi dentro.
Quale sia l’entità effettiva dei danni alle strutture e cosa deciderà la polizia e il gestore Gepsa riguardo al Cie bruciacchiato cercheremo di capirlo a breve. Di certo c’è che ad ora le aree interessate dagli incendi sono state dichiarate inagibili – pare siano andati distrutti oltre che gli arredi anche gli impianti elettrici e l’operatività del Centro è stata notevolmente ridimensionata. Altra cosa certa è che all’indomani della rivolta mancava un recluso all’appello; le veline della questura ovviamente stanno ben attente a non riportarlo ma i ragazzi dentro non hanno dubbi: nella confusione per fortuna qualcuno è riuscito a svignarsela e da allora è uccel di bosco.
Il giorno dopo si è svolto il presidio solidale indetto da qualche giorno ma sicuramente corroborato dalla notizia del Centro andato a fuoco poche ore prima. Una cinquantina di persone si sono trovate in corso Brunelleschi e per qualche ora musica, saluti, slogan e interventi accorati hanno fatto compagnia ai reclusi, i quali hanno risposto con altrettanta calda energia; anche qualche momento per saluti personali da parte dei parenti dei due ragazzi rumeni portati giovedì al Cie dopo lo sgombero delle famiglie rom dall’ex caserma di via Asti. I due nonostante siano cittadini comunitari sono stati rinchiusi adducendo come motivazione la loro presunta “pericolosità sociale”, giusto sabato hanno incontrato il giudice che ha deciso per l’espulsione.
Fuori dalle mura quella mattina un gruppetto di parenti, amici e solidali aveva atteso insieme notizie dall’avvocato e poi aveva dato vita a un saluto rumoroso prima di andarsene. Non è sicuramente la prima volta che nel Cie ci finisce anche chi, con le carte in regola, viene definito “socialmente pericoloso”, né è la prima volta che occupanti di case trovati il giorno dello sgombero senza documenti vengano trasferiti al Cie e poi espulsi. Per i due ragazzi, dopo il via libera del giudice, i tempi stringono; non potrebbero, per legge, essere infatti trattenuti nel Cie e quindi, se nulla cambia, ci si aspetta l’espulsione a giorni.
Dopo gli incendi di sabato notte è arrivata la notizia degli arresti di due tunisini che hanno partecipato alla protesta. Le accuse sono di danneggiamento, resistenza, violenza e minacce a pubblico ufficiale. Proprio per questo, dismesso il presidio, i solidali hanno raggiunto il carcere delle Vallette per un altro sentito saluto a tutti i detenuti ma soprattutto a chi, colpevole di aver provato a distruggere una gabbia, è stato trasferito in un’altra.
Milano, novembre 2015

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sulla rivolta al cara di bari
Come rete Campagne in Lotta, esprimiamo totale solidarietà alle 7 persone arrestate durante la protesta a cui hanno dato vita lo scorso 28 ottobre, insieme ad altri 40 “ospiti” del CARA di Bari Palese, e chiediamo il loro immediato rilascio. Si tratta dell’ennesimo episodio di brutale repressione contro i migranti, quello andato in scena nel centro di cosiddetta accoglienza.
La struttura, ex base militare, più simile ad un carcere ed adiacente ad un vero e proprio centro di detenzione per immigrati irregolari, è tristemente famosa perchè spesso oggetto di inchieste giudiziarie in quanto teatro di abusi, ma anche di rivolte, a cui è seguita immancabilmente la repressione. Ci uniamo a quanti e quante, in questo come in molti altri luoghi simili, in Italia ed oltre confine, rivendicano a gran voce e senza timore il loro diritto ad essere riconosciuti, la loro libertà di movimento, ed il rispetto di quelle garanzie minime che in questi luoghi, dove regna il totale arbitrio, sono costantemente violate. Qui, richieste banali come la velocizzazione dei tempi di valutazione delle domande di asilo e dei ricorsi, che possono durare anni e costringono le persone all’immobilità forzata, o il diritto ad ottenere la residenza, sancito da decreti mai applicati, portano, come nel caso della scorsa settimana, ad episodi di grave violenza e sopruso. Sappiamo ormai da decenni che queste strutture di contenimento dei flussi migratori sono fonte di lauti guadagni per le cooperative che le gestiscono, come nel caso della pluri-indagata Auxilium che da anni ha in mano proprio il sovraffollatissimo CARA di Bari Palese (a fronte di una capienza nominale di circa 700 posti, vi sono attualmente stipate più di 1.000 persone). Cooperative che non hanno alcun interesse a far sì che le richieste di asilo dei loro “ospiti” vengano esaminate con particolare premura, e che svolgono un ruolo di disciplinamento perfettamente in linea con le politiche di governo, italiane ed europee. Dietro la maschera dell’accoglienza si nascondono cinici calcoli e la volontà di annientare ogni tipo di dissenso contro un sistema di sfruttamento che continua ad allargarsi.
Contro chi ci vuole divisi, zitti, e prigionieri, siamo e saremo a fianco di chi lotta, fino alla fine. Giustizia e libertà per i 7 arrestati di Bari, per tutti i migranti e gli sfruttati!

4 novembre 2015, da campagneinlotta.org

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Sulla mobilitazione a Bologna contro il comizio di Salvini
Sabato 7 novembre
Merola, il sindaco di Bologna (Pd), viene contestato a una commemorazione di partigiani. In serata, un corteo si snoda tra le vie del centro.
In via Emilia levante, la strada viene chiusa con due cassonetti incendiati e le vetrate della vicina Banca Etruria, infrante a martellate. Viene lasciata la scritta: “guerra alle banche non tra poveri”.

Domenica 8 novembre
All’alba viene sabotata la linea ad alta velocità tra Bologna e Milano e tra Bologna e Verona, con una scritta vergata sul luogo: “8-11 sabotare un mondo di razzisti e frontiere.” A Milano vengono colpiti due pullman di leghisti diretti a Bologna. Al primo vengono tagliate le gomme, al secondo, in un altro punto della città, viene tirata della vernice sul parabrezza.
Nella mattinata si formano quattro concentramenti ufficiali di manifestanti, due dei quali proveranno a muoversi verso il centro. Uno dei due cortei viene circondato dalla polizia che per identificare tutti i presenti (blocca per ore, oltre ai manifestanti, anche i viali).
L’altro corteo, dopo svariate cariche d’alleggerimento sul ponte di Stalingrado, tornerà indietro verso via del Lavoro per raggiungere poi la zona universitaria e, in serata, una piazza Maggiore ormai vuota.
Nello stesso tempo piccoli gruppi di compas ma anche di “semplici bolognesi” poco tolleranti verso l’adunata di camicie verdi, raggiungono piazza Maggiore e le zone limitrofe.
Alle 9 del mattino, volantini colorati che irridono a Salvini vengono lanciati dalla Torre degli Asinelli. Poco dopo c’è chi riesce a entrare in piazza Maggiore con volantini contro la Lega che diversi passanti accolgono con favore.
Nel mentre in zona san Donato 4 compagni, che attaccavano striscioni vengono fermati e trattenuti per ore.
Da una delle vie d’accesso a piazza Maggiore partono dei lanci di bottiglie tra un gruppo di contestatori e dei giovani militanti della destra che fanno il saluto romano.
Berlusconi viene fischiato mentre parla e diventa bersaglio di alcune uova quando alla fine lascia piazza Maggiore.
Nel pomeriggio al Pratello si sparge la voce dell’arresto-fermo di tre compas: un gruppetto di solidali raggiunge la questura. Vengono accusati di “lesioni e resistenza a pubblico ufficiale” e rilasciati il lunedì - con a carico la direttissima fissata per il 23 novembre prossimo.
Roma: Perquisizioni a chi partecipa alla lotta contro i CIE
Ieri mattina, 18 novembre, a Roma, verso le 6,30 alcuni compagni e compagne sono state perquisiti nelle proprie case di residenza. A bussare alla porta c’erano poliziotti e digos che hanno sequestrato oggetti personali e notificato fogli di via.
Le accuse sono manifestazione non autorizzata, con riferimento ai presidi sotto le mura del CIE di Ponte Galeria di settembre e ottobre, e oltraggio a pubblico ufficiale.
Sul fatto c’è poco da commentare, la cronaca e le accuse parlano da sè. Non ci soffermiamo troppo a denunciare questo gesto intimidatorio delle guardie, ci interessa piuttosto capire quello che ci sta succedendo intorno, attrezzarci e organizzarci.
Sono molti mesi, ormai, che con cadenza mensile andiamo davanti al lager di Ponte Galeria con l’intento di rompere il silenzio e l’isolamento in cui tante persone senza documenti sono costrette, per supportare le lotte che chi è rinchiuso/a porta avanti con coraggio e determinazione. Come pochi giorni fa a Torino al CIE di corso Brunelleschi, dove i detenuti hanno dato fuoco a tre aree del centro rendendole inagibili o come un mese fa a Ponte Galeria, quando un ragazzo per resistere alla deportazione si è arrampicato sul tetto.
Certamente non ci stupisce l’accanimento verso persone che portano avanti percorsi di lotta concreti, ma è importante segnalare l’utilizzo massivo e indiscriminato di diverse misure repressive. Da un pò di tempo a Roma, come in altre città, si stanno moltiplicando misure e sanzioni, che vanno dai fogli di via alle firme, dalle multe agli avvisi orali.
Una strategia complessiva che mira a controllare e gestire la città in modo capillare e preciso. Una città commissariata, in cui c’è una sorta di stato di polizia, e in attesa del grande evento del Giubileo, grande prova d’esame dal punto di vista del controllo, della sicurezza e della gestione.
Le perquisizioni di ieri mattina non ci spaventano e non ci scoraggiano. Ne cogliamo però il significato complessivo perché non sono un atto isolato.
Andare e tornare dai presidi a Ponte Galeria sta diventando sempre più complicato. Durante gli ultimi appuntamenti, infatti, molti solidali che volevano raggiungere il CIE sono stati fermati da polizia e controllori, che non facevano ripartire il treno o bloccavano gli ingressi, dispiegandosi in forza dentro le stazioni e minacciando i presenti.
Dentro il CIE Ponte Galeria la situazione è come al solito insopportabile. Le celle sono stracolme di persone e le deportazioni all’ordine del giorno.
I presidi, non ci stancheremo mai di dirlo, sono momenti importanti per tenere viva non solo la solidarietà con chi è dentro, ma per dare costanza alla comunicazione con i detenuti e le detenute, per continuare a supportare chi lotta dentro e per organizzare al meglio la risposta fuori.
Chiamiamo quindi tutti e tutte a partecipare in tanti e tante al prossimo presidio, che sarà il prossimo 12 dicembre. Sarà fondamentale essere numerosi/e, determinati/e e con la rabbia di sempre.
Complici e solidali con chi lotta. Contro ogni gabbia e frontiera.

Alcuni nemici e nemiche delle frontiere
20 novembre 2015, da inventati.org/rete_evasioni

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Lecce: Notificati sei fogli di via da Brindisi per chi lotta contro il CIE
Nella settimana appena trascorsa sono stati notificati sei fogli di via, per tre anni, dal territorio comunale di Brindisi, ai danni di altrettanti compagni e compagne attivi a Lecce. Motivo: i recenti saluti davanti al Cie di Brindisi-Restinco in solidarietà agli immigrati lì reclusi, in occasione dei quali i compagni sono stati fermati, schedati e denunciati per manifestazione non autorizzata, adunata sediziosa, istigazione a delinquere e vilipendio delle forze armate.
Il Cie è stato riaperto a ottobre, dopo una lunga chiusura causata dalle numerose rivolte dei prigionieri che lo avevano reso inagibile.
Con queste misure di allontanamento dei solidali, la questura vorrebbe ulteriormente accentuare l’isolamento fisico e funzionale di questa struttura detentiva. Infatti il tentativo di spezzare la solidarietà con l’esterno mira a far sì che questo lager, già isolato nella campagna brindisina, ridiventi un luogo nascosto nell’ombra e ricada nella totale indifferenza.

23 novembre 2015, da hurriya.noblogs.org


Corteo contro i fogli di via, dove stiamo lo decidiamo noi!
Appello per il corteo di sabato 5 dicembre a Venezia
Fili invisibili
Dalla fine dello scorso luglio qualcosa è cambiato nella quotidianità del carcere veneziano di Santa Maria Maggiore. La rivolta che ha fatto riaprire i blindi, chiusi per rappresaglia dopo il ferimento di una guardia da parte di un detenuto, ha divelto le gabbie della
rassegnazione e ha aperto a possibilità inedite. Da quel momento molti mezzi sono stati messi in campo da chi, da fuori, crede che il carcere non sia poi così diverso da tutti gli altri dispositivi che governano le nostre vite: saluti pirotecnici, presidi con microfono aperto, colloqui selvaggi e spontanei dalle finestre, relazioni con parenti e amici dei ragazzi reclusi. Pratiche che hanno svelato tutta la vulnerabilità e l'inutilità di quelle mura, inceppandone per qualche istante il funzionamento e incrinandone la funzione.
La continua corrispondenza tra ciò che accadeva dentro e l'esterno ha permesso a molti incontri di avere luogo, di comprendere i meccanismi materiali e immaginari che permettono a quella fabbrica di solitudine e menzogna di continuare ad esistere.
La lotta dei detenuti si è mossa seguendo fili invisibili, con ritmi propri e l'oscillare di fortunate congiunture. L'esserci stati nel momento culminante della protesta, e il fatto che questa sia stata direttamente efficace ha concretizzato l'idea che ribellarsi è giusto e, soprattutto, serve. Una consapevolezza che ha dato il la allo "sciopero" dei detenuti di settembre: una mobilitazione organizzata con obiettivi specifici, ma divenuta dirompente per merito di tutte le sfaccettature che l'hanno resa difficilmente controllabile: accanto alle rivendicazioni c'era chi barricava le sezioni, incendiava i materassi e chi lottava semplicemente per il desiderio di mettersi in gioco.
Da quel momento anche altre carceri del Veneto hanno visto nascere al loro interno momenti di insubordinazione e di lotta. A Vicenza l'eco di una clamorosa protesta estiva, con i detenuti saliti sul tetto, ha risuonato in svariate battiture per la pessima qualità del vitto e la condizione di sovraffollamento. A Verona due incendi in 48 ore hanno
intossicato una ventina di agenti nel mese di ottobre.
Eventi senz'altro conseguenti al pessimo stato nel quale si trovano i penitenziari, ma anche corrispondenze sotterranee, altri fili invisibili che, da dietro le sbarre, partono per riannodarsi ovunque qualche amante della libertà trova il coraggio di alzare la testa.
Contro le condizioni che rendono la permanenza in carcere insopportabile ma, soprattutto, contro la propria condizione di reclusi.

Confini e banditi
In seguito alle proteste di Santa Maria Maggiore il Questore ha notificato 15 fogli di via da Venezia ad altrettanti solidali, per un periodo che va da uno a tre anni.
Il foglio di via rende illegale la permanenza in un territorio di persone ritenute sgradite o pericolose, anche in assenza di condotte penalmente perseguibili. In virtù della sua estrema versatilità, non necessita dell'approvazione di un magistrato, è una delle misure preventive più usate, da qualche anno a questa parte, per bandire chiunque non abbia una residenza certificata, un contratto di lavoro regolare o altri "leciti interessi" produttivi che lo leghino a un dato luogo.
Gli incontri, le amicizie, la voglia di vivere in un modo diverso da quello che ci dicono essere l'unico accettabile non rientrano nei codici della produttività e della tracciabilità, pertanto sono da considerare illeciti e dannosi. Una concezione dell'abitare totalmente subordinata all'economia, funzionale a chi, assieme al completo controllo dello spazio pubblico, vorrebbe accaparrarsi la gestione delle vite che lo attraversano.
L'epoca che viviamo, nella sua ingovernabilità, rende necessario erigere nuovi confini, materiali o immateriali, per garantire che nulla turbi i flussi mercantili, fino a fare di "ogni sbirro una frontiera". Fino a rendere la nostra presenza la discriminante tra il poter camminare per strada o l'essere denunciato, arrestato o deportato in un Cie per averlo fatto.
Quando un territorio diventa desiderabile non per i rapporti economici che lo sfruttano ma per le geografie improduttive che lo percorrono, il foglio di via traccia un ennesimo confine, più labile di altri, tra chi siamo e gli affetti che intratteniamo. La Val di Susa e la lotta contro l'Alta Velocità, Ventimiglia con il presidio No Border, l'opposizione alle basi militari in Sardegna rappresentano gli esempi più recenti di come il foglio di via cerchi di frapporsi tra un territorio e chi lo abita per trasformarlo. Ma anche di tante città dove le prospettive di una radicale rottura con l'esistente sono state il principale motivo che ha portato qualcuno a stabilirvisi.
Trovare la forza necessaria per schiantare questi confini, svelandoli nella loro fragilità di carta e cemento, significa attaccare direttamente chi li ha eretti.

Città come prigioni
Nella sola Venezia, quest'anno, sono stati più di duecento i provvedimenti di allontamento emessi dalla questura, la maggior parte nei confronti di senzatetto, abusivi, furfanti e altre categorie "sospette". Non solo chi si organizza, ma anche chi lotta a proprio modo per vivere meglio in un mondo sempre più atomizzato e ostile diventa un soggetto indesiderabile, qualcuno "di troppo" da cacciare arbitrariamente.
Sebbene sia prassi dappertutto, lo scarto tra i flussi di milioni di visitatori economicamente produttivi e i suoi "rifiuti" a Venezia è reso ancora più stridente. Un ambiente reso inospitale dal suo totale essere merce, dove ci sono più alberghi che case e dove la priorità dei proprietari è non concedere nessuna residenza per poter meglio lucrare su fuori sede e turisti.
Scegliere di abitare in questo ambiente significa, inevitabilmente, affrontarlo: combattere la solitudine che irradia, dotarsi delle armi necessarie per non farsi rinchiudere nella scelta tra il vendere sè stessi e l'andarsene.
Sottrarsi ai dispositivi polizieschi, intessere relazioni di solidarietà non assistenziale, iniziare a vivere qui e ora seguendo il corso dei propri desideri. Non per costruire un altro carcere, un ghetto alternativo dove essere i carcerieri di noi stessi, ma per abbattere l'idea stessa di una società modellata sulle proprie prigioni.
A sabato 5 dicembre
A fronte di queste riflessioni abbiamo deciso di indire un corteo a Venezia per sabato 5 dicembre. Vogliamo non solo dare una risposta ai fogli di via arrivati nella nostra città ma che, come tutti i confini, anche quelli tracciati dai provvedimenti come questo smettano di esistere.
Per farlo cercheremo di renderli inefficaci, stavolta senza delegare al singolo l'onere di trovare il modo migliore per farlo.
Il nostro invito è aperto ai nemici del carcere e delle frontiere, a chi non rispetta i divieti, a chi ha sempre qualcosa da nascondere.
Violeremo i fogli di via attraversando la città da cui vorrebbero cacciarci, a fianco dei nostri compagni e le nostre compagne banditi, senza chiedere il permesso a nessuno.
Perchè i banditi non sono mai soli.
Perchè dove stare dobbiamo deciderlo noi, forti dei nostri illeciti interessi, dei nostri affetti criminali, delle nostre geografie pericolose.
Ci vediamo Sabato 5 Dicembre, Campo Santa Margherita, Venezia ore 15.00

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Giorno per giorno
Segue una breve cronistoria degli eventi accaduti nelle carceri del Veneto nell’ultimo anno solare. Ricordiamo che in Veneto sono presenti 10 penitenziari (uno per capoluogo di provincia, più un secondo carcere a Padova, il femminile di Venezia e il minorile di Treviso) e che il totale della popolazione carceraria nella regione ammonta a 2.243 reclusi (data 31 ottobre 2015, fonte www.giustizia.it). L’elenco che segue riporta notizie da fonti ufficiali (comunicati degli agenti di polizia, giornali etc) e non (colloqui con i detenuti, informazioni di prima mano da chi vive in carcere).

ANNO 2015
5 gennaio, Venezia: Adrian, un giovane detenuto di 19 anni, si toglie la vita impiccandosi nella sua cella di Santa Maria Maggiore, dove era stato tradotto pochi giorni prima per scontare una misura di custodia cautelare.
18 gennaio, Belluno: una detenute transessuale denuncia un agente di custodia per violenza sessuale. Di recente un altro secondino aveva ricevuto una condanna per il medesimo reato, perpetrato all’interno dello stesso carcere, l’unico in regione dotato di una sezione per persone transgender.
23 gennaio, Padova: vari episodi di insubordinazione in una sezione del Due Palazzi.
31 marzo, Venezia: un detenuto ammesso al lavoro esterno al carcere non fa più ritorno al termine del permesso.
7 aprile, Verona: rivolta dei detenuti al Montorio. Vengono incendiati materassi e altri oggetti presenti nelle celle, 11 agenti rimasti intossicati.
3 maggio, Vicenza: come protesta per le pessime condizioni detentive alcuni detenuti riescono a salire sul tetto del carcere.
15 aprile, Belluno: un detenuto ammesso al lavoro esterno al carcere, al termine del permesso, non fa più ritorno nella struttura.
20 maggio, Belluno: viene inaugurato il nuovo reparto psichiatrico all’interno del carcere dove vengono trasferite 6 persone internate nell’ OPG di Reggio Emilia, in via di dismissione.
15 luglio, Venezia: per protestare contro il proprio trasferimento in un’altra sezione del carcere, un detenuto incendia la propria cella. Tre agenti intossicati. Il detenuto viene trasferito nel carcere di Belluno.
29 luglio, Venezia: un detenuto stacca con un morso la falange di un agente di custodia. Vengono chiusi i blindi, subito riaperto a seguito di una lunga battitura supportata dall’esterno. La battitura diventa una protesta per le pessime condizioni detentive. La Uil-Pa (sindacato dei secondini) parlerà di almeno 9 agenti feriti nei giorni precedenti e successivi all’episodio.
15 agosto, Padova: 77 agenti di polizia penitenziaria inviano una lettera al Ministero della Giustizia in cui dichiarano la sospensione del pagamento del canone di locazione mensile (37 euro per una stanza singola, 64 per la doppia, 76 per una tripla) degli alloggi all’interno del carcere Due Palazzi, a causa delle condizioni fatiscenti delle strutture. Dal 2006 gli agenti di custodia pagano un canone per gli alloggi all’interno dei penitenziari, che restano invece gratuiti per gli alti gradi.
21 agosto, Venezia: un presidio con musica all’esterno del carcere infiamma la situazione all’interno. Vengono rotti i lucchetti che chiudono le finestre, urla, battiture e incendi di carta di giornale per tutto il pomeriggio.
3 settembre, Padova: detenuto affetto da tubercolosi evade dal reparto malattie infettive dell’ospedale gettandosi dalla finestra.
10 settembre, Venezia: i detenuti di Santa Maria Maggiore si organizzano e indicono un sciopero contro le condizioni di detenzione e le angherie della direttrice del carcere. I detenuti del braccio destro scrivono un documento di rivendicazione in cui viene chiesta, tra le altre cose, anche l’amnistia. Più spontanea e incontrollabile la protesta nel braccio sinistro: battiture, sezioni barricate e incendi feriscono diversi agenti. In entrambi i bracci scioperi della fame e del carrello.
15 settembre, Rovigo: il DAP annuncia che il nuovo carcere cittadino, i cui lavori sono iniziati nel 2007, sarà operativo dal gennaio 2016.
16 settembre, Venezia: termina lo sciopero dei detenuti di Santa Maria Maggiore. Nelle settimane successive alcuni dei ragazzi più attivi nella protesta verranno trasferiti in altre carceri della regione.
2 ottobre, Venezia: un detenuto tenta di impiccarsi alle sbarre della propria cella. Salvato dalle guardie, aggredisce una di queste ferendola. Nei giorni successivi verranno elargiti 30 euro di “sussidio” a tutti i detenuti del penitenziario veneziano.
12 ottobre, Verona: due detenuti incendiano materassi e altre suppellettili della cella per protestare contro le condizioni di detenzione. Verranno subito trasferiti in altre strutture.
17 ottobre, Padova: un detenuto ricoverato in ospedale in seguito a un tentativo di suicidio riesce a fuggire lanciandosi dal secondo piano.
20 ottobre, Vicenza: vengono rinvenuti prima vermi, poi scarafaggi nel cibo servito alla mensa dei secondini del San Pio X.
25 ottobre, Verona: un detenuto si rifiuta di rientrare in cella dopo l’ora d’aria. Aggredisce e ferisce alcuni agenti di custodia.
28 ottobre, Vicenza: colluttazione tra secondini e detenuti. Uno di questi viene trasferito in isolamento. Proteste e battiture in sezione.
3 novembre, Rovigo: 4 agenti di polizia penitenziaria aggrediti da un detenuto, che si rifiuta di tornare in cella.
5 novembre, Vicenza: razzetti sparati sotto al San Pio X vengono “scambiati” per colpi di pistola. Il giorno dopo i giornali riportano la notizia di momenti di agitazione, subito sedati, a seguito dell’accaduto.
La lista è, per forza di cose, incompleta, ma già così rende l’idea della situazione esplosiva che stanno vivendo le carceri, e i detenuti, in Veneto. Invitiamo chiunque abbia registrato altre informazioni a completarla.

novembre 2015, da questacasanoneunalbergo.noblogs.org


lettera dal carcere di venezia
Vi ringrazio tantissimo per il libretto con tutte le informazioni; è stato molto utile per me e per tanti altri detenuti. Anche loro ringraziano tutti voi.
[…] qua nel carcere di Venezia hanno tolto il fax e così noi detenuti non possiamo più inviare fax. Non so per quale motivo. In più, c’è tanta gente che ha la conferma dal giudice e dai carabinieri per andare agli arresti domiciliari, ma sono ancora in carcere, il perché non si sa. In questo carcere non si capisce più niente, tutto in tilt.
Vi racconto di un mio amico che era qua a Venezia dove ha fatto 1 anno e mezzo, poi lo hanno trasferito senza sua richiesta, lo hanno obbligato. Lo hanno portato nel carcere di Belluno, mi ha mandato una lettera e mi ha raccontato che lo hanno messo subito a lavorare e gli hanno accettato da pochissimi giorni la richiesta per chiamare la sua famiglia. Nel carcere di Venezia queste cose non ci sono, per chiamare la tua famiglia ti tocca spettare mesi e mesi. E’ tutto lentissimo.
Per esempio, ho nominato un avvocato e basta, nessun altro; nei giorni scorsi è arrivata la chiusura delle indagini in cui era nominato un altro avvocato. Sono andato in matricola per avere informazioni sul fatto: non sono stati in grado di darmi informazioni. Secondo voi, tutto questo è normale? […]

6 novembre 2015


La linea repressiva dell’Unione Europea
Segue estratti da un ampio articolo della rivista “Antitesi, analisi e strumenti per la rivoluzione proletaria“ (ottobre 2015) che cerca di tratteggiare alcune linee guida per un’analisi rispetto alla questione della repressione politica portata avanti dall’Unione Europea.
Questo articolo è stato scritto prima che si verificassero i nuovi attacchi di venerdì 13 novembre a Parigi. Una fase storica chiaramente rappresentata dal rimbalzo in casa della tendenza ad una politica belligerante che i diversi Stati conducono fuori dai confini nazionali, dimostrando chiaramente il legame che sussiste tra guerra imperialista sul fronte esterno e il suo riflesso sul fronte interno, che si articola e dirama capillarmente in ogni ambito economico, sociale e politico della società.
Sarà interessante capire come declineranno l’ultima “emergenza terrorismo” in termini di nuove leggi, pacchetti sicurezza, controllo sociale e repressione; intanto assistiamo alla risposta della Francia, la quale ha immediatamente chiuso le frontiere, dichiarato lo stato di emergenza, dato la facoltà di intervenire all’esercito, che scavalca la polizia locale e la storica gendarmeria francese, oltre che soffiare sul vento della mobilitazione reazionaria, istigando episodi di intolleranza e razzismo verso le comunità arabe e in generale gli immigrati.

A pochi mesi dall’approvazione del decreto “Alfano” in materia di “antiterrorismo”, l’Italia si prepara a varare nuove misure in termini di controllo e “sicurezza” sui treni, in particolare sulle tratte ad alta velocità e internazionali. Biglietto nominativo e maggiori controlli a campione di passeggeri e bagagli, aumento delle squadre miste per il controllo dei convogli internazionali, maggior scambio di informazioni tra i servizi di sicurezza dei diversi paesi, unite alla richiesta di un maggior restrinzioni sulla diffusione delle armi da fuoco in Europa. Queste sono le linee guida su cui si articola la proposta emersa dall’incontro a Parigi dei ministri dell’interno e dei trasporti di nove paesi europei, tra cui l’Italia, in risposta allo presunto e sventato attacco “terroristico” dello scorso 24 agosto sul treno ad alta velocità Parigi – Amsterdam. A queste si aggiungono le proposte di check point e controlli con metal detector nelle stazioni, sul modello adottato negli aeroporti, videocamere nei binari e nei vagoni dei treni, varchi e presidi all’accesso dei binari, consentito solo con l’esibizione del titolo di viaggio. Di fatto, si tratta di un inasprimento di pratiche che, in parte, sono già in uso nelle principali stazioni italiane.
Queste misure, presentate come “urgenti”, sono il frutto della politica dell’emergenza, che rappresenta la dimensione principale, non sono italiana, nella quale vengono prodotte nuove normative restrittive, di controllo e repressive. Di fatto rappresentano il tentativo di trovare una cura comune, cioè “europea”, ad una malattia già conclamata, il cosiddetto “terrorismo internazionale”, che di fatto è il rimbalzo in casa della tendenza alla guerra imperialista, in particolare delle aggressioni che le potenze europee conducono contro i popoli e i paesi dell’area arabo-islamica.
Periodicamente, al verificarsi di episodi che frantumano il senso d’invulnerabilità e di sicurezza all’interno dei confini della “civile e democratica” Europa, le diverse borghesie, con misure comuni a livello comunitario o con singoli accordi, approntando schemi di massima che poi i singoli paesi dovranno applicare concretamente con norme e misure ad hoc. Uno sviluppo dovuto dalla necessità di rafforzare i punti deboli del controllo a livello continentale, ma che non si caratterizzano per rientrare in una vera e propria strategia repressiva comune, una linea di condotta ampiamente definita e valida, da attuare nel lungo periodo a livello preventivo, che sappia superare la dimensione nazionale. Questo perché, sul piano comunitario, sono costretti a convivere da un lato l’interesse dell’Unione Europea alla centralizzazione delle strategie repressive e dall’altro alla libera circolazione di capitali, merci e forza lavoro, liberalizzati dal trattato di Schengen (1), uno dei fondamenti costitutivi dell’Ue. Non è un caso che negli ultimi mesi, più volte si sia sentito parlare di “sospendere o rivedere” il trattato, da un lato per le debolezze riscontrate nei controlli “antiterrorismo”, dall’altro lato per le contraddizioni che emergono nelle frontiere esterne all’Ue con i flussi migratori provenienti dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente.
La tendenza alla centralizzazione avanza con pesanti contraddizioni derivate anche dall’oggettivo contrappeso rappresentato dei singoli Stati, delle loro specificità in termini di legislazioni, relazioni, apparati e priorità d’interesse, e sia dalle funzionalità proprie del rapporto comunitario, confermando come nel vecchio continente il piano repressivo sia ancora delegato principalmente all’azione dei singoli Stati o alla collaborazione e cooperazione tra di loro.
Un esempio significativo al riguardo, è rappresentato dagli accordi e dalla storica collaborazione tra apparati repressivi spagnoli e francesi nella repressione del movimento di liberazione basco, che hanno portato all’estradizione verso lo Stato Spagnolo di centinaia di compagni e compagne, non solo appartenenti al gruppo combattente Euskadi Ta Askatasuna, ma anche alle organizzazioni politiche e sociali della sinistra basca. I Paesi Baschi, situati al confine tra Stato Spagnolo e Stato Francese, sono divenuti così di fatto un’area controllata contemporaneamente da due apparati repressivi, distinti, ma vicendevolmente compenetranti nello scambio di informazioni e nelle operazione contro i militanti, con un vero e proprio travaso del modello spagnolo – più autoritario e poliziesco – su quello francese – formalmente più liberale e garantista. In questo caso, assistiamo ad una dimensione di transfrontalierità della repressione che però si determina nella collaborazione di due Stati rispetto alla questione oggettiva di un popolo che vive fra le loro frontiere e lotta per l’autodeterminazione da entrambi. Non dunque una centralizzazione a livello europeo o un allargamento di modelli repressivi in termini continentali, ma una calibrata collaborazione e compenetrazione repressiva laddove si sviluppa concretamente la contraddizione con le avanguardie del popolo basco.
Nel tempo, si sono comunque determinati strumenti centralizzati di repressione a livello comunitario, come con l’introduzione e l’aggiornamento delle “lista nera” di individui e gruppi classificati come “terroristi”, sul modello di quanto svolto dagli Stati Uniti dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 (2). Lo scopo di questa lista nera è obbligare gli Stati membri a collaborare con ogni mezzo per la repressione delle attività di chi vi è incluso: quindi non hanno applicazione diretta, ma demandata alla cooperazione e all’azione effettiva dei singoli regimi nazionali.
Altri esempi di strumenti centralizzanti sono costituiti dall’istituzione di Europol, l’agenzia di polizia comunitaria per la lotta al crimine in Europa, di Eurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria a livello comunitario, del coordinatore antiterrorismo dell’Unione Europea – carica attualmente occupata dal belga Gilles de Kerchove – così come l’introduzione del mandato di cattura europeo, che vanificherebbe le precedenti procedure di estradizione.
Infatti il mandato di arresto europeo viene introdotto tramite la decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio Europeo del 13 giugno 2002 (3) e stabilisce un automatismo nelle consegne, ovvero una sorta di “libera circolazione” delle persone incriminate. Queste devono essere consegnate senza più alcun vaglio da parte delle magistrature e dei governi e con l’eliminazione di quello che era il fondamentale principio della doppia incriminazione che finora era sempre stato in vigore nello spazio europeo, cioè che un soggetto non può essere consegnato da uno Stato se lo Stato cui è richiesta la consegna non prevede quel fatto che gli è imputato come reato. Viene abolito questo tipo di meccanismo per tutta una serie di categorie di imputazioni, tra cui quella di terrorismo, di criminalità informatica, di favoreggiamento dell’ingresso e del soggiorno illegali ecc. La rimodellazione dello spazio giuridico europeo in tema di mandato di arresto segue anch’essa gli attentati dell’11 Settembre, nel tentativo di avere uno strumento centralizzante per rafforzare la lotta al “terrorismo”, in una fase in cui i diversi paesi europei hanno approvato una serie di pacchetti sicurezza sullo stile del Patriot Act statunitense, in linea con la definizione data di “terrorismo internazionale” su cui si sono ridisegnati i diversi ordinamenti giuridici.
Si tratta dei tentativi di approntare una strategia repressiva comune e generale a livello europeo, che vada oltre l’autonomia dei singoli stati; tendenza che va letta come il riflesso di ciò che oggi rappresenta l’Unione Europea [...].
Sempre nello scenario della tendenza alla guerra, un esempio di uno strumento repressivo diretto dell’Unione Europea, è costituito dalle Forze di Gendarmeria Europea (Eurogendfor). Il trattato istitutivo di Eurogendfor venne firmato a Velsen il 18 ottobre 2007 inizialmente da Francia, Spagna, Paesi Bassi, Portogallo e Italia.
L’acronimo sta per Forza di Gendarmeria Europea. Ha il suo quartier generale a Vicenza, all’interno della caserma dei carabinieri “Generale Chinotto”, e riveste compiti che spaziano tra il poliziesco e il militare, prevalentemente in scenari post bellici. Funziona principalmente sotto l’Ue, o qualora sia necessario, sotto mandato dell’ONU, della Nato o altre organizzazioni internazionali. Questo corpo dovrebbe rappresentare il prototipo di un esercito europeo, ma al momento manca di un reale sviluppo e le premesse specifiche, così come la linea politico-militare dell’Ue di affiancamento degli Stati Uniti nelle strategie di guerra imperialista a livello globale, ci prospettano che esso potrà avere semmai un ruolo subordinato all’Alleanza Atlantica.
Il tentativo di dotarsi di un corpo militare europeo rimanda però, in prospettiva, anche ad una repressione sul fronte interno se pensiamo che, secondo il trattato istitutivo, la Gendarmeria Europea potrà “sostituire o rafforzare le forze di polizia”, oltre che “condurre missioni di sicurezza e ordine pubblico; monitorare, svolgere consulenza, guidare e supervisionare le forze di polizia locali nello svolgimento delle loro ordinarie mansioni, ivi compresa l’attività d’indagine penale”, “assolvere a compiti di sorveglianza pubblica, gestione del traffico, controllo delle frontiere e attività generale d’intelligence”, “svolgere attività investigativa in campo penale, individuare i reati, rintracciare i colpevoli e tradurli davanti alle autorità giudiziarie competenti” e “proteggere le persone e i beni e mantenere l’ordine in caso di disordini pubblici”. [...]

Note:
1) Trattato siglato nel 1985 nella città di Schengen, Lussemburgo. L’area Schengen oggi coinvolge 26 paesi (di cui 22 della comunità europea e 6 esterni), ha abolito i controlli alle frontiere interne all’Europa e prevede l’applicazione di regole e procedure comuni in materia di visti, soggiorni brevi, richieste d’asilo e controlli alle frontiere e anche il rafforzamento della cooperazione e del coordinamento tra i servizi di polizia e le autorità giudiziarie. Garantisce perciò il diritto alla libera circolazione e al soggiorno non collegato a motivi di lavoro. I cittadini degli Stati aderenti sono perciò liberi di attraversare i confini di uno Stato membro senza dover sottostare ad alcun controllo se non giustificato da motivi di ordine pubblico e di sicurezza nazionale.

2) Per dare l’idea dell’ampiezza del raggio d’azione della “lista nera” europea specifichiamo che, nella sua versione attuale, vi compaiono pressoché tutti i maggiori gruppi della Resistenza Palestinese, incluso il Fronte Popolare di Liberazione, varie organizzazioni combattenti progressiste e/o comuniste come l’Esercito di Liberazione Nazionale, le Forze Armate Rivoluzionarie – Esercito del Popolo (Colombia), il Fronte di Liberazione del Popolo Rivoluzionario, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Turchia), Sendero Luminoso (ovvero il Partito Comunista del Perù e le organizzazioni ad esso legate), il Partito Comunista delle Filippine, oltre che altri gruppi di ispirazione islamista, tra cui il libanese Hezbollah, o di liberazione nazionale, tra cui le Tigri Tamil. Periodicamente la lista viene rivista a seconda dell’attività effettiva dei gruppi “terroristi”.

3) Il mandato d’arresto europeo adottato nel 2002 sostituisce il sistema dell’estradizione imponendo ad ogni autorità giudiziaria nazionale (autorità giudiziaria dell’esecuzione) di riconoscere ed eseguire, dopo controlli minimi ed entro rigide tempistiche, la domanda di consegna di una persona formulata dall’autorità giudiziaria di un altro paese dell’Ue (autorità giudiziaria emittente). La decisione quadro è entrata in vigore il 10 gennaio 2004 e ha sostituito la legislazione Ue esistente in materia. I paesi dell’Ue restano tuttavia liberi di applicare e concludere accordi bilaterali o multilaterali nella misura in cui essi facilitano o semplificano maggiormente le procedure di consegna.


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Basta guerre, basta sacrifici, basta NATO, basta Unione Europea
25 novembre, manifestazione a firenze
La guerra con i suoi scenari e le sue ricadute è stata riportata, se ve ne fosse stato bisogno, prepotentemente all'attenzione di tutti dopo gli attentati di Parigi. Quest’ultima strage non fa che seguirne, purtroppo, altre decine, a Beirut, ad Ankara, a Suruc, nei cieli egiziani, in Siria, in Iraq o in Afghanistan, che fanno meno notizia ma che rappresentano parte della guerra generale e delle competizioni in corso. Guerre e competizione di cui i nostri governi sono i principali responsabili ed interpreti.
In questa situazione il vertice NATO di Firenze del 25/26 novembre, aperto ai paesi del mediterraneo e del Medio Oriente, tutti a vario titolo coinvolti in questi scenari, rappresenta un vertice di guerra, dove pianificare ed organizzare gli interventi militari futuri.
Manifestando contro la guerra e contro la NATO è necessario evidenziare la funzione oggi della struttura dell’Unione Europea: l’Unione Europea, nella fase attuale di competizione e di guerra, serve la necessità della borghesia egemone europea di dotarsi di un polo imperialista autonomo, le cui leve di comando svolgono, attraverso l’attuazione e la collaborazione dei governi degli stati membri; l’Unione Europea è lo strumento delle classi dominanti e delle borghesie europee egemoni per la definizione delle politiche di guerra e repressione da una parte e tagli e sacrifici dall’altra.
L’Unione Europea produce guerra, l’Unione Europea vuol dire tagli ai salari, tagli alle spese sociali, alla sanità all’istruzione, UE significa privatizzazioni dei servizi pubblici, UE significa sfruttamento e repressione. L’Unione Europea è quindi, nella sua natura storica, non riformabile, conformata sugli interessi strategici della classe dominante, punto nevralgico del sistema di comando del capitale, e la sua rottura diventa passaggio ineludibile per il proletariato europeo e mediterraneo.
Per tutto questo riteniamo importante manifestare il 25 novembre per il corteo convocato dall’assemblea contro la NATO di Firenze; per contestare il ruolo storico e presente che NATO, USA e Unione Europea svolgono nella determinazione di queste politiche di guerra. Per dire che rifiutiamo queste guerre, che oggi i morti, dalla Siria, alla Turchia, alla Francia, sono nostri morti.
Il 25 novembre rilanciamo l’appello a scendere in Piazza a Firenze contro il vertice NATO per dire forte: Basta Guerra – Basta Nato, Basta sacrifici – Basta UE.

Assemblea Fiorentina contro il vertice NATO di Firenze


sulla manifestazione in sardegna contro trident juncture
La giornata del 3 novembre a Teulada è stata caratterizzata dal fatto che l’azione determinata, organizzata e consapevole porta risultati positivi e incoraggianti. Lo schieramento repressivo usato per contenere la rabbia contro la Nato e la guerra, da scenari mondiali ormai prossimi, è servito a dare l’ennesima riprova che lo Stato dimostra, con forza, il suo asservimento alla logica della guerra imperialista e non accetta mediazioni o illusorie trattative istituzionali.
È stato chiaro fin dal primo momento quale livello di scontro avremmo dovuto affrontare. Tre pullman fermati, decine di macchine trattenute per ore, centinaia di compagni bloccati per l’identificazione in quei veri e propri check point disposti lungo la strada di accesso al punto di incontro stabilito; insomma, i fogli di via, le denunce, gli avvisi orali di questi ultimi mesi hanno fatto da sfondo, mentre la predisposizione delle “misure di contenimento” del corteo hanno evidenziato l’obiettivo: impedire la partecipazione al corteo al maggior numero possibile di compagni, depotenziare la lotta e lanciare anche qualche messaggio qua e là.
Un processo di criminalizzazione preventiva a tutto tondo, che spazia dall’intimidazione alle blandizie, dalla minaccia alle cariche e via … contrastando. Sì, perché, individuare, distinguere e differenziare buoni e cattivi per creare il vuoto attorno alle componenti più determinate, significa voler rompere compattezza e solidarietà all’interno di quelle aree che si stanno riconoscendo a vicenda e consolidando giorno dopo giorno; significa, in parole povere, dividere per imperare.
Non ci interessa la diatriba legalità o costituzionalità sull’operato del questore e dei suoi prezzolati, consapevoli che usano semplicemente la loro forza per supportare la loro posizione; forza che per alcuni momenti è stata messa in discussione dalla rabbia di una parte dei manifestanti verso la guerra e le sue ramificazioni. Non ci interessa perché è nella logica del conflitto che le parti in causa utilizzino le proprie forze per ristabilire una conquista o un risultato; loro hanno conquistato qualche foglio di via in più per i compagni e la gratificazione nell’usare il manganello nelle cariche, noi – per alcune ore – il poligono, impedendo, anche se per poco, che l’olio lubrificasse gli ingranaggi della guerra.
Ottocento persone hanno risposto alla chiamata contro la Nato organizzata dalla Rete no basi, per darsi appuntamento nelle prossimità del poligono di Teulada. Moltissimi giovani, donne, studenti, antifascisti, autonomi, comunisti, anarchici, anarco-femministe, pacifisti, indipendentisti e anche qualche gruppetto di nazionalisti (che per la stampa sono sempre numerosi ed egemoni) hanno caratterizzato l’andamento del corteo.
Di nuovo, la lotta e l’azione antimilitarista di Teulada, così come quelle di Cagliari e Decimo, hanno marginalizzato le figure che fino a qualche anno fa imbastivano idiozie elettoralistiche o farraginose proposte referendarie, parlando a nome di un popolo che non rappresentano, figli dell’ideologia liberale e del partito dell’ordine. Sono personaggi che esistono solo nei giornali, i quali a loro volta hanno sempre bisogno di referenti o di figure inclini alla logica riformista e istituzionale, che nulla hanno a che vedere con la lotta e con la determinazione di queste importanti giornate.
Qualche tentennamento si è visto nell’ala più pacifista del corteo quando è stata divelta qualche recinzione per oltrepassare lo sbarramento dei blindati, che inizialmente volevano bloccare la manifestazione quasi sul nascere o quando non se l’è sentita di seguire la scelta di chi aveva preso la direzione verso il problema, ossia verso il poligono; ma comunque nell’insieme tutto il corteo è stato coeso e lo si è visto quando in qualche modo si è reagito compositi nell’affrontare gli uomini in divisa che volevano rincorrere il gruppo che si è defilato per poter raggiungere e conquistare la base.
Crediamo che le diverse anime del corteo possano continuare a marciare insieme, ognuno col suo modo di esprimersi senza ostacolarsi nei propri propositi, per conquistare consapevolezza e determinazione partendo dal presupposto che si può fare e che l’azione nella lotta deve essere sempre presente, senza lasciarsi imbrigliare dalla logica del consenso a tutti i costi; azione per creare la contrapposizione politica utile per far emergere le contraddizioni latenti dell’esistente e  per portare risultati concreti, come è stato quello di fermare per alcune ore la Trident Juncture. Percorsi di rottura che col tempo e la pratica potranno accumulare forza e strategia. [...]
Gherra contr’a sa gherra bos fakimus…
Complici e solidali con chi ha subito la repressione nelle diverse giornate antimilitariste e antimperialiste.
Alcune soggettività presenti nel corteo del 3 novembre.
10 novembre 2015, da nobordersard.wordpress.com
In Germania compas turchi e kurdi condannati a anni di galera
Il 28 luglio 2015 si è concluso a Stoccarda il processo, la cui accusa era fondata sul “paragrafo 129 a, b” (corrispondente in Italia all’art. 270bis cp (*)) del codice penale tedesco, contro i compagni Ozgur Aslan, Sonnur Demiray, Muzzafer Dogan e Yusuf Tas; rispettivamente condannati a: 4 anni e 9 mesi a Ozgur; 5 anni e mezzo per Sonnur; 6 anni per Yusuf e Muzzafer.
L’accusa rivolta ai quattro compas arrestati il 23 giugno 2013 in una retata è di appartenenza al DHKP-C (Fronte-Partito della Liberazione Popolare), sulla base appunto del 129b, poiché il DHKP-C è scritto nella “lista nera” della NATO. Yusuf e Ozgur vennero arrestati in Austria e presto estradati in Germania. I due compagni si posero contro l’estradizione con uno sciopero della fame di 50 giorni, che ha compromesso la loro salute.
In particolare l’accusa rivolta ai quattro compas è di avere lavorato all’informazione, all’organizzazione della raccolta fondi e di manifestazioni musicali, fra le quali innanzitutto un gran concerto con la band rivoluzionaria turca “Grup Yurum”.
Nel corso del processo, iniziato nel settembre 2014, corte e pm si sono spinti più volte in frasi dedicate a ribadire il collegamento diretto fra “Grup Yurum” e DHKP-C, nell’ambito della Federazione dell’Anatolia, dall’apparato poliziesco e giudiziario tedesco considerata “organizzazione di copertura” del DHKP-C.
In Germania, del resto, sono in galera (il processo è iniziato nel giugno 2015 a Dusseldorf), Latife Adigutzel, presidente di quella federazione, perché “per la direzione di un’organizzazione di copertura – dicono pm e giudici – vengono presi in considerazione soltanto i funzionari”... L’avvocato di Latife, ha messo in ridicolo le affermazioni generiche dell’accusa, sostenendo che bisogna piuttosto tener conto dello stato turco inteso come “Stato killer” e quindi della resistenza, della lotta aperta ultraventennale combattuta in Turchia. In seguito a questi ragionamenti è stato minacciato dal presidente del tribunale di espulsione, di deferimento alla camera penale, di pene pecuniarie e via di questo passo.
Questo significa che secondo lo stato tedesco la critica al sistema turco è da considerare soltanto come “sostegno ad un’organizzazione terrorista straniera”, poiché una simile o eguale critica viene espressa anche dal DHKP-C.
Obiettivo del processo è il sostegno dei gruppi terroristi clerical-fascisti alla guida dello stato turco e dunque la criminalizzazione non soltanto di chi in Turchia combatte, resiste, ma bensì di tutte le persone che chiamano il regime turco per quel che è, stato ingiusto, che all’interno in maniera dittatoriale disprezza i diritti della persona e verso l’esterno agisce in maniera terrorista…
Con le medesime accuse nell’aprile 2015 sono state arrestate e portate davanti ai tribunali altre 20 persone. Stessa sorte è toccata a compas kurdi accusati di essere membri, stavolta del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) anch’esso incluso nelle “liste nere”. Con lo stesso impianto accusatorio sono stati colpiti 11 compas dell’ATIK (Confederazione degli operai, delle operaie turchi in Europa), emanazione del Partito Comunista della Turchia/marxista-leninista). Nelle settimane successive a questa retata in tante città della Germania sono scesi in strada migliaia di solidali asostegno dell’immediata scarcerazione.
In un comunicato che spiega le ragioni di scendere in strada, è scritto:
“Atik è un’organizzazione della classe operaia i/le cui membri sono originari/e della Turchia […] Gli arresti sono il risultato di un accordo segreto fra gli stati turco e tedesco […] Fra le persone arrestate ci sono operai/e, pensionate/i, medici e profughi politici […] che vivono in Germania da almeno 10 anni”.
Il 15 aprile 2015 su mandato di cattura tedesco sono stati contemporaneamente arrestati 11 rivoluzionari/e, rispettivamente 1 in Svizzera, 1 in Francia, 2 in Grecia e 7 in Germania. Su richiesta della Germania adesso le/i rivoluzionari/e arrestati dovranno essere estradati verso la Germania dove sono accusati sulla base del par. 129b…
La Turchia non uccide soltanto gli attivisti identificati in Turchia. Patrioti rivoluzionari andati all’estero per necessità, vengono ugualmente uccisi dallo stato turco, dal suo servizio segreto (MIT) in Europa se e quando vengono identificati-localizzati. Così è successo a Aachen (città del nord in Germania) nel 1981 alla nostra attivista Katip Saltan e a Nubar Yalim nel 1982 ad Amsterdam. Del resto la polizia tedesca sa benissimo che Sakine Cansiz, una delle fondatrici del PKK, Fidan Dogan e Leyla Saylemez, il 9 gennaio 2013 sono state uccise a Parigi dal MIT (**). Per queste ragioni la nostra attività illegale è la sola garanzia per riuscire a sopravvivere in Turchia e all’estero.
Lo stato turco è fascista! La lotta contro il fascismo non può essere portata avanti soltanto con mezzi pacifici!
Lo stato turco da 90 anni non riconosce il popolo kurdo, che vive sul territorio di stato turco. A ogni aspirazione della popolazione kurda diretta ai suoi diritti viene risposto con i massacri. Migliaia di kurdi sono stati uccisi davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. E vengono ignorati, assimilati, derubati dei loro diritti politici, i loro villaggi vengono incendiati, le persone kurde vengono espulse e sistematicamente annientate.
Lo stato turco non limita la sua repressione fascista su kurde/i. Tutti i raggruppamenti sociali, gli strati e orientamenti religiosi che difendono i loro diritti e la libertà, vengono posti sotto la medesima pressione. Persone democratiche e rivoluzionarie che esigono diritti e libertà vengono torturate, disperse nelle carceri e uccise ogni giorno.

Note:
(*) Introdotto nel codice penale nel febbraio 1980, recita: “Chiunque promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia associazioni che si propongono il compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo o di eversione dell'ordine democratico è punito con la reclusione da sette a quindici anni. Chiunque partecipa a tali associazioni è punito con la reclusione da cinque a dieci anni. Ai fini della legge penale, la finalità di terrorismo ricorre anche quando gli atti di violenza sono rivolti contro uno Stato estero, un'istituzione o un organismo internazionale”.
Nella situazione della crescente lotta rivoluzionaria esistente negli anni ‘70 anche in Germania per colpire i gruppi rivoluzionari venne inserito il comma “a” contro l’“associazione con finalità di terrorismo”, dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 a New York, fu la volta del comma “b” cioè “associazione sovversiva con finalità di terrorismo internazionale”, per questo inserita nella “lista nera” della NATO. In base a quel comma alla Germania era possibile arrestare persone (politicamente non attive in Germania, ma che simpatizzano per un dato gruppo rivoluzionario di un altro paese) abitanti al suo interno o chiederne l’arresto se abitanti in altri paesi. Per esempio: nel novembre 2008 vengono arrestati membri della Federazione dell’Anatolia non perché condannate da tribunali tedeschi, ma a causa della loro “appartenenza a un gruppo illegale in Turchia”. Un altro esempio è il PKK (Partito dei Lavoratori Kurdi): in Germania tante persone simpatizzanti del PKK sono state accusate di “aver organizzato, visitato e preso parte a incontri, manifestazioni del PKK”.
Nel 2009 il 129 viene ulteriormente aggravato con l’aggiunta di altri commi secondo cui una persona è condannabile non tanto per “reati commessi” ma perché da condannare in ogni caso. Sulla base di queste condanne “preventive” sono state messe in galera migliaia di persone. Il fatto è che: se si guardano i rapporti turco-tedeschi svoltisi nella storia si trova che gli investimenti e gli interessi politici e militari della Germania non hanno mai ignorato i desideri della Turchia in riferimento all’arresto, alla condanna dei comunisti e dei rivoluzionari. Nella visita in Turchia nel febbraio 2013 della cancelliera Angela Merkel venne chiaramente ribadito, che la Germania assume un comportamento severo nei confronti dei rivoluzionari e dei comunisti che andranno a vivere al suo interno. Da qui le retate, operazioni di arresti contro simpatizzanti, militanti di organizzazioni, partiti attivi in Turchia.

(**) Nella notte fra il 9 e il 10 gennaio 2013, tre militanti kurde sono state uccise con un colpo alla testa nei locali del centro d'informazione del Kurdistan situato nel cuore di Parigi. Fra le vittime Sakine Cansiz, 55 anni, una delle fondatrici del PKK, superstite del campo di tortura Diyarbakir durante la dittatura del generale Evren. Le altre due militanti di una ventina di anni più giovani sono cresciute in Europa.

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Aggiornamenti sulla lotta delle compagne e dei compagni della Turchia e del Kurdistan nelle carceri tedesche
La compagna Guelaferit Uensal é sotto il tiro delle prepotenze e delle provocazioni delle guardie carcerarie, dei “servizi di sicurezza”.
Lei di origine turca è stata estradata nel settembre 2011 in Germania dalla Grecia su richiesta della procura federale tedesca avanzata tre mesi prima. Ora (settembre) si trova nel carcere femminile di Berlino-Lichtenberg. E’ accusata di essere stata militante del Fronte-Partito Rivoluzionario per la Liberazione del Popolo (DHKP-C). In particolare viene indicata come coordinatrice delle manifestazioni a sostegno del Fronte e della vendita della sua stampa. L’accusa è di “sostegno di un’organizzazione sovversiva estera con finalità di terrorismo internazionale” secondo l’art. 129b del cp tedesco (l’eguale del 270 bis in Italia). Nel maggio 2013, dopo 2 anni di isolamento è stata condannata a 6 anni mezzo di carcere.
Per mettere fine all’isolamento, alla censura e alle provocazioni (una prigioniera della stessa sezione ha tentato di aggredirla con un coltello) in marzo ha iniziato uno sciopero della fame che si è prolungato per 54 giorni. La protesta ha trovato ascolto fuori. Manifestanti si sono raccolti davanti al carcere. Deputati e consiglieri comunali le hanno fatto visita. Ma nel frattempo Uensal è stata trasferita dal carcere di Berlino-Pankow in quello di Berlino-Lichtenberg. Lì si è trovata di fronte a storie tipo: gli oggetti per la pulizia delle celle vengono consegnati solo alle prigioniere tedesche; ha avuto uno scontro verbale con una guardiana che riteneva giusta quella distribuzione razzista perché in linea con il principio “dividi et impera”. Dopodiché le hanno spento il televisore, tolto le telefonate, anche i giornali, e le riviste, tantopiù se del Soccorso Rosso Internazionale (SRI), le vengono consegnati con notevole ritardo.
I risultati raggiunti in seguito a 54 giorni di sciopero della fame adesso sono stati ridimensionati ma di certo la compagna non è più sola come un tempo; la solidarietà già costruita e attiva si farà sentire.
Lo sciopero della fame di Uensal ha avuto l’importante sostegno di Ahmet Duezgun Yueksel, anche lui di origine turca, ora in carcere a Ratingen, cittadina del Nord Reno Westfalia.
Ahmet nel 2007 ha dovuto lasciare la Turchia per la sua attività di avvocato; arrivato in Germania venne arrestato e colpito con il 129b. Gli affibbiarono una condanna di 5 anni e 4 mesi, trascorsi nella sezione di isolamento di Stammheim- Stoccarda (dove nell’ottobre 1977 sono stati uccisi tre militanti della RAF). Una volta scarcerato è stato sottoposto all’obbligo di dimora in Germania. Dopo poco si sottrasse a questo obbligo.
Nel maggio 2014 anche lui venne arrestato in Grecia ed estradato in Germania. Qui ora è dotato appena di una sorta d’asilo che al termine della condanna permette allo stato tedesco di estradarlo immediatamente in Turchia. Ad Ahmet è stato negato un colloquio, già consentito, con Wolfang, compagno dello SRI, che lavora per la rivista “gefangenen info”, perché ha pubblicato sulla rivista, informazioni riguardo allo sciopero della fame di Admir Baro, albanese, anche lui chiuso nella carceri tedesche.

da gefangenen.info, agosto e settembre 2015


arresti per il corteo del primo maggio a milano
La mattina di giovedì 12 novembre, a Milano, sono stati arrestati e chiusi a S. Vittore quattro compagni (dovevano essere cinque ma uno non è stato trovato a casa) per la manifestazione del Primo maggio a Milano, altri cinque in grecia e altri cinque, perquisiti e denunciati a piede libero.
Quel giorno, mentre veniva inaugurata la fantasmagorica vetrina di Expo, scoppiava la rabbia di chi, a fronte dell'arroganza del potere e la pacificata rassegnazione del cittadino medio, nutre in cuor suo mille e più ragioni per mandare in frantumi le vetrine del “tutto va bene, tutto funziona al meglio”.
Le accuse a carico degli imputati sono gravissime. Si va dal travisamento a violenza, dal tentato incendio fino a “devastazione e saccheggio”. Quest'ultimo capo d'accusa, nato in riferimento a situazioni di vera e propria “guerra civile”, è stato rispolverato, ormai da una decina d'anni, per colpire le manifestazioni di piazza che vanno oltre il limite del consentito, dalla rivolta generalizzata di Genova 2001 fino alla manifestazione antifascista di Cremona del 24 gennaio 2015, passando per il 15 ottobre 2011 di Roma. Prevede una condanna fino a 15 anni.
La sera stessa degli arresti un bel gruppo di compagn* è riuscito a portarsi sotto le mura del carcere a scandire i nomi degli arrestati uniti alla parola “libero!” dunque a comunicare con urla, botti e battiture con tutte le persone chiuse.
La sera successiva si è tornati là in corteo, composto da un centinaio di manifestanti, partito da piazza 24 Maggio, distante qualche km dal carcere. La comunicazione è stata immediata e sentita. Di seguito estratti del volantino di chiamata al corteo e l’appellodei cinque compagni greci.
Edoardo, Andrea, Alessio, Nicolò, Alexandros, Odyssea, Konstantinos, Nikolas Liberi subito! Solidarietà per gli indagati! Le lotte non si arrestano!
Chi ha devastato e saccheggiato Milano è stato Expo!

No all'estradizione dei 5 studenti in lotta
Giovedì 12 novembre, giorno di sciopero generale, la polizia accompagnata da un magistrato, fa irruzione nelle case di cinque studenti ad Aghia Paraskevi e li arresta, su richiesta dello Stato italiano e in conformità con il Mandato Europeo di Cattura emesso contro di loro. Lo stesso giorno, a Milano, la polizia italiana arresta cinque ragazzi con lo stesso capo d'imputazione.
I reati contestati riguardano la loro partecipazione al corteo No Expo avvenuto il primo maggio a Milano Dalle autorità giudiziarie italiane e, indirettamente, dal governo stesso è stata richiesta l'estradizione dei cinque giovani affinché il loro processo si svolga in Italia, senza che l'intero fascicolo d'inchiesta sia ancora stato inviato al consiglio della Corte d'Assise, che dovrà decidere se accogliere la richiesta di estradizione. Le uniche prove fornite dall'accusa consistono nella loro presunta partecipazione agli scontri, senza specificare quali siano state effettivamente le azioni compiute e in che modo potessero essere attribuibili a loro. L'impianto accusatorio è rimasto alla mercé dei disegni politici dei magistrati della Corte d'Assise, che deciderà se il materiale raccolto sarà sufficiente a consolidare l'accusa.

No Expo - Come dire “Ya Basta!”
Che corteo era, quindi, quello a cui hanno partecipato i cinque studenti? Quest'anno è toccato a Milano ospitare l'Esposizione Universale, un evento organizzato ogni cinque anni in una città diversa, il cui scopo primario è quello di spettacolarizzare le meraviglie del capitalismo e permettere alle grandi imprese di concludere affari di ogni genere. Chiamiamole Olimpiadi, chiamiamola Coppa del Mondo o Biennale, si tratta sempre delle stesse feste durante le quali lo champagne scorre a fiumi, rigorosamente servito da giovani sottopagati, dove tra gioielli e pellicce si raccontano le barzellette e le èlite mondiali del capitalismo firmano con la penna d'oro le ultime condizioni di sfruttamento dei lavoratori. Per l'organizzazione di questa festa non sono mancate mazzette e tangenti tra politici, mafiosi e grandi appaltatori, gli scandali e i buchi nei bilanci, parallelamente alle infami condizioni di lavoro nella costruzione e nello svolgimento di Expo, le speciali misure di sicurezza ecc. Ma sarà un successo assicurato! Non possiamo permettere alla miseria e sfruttamento di rovinarci la festa! Non dimentichiamo che questo enorme sperpero di denaro avviene contemporaneamente all'adozione di nuove misure di austerità da parte del governo italiano.
Anche se tutto questo ha un sapore greco (Olimpiadi e crisi in testa), si tratta di capitalismo mondiale. Contro questa fiera di svalutazione delle nostre vite, migliaia di persone da tutta Italia e non solo hanno deciso di unire le loro voci e il loro impegno in un collettivo “ora basta”. Il giorno di inaugurazione di Expo viene indetto un corteo NoExpo, condiviso da tutte le realtà di movimento e, grazie alla concomitanza del primo maggio, anche dai lavoratori. Sono riuscite a coesistere diverse logiche e diverse pratiche, componendo un movimento di resistenza sociale eterogeneo.

Ma cosa ci facevano lì i 5 di Aghia Paraskevi?
I cinque studenti accusati fanno parte del movimento studentesco greco, sono membri attivi delle assemblee del loro quartiere e hanno preso parte alle lotte scoppiate negli ultimi anni in Grecia. In altre parole sono parte di quelle migliaia di persone in lotta che negli ultimi anni sono scese nelle strade per la dignità e la solidarietà sociale. Sono una goccia nell'oceano dei milioni di persone che, organizzate o meno, resistono allo sfruttamento e alla svalutazione delle loro vite, alla violenza quotidiana del potere che arriva fino all'assassinio, dalle morti sul lavoro alle “esecuzioni” a freddo della polizia così in Grecia come in Argentina, passando per Tunisia, Egitto, Bosnia, Turchia, Messico e Brasile, solo per citarne alcuni. Era naturale che i cinque studenti partecipassero a una manifestazione del genere. Il giorno successivo, durante un rastrellamento, sono stati fermati davanti a un bar semplicemente perché uscivano da uno spazio sociale occupato; sono, poi, stati obbligati illegalmente, senza la presenza di un interprete, a fornire le proprie impronte digitali e il DNA.

Quando quelli di "sotto" si svegliano, quelli "sopra" tremano
E' evidente che la resistenza generalizzata della classe subalterna non lascia indifferente lo Stato, anzi, fa aumentare la posta in gioco. L'attacco ai diritti dei lavoratori e a ogni condizione di vita dignitosa si intensifica, così da aumentare sfruttamento e paura e limitando quindi la possibilità di reagire. In poche parole vogliono costringerci a tenere la testa bassa, elemosinare le briciole e a dire pure grazie, senza avere né il tempo né la forza e l'energia per organizzare le nostre resistenze.
La violenza di Stato e la repressione fanno somigliare sempre di più le polizie nazionali a eserciti, tanto nelle tattiche quanto negli armamenti. E' lo stesso filo rosso che unisce l'assassinio di Grigoropuolos, l'operato feroce dei MAT, le forze antisommossa, dei ΔΕΛΤΑ/ΔΙΑΣ e in generale dei corpi di polizia durante gli scioperi generali in Grecia. Così come altrove, negli assassinii delle favelas brasiliane, nei ghetti americani e nelle banlieu francesi, a Genova nel 2001 con Carlo Giuliani, nel cosiddetti naufragi dei migranti nel Mediterraneo. E' sempre lo stesso cartello d'avvertimento, quello che lampeggia sopra le teste dei dannati di questa terra a ricordarci: “state buoni, le vostre vite per noi non valgono nulla.”
Il sistema infine prepara la repressione dal punto di vista giudiziario. Il Mandato di Cattura Europeo, di cui si avvale la magistratura italiana per chiedere l'estradizione dei cinque studenti, è entrato in vigore con la legge antiterrorismo del 2004, che calpesta i diritti umani più elementari, come ad esempio il fatto che in Italia manchi un termine di scadenza massimo per la custodia cautelare. Ciò significa ad esempio che se i cinque studenti dovessero essere estradati, potrebbero passare cinque anni nelle carceri italiane, lontani dai loro cari, e successivamente dopo il processo essere assolti. Cosa alquanto probabile considerata l'esiguità di prove presentate attualmente dagli inquirenti. Questa estradizione comporterebbe il loro totale isolamento, una rovina economica per loro e le famiglie, nonché l'impossibilità di difendersi adeguatamente: altra lingua, altro diritto. L'integrazione europea somiglia a una Guantanamo generalizzata, vorrebbe vedere dietro le sbarre tutti coloro che riempivano le strade di Atene in tutti questi anni di lotte sociali, scioperi e manifestazioni.
E' chiaro che l'unica accusa rivolta ai cinque studenti è quella di aver unito la loro voce a quella di migliaia si altri a Milano e altrove, di aver deciso di resistere alla sorte che i potenti di questo mondo ci vogliono riservare! E' altrettanto chiaro che la nostra solidarietà a chi lotta non è negoziabile!
No all'estradizione dei 5 studenti in lotta di Aghia Paraskevi. Cessazione di ogni procedimento nei loro confronti. Solidarietà ai 5 italiani accusati per lo stesso caso.
Martedì 24/11 Manifestazione all'ambasciata italiana 18.00, Sekeri & Bas. Sofias.
Sabato 28/11 Corteo Monastiraki 12.00, in occasione della giornata paneuropea di solidarietà agli arrestati per il Corteo del Primo Maggio NoExpo.

Assemblea di solidarietà ai 5 studenti in lotta


Resoconto dell’udienza nel processo contro chi ha partecipato al corteo del 15 ottobre 2011
Nella giornata di Lunedì 16 Novembre si è svolta un’altra udienza del processo riguardante i fatti del 15 Ottobre 2011. Come da programma sono state ascoltate le difese degli imputati, le quali, anche attraverso il ricorso a materiali video, hanno sostenuto la tesi dell’infondatezza delle prove portate dal Pm Minisci nell’accusa di devastazione e saccheggio a carico dei manifestanti.
Nel solito triste e freddo teatrino che rappresenta ogni tribunale, dei pensieri sentiti e commossi sono stati rivolti a Chucky, compagno morto suicida a settembre dello scorso anno, il cui nome era presente tra gli imputati di questa udienza.
In una lettera di qualche mese precedente alla sua morte Chucky aveva dichiarato “Voi Procure volete condannarmi e farmi arrestare? Fatelo pure, ma sarà per le mie idee e non per ciò che mi avete accusato”.
Nelle sue idee, c’era anche l’intenzione di dire questo dinanzi al giudice.
Tutto l’insieme di pensieri, che possono muoversi intorno a questa sua affermazione, non può essere recintato nello spazio e nel tempo di un’udienza di un processo. Al contrario, trasborda e si muove continuamente ogni giorno.
Un’idea non muore mai. Complicità e solidarietà con i/⁠le ribelli del 15 Ottobre.

16 novembre 2015, da inventati.org/rete_evasioni


sOLIDARIETÀ NEL PROCESSO CONTRO IL MOVIMENTO FIORENTINO
A Firenze siamo ormai giunti alle battute finali del primo grado nel processo contro il movimento fiorentino. Il processo è frutto di un'inchiesta aperta dalla procura fiorentina nel 2009 che formulò l'ipotesi del reato di associazione a delinquere applicata alle lotte politiche e sociali.
L'utilizzo del reato associativo ha permesso l'autorizzazione di intercettazioni ambientali e telefoniche, ha sancito il prolungamento delle indagini fino a quasi due anni determinando l'allargamento dell'inchiesta dal contesto studentesco da cui era partita, nello specifico dallo Spazio liberato 400 colpi, a tutte le altre mobilitazioni che stavano investendo il territorio come quella contro la costruzione di un CIE in Toscana, quella antifascista fino alle lotte dei lavoratori.
L'utilizzo del reato associativo è servito poi per alimentare la campagna mediatica di criminalizzazione del movimento e soprattutto ha legittimato le successive misure cautelari.
Il 4 maggio 2011 scattò la prima operazione di polizia che portò a diverse perquisizioni e ai primi arresti. Nelle settimane successive l'inchiesta si allargò alle manifestazioni che furono organizzate per rispondere all'attacco repressivo. Il 13 giugno si arrivò così alla seconda operazione di polizia che portò ad un totale di 86 compagni imputati nel processo di cui 35 sottoposti a misura cautelare tra arresti - uno in carcere gli altri ai domiciliari - e obblighi di firma.
Pertanto le realtà, i collettivi e le strutture firmatarie di questo APPELLO alla SOLIDARIETÀ lanciano una campagna di mobilitazione:
1. Affinché del processo si parli e si faccia parlare il più possibile di modo che si crei coscienza, consapevolezza e la repressione non possa agire nel silenzio.
2. Perché sia chiaro che chi lotta per la difesa dei propri diritti e più in generale per la costruzione di una società di eguali senza più guerra, razzismo e sfruttamento non sarà mai lasciato solo di fronte alla repressione con cui facciamo i conti quotidianamente: divieti, denunce, cariche, provocazioni, sgomberi e arresti sono ormai all'ordine del giorno.
3. Per arrivare ad una manifestazione di piazza il 13 FEBBRAIO 2016 ALLE ORE 15.30 IN PIAZZA SANTA MARIA NOVELLA A FIRENZE che sia un momento di espressione UNITARIA di solidarietà nei confronti degli 86 compagni e compagne imputati.

Centro Popolare Autogestito fi-sud, Movimento di Lotta per la Casa, Collettivo Politico Scienze Politiche, Cantiere Sociale Camilo Cienfuegos - Campi Bisenzio, Occupazione Corsica 81, Assemblea contro la metropoli, Rete dei Collettivi fiorentini, Confederazione Cobas Firenze, Clash City Workers - Firenze, Per un'altra Città, Collettivo contro la repressione - Firenze, La Polveriera, Partito Comunista dei Lavoratori - Firenze, Comitato Comunista Fosco Dinucci - Firenze, Partito Comunista - Firenze, Prc - Firenze, Giovani Comunisti - Firenze
Per info e adesioni: processo86firenze@hotmail.com

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Firenze: sgombero al Liceo Alberti, 50 denunce e oggi “serrata”
Ieri mattina agenti della Digos, supportati da due reparti di polizia in assetto antisommossa, hanno sgomberato con un’irruzione il Liceo Artistico Alberti in via San Gallo.
Gli agenti sono entrati con l’inganno, dopo aver minacciato una ragazza all’esterno della scuola affinché si facesse aprire la porta dai suoi compagni all’interno. A quel punto la polizia è entrata a spinta nella scuola e ha identificato cinquanta studenti, denunciati per interruzione di pubblico servizio. Lo sgombero è arrivato dopo tre giorni di occupazione portata avanti dalla maggioranza degli studenti per protestare contro la “buona scuola”.
Stamattina, la polizia è di nuovo intervenuta per sostenere la “serrata” decisa dalla preside. Porte chiuse agli studenti e presidiate da agenti della Digos e carabinieri, mentre all’interno della scuola si svolgeva un Collegio Docenti straordinario.
Molti studenti non sono tornati a casa e hanno manifestato per tutta la mattinata davanti al liceo contro il gravissimo clima di repressione del dissenso. Fuori dalla scuola sono rimasti anche diversi professori – che hanno disertato il Collegio Docenti – indignati per la serrata e per la presenza della polizia sul portone.
Nessuna condanna all’operato della Questura da parte della preside, di fatto complice di quanto accaduto. La preside aveva presentato denuncia in Questura dopo l’occupazione, per poi dichiarare di non aver chiesto l’intervento delle forze dell’ordine. Oggi, durante un incontro con una delegazione di studenti, ha comunque definito giusta e legittima la decisione dello sgombero, accentando di fatto di delegare alla Questura la gestione delle proteste studentesche.
“Abbiamo fatto quello che si doveva fare“. Così il questore di Firenze Raffaele Micillo ha commentato lo sgombero. “Al momento non ci sono altre situazioni simili, se si presenteranno valuteremo l’intervento. Dopo l’esperienza dell’occupazione all’altro liceo di Porta Romana – ha proseguito il Questore – abbiamo deciso di non frapporre indugi per riportare la situazione alla normalità“. Insomma, dopo i presidi-sceriffo sono arrivati gli sceriffi-presidi.
Non è andato giù il fatto che con dieci giorni di occupazione gli studenti dell’ISA siano riusciti a portare a casa una prima vittoria, costringendo la Città Metropolitana ad assumersi la responsabilità di urgenti interventi per quanto riguarda l’edilizia scolastica.
Le lotte degli studenti fanno paura e il “pugno di ferro” deciso dalla Questura non fa che confermarlo. Sotto attacco somo soprattutto le pratiche dell’occupazione e del blocco della didattica, che in questo autunno sono state riscoperte dagli studenti come armi di lotta forti ed efficaci, capaci di costringere le controparti a confrontarsi con le richieste avanzate dalla protesta.
24 novembre 2015, da firenzedalbasso.org


notav: Appello per una solidarietà ovunque
La lotta al treno veloce in Val Susa ha messo chi governa di fronte ad un problema molto più grosso della mera realizzazione dell'opera: la partita in gioco è di ben altra portata. Chi ha deciso di lottare, con ostinazione e con la capacità di dotarsi degli strumenti necessari, ha stravolto i piani di chi voleva costruire quella linea ferroviaria. In discussione c'è la capacità dello Stato di controllare un pezzo di territorio e una popolazione ostile a una decisione calata dall'alto, che minaccia valli,  montagne  e le vite di chi le abita.
Per far sì che ritorni l'ordine, con la gente contraria chiusa in casa e i lavori al cantiere indisturbati, chi amministra e gestisce si è dotato nel tempo di svariati dispositivi per meglio  punire, controllare e prevenire. Così, mentre la Valle viene militarizzata, in Tribunale si accumulano fascicoli a carico dei “facinorosi No Tav” e i Pubblici Ministeri studiano nuove strategie per sfiancare chi lotta: dalle ingenti pene pecuniarie alle condanne penali esemplari.
La mossa indiscutibilmente più audace è stata l'accusa di terrorismo contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò e successivamente contro Francesco, Graziano e Lucio per un sabotaggio al cantiere di Chiomonte nella notte del 13 Maggio 2013. Questo paradigma accusatorio, già rigettato in Corte di Cassazione e nel primo grado di giudizio, verrà probabilmente riproposto nel processo d'appello a carico dei primi quattro che riprenderà il 30 novembre. A sostenerne la validità, dopo Rinaudo e Padalino, scenderà in campo il Procuratore Generale Marcello Maddalena, ormai sull'orlo della pensione.
L'accusa si basa principalmente su un articolo del codice penale, il 270 sexies che proclama, tra le altre cose, che è terroristica l'azione che intende costringere fattivamente “i poteri pubblici o un'organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto”. Non c'è bisogno di essere dei giuristi per capire le implicazioni di un simile articolo di legge: ogni lotta che scelga di oltrepassare i recinti del dissenso consentito e di intralciare praticamente un progetto di Stato e gli interessi particolari di cui si compone, si espone ora non solo a scudi, manganelli, ruspe e denunce ordinarie, ma anche alla minaccia di queste norme anti-terrorismo. Per questo motivo la logica accusatoria alla base dei processi per “terrorismo” non minaccia unicamente  la libertà dei sette inquisiti e dell'intera lotta No Tav, ma quella di tutti coloro che non hanno intenzione di rinunciare a lottare, in Valle come altrove.Come reagire? Di certo non tornandosene tutti a casa in buon ordine. Come le reti si possono tagliare, gli scudi rompere, i mezzi sabotare, anche il dispositivo del “terrorismo” non è inattaccabile. L'enorme solidarietà che si è diffusa all'indomani degli arresti ce lo ricorda. Non è stato una semplice reazione in difesa di sette compagni, ma un'energica spinta propositiva talvolta in grado di non perdere la volontà di mettere i bastoni tra le ruote ai responsabili dell'opera, ognuno con i propri mezzi. I lavori al cantiere hanno continuato ad essere disturbati, i macchinari delle ditte sono spesso stati sabotati, i principali finanziatori e sostenitori della Torino-Lione, come il PD e le agenzie dell'Intesa - San Paolo, sono stati in vario modo attaccati, così come l'alta velocità in tante sue arterie ha subito blocchi ed intoppi, mostrandoci, una volta di più, la capillarità delle infrastrutture e la loro vulnerabilità.
Il processo di appello ricomincerà il 30 novembre e non durerà che qualche settimana. In questo periodo, torniamo a discutere e organizzare la solidarietà a Chiara, Mattia, Claudio, Niccolò, e a Graziano, Francesco, Lucio, in valle come in città.
Diamo vita a iniziative, benefit, azioni di informazione e di disturbo, ognuno secondo le proprie possibilità, ognuno dove abita e lotta.

Compagni e solidali degli imputati
2 novembre 2015, da informa-azione.info

A causa dello sciopero degli avvocati penalisti indetto dal 30 nov al 4 dic, non potendosi quindi celebrare le prime due udienze previste il 30 nov e il 1 dic, la prima udienza del processo di appello per i primi 4 imputati per la fantastica notte del 13 maggio 2013 sarà l'11 dicembre alle 9 e 30 in aula bunker.
Lo sciopero è stato indetto dall’Unione delle Camere Penali con un lungo testo di motivazione aperto da una breve premessa che di seguito riposrtiamo.
“Contro ogni estensione degli strumenti del “doppio binario”, del regime speciale del 41 bis e dell’art. 146 bis att. c.p.p., manifestamente contrari ai principi costituzionali del giusto ed equo processo, utilizzati al di fuori di effettive esigenze di sicurezza e di contenimento della pericolosità e nel disprezzo della umanità del processo e della dignità delle persone, per porre al centro delle riforme una nuova idea di Giudice ed una idea di processo che non sia più una macchina palingenetica di contrasto ai fenomeni criminali, ma uno strumento democratico e laico di accertamento della responsabilità dei singoli, realizzato attraverso il potenziamento del dibattimento e del contraddittorio”.

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passeggiata a sorpresa al cantiere in val susa
Ieri sera (21 novembre) circa un centinaio di No Tav ha lasciato il presidio davanti ai cancelli e prendere i sentori che, attraverso le vigne, raggiungono il cantiere e le sue reti. Colta di sorpresa, la polizia non ha potuto far altro che ripararsi dietro ai mezzi lanciando lacrimogeni ed attendere il termine delle manifestazione. Le ansa di oggi, che riprendono le solite veline della questura, rasentano il fantascientifico e raccontano di No Tav dispersi dai lacrimogeni (dai vari video si vede bene che non è così) e del non raggiungimento delle reti del cantiere (in realtà se i No Tav avessero voluto, vi avrebbero potuto stendere il bucato…). Informazioni errate a parte, l’umore è alto come l’attesa per le mobilitazioni che ci attendono ad inizio dicembre.
Nessuna tregua vi è concessa, la Valle non vi vuole, andatevene via!

21 novembre 2015, da infoaut.org


Lettera dal carcere di Viterbo
Il sottoscritto, Rogoli Giuseppe, fa presente di aver ricevuto la raccomandata contenente n° 3 libri; ne sarei stato contento leggerli, invece sento solo il dovere di ringraziare il donatore poiché una sentenza della cassazione vieta ai detenuti in regime speciale di cui all’art. 41bis di ricevere o inviare libri all’esterno dell’istituto detentivo.
Per questo motivo la direzione ha depositato i libri al casellario, là dove ne ho altri, essendo un assiduo lettore. Purtroppo la direzione nulla può a fronte della sentenza su menzionata; pertanto c’è da sperare a un ripensamento istituzionale o alla decadenza del 41bis a cui il sottoscritto è sottoposto da 23 anni, così avrò modo di rituffarmi nella mia lettura sicuramente produttiva per la mente e la cultura.
Attualmente mi cimento con il quotidiano: Il Corriere della Sera.
Alla presente allego l’atto di sequestro della direzione per meglio rendiconto.
Rinnovo i miei apprezzabili ringraziamenti

Viterbo, 11 novembre 2015
Giuseppe Rogoli, Strada S.S. Salvatore, 14/B – 01100 Viterbo

41 bis = tortura
Giovedì 12 novembre, presidio al Palazzo di Giustizia di Milano
Il regime detentivo applicato con l'art. 41bis dell'ordinamento penitenziario è il punto più rigido della scala del trattamento differenziato che regola il sistema carcerario italiano. Cos'altro può dirsi di un regime che dispone:
l'isolamento per 23 ore al giorno (soltanto nell’ora d’aria è possibile incontrare altri prigionieri, comunque al massimo tre);
un'ora sola di colloquio al mese con soltanto i familiari diretti, che impedisce per mezzo di vetri, telecamere e citofoni ogni contatto diretto;
l'esclusione a priori dall’accesso ai “benefici”;
l'utilizzo dei Gruppi Operativi Mobili (GOM), il gruppo speciale della polizia penitenziaria, ben noto per i pestaggi nelle carceri e per i massacri compiuti a Genova nel 2001;
il “processo in videoconferenza” in cui l’imputato/a detenuto/a segue il processo da solo/a in una cella attrezzata del carcere, tramite un collegamento video gestito a discrezione da giudici, pm e forze dell’ordine, quindi privato/a della possibilità di essere in aula con tutte le limitazioni che ciò implica sul piano della solidarietà, della visibilità del processo, della comunicazione (tra coimputati, con amici e familiari, con il “pubblico”) e della difesa legale che ne risulta fortemente compromessa;
la censura-restringimento nella consegna di posta, stampe e libri dei quali è possibile tenerne in cella soltanto tre.
Le motivazioni accampate per la detenzione al 41bis sono sempre pretestuose. L’esigenza di evitare il perdurare dei legami con l’associazione è secondario rispetto al fine ultimo di estorcere informazioni che portino a nuove accuse, a nuove incarcerazioni. Più di vent'anni di 41bis non hanno di certo arginato la cosiddetta criminalità organizzata che invece dilaga insieme alla corruzione degli apparati istituzionali.
Così la “lotta alla mafia”, al pari di quella al “terrorismo”, risultano essere soltanto strumenti per generalizzare forme di controllo, coercizione e deterrenza necessari a governare una fase storica segnata dalla recessione globale e dall'apertura di nuovi e preoccupanti fronti di guerra.
Di esempio è la recente legge antiterrorismo (17 aprile 2015, n. 43) che da una parte crea nuove fattispecie di reato tanto generiche e arbitrarie quanto lo è il concetto di terrorismo mentre, dall'altra, rifinanzia decine di missioni militari italiane all'estero per diverse centinaia di milioni di euro.
Con il passare del tempo, le leggi e le norme di natura emergenziale si estendono cosicché ogni restrizione adottata nelle sezioni a 41bis prima o poi, con nomi e forme diverse, penetra nelle sezioni dell’Alta Sicurezza e in quelle “comuni”, specialmente contro chi osa alzare la testa.
In particolare, da alcuni mesi chi è sottoposto al regime del 41bis non può più ricevere libri, né qualsiasi altra forma di stampa, attraverso la corrispondenza e i colloqui sia con parenti che con avvocati: i libri e la stampa in genere si possono solo acquistare tramite autorizzazione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), il dipartimento del ministero della Giustizia preposto al governo delle carceri italiane.
Nel novembre 2011 una circolare del DAP impose questa restrizione ma fu bloccata da reclami accolti nelle ordinanze di alcuni giudici di sorveglianza. I ricorsi opposti da almeno tre pubblici ministeri contro queste ordinanze furono confermati in Cassazione. Infine una sentenza della suprema Corte del 16 ottobre 2014 ha dato ragione al DAP, rendendo così definitiva questa nuova odiosa restrizione.
La campagna “Pagine contro la tortura” riprende il percorso ormai decennale delle mobilitazioni contro il 41bis che oggi più di prima è lo strumento assassino su cui si regge l'intero assetto carcerario. L'occasione dei ricorsi fatti da una compagna e da due compagni oltre che da altri prigionieri contro la circolare del DAP ci ha spinto ad appoggiare questa lotta e darle forza.
Una società che sottostà al ricatto della perenne emergenza, alimentata da banalizzazioni ed allarmismi, si rende complice delle vessazioni e delle torture di cui il blocco dei libri è solo l’ultimo, più recente tassello.
L'appello e i contributi alla campagna sono contenuti nel blog paginecontrolatortura.noblogs.org. Per contatti: paginecontrolatortura@inventati.org

Milano, novembre 2015
OLGa (E' Ora di Liberarsi delle GAlere)


lettere dal carcere di Opera (Milano)
Carissimi/e compagni/e, eccomi a voi con l’ennesimo abuso e crimine di coloro che parlano tanto di legalità e rieducazione dei detenuti.
Lo scritto che accludo è di un uomo gravemente malato (che non dovrebbe stare in isolamento in quanto lo vieta l’Ordinamento Penitenziario), ma oltre questo caso, ce n’era un altro di un uomo, della sezione E.I.V. (elevato indice di vigilanza) chiuso in cella mentre davanti a lui due compagni si picchiavano. Ebbene, lo hanno portato in isolamento, nonostante abbia 70 anni, malato con una leucemia fulminante, dove è sottoposto a chemioterapia; oltre a questo ha il diabete e altre gravi patologie.
Lo hanno tenuto isolato una settimana, solo perché avrebbe detto quello che aveva visto!! Sono delle carogne che vogliono imporre ai detenuti di “cantarsela”… e questo lo fanno in ogni lite. Invito “Antigone” a venire a Opera spesso, però in isolamento e a prendere le cartelle cliniche di coloro che vengono isolati.
Ieri mi hanno detto che devo scontare 15 giorni (di isolamento) e sapete perché? Per minacce contro ignoti!!! Lascio ogni commento a chi legge. Questi fanno i processi alle intenzioni – voglio rapinare…10 anni.
Avevo fatto un telex ai compagni/e al Cabana, spiegando perché sono in isolamento, ma i signori di Opera lo hanno bloccato! Ma tutto questo non fa altro che incentivare le mie lotte contro questo sporco-infame-ignobile- sistema criminale. Mi vogliono in isolamento ed io sono felice di poterli ripagare; mi hanno chiamato ad un altro consiglio disciplinare, che ho rifiutato. Adesso ho scritto al magistrato di sorveglianza: non permetto mai più un abuso e un solo giorno di isolamento gratis e sono pronto a prendermi un processo, tanto per colpa di questi vigliacchi e delle denunce, ogni mese a Tolmezzo mi fanno un processo.
Il 3 novembre c’è una sentenza a Udine e a dicembre un altro processo nella stessa città e a gennaio inizia quello che mi hanno fatto per incastrarmi, e lì dimostreremo torture-pestaggi e tanto altro,
Abbraccio tutto il collettivo, tutte e tutti ed ogni iniziativa che si svilupperà contro i crimini verso l’esistente sarà una gioia che porterà calore ai nostri cuori. […]

22 ottobre 2015
Maurizio Alfieri, via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)

Segue la lettera acclusa.
Carissimi compagni/e, mi chiamo Fazio Salvatore, ho avuto il piacere di conoscere Maurizio che è qui in isolamento di fronte a me e finalmente posso rendere pubblica la mia storia e parlare di quello che succede in questo lager, dato che la direzione di questo (infame di carcere) vuole pavoneggiarsi con il secondo padiglione, facendo vedere che qui stiamo tutti bene quando invece non abbiamo diritto alla salute (come sancito dalla Costituzione).
Vi racconto la mia storia, dove noi malati (gravi) siamo condannati a morte.
Sono malato con quattro tumori, altre due ghiandole prolungate alla gola, per cui mi si è gonfiato l’esofago e facci fatica a respirare, sono asmatico al 100%, anche con una ghiandola ai polmoni, che ancora non sanno spiegare cosa sia.
Mi trovo in isolamento perché una sera sono svenuto in cella, così al mattino durante la visita medica ho reclamato i miei diritti con tono alterato, questo è comprensibile. Mi hanno dato 15 giorni di isolamento, scrivendo menzogne, di avere offeso la dottoressa.
Nella caduta dello svenimento mi sono quasi rotto un ginocchio, ma questi signori non si sono fermati e mi hanno portato in isolamento sulla sedia a rotelle, senza neanche curarsi del mio stato di salute che gli avrebbe dovuto proibire di isolarmi.
Questo è Opera, questo è l’inferno, questo è il carcere con più suicidi e morti per incuria. Negli anni passati morti misteriose di cui la procura non si è mai voluta interessare, ma adesso attraverso i social network faremo conoscere i crimini della direzione.
Sono anche diabetico, cos’altro aggiungere? Aspetto vostre notizie e un abbraccio a tutti coloro che porteranno la mia voce fuori da queste mura contro questi sporchi assassini.

17 ottobre 2015
Salvatore Fazio, via Camporgnago, 40 20090 Opera (Milano)


lettera dal carcere di agrigento
[...] Ultimamente ci sono stati momenti di rottura all’asservimento e alla sopportazione. Mi riferisco al mio sciopero della fame in solidarietà allo sciopero della fame di un ragazzo di 16 anni accusato di essere uno “scafista” che in quanto minorenne qui non ci può stare e anche della morte di un ragazzo che, sentitosi male 2 venerdì fa, è inevitabilmente crepato.
Il giorno successivo i detenuti di tutto il carcere delle sezioni “comuni” sono scesi e rimasti all’aria per dire basta morire di galera ammazzati come carne da macello. Dopo 9 ore siamo rientrati in cella con la promessa che se non avessero risolto i problemi sistemici/strutturali che hanno causato l’ennesima vittima nelle patrie galere (siamo dall’inizio dell’anno a 90 decessi) saremo riscesi nelle barricate dei passeggi con più determinazione. Nei giorni seguenti sono avvenuti più di 30 trasferimenti punitivi e ciò ha impedito il proseguimento della lotta.
Mi spiace dell’inefficienza con la quale vengono portate fuori le informazioni. Ultimamente mi hanno confermato che neanche su internet sono state riportate le notizie che ho fatto uscire. Vedrò di riscrivere e superare l’isolazionismo.
Ho fatto anche delle udienza in merito ai reclami che si concluderanno in questo mese così potrò inviarvi con più completezza un contributo per il “fai da te”.
Comunque dopo 2 giorni di sciopero della fame di Mauro nel carcere di Terni mi hanno sbloccato sia il suo piego di libri che quello di “Olga” che mi avevano trattenuto. La solidarietà pratica ottiene sempre i suoi frutti. Fuori però non si percepisce niente e gli appelli alla mobilitazione su tematiche anticarcerarie vanno a vuoto. Forse perché pure internamente in galera non ci si impegna abbastanza.
Per il momento stacco e ti saluto fraternamente. Saluti ribelli.

Galera di Petrusa, 4 ottobre 2015
Davide Delogu, Carcere in Contrada Petrusa – 92100 Agrigento


Resoconto presidio in memoria di Eneas
sotto le mura del carcere di Pesaro di domenica 22 novembre
Domenica sotto il carcere di Villa Fastiggi c’è stato un presidio voluto da centinaia di compas, soprattutto giovani, provenienti da tutto il centro e il nord Italia in memoria di Eneas: un ragazzo di 28 anni ucciso nel-da questo carcere il 25 settembre scorso a causa di un arresto razzista, di carcerieri assassini. Lì, assieme a sua madre serena e decisa e alla sorella abbiamo ricordato Eneas, impegnandoci a continuare la lotta contro carceri, Cie, razzismo: contro ogni tipo di sfruttamento.
Eneas è morto. Morta però non è la sua vitalità, la sua forza, la sua combattività. Arrivato in Italia con la famiglia dal Marocco che andava ancora all’asilo, non ha avuto vita facile; ha conosciuto strada e galera ma non si è mai abbrutito e non ha mai mollato. Lo sa chi ha vissuto con lui, chi ne ha sentito parlare che, insieme chi è rinchiuso in quel carcere, ha urlato il proprio odio in faccia ai suoi assassini che, con la loro direttrice, dall’alto del muro di cinta squadravano il presidio.
Fra chi era in cella e chi era fuori, per l’intero pomeriggio (dalle 15 fino a oltre le 18) ha preso vita una comunicazione intensa. Da dentro sono uscite tante voci che hanno raccontato brutalità e infamie a cui quotidianamente è sottoposto chi è rinchiuso. Hanno urlato che il mangiare fa schifo e si è obbligati al sopravvitto e il cibo da casa non entra, che sono in vigore restrizioni riguardanti colloqui, socialità, pacchi; censura e blocco della posta; che i medici sono incapaci e le medicine non ci sono, e non c’è il defibrillatore. Che in due anni sono state ammazzate cinque persone e tutte sotto i loro occhi. Che la direttrice è una sadica e da quando c’è lei sono chiusi tutto il giorno. Una direttrice (vedi volantino) messa lì, coperta da chi dirige tutte le carceri e ogni grado di carcerieri: da Stato, Ministero e DAP che vogliono trasformare le carceri in veri e propri lager.
Interventi hanno socializzato quanto avviene in altre carceri, da quelle venete al lager di Agrigento dove i detenuti di tutto il carcere delle sezioni “comuni” sono scesi e rimasti all’aria per dire basta morire di galera ammazzati come carne da macello.
Sin dal mattino e contemporaneamente al presidio un gruppo di compas con spiccheraggi e volantinaggio ha ampliato la comunicazione, costruendo così una certa sintonia fra chi è dentro e l’esterno. Far conoscere storie come quelle di Eneas, far uscire le urla dalle carceri, è decisivo per rompere luoghi comuni paralizzanti allo scopo di mobilitarsi contro ogni tipo di carcere, Cie compresi.
Il presidio ha raccolto il coraggio delle urla che uscivano dalle sbarre assieme alle fiamme di carte, di pezzi di materassi o che altro. Non a caso “Fuoco alle galere”, “Fuori tutte/tutti dalle galere dentro nessun* solo macerie” sono state, assieme a “Assassini”, le parole d’ordine maggiormente urlate.
E’ innanzitutto in quest’armonia che la solidarietà trova le finalità che gli mettono le ali per manifestarsi. Anche in questo senso l’incontro-presidio è stato stupendo perché chiama a riflettere concretamente sull’impegnarsi oggi contro il carcere, contro la società che ne ha bisogno, come è emerso anche negli interventi. L’impegno è grosso, ma del resto, anche mettere in piedi questa giornata non è stato semplice. Unirsi e lottare assieme, facile a dirsi, è in ogni caso indispensabile anche perché diventa esempio, spinta per chi è dentro. Come si dice: un lungo cammino inizia sempre…
Segue il volantino letto e distribuito davanti al carcere nei giorni precedenti il presidio.

***
CON ENEAS UNO DI NOI AMMAZZATO DAL CARCERE
Siamo amici di Anas Zanzami, ragazzo che era detenuto in questo carcere e che è stato ammazzato il 25 settembre. Il carcere uccide ovunque.
In questo carcere la situazione è particolarmente preoccupante, anche a causa della nuova direttrice: Armanda Rossi. Sappiamo di lei grazie ai racconti dei detenuti del carcere di Campobasso (di cui era direttrice prima di essere trasferita qui) raccolti dal giornale ‘Il Garantista’. Ecco qui uno stralcio:
“…I racconti dei detenuti hanno messo in forte evidenza un comportamento che lede fortemente la dignità umana di tutti coloro che sono rinchiusi nel penitenziario. I detenuti lamentano le privazioni anche più elementari, come ad esempio il mancato accesso di molti generi alimentari e persino i dolci in uso durante le festività (panettoni, torroni, uova di pasqua), di tutti i prodotti farmaceutici di libera vendita, l’acquisto di giornali che la direttrice non ritiene idonei. Sistematicamente viene negato ai familiari dei detenuti di portare qualsiasi genere alimentare.
I rapporti con i familiari sono fortemente limitati, con restrizioni non previste dalla normativa vigente, come ad esempio le telefonate sia ordinarie che straordinarie, sono vietati i colloqui con persone che pur essendo familiari non portano lo stesso cognome.
Nello scorso mese di agosto ha disposto con un ordine di servizio che i detenuti non potevano effettuare colloqui e telefonate con i propri avvocati, privando di fatto il diritto alla difesa sancito dalla Costituzione. Non vengono autorizzate le autocertificazioni e lo svincolo dei soldi. Questi episodi insieme ad un atteggiamento e linguaggio di sfida (un detenuto di etnia rom che chiedeva un colloquio si è visto rispondere: «Questo è un carcere, non un albergo ed io sono Hitler!») hanno portato i detenuti all’esasperazione ed a porre in essere atti di autolesionismo pur di aver ascolto…”
Eneas non ha accettato tutto questo, e neanche noi vogliamo farlo.
È importantissimo farsi sentire da fuori, portare dentro queste parole e la nostra solidarietà. Far sentire alla direttrice ed alle guardie che è scaduto il loro tempo, che ora si sa quello che accade là dentro. Non avremmo mai pensato che un fatto come questo potesse succedere ad un nostro amico, ad un nostro fratello, benché Eneas fosse riuscito a mandare una lettera in cui raccontava ciò che accade qui.
Non avremmo mai pensato che potessero ammazzarlo. Ma è accaduto. Dobbiamo fare in modo che non accada più! Rompere questo muro di silenzio, incontrandoci, parlandoci, per costruire insieme sostegno morale e concreto a chi è dentro. Affinché sia sempre più forte la voce e la lotta di chi è recluso/a. Affinché guardie e direttrice sentano che i detenuti/e non sono soli/e e quindi capaci di reagire a restrizioni e prepotenze; sia individualmente che insieme.
Domenica 22 novembre alle 15 troviamoci al carcere di Villa Fastiggi (Pesaro) assieme a prigionieri/e per far sentire loro la nostra solidarietà e complicità nella rabbia e nell’odio contro carcere e carcerieri.


Lettera dal carcere di Sulmona
Carissimi compagni, oggi è molto difficile parlare e cercare di capire la questione carcere, perché ci sono molte realtà diverse riguardo alle persone e ai regimi carcerari.
Qui a Sulmona il problema è il regime di chiusura da parte dell’istituzione. Qui tra AS1 AS3 c’è la maggior concentrazione di ergastolani – senza nessuna prospettiva e un futuro. C’è qualcuno che si diletta con la pittura come hobby, ma tanti ergastolani hanno solo passeggio e cella, e nessun spiraglio di libertà.
Altra cosa qui a Sulmona, l’assistenza medica lascia a desiderare, manca tutto, meglio non ammalarsi, se no sono guai. Ci sono due sezioni AS1. Per quello che riguarda la vita è difficile descriverla perché non c’è socializzazione tra carcerati e condivisione di lotta e di pensiero, quindi è molto difficile portare avanti un discorso di lotte, anche perché la situazione di tanti ergastolani è complicata. Chi gli può dare torto se non vogliono portare avanti certi discorsi che gli portano guai e sofferenza. Chi ha il coraggio di coinvolgere a delle lotte persone che hanno fatto 20-30-35 anni di galera dura – e anche di 41bis.
Con questo spero di non essere frainteso. Sono giuste le lotte, ma quelle che possono portare dei miglioramenti e delle cose positive che danno speranza di poter uscire da questi posti di sofferenza dove nessuno deve stare. In carcere, per quanto aperto, non si sta mai bene, perché si è in condizioni in cui non ci si può “abituare” senza perdere la dignità e il senso della misura di quel che dev’essere la vita di un uomo nelle condizioni in cui si può essere uomini.
Le cose cambiano perché gli uomini le modificano solo però quando si trovano nella stretta della necessità, quando non è possibile mantenere le condizioni date. Il sovraffollamento carceri è solo l’effetto di una tale necessità che deve riguardare il registro di codici penali e civili inadeguati alle esigenze sociali.
Ci sono strumenti di “sicurezza” che possono valere su situazioni e numeri determinati: quando la popolazione cresce di numero e conoscenza; quando la società si allarga e i confini di uno stato si confondono con altri – come per la Comunità Europea; quando poi crescono i mezzi di comunicazione e variano e si moltiplicano quelli di interdizione e di controllo personale; quando le colpe non sono più le stesse di ieri nei sentimenti e le inimicizie sono quelle di prima… allora anche i registri delle colpe e delle responsabilità devono cambiare.
Il carcere è un istituto antico perché anacronistici sono diventati ormai i codici che gli assegnano punizioni simili a vendette e non nella prospettiva di un diritto della pena che, mentre riconosce le responsabilità apporta un contributo diretto a rendere migliori le condizioni di vita sociale della comunità carceraria.
Non bisogna abituarsi e nemmeno farsi carcere, smarrendo la dignità della tenerezza e della solidarietà umana.
Per la questione dell’abolizione dell’ergastolo è importante che se ne parli, che ci sia interesse valido su una questione così delicata, affinché possa muoversi di veramente decisivo. Anche se oggi non credo che c’è molto interesse per una discussione sull’ergastolo e sui carcerati in generale.
Queste sono le conseguenze del rimanere separati per anni e anni dai propri simili, a non fare nulla di appassionante, condannati al trascorrere del tempo, educati a fingere con l’assistente sociale o con lo psicologo, abituati a sottomettersi sempre a regole che impone il potere dello stato. Nulla di edificante.
Noi siamo contro il carcere perché vogliamo un mondo di uomini liberi.
Un saluto a tutti, Antonino.

Sulmona, 7 novembre 2015
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L’Aquila)
Lettera dal carcere di Livorno
Carissimi compagni/e, chi vi scrive è un detenuto-sequestrato del carcere di Livorno. Come ben sapete questo è stato uno dei peggior carceri d’Italia per il modo in cui trattavano i sequestrati dallo stato, con abusi veri e propri, soprusi, angherie e soprattutto violenza fisica. In quegl’anni era davvero dura stare a Livorno.
Questi infami di sbirri, tanti sono rimasti anche in questi anni e continuano sempre con quella mentalità. In tanti anni di carcere non ho mai visto niente di simile. Siamo più o meno 120 detenuti divisi in 2 reparti, il transito e l’ex femminile (dove secondo loro è un premio starci).
Da qualche mese a questa parte hanno permesso di far lavorare un po’ tutti, cambiando i modi di graduatoria. Purtroppo l’80% dei detenuti sono infami. Ormai è noto a tutti che per una telefonata in più al mese ti vendono come se nulla fosse.
Qui a Livorno stanno lavorando un po’ tutti, però col ricatto. Quando vai a chiedere di lavorare loro ti dicono: vuoi lavorare? Ci devi informare su quello che senti, vedi o succede in sezione. Se ti va bene ti facciamo lavorare se no, fai la fame, e naturalmente tutti lavorano, tranne che il sottoscritto che non ha mai lavorato ed altri tre amici miei… Infatti noi siamo esclusi da tutto. Diciamo che siamo sempre pronti al trasferimento!
Senza fare niente prendo un rapporto ogni 20 giorni, di media. Ultimamente ho preso anche 2 denunce, solo per essermi difeso dall’assalto di due magrebini che mi volevano fare una prepotenza e hanno provato a picchiarmi. Però hanno fatto male i propri conti… Ho dovuto rompere un tavolino e con le zampe mi sono difeso. Alla fine mi hanno denunciato per danneggiamento ai beni dell’Amministrazione ed una denuncia per lesioni gravi, visto che i due magrebini infami hanno avuto 40 giorni di prognosi.
Ormai le carceri in Italia sono finite. Sono piene di infami. Gente indegna di stare al mondo. Io purtroppo o per fortuna sono nato tondo e rimarrò tondo ed in questi carceri non mi ci trovo più. Si dovrebbe tornare ai tempi prima della legge Gozzini, quando non c’era niente di tutti i gadget che ci sono ora (fornelli, tv, ecc.). E soprattutto io sono dell’idea che i benefici hanno rovinato le carceri. Prima infami ce n’erano molto pochi e ogni giorno c’era una rivolta e si combatteva per i nostri diritti. Ora siamo (vorrebbero) schiavi dell’infami!!
Bisogna tornare a combattere come i nostri predecessori: “LOTTA DURA SENZA PAURA” e riprendersi le carceri in mano nostra!
Un saluto a tutti i compagni/e soprattutto a quelli ristretti al 41bis, al 14bis ed alle sezioni AS ai quali va il mio augurio più grande: NON MOLLATE MAI!

Livorno, inizio novembre 2015
Massimo Pracchia, via delle Macchie, 9 - 57124 Livorno