indice n.105

Le mosse della Turchia
contro l’esercitazione NATO Trident Juncture 2015
Prigionieri palestinesi in sciopero della fame
sulle condizioni carcerarie in egitto
il neocolonialismo delle multinazionali occidentali...
IL FILO SPINATO DELLO SFRUTTAMENTO
aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Lettera dalle carceri USA, di Mumia Abu-Jamal
Lettera dal carcere di Spoleto (pg)
lettera dal carcere di massama (or)
Da lettere di diversi prigionieri
Carto-lettera dal carcere di agrigento
carcere di venezia: caldo d’agosto, un racconto
Lettera dal carcere di Velletri (rm)
Lettere dal carcere di Rebibbia (RM)
Lettere dal carcere di Bancali (ss)
Lettere dal carcere di Opera (MI)
lettera dal carcere di cassino (fr)
da una Lettera dai domiciliari
da una lettera dal carcere di vercelli
Lettera dal carcere di Livorno
Ancora No Tav
Ancora sorveglianza speciale
Milano, quartiere Corvetto: buttate in strada 60 famiglie
Rovereto: blocco del traffico dopo la morte di un operaio
Privatizzare la sanità. Il modello Unipol


Le mosse della Turchia
Il governo turco da sempre lascia aperto il confine all’ingresso di armi dirette all’IS (Stato Islamico); si preoccupa di curarne i combattenti feriti, di fornir loro medicinali.
In seguito all’esplosione a Suruk (città turca confinante con il Kurdistan, parte della Siria) accreditata ad una ragazza carica di esplosivo, avvenuta esattamente un mese fa, che causò la morte di 32 militanti kurdi impegnati nella ricostruzione della città di Kobane (città kurda in territorio siriano) distrutta dai bombardamenti di USA e Turchia), si è rotta la tregua annunciata due anni fa da PKK (Partito del Lavoro del Kurdistan) e governo. Da allora il governo turco ha ordinato la ripresa dei bombardamenti delle posizioni militari e dei campi kurdi. In meno di un mese, l’esercito turco ha ucciso oltre 770 (settecentosettanta) combattenti kurdi (ufficialmente chiamati “appartenenti al PKK”); nello stesso tempo il PKK ha compiuto diverse azioni compresa quella a Pervari (località nel Kurdistan in territorio turco), dove l’esplosione di una bomba comandata a distanza, ha ucciso una pattuglia di otto soldati turchi.
Inoltre, nell’ultimo mese l’aviazione militare turca ha compiuto almeno 130 attacchi aerei contro obiettivi kurdi. Questo ha permesso e permette all’IS di cavarsela a buon mercato. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, la NATO, di cui la Turchia è membro da decenni con posizioni di forza seconde solo a quelle USA – anche nella fabbricazione di caccia – , è perfettamente in linea con le decisioni della Turchia. Negli stessi giorni della strage di Suruc, ad esempio, la Turchia ha “concesso” agli USA accesso e impiego dell’aeroporto militare di Incirlik, prossimo ai confini con la Siria.

22 agosto 2015, da jungewelt.de

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Centinaia di civili curdi feriti e molti assassinati
La polizia ha partecipato agli attacchi contro i civili curdi. Il Presidente turco Erdogan e l'Akp hanno provocato gruppi di fascisti, nazionalisti e razzisti a protestare e formare squadre per linciare e terrorizzare i civili curdi attaccando case in diversi quartieri di Istanbul, Ankara, Kirsehir, Kocaeli, Smirne, Balikesir, Malatya, Mulga, Mersin, Keçiören, Tuzluçayır, Beypazarı, Balgat, Isparta, Konya, Antalya e molte altre città.
A seguito di provocazioni continue da parte del Governo di Recep Tayip Erdogan, gruppi razzisti dell'AKP e gruppi fascisti si sono lanciati in attacchi coordinati contro civili curdi, hanno attaccati negozi curdi, case, aziende e uffici dell'HDP. Questi attacchi sono in corso dalle ultime 48 ore.
Centinaia di civili curdi in Turchia occidentale sono stati feriti durante gli attacchi di questi fascisti, e un numero imprecisato di persone sono state assassinate. Centinaia di curdi in varie città turche sono attualmente bloccati negli uffici HDP, dove hanno cercato riparo dal linciaggio di questi gruppi. Le squadre di fascisti hanno rotto le finestre, hanno scandito slogan anti-curdi e anti-HDP, mentre la polizia locale non è intervenuta per fermare questo terrorismo di massa.
Dall'inizio della guerra turca contro i curdi 32 anni fa, questa è la prima volta che tali violenze si sono verificate su così larga scala. Erdogan e l'AKP stanno direttamente, in modo esplicito, e volutamente provocando scontri razziali e attacchi da parte dei nazionalisti. Due giorni fa Erdogan ha dato l'ordine ufficiale alle forze di polizia di sparare a vista ai civili se ritenuti una "minaccia". Egli ha anche invitato l'opinione pubblica a informare di compagni civili che avessero ritenuto agire in maniera "sospetta". Questo è un tentativo di dividere la società e promuovere conflitto interno tra gruppi etnici, e stimolare il razzismo anti-curdo.
Le folle si stanno organizzando attraverso i social media, formando gruppi e attaccando case note per appartenere alle famiglie curde. Si sono verificati attacchi contro 128 uffici dell'HDP dove il simbolo del partito e i suoi slogan sono stati strappati e sostituiti con la bandiera turca. Altri uffici sono stati dati alle fiamme. I gruppi fermano gli autobus locali che viaggiano tra le città e controllano le carte di identità della gente per determinare chi è curdo o meno. Quando i conducenti di autobus hanno tentato di scappare per sfuggire alla folle inferocite, la polizia è intervenuta e ha fermato gli autobus causando ulteriori attacchi contro gli autobus, i conducenti e i passeggeri. In alcuni casi, la polizia ha partecipato agli attacchi con i gruppi fascisti contro i civili curdi.
Gli attacchi a case, civili e quartieri curdi sono ancora in corso e centinaia di migliaia di curdi in queste grandi città sono attualmente in grave pericolo.
Chiediamo alla comunità internazionale di stare con i curdi alla luce di questi attacchi inquietanti e chiaramente coordinati, e di agire immediatamente per chiedere al governo Erdogan di porre fine alle sue politiche violente, razziste e di divisione.

Il Congresso Nazionale del Kurdistan – KNK
9 settembre 2015, da infoaut.org


contro l’esercitazione NATO Trident Juncture 2015
Dal 28 settembre (forse spostato al 4 ottobre) fino al 6 novembre si svolgerà in Italia, Spagna e Portogallo la «Trident Juncture 2015» (TJ15), definita dallo U.S. Army Europe «la più grande esercitazione Nato dalla caduta del Muro di Berlino». Con 36 mila uomini, oltre 60 navi e 200 aerei da guerra di 33 paesi (28 Nato più 5 alleati), questa esercitazione servirà a testare la forza di rapido intervento - Nato Response Force (NRF) - (circa 40mila effettivi) e soprattutto il suo corpo d’élite (5mila effettivi), la Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), enfaticamente soprannominata Spearhead (punta di lancia), in grado di essere schierata in meno di 48 ore per rispondere “alle sfide alla sicurezza sui nostri fianchi meridionale e orientale”. In altre parole ad intervenire rapidamente, portando la “guerra preventiva”, ovunque si ritengono minacciati gli interessi occidentali estendendo, quindi, l’azione della Nato ad ogni angolo del mondo.
Sebbene rappresenti un appuntamento decisivo per certificare le nuove strategie interventiste, Trident Juncture 2015 non è la sola grande esercitazione militare messa in campo dalla Nato.
Dall’”esplosione” della crisi ucraina le esercitazioni a ridosso dei confini russi sono più che raddoppiate. Decine di migliaia di uomini e centinaia di mezzi hanno partecipato alle manovre aereo-navali nel mar Nero, al largo delle coste sia di Romania e Bulgaria che della Georgia, nel mar Baltico, al largo della Norvegia e delle Repubbliche baltiche, rafforzando di fatto la presenza navale Nato. E ancora, esercitazioni terrestri in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e nei paesi baltici cui si sta accompagnando un crescente processo di riarmo con il trasferimento in questi paesi di centinaia di carri armati, pezzi di artiglieria ed altri mezzi militari e l'avvio del programma di dispiegamento della cosiddetta “Difesa antimissile” in Polonia.
Una provocatoria pressione militare sulla Russia che, in uno scenario internazionale dove, dall’Ucraina alla Libia, dalla Siria allo Yemen, dalla Palestina all’Africa nord e sub-sahariana, crescono e si acuiscono i conflitti militari, aumenta il rischio di uno scontro diretto Nato/Russia portandoci dritti ad un nuovo conflitto militare internazionale.
Ma l’esercitazione è anche una prova di forza diretta a quei paesi o pezzi di paesi (ormai) riluttanti ad accettare supinamente il dominio dell’imperialismo. E’ di appena qualche giorno fa il minaccioso appello che i principali membri della Nato, Italia in primis, hanno indirizzato "a tutte le fazioni libiche” perché arrivino ad un "governo di concordia nazionale che, in cooperazione con la comunità internazionale, possa garantire la sicurezza al Paese (alias agli affari dei “nostri” imprenditori, al “nostro” petrolio, alle “nostre” coste) contro i gruppi di estremisti violenti che cercano di destabilizzarlo".
Un pretesto, quello del terrorismo, che, insieme alla lotta contro i trafficanti di esseri umani, serve a legittimare una nuova aggressione alla Libia. Il via libera alla missione navale EuNavForMed con cinque navi militari, due sottomarini, l’uso dei droni, tre elicotteri e un migliaio di soldati per bloccare la partenza dei migranti dalle coste libiche, ne è solo la fase preparatoria.
Opporsi a queste esercitazioni per dire no alla politica di aggressione della Nato ed alla politica militarista del nostro governo è necessario.
L’esercitazione sarà guidata dal Jfc Naples, comando Nato (con quartier generale a Lago Patria, Napoli) agli ordini dell’ammiraglio Usa Ferguson, che è a capo delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali del Comando Africa. Non è occasionale; il Jfc Naples, infatti, si alternerà annualmente con Brunssum (Olanda) nel comando operativo della Nato Response Force, confermando il ruolo strategico di Napoli nelle strategie dei comandi militari.
E’ a Napoli, quindi, che, riteniamo, si debba fare il massimo sforzo per provare a costruire una mobilitazione contro la Trident Juncture, la militarizzazione dei territori e le politiche di guerra.
A Trapani, dove sia l’aeroporto civile che la base militare di Birgi saranno coinvolti nella Trident Juncture 2015 con circa 80 velivoli da combattimento e 5mila militari, il Coordinamento per la Pace di Trapani ha lanciato un comunicato contro le esercitazioni.
In Sardegna la “Rete no basi né qui né altrove” (la cui straordinaria lotta contro le esercitazioni ha determinato lo spostamento della TJ15 da Decimomannu a Trapani “perché non sussistevano le condizioni di necessaria serenità per svolgere attività di questa portata”) ha già indetto per il 9 – 10 – 11 Ottobre tre giorni di mobilitazione contro le servitù militari e la guerra.
A Zaragoza, in Spagna, gli attivisti antimilitaristi hanno avviato una campagna di opposizione alle manovre Nato e stanno preparando mobilitazioni.
Si tratta di provare a coordinare queste e le tante altre opposizioni che si daranno dentro e fuori dall’Italia in una mobilitazione unitaria contro queste esercitazioni e la Nato in generale. [...]

Proponenti: Comitato napoletano “Pace e disarmo”, Rete Napoli No War


Prigionieri palestinesi in sciopero della fame
Ancora una volta è lotta nelle prigioni sioniste. Lo scorso 18 agosto molti prigionieri politici palestinesi hanno intrapreso un determinato sciopero della fame contro la pratica della detenzione amministrativa, in base alla quale le autorità militari israeliane possono arrestare senza accuse o prove: è sufficiente l'esistenza di "files segreti", ovvero segnalazioni o documentazione compilate dai servizi segreti, non conosciuti e non sottoposti all'accusato o al suo avvocato.
Le autorità israeliane hanno, nel corso degli anni, detenuto per periodi prolungati molti palestinesi appartenenti, a vario titolo, alle organizzazioni della resistenza, come la parlamentare del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) Khalida Jarrar, arrestata e a tempo indefinito in regime di detenzione amministrativa.
Attraverso questa pratica è stato possibile per l'intelligence israeliana rinchiudere nelle carceri i palestinesi per anni, o anche decenni, come accaduto a Nidal Abu Aker, uno dei prigionieri che guida lo sciopero della fame. Nidal, giornalista e leader del PFLP, è stato arrestato lo scorso anno con un ordine di detenzione amministrativa, rinnovato fino ad ora. Responsabile della radio Al Wihda, Nidal ha passato ormai oltre 12 anni in prigione, perlopiù in regime di detenzione amministrativa. [...]
Riportiamo di seguito il comunicato dai detenuti emesso all'inizio dello sciopero della fame e apparso su Samidoun, dal quale emerge il forte legame tra la lotta per la liberazione della Palestina e la battaglia all'interno delle prigioni.

La battaglia per spezzare le catene
Dichiarazione di prigioneri palestinesi in sciopero della fame
Alle masse del nostro popolo, agli eroi della rivoluzione, alla nostra determinata lotta contro l’occupazione sionista e i coloni fascisti, ai nostri giovani, le nostre madri e sorelle, la nostra lotta proseguirà grazie alla vostra determinazione. Vi salutiamo per la Palestina.
Oggi ci troviamo di fronte ad una intensificazione degli attacchi sionisti contro tutto il nostro popolo e contro i diritti dei prigionieri palestinesi nelle celle sioniste, attacchi di massa, ampie campagne di ispezione e incursioni, ci troviamo di fronte al diniego dei diritti basilari necessari alla minima dignità umana.
Ci confrontiamo continuamente con la divisione della Palestina e il suo impatto sulla realtà del nostro movimento nazionale nelle prigioni. E ci confrontiamo con l’insistenza dell’occupante nel promulgare nuove leggi fasciste e razziste, come la legge della morte e di alimentazione forzata recentemente approvata, con un utilizzo sempre maggiore della detenzione amministrativa. Ciò rappresenta una chiara ed esplicita violazione delle convenzioni internazionali e dei diritti umani, dove noi possiamo essere arrestati per lunghi periodi, per anni continuativi, sulla base dei cosìddetti “documenti segreti” e non abbiamo il diritti di poterci difendere. La detenzione amministrativa è una spada che pende sulla nostra testa, che corrode la nostra carne e il nostro sangue per anni della nostra vita, senza processo e umanità alcuna.
È stata utilizzata in maniera accanita dai servizi di intelligence del nemico e dalle corti militari. Più di 480 sono gli ordini di detenzione amministrativa emessi e il numero dei detenuti in regime di detenzione amministrativa ha raggiunto 650 la scorsa estate. La maggior parte di questi arresti sono stati rinnovati almeno una volta. Alcuni hanno passato più di cinque anni, altri dieci, in ripetuti arresti in detenzione amministrativa. Alla luce di queste pratiche, siamo in lotta continua contro l’occupante.
Quindi abbiamo intrapreso i primi passi nella lotta a questa forma di arresti: boicottare le corti militari che rilasciano gli ordini di detenzione amministrativa per rivelare e denunciare le pratiche delle forze occupanti contro il nostro popolo all’opinione pubblica della nazione araba e a quella internazionale, laddove l’occupante cerca di legittimare la nostra detenzione.
Attraverso il dialogo e la discussione tra i detenuti amministrativi di tutte le forze politiche, con l’impegno di 80 detenuti, la nostra lotta ha preso avvio il 1 luglio 2015 quando abbiamo boicottato le corti militari sioniste e rifiutato di comparirvi in quanto queste corti rappresentano una farsa e sono illegittime. Ci è stato negato il diritto di accesso ai nostri legali, il diritto di difesa e di rappresentanza.
Vediamo questo come un passaggio che fa avanzare il movimento dei prigionieri nella battaglia contro la detenzione amministrativa, che ci fa lottare e giocare il nostro ruolo nazionale nella lotta contro la detenzione amministrativa arbitraria. Alcuni detenuti hanno intrapreso il loro sciopero della fame individuale in protesta alla detenzione amministrativa in generale e alla loto detenzione personale, come è loro diritto. Nonostante ciò, crediamo che l’azione collettiva sul livello nazionale sia più efficace nel creare risultati per sconfiggere la politica della detenzione amministrativa. Tuttavia, la vita di Mohammad Allan che da due mesi affronta l’occupazione e i suoi strumenti è in pericolo ed è minacciata dall’implementazione della decisione di alimentazione forzata. Abbiamo deciso di combattere l’occupazione e il suo apparato di intelligence con il nostro sciopero della fame, al fine di raggiungere le seguenti richieste:
- La fine della politica di detenzione amministrativa nei confronti del nostro popolo e dei suoi combattenti
- Il sostegno al combattente Muhammad Allan; non lo lasceremo solo nella battaglia. Rifiutiamo ogni decisione che non assicuri la sua libertà e rifiutiamo ogni decisione che implichi la sua deportazione, cosa che rappresenta un’altra violazione dei diritti umani.
- Abbattere la legge di alimentazione forzata contro i detenuti in sciopero della fame, decisione per la loro morte e flagrante violazione dei principi dei diritti umani.
- La nostra immediata libertà e incondizionato rilascio, come contributo alla sconfitta della politica di detenzione amministrativa.
- Superare lo stallo e le divisioni interne, e unificare le forze palestinese per un’azione nazionale unitaria nelle prigioni, all’insegna di una vera unità nazionale.
Alle masse in lotta del nostro popolo. Ci troviamo di fronte ad una realtà complessa che già vede diversi detenuti minacciati con la morte e nelle mani dell’amministrazione carceraria dei servizi di intelligence. Sottollineiamo come la nostra lotta e la vostra determinazione siano complementari, che senza il vostro supporto non possiamo vincere la nostra battaglia. Senza di voi, la Palestina non raggiungerà la sua libertà, la sua indipendenza e il ritorno dei suoi figli.
Voi e la vostra lotta siete imprescindibili per la nostra battaglia, la vostra partecipazione porterà il nostro popolo alla vittoria e al raggiungimento dei suoi diritti. La vostra lotta è con noi nella nostra battaglia contro l’occupante, e la nostra lotta vincerà.

25 agosto 2015, da infoaut.org

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La sezione carceraria del Fronte popolare ha rilasciato una dichiarazione a sostegno dei prigionieri in sciopero della fame, sollecitando a intervenire.

Il popolo palestinese si trova ad affrontare un attacco complessivo per mano del regime di occupazione sionista: l'assedio, l'uccisione e l'arresto, finalizzato alla distruzione della volontà di resistere, lottare e sacrificarsi per amore della libertà, della dignità e per recuperare i nostri diritti. Nel quadro di questo attacco emergono i continui tentativi di isolare il movimento dei prigionieri, attraverso molestie quotidiane, raid, attacchi per destabilizzare la volontà dei detenuti amministrativi che stanno affrontando l'oppressione quotidiana, oltre all' estensione continua della loro detenzione.
Questa situazione ha spinto combattenti come Khader Adnan e Muhammad Allan a confrontarsi direttamente con la politica di detenzione amministrativa arbitraria e a rendere questi scontri un punto di forza critico della lotta, che ora viene portata avanti anche da altri cinque prigionieri palestinesi: Nidal Abu Aker, Badr al-Ruzza, Ghassan Zawahreh, Shadi Ma'ali, Munir Abu Sharar, ed altri si uniranno loro nei prossimi giorni per affrontare questa politica.
Sosterremo lo sciopero dei nostri compagni in detenzione amministrativa con tutti i metodi, e procederemo presto a prendere misure per lottare sul terreno, fino allo sciopero della fame se necessario: noi non lasceremo i nostri compagni a lottare da soli.
In questo contesto, chiediamo:
1. Un lavoro di coordinamento per lanciare una più ampia campagna pubblica di supporto che è continua e crescente, e la forma migliore è quella di confrontarsi con le forze di occupazione sioniste ai posti di blocco e altri punti di contatto.
2. Affrontare la politica di detenzione amministrativa attraverso un percorso verso la formulazione di una visione nazionale di resistenza alla reclusione nella sua totalità, non cedere ad essa per resistere.
3. Sollecitare le forze politiche palestinesi ufficiali a tutti i livelli per sostenere i detenuti amministrativi, i prigionieri malati, e gli avvocati per l'internazionalizzazione della lotta dei prigionieri.
4. Ci appelliamo ai media palestinesi e arabi per dare visibilità alla lotta dei detenuti amministrativi "e amplificare la loro voce e la loro sofferenza al mondo.
5. Chiediamo un maggiore coordinamento con il movimento di boicottaggio internazionale e per le attività internazionali per sostenere lo sciopero dei detenuti amministrativi e la questione dei prigionieri in generale.
Infine, siamo molto fiduciosi nella determinazione del popolo palestinese e dei loro combattenti per la libertà. Siamo certi del ruolo e della responsabilità delle forze e fazioni nazionali ed islamiche, e tutte le istituzioni nazionali palestinesi nel lavorare per sostenere la lotta dei prigionieri, in generale, e in particolare dei pionieri dell' iniziativa rivoluzionaria, i detenuti amministrativi che affrontano la reclusione.
La vittoria è inevitabile.

Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - Sezione Carceraria
6 settembre 2015, da it-it.facebook.com/UnitiPerLaPalestina


sulle condizioni carcerarie in egitto
Segue un’intervista ad Ala Abd El Fattah, ingeniere elettronico e figura prominente della serie di proteste avvenute tra il gennaio del 2011 e il giugno 2013 comunemente note come Rivoluzione Egiziana 25 Gennaio 2011. Ala è stato arrestato il 26 novembre 2013 davanti al parlamento assieme ad altri e altre figure di riferimento dell'ala 'secolare' della rivoluzione tra cui Ahmed Maher, fondatore del Movimento 6 Aprile [1], per aver violato la legge 107/2013 che regola il diritto di asseblea in suolo pubblico approvata alcuni giorni prima dal primo minstro ad interim Adly El-Mansour.
La legge, nota anche come legge anti-manifestazione, proibisce il diritto di assemblea negli spazi pubblici e parte del 'pacchetto sicurezza' del governo Mansour, posto in carica dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) dopo la deposizione del presidente Mohamed Morsi nel luglio 2013 [2].
Alcuni mesi dopo, giugno 2014, Sana Sayf, sorella di Ala, verrà arrestata per lo stesso motivo e condannata a tre anni con lo stesso capo di imputazione. Sana appartiene a una delle famiglie simbolo della resistenza al regime Mubarak. Il padre, Ahmed Sayf Al-Islam è stato un avvocato e fondatore del Centro di Assistenza Legale Hisham Mubarak. Figura di rilievo dell'attivismo politico in Egitto, è stato arrestato e imprigionato negli anni ‘80 e durante le proteste del 2011. La madre Leyla Soueif, è docente universitaria in matematica all'Università del Cairo, membro del Movimento 9 Marzo per la Libertà Accademica e sorella della scrittrice Adhaf Soueif che ha pubblicato un memoir sui diciotto giorni di piazza Tahrir [3]. Leyla Soueif attualmente impegnata nelle campagna di liberazione di Ala e Sana, assieme alla figlia Mona Seif, anch'essa figura di riferiemento per la sua attività di blogger che l'ha vista promuovere le proteste e incitare gli animi degli egiziani sin dai primi giorni del 2011.
L'intervista è pervenuta grazie alla madre di Ala, dottoressa Leyla Seif per via orale e senza scambio di materiale cartaceo durante il colloquio ed è apparsa nella sezione in arabo dell'Huffington Post il 18 Agosto 2015.

H: Come descrivi lo stato dei detenuti in Egitto dal tuo punto di vista?
A: Per descrivere la prigione nel nostro paese sono sufficienti due parole: 'violazione corporea' e queste due parole sottintendono molti tipi di violazioni. Per quello che riguarda il mio caso personale, riporto quello che ha detto mio figlio dopo essermi venuto a fare visita in carcere "le sue condizioni sono molto meglio e in generale sopportabili rispetto a quelle degli islamisti". In ogni caso, quello che mi pesa di più è di non poter ricevere libri dall'esterno e non solo libri politici o libri sottoposti alla censura del ministero della cultura ma qualsiasi tipo di libro.

H: Perchè queste limitazioni rispetto ai libri?
A: Credo sia parte del tentativo di isolarmi mentalmente dal resto della società.

H: Sei stato uno dei simboli del 30 giugno... poi la rottura con lo stato e la tua incarcerazione... pensi che sia possibile una riforma dello stato in Egitto?
A: Lo stato egiziano, nell'interezza delle sue istituzioni non ha nessuna speranza di essere riformato e tutti i suoi organi direttivi devono essere sottoposti alla rivoluzione.

H: Ci può essere una riforma tra lo stato e i giovani della rivoluzione?
A: I giovani del movimento rivoluzionario sono troppo deboli perchè lo stato possa essere interessato alla loro riforma o dar loro qualsiasi tipo di importanza e anche se ipotizzassimo che ci fosse questa possibilità sarebbero troppo deboli per poter esercitare un peso sulle riforme politiche del paese. L'unica possibile riforma che ci può essere e che può esercitare influenza (positiva o negativa) è quella tra il regime e gli islamisti.

H: Vedi qualche possibilità imminente in questo senso?
A: Non sembra, per il momento.

H: Ci sono dialoghi tra te e i Fratelli Mussulmani in prigione? E ne hai tratto qualche beneficio?
A: In prigione tutti e di ogni fazione discutono tra loro dagli jihadisti ai fulul (termine che indica gli ex membri e simpatizzanti del regime Mubarak) e nessuno si astiene dai benefici delle discussioni perchè in prigione non c'è cosa più importante che il dialogo. Tuttavia bisogna tenere in considerazione il fatto che tutte le organizzazioni (laiche e islamiste) sono ora smembrate e che tutte le discussioni avvengono invididualmente o in piccoli gruppi e che questo non si può definire un dialogo tra organizzazioni, nel senso comune del termine.
H: I Fratelli Mussulmani parlano delle violazioni subite in prigione? Sei testimone di alcune di queste violazioni?
A: Sono testimone di molte di queste violazione e, come ho già detto, le mie condizioni in carcere sono molto meglio di quelle dei prigionieri islamisti. Una volta in tribunale, durante una seduta in cui c'erano diversi membri dei FM, dell'Unione per la Shari'a [4], ho visto il dott. Majdi Qarar A-Qiyyadi dell'Unione per la Sharia'a tra gli imputati. Al-Qayyadi era in condizioni di salute molto gravi e quando gli ho chiesto cosa gli era accaduto mi ha detto che la notte della morte del procuratore della repubblica [5] le guardie hanno fatto irruzione nelle celle della prigione di massima sicurezza Tora, pestato tutti e distrutto tutto.

H: Si dice che le prigioni egiziane siano un luogo in cui si sviluppa il pensiero estremista... tu cosa ne pensi?
A: In Egitto questo è un fatto storico, e ben precedente alla rivoluzione del 25 gennaio. E' stato il carcere il luogo del rinnovamento del salafismo e dell'islamismo. Non saprei dire se questo processo storico è in crescita o meno ma sicuramente sta di fatto che la prigione porta alla violenza per tutto quello che succede al suo interno

H: La “primavera” è morta e il “Da'ash” fiorisce... chi è il responsabile?
A: Non lo so, forse la storia! Sicuramente è il risultato di forze differenti in luoghi differenti e non è possibile individuare un responsabile in particolare. Nell' Europa degli anni ‘30 molti anni e molti fattori hanno influenzato l'ascesa del nazismo prima che questo potesse diventare un pericolo evidente per tutti. Similmente, il Da'ash è un mostro che cresce nella nostra società, che si nutre di essa da molto tempo.

H: Come vedi la posizione di Washinghton e dell'occidente verso l'Egitto?
A: Non credo che nessuna delle posizioni assunte dall'occidente possa influenzare la repressione in Egitto, se non per piccoli dettagli. Ciò non toglie che la posizione dei governi occidentali è immorale in quanto mira solamente a riforme economiche limitative come quelle a certe compagnie in cerca di investimenti in l'Arabia Saudita e nel Golfo o con prestiti ad alto tasso di interesse.

Note
1. Movimento 6 Aprile prende il nome dalla data in cui comunemente si fa inizare la serie di scioperi del polo tessile Mahallat el-Kobra, nord del delta del Nilo, dal 2008 al 2011. Mahallat el-Kobra è vista da molti storici come il precursore della rivoluzione gennaio 2011
2. Luglio 2013, nota anche come Tamarrod, serie di proteste di massa contro il governo Islamista del Partito Giustizia e Libertà culminata il 30 giugno 2013 sfociate nell coup d'etait e deposizione del presidente Morsi.
3. Soueif A., Cairo, la mia città, la nostra rivoluzione, 2013, Donzelli Editore, Roma
4. Unione per la Sharia'a è stata una coalizione di partiti, intellettuali, studenti e sindacati di orientamento islamista, fondata nel 2013 e messa al bando dopo il 30 giugno 2014 - slogan dell'Unione “proteggiamo la rivoluzione, proteggiamo la shari'a”.
5. Hashim Baraket, procuratore della Repubblica, iniziatore di diversi processi contro gli Islamisti, in particolare quello che ha portato alla condanna a morte di Morsi e altri prominenti leader e intellettuali dei FM. Ucciso in un attentato esplosivo nel quartiere di Heliopolis, Cairo lo scorso giugno 2015.

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sulla nuova legge “antiterrorismo”, una corrispondenza di fine agosto
[...] Ieri sera ero seduta al caffe verso le due di notte abbiamo sentito un boato molto forte, come se fosse crollata una casa, poi la gente intorno a noi ha detto che era una bomba. Ora so anche che rumore fa una bomba...
L'esplosione è avvenuta vicino alla stazione di polizia del quartiere di Shubra, Cairo, ed è l'ultimo di una lunga serie di attentati, alcuni rivendicati da Ansar Beit al Maqdis, a partire da luglio 2013 (deposizione di Morsi). Tre giorni prima era stato approvato il piano anti-terrorismo dal governo Sisi, la nuova legge anti-terrorismo che colpisce soprattutto i giornalisti con multe salate e carcere.
Il testo di legge va contro attività giornalistiche e lo fa prendendo in esame alcuni articoli: cit. dall'articolo 3 del testo di legge è considerata attività terroristica "ogni uso della forza della violenza della minaccia e della intimidazione, sia all'estero che nel paese, che metta in pericolo il sistema, la pace sociale, l'accordo tra le parti sociali, l'unità nazionale, la pace sociale e la sicurezza nazionale".
La permette di condannare a 10 anni di carcere l’appartenenza a “organizzazioni militanti”, e chi le finanzia anche fino a 25 anni; i capi o fondatori di “gruppi terroristici” verranno puniti con la pena di morte. Le leggi in parola sono innanzitutto chiaramente dirette contro la Fratellanza Musulmana.
Lo stesso pacchetto di leggi, legalizza ampiamente l’impiego della violenza da parte di chi appartiene alla polizia e alle forze armate, in futuro non andrà incontro a nessun procedimento penale, riguardante il suo impiego nell’ “ordine pubblico”: “de facto viene loro rilasciato un assegno in bianco”.
Ed ancora, la nuova legge consente alla procura e alle “autorità speciali inquirenti” registrazione e memorizzazione di tutti i dati via telecomunicazione delle persone “entrate in rapporto con crimini terroristici”; inoltre legalizza modi di agire degli organi repressivi, già impiegati dal 2013, quali il controllo senza autorizzazione giuridica della rete dei telefonini mobili come pure di Internet.
Infine, conferma e legalizza la multa fino 58mila euro nei confronti dei giornalisti se pubblicano il “numero delle vittime in un attentato terrorista diverso da quello emesso dalle indicazioni ufficiali”. Per chi in futuro non utilizza esclusivamente il materiale delle ‘forze dell’ordine’ oltre alla multa è prevista anche la condanna al carcere.
Giusto per inserire la legge anti-terrorismo nel contesto va tenuto presente che i due anni che vanno dal 2011 and 2013 avevano visto la nascita diversi giornali, blogs indipendenti anche dovuta all'attenzione (e ai capitali) dei paesi ricchi verso la “primavera araba”. Questa fase di democratizzazione dell'info ha conivolto anche le maggiori testate giornalistiche (Al-Ahram, giornale di proprietà dello stato e Al-Masri el-Yawm, Al-Akhbar due giornali indipendenti). Dal colpo di stato in poi (luglio 2013) blogs, giornali e media in genere sono stati chiusi, giornalisti arrestati o ridotti al pappagallismo di stato.


il neocolonialismo delle multinazionali occidentali...
In Africa avanza senza sosta l’accaparramento di terreni da parte delle multinazionali occidentali e della Cina. Le sole multinazionali USA detengono il 25% del territorio africano finito in mani straniere, la Cina ne accaparra l’8%. Nei paesi assaliti ciò è causa dell’emigrazione, ma anche di guerre a volte chiamate “tribali”, “religiose”…
Alcuni dati: la società statunitense AgrisolEnergy nel 2012 si è assicurata in Tanzania la proprietà di 325mila ettari – un territorio dove fino a quel momento vivevano i profughi in fuga dal Burundi. Socfin, multinazionale svizzero-belga, ha messo le mani su decine di migliaia di ettari in Ghana, Congo, Liberia… da dove coltiva e esporta olio di palma, caucciù… Su quei terreni vivevano da secoli migliaia di piccoli coltivatori ora finiti in miseria, costretti ad abbandonare il proprio paese, ad emigrare nei paesi che li hanno espropriati.
Contro questa situazione è cresciuta anche la resistenza, e chi resiste finisce in galera. In Camerun, ad esempio, nel marzo 2015 seimila piccoli contadini hanno rioccupato i loro terreni (43mila ettari) espropriati da Socfin. Il presidente di questa società, Hubert Fabri tace pubblicamente ma intanto preme sui governi.
Negli stessi mesi in Uganda, almeno 22.500 persone hanno perso case, orti, animali… per lasciare il posto a una società britannica del legname, la New Forest Company (NFC). Gli abitanti del villaggio hanno conosciuto sfratti coatti, distruzione delle proprietà, delle colture e del bestiame. Molti sono stati lasciati nell’indigenza, privi di cibo e soldi per mandare i propri figli a scuola. Nessuno ha dato loro ricompense o altra terra.

6 luglio 2015, da jungewelt.de


IL FILO SPINATO DELLO SFRUTTAMENTO
[…] Dalla Siria della guerra civile sostenuta e finanziata dai nostri governi, dall’Afghanistan bombardato dai nostri eserciti, dalla Nigeria prosciugata del suo petrolio dalle nostre industrie, migliaia di persone, famiglie e giovani uomini e donne, sono costretti a spezzare ogni legame con la propria terra e attraversare i continenti per sopravvivere.
Il loro primo approdo è il Sud Europa devastato dalla crisi economica, la loro meta finale i paesi del Nord Europa a cui le braccia di proletari tedeschi, belgi, italiani, spagnoli, ghanesi e bulgari hanno permesso di ottenere economie salde. Se scampano al mare, alle tempeste e agli scafisti, arrivano nel nostro paese: le leggi europee che pretendono di regolare le migrazioni li trattengono dal continuare il loro percorso verso la Germania, la Svezia, la Francia, verso i ricongiungimenti familiari e li obbligano a rimanere sul territorio in cui sono sbarcati.
Quello che ci hanno sempre presentato come una criticità, un’emergenza è stato in realtà il più grosso business degli ultimi anni. Come dire, trovato il problema, fiutato l’affare: mafia, politica e perfino quella destra che gridava all’invasione barbarica hanno sapientemente costruito un sistema criminale capace di proliferare assorbendo enormi flussi di denaro ipocritamente stanziati dall’UE per l’accoglienza ai migranti, creare galere a cielo aperto e guadagnare sulla pelle dei profughi.
Il CARA di Mineo (*) mega-riserva in cui confinare in lunghissime attese persone di svariate nazionalità è diventato il buco nero di centinaia di migliaia di euro: soldi pubblici che arricchiscono apparati di potere (Compagnia delle Opere) vicini a uomini di governo (come Alfano e Castiglione) ma anche della lega delle cooperative legate al PD.
Soldi che i migranti (rifugiati e non) non vedranno mai, perché continueranno a dormire in letti sporchi, a mangiare cibo scadente, a non vedere riconosciuti i loro diritti all’assistenza legale o all’inserimento in un percorso di formazione decente.
Il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo (CARA) è inoltre un bacino sempre colmo di manovalanza disponibile alla schiavitù nelle campagne, un ghetto degradato in cui, come in una piccola città, lo sfruttamento, la piccola criminalità, la prostituzione hanno proliferato. Una favela come quelle delle megalopoli, costruita però accanto a dei piccoli centri urbani di poche migliaia di abitanti, che ha creato l’aumento di piccoli furti, lo scontro con la criminalità operante nel territorio e una generale sensazione di insicurezza per i residenti.
L’orrendo omicidio a Palagonia (**) di una coppia di anziani di cui è accusato un ospite dei quel CARA […] ha lasciato tutti sgomenti e che ha fornito la benzina per la destra xenofoba di Salvini, Grillo e Meloni e per i fascisti di CasaPound e Forza Nuova pronti a saltar fuori a comando quando fiutano l’occasione, per incendiare gli animi esasperati di lavoratori, disoccupati, famiglie stremate dalla crisi e indicare il colpevole in un’intera categoria di nemici. […] la stessa destra che pianifica nuovi centri per migranti, nuove barriere, nuovi ghetti per creare emarginazione e povertà, per mettere in competizione il bracciante migrante che accetta di lavorare nei campi a 1 euro l’ora contro il bracciante palagonese che pretende una paga dignitosa e per questo viene lasciato a casa dai caporali e dai padroni. […]
Se in Siria non ci fosse una sanguinosa e sporca guerra, se l’Africa intera non fosse compromessa e interdetta a sviluppo e benessere per i suoi abitanti, nella nostra Europa avvolta dal filo spinato ci verrebbero in pochi, né a costo della vita su bagnarole sovraccariche né probabilmente su un comodo aereo di linea.
Il filo spinato che avvolge l’Europa, che si moltiplica intorno ai migranti, nel tentativo spesso ridicolo di arrestarne il viaggio, è già dipanato da tempo nelle nostre città: ci nega ogni giorno di più l’accesso ai servizi sociali, agli ospedali, ci allontana dai diritti conquistati dai lavoratori e che ora ci sono stati sottratti, ci abbassa gli stipendi, ci costringe ad accettare paghe da fame (600 euro al mese per 54 ore settimanali. […] Quel filo spinato si avvita intorno al collo dei lavoratori, dei precari, di chi perde la casa, di chi è travolto dai debiti.
Chi è allora il vero nemico? Saranno i profughi […] sono gli Eritrei che sbarcano a Catania e a Pozzallo con la morte negli occhi o i padroni che ci tengono in nero, ci assumono a progetto, ci licenziano per andare a guadagnare di più in Romania?!
È arrivato il momento per gli sfruttati di tutte le nazioni di rompere le catene che li legano, di tagliare il filo spinato che li separa e costruire insieme una società equa che garantisca dignità e sicurezza ai lavoratori italiani come a quelli tunisini, che garantisca istruzione e futuro ai giovani greci come a quelli somali, che sottragga le donne rumene come quelle nigeriane alla violenza e alla sopraffazione, che consenta alle famiglie francesi come a quelle siriane di vivere in pace nella terra dei loro padri o ovunque vorranno.

Note:
(*) Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Mineo, provincia di Catania, è un gruppo di tante piccole case costruito per militari USA che lo hanno abbandonato nel 2011… allora è trasformato in CARA, abitato da 4mila persone immigrate…

(**) A Palagonia vicino a Mineo, sempre in provincia di Catania, il 30 agosto è stata uccisa una coppia di persone anziane. Il presunto colpevole è un ragazzo della Costa d’Avorio di 18 anni, si chiama Mamadou Kamara, ed è sbarcato l'8 giugno scorso. Sono arrivati a lui perché nel perquisire il CARA di Mineo gli hanno trovato telefonino, pc, e telecamera di cui “non ha saputo spiegare la provenienza”, inoltre …”indossava i vestiti dell’uomo ucciso, perché i suoi, ritrovati dalla polizia, riportavano tracce di sangue”… Dopo alcuni giorni in una conferenza stampa il pm incaricato, dichiara che dietro al duplice omicidio “ci sono degli italiani”.
3 settembre 2015
Estratti da un documento del Collettivo Experia Catania
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sfruttamento... senza confini
E una volta fuggite/i dall’Africa, in Italia, per esempio, cosa li attende? Non tanto e non solo CIE, CARA e altre strutture detentive del genere ma piuttosto schiavismo, uccisione della dignità esercitata da stato, padroni, loro “caporali”… un disastro umano a cui mettere fine è d’obbligo.
Di seguito un’inchiesta chiarificatrice, qui un poco accorciata, tratta da: “Schiavi della terra, dieci testimonianze dall’inferno”.

In Italia sono oltre 100mila i/le braccianti che lavorano anche 14 ore al giorno per una paga oraria, in generale, di 2,50 euro. Nove braccianti su dieci "non hanno mai visto un contratto di lavoro". Il 60% "non ha accesso all'acqua corrente né ai servizi igienici". Il 70% ha contratto malattie legate alle pessime condizioni ambientali in cui è costretto a lavorare e spesso anche a vivere.
Un raccolto delle angurie fatto con gli immigrati sfruttati dura 20 giorni e costa 25 euro a giornata per ogni bracciante. Se a operare fossero italiani il raccolto costerebbe almeno 70 euro per lavoratore. E durerebbe un mese e mezzo. Ecco la “fonte” del tanto atteso profitto.
Per far sì che lavorino fino allo spasimo, molti nuovi schiavi sono costretti ad assumere sostanze dopanti come oppio e metamfetamine. Accade ai braccianti della comunità indiana dei Sikh nell'agro Pontino, in provincia di Latina. Una dose costa dieci euro. A fornirla è il sotto-capo, che intasca i soldi. Oppure, come accade in Puglia, "dai, porta con te un’amica, serve per il mio padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito".

Maledetto pomodoro. Pelati, la passata, i datterini, quelli a grappolo per condire la pizza, i meno maturi da mangiare crudi col filo d’olio e la cipolla. Raccogliere l’oro rosso scuotendo la pianta è più comodo, si fa prima e con meno fatica. Ma il frutto, cadendo, a volte si ammacca e non è più esteticamente presentabile per allestire le insalate da vendere al mercato. Perciò, nei campi del foggiano come in quelli della piana del Sele, dell’Agro nocerino sarnese o nel Salento, i padroni pretendono che "ogni pomodoro venga staccato singolarmente dal ramo della pianta e adagiato piano piano nei cesti affinché non si deformi". Il metodo costa il doppio in fatica e sudore? Pazienza, la paga, che già è da fame, resta sempre la stessa, cioè da fame. La brutta storia di come vanno raccolti i pomodori ha scatenato nelle coltivazioni di Nardò in Puglia una protesta il cui leader, Yvan Sagnet, giovane camerunense che studia ingegneria a Torino e "raccoglie" d'estate per pagarsi l’università, ora è minacciato di morte.

Buste paga false. "Vuoi lavorare? Ti faccio lavorare". Ma con la busta paga falsa. E se fiati, sei fuori. Il nulla osta della prefettura è intestato a un’azienda che non esiste? “Tu paga e taci. E se ti ritrovi nei guai con la legge, noi non ci siamo mai visti".
Migliaia i desaparecidos. Centinaia, forse qualche migliaio quelli che scompaiono nel nulla, nessuno, tantomeno le istituzioni, ha mai osato contarli. Scompaiono per un debito non pagato, per uno sgarbo fatto alla persona sbagliata, per un saluto negato, una sottomissione non esaudita. O perché la disperazione è troppa ed esplode loro in testa. Sullo sfruttamento dei lavoratori stagionali nel Sud d’Italia si è scritto di tutto. Perfino troppo, forse, visto che alle parole non ha mai fatto seguito uno straccio di fatti concreti. Nei giorni scorsi uno di loro, un sudanese di nome Mohamed, è morto di stenti, fatica, caldo, cattiveria. Non è successo niente.
Testimonianza di Annamaria, 28 anni, italiana. "Ho una bimba di tre anni, sono sposata da sei. Raccolgo fragole, nocciole, castagne, insomma un po’ di tutto. Sei mai stato sotto le serre? Fa un caldo esagerato, si suda, non si respira, si sta sempre con la schiena abbassata. La pausa da noi dura dieci minuti. Poi, via, dall'alba fino a sera. Lungo il solco bisogna camminare veloce. E guai se inciampi. La mia vita? Di mattina parto da casa alle quattro e torno la sera col pulmino. Il pulmino però lo devo pagare, i soldi se li trattiene il padrone ogni mese. Le mie compagne arrivano dal Napoletano e dal Salernitano: Nola, Palma Campania, Sarno, San Giuseppe Vesuviano. Sulla nostra paga giornaliera al caporale spettano sei euro, per l’intermediazione. Guadagno 27 euro al giorno con contratto e 41 senza contratto. L’ingaggio costa e, se una lo vuole, deve pagarselo di tasca propria accettando una paga da fame. Perché ci vado? Solo per fare i contributi".

Francis, 22 anni, ghanese. "Ero a Rosarno, in Calabria, ma lì gli italiani se si arrabbiano ci sparano addosso. Era diventato troppo pericoloso, perciò sono venuto qui a Castelvolturno. Anche qui c’è la mafia che comanda, mi hanno detto che pure qui ci sparano addosso, ma almeno posso chiedere aiuto a molti miei connazionali e nessuno gira per le strade a controllare se hai o no il permesso di soggiorno. Ogni tanto c’è chi mi chiede 200 euro per non denunciarmi ai carabinieri, glieli do e sto tranquillo. Appena riesco ad avere i documenti, me ne scappo in Francia o in Spagna, l’Italia non mi vuole, e io non voglio l’Italia".

Mahmoud, 35 anni, ivoriano. "Dormo in una buca dalle parti di Lucera. Come sopravvivo? Bivacco alla stazione, vendo informazioni a quelli come me che arrivano in treno e non sanno dove andare. Qui a Foggia i rumeni dormono con i rumeni, i bulgari con i bulgari, gli africani con gli africani. La chiamano segregazione razziale".

Annerish, 24 anni, nigeriano. "Sono partito da casa mia nel 2005, a giugno 2006 ero a Lampedusa, poi sono arrivato qui in Puglia. Il deserto del Sahara l’ho attraversato a piedi e a bordo di vecchi fuoristrada stracarichi di disperati come me. Mi sono imbarcato ad Al Zuwara, la città dei trafficanti in Libia. Lì tutti sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Spero di risparmiare e di riuscire presto ad andarmene a Parigi".

Arana, 40 anni, tuareg nigerino. "Dalla Francia mi hanno espulso in quanto clandestino. Sono venuto qui in Puglia. Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della storia. L’acqua che tiriamo su dal pozzo non si può bere, è inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Ognuno di noi paga 50 euro al mese al caporale per dormire in due su materassi luridi a terra. Ma indietro non torno. La mia famiglia si è indebitata pur di farmi partire. No, da vivo non ci torno".
Alfredo, 59 anni, bulgaro. Si caricano le cassette piene sul rimorchio del trattore. Ma il legno è troppo sottile e secco, una cassetta si sfonda, 12 chili di pomodori finiscono a terra. Alfredo non fa in tempo a chinarsi per cominciare a raccoglierli: sente un dolore improvviso, fortissimo, alla nuca. È stato Francuccio, il caporale, a colpirlo alle spalle a tradimento. Con la mano chiusa a pugno. "Stai attento, coglione", gli sibila tra i denti. Lui chiede scusa, sgomento. "Scusa un cazzo", ribatte quello furente. Dopo un’ora, Alfredo è seduto a terra, si tiene la testa con le mani, perde sangue dal naso. Un uomo bruno spiega: "Ho dovuto spaccargli una pietra in mezzo agli occhi. Quello stronzo se l’è presa con me perché prima era stato picchiato dal caporale".
Anonimo. "Chi si presenta tardi, una volta al campo viene punito a pugni e calci. Chi non va a lavorare deve versare la multa al caporale. La multa si paga anche se uno si ammala. Venti euro, cioè la paga di un giorno."

Zsinel, 39 anni, rumeno. A casa sua faceva il cuoco a 150 euro al mese. È venuto in Puglia per mandare soldi alla moglie e alla figlia studentessa, che ha 17 anni. Sul lavoro, Zsinel è bravo, veloce, capace. Riempie da solo fino a 20 cassoni di pomodori al giorno, cioè quasi 50 quintali. Tre euro a cassone, tolte le tangenti al caporale e i soldi del trasporto, gli restano circa 30 euro al giorno. Ma un giorno il caporale lo risveglia dal sogno, ha sentito dire che Zsinel protesta per come vengono trattati i braccianti e decide di dargli una lezione. Con una sbarra di ferro, lo colpisce alla testa mentre dorme. Zsinel resta lì a sanguinare sul letto fino a notte inoltrata. Poi, qualcuno telefona ai carabinieri e all’ospedale. Due mesi di prognosi. Le braccia ingessate. Ferri e chiodi sparsi nelle ossa. Sul referto in questura scrivono, "Si rifiuta di firmare". Per la legge Bossi-Fini, rischia da uno a quattro anni di carcere. Il suo aggressore è ancora libero.

Rashid, 36 anni, ciadiano. "Nel furgone che all'alba trasporta i braccianti in campagna non entra un filo d’aria. È una gabbia di metallo, che più tardi sotto il sole diventerà forno da spiedo. Sentieri sterrati, viottoli, passaggi segreti e lontani dalle caserme dei carabinieri. Dall'interno, non vedo nulla. Eppure, ho imparato come i ciechi a riconoscere il tragitto e quando è che si sta per giungere a destinazione contando le buche che conosco a memoria. Le so a memoria, quelle maledette buche che mi fanno sbattere la testa contro il tettuccio. Qui a Rignano Garganico (Foggia) va male, però ci siamo organizzati, travi marce e vecchi infissi di cartone, ma è il nostro villaggio. E lo abitiamo alla faccia dei caporali. Abbiamo perfino una radio, il segnale è assai debole, non arriva oltre un raggio di due o tre chilometri, ma è la nostra voce. Nessuno può rubarcela. E lo gridiamo forte".
20 agosto 2015, da lettera43.it

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Ventimiglia, arresti, fermi, fogli di via: “non ci fermerete mai”
Alle ore 12.00 del 30 agosto, quattro compagn* italian*, Andrea, Martina, Federico e Debora, che si trovavano nei pressi della frontiera alta per il quotidiano monitoraggio dell'attività della Polizia Francese e della Gendarmerie nei confronti dei migranti deportati nei container della PAF (Police Aux Frontiere) sono stati trattenuti dalle forze dell'ordine.
Sappiamo che tre di loro sono stati presi con la forza e portati negli uffici della PAF e che ad uno dei ragazzi è stato spaccato il cellulare mentre cercava di chiamare l'avvocato. Tre vengono rilasciat* dopo piu di 4 ore, Andrea  dopo oltre 33 ore. Pasquale, attivista No Borders presente al confine sin dal primissimo giorno, è stato fermato sulla strada per Ventimiglia appena fuori dal campo dalle forze dell'ordine e invitato a recarsi in commissariato. Lì gli è stato notificato un foglio di via (lui che vive a Dolceacqua, paese vicino) in cui gli viene contestata l'occupazione al presidio e la partecipazione alla manifestazione non autorizzata di sabato 22 agosto...
Con questo comunicato vogliamo richiamare l'attenzione su tutti gli atti di repressione che stanno colpendo il campo in queste settimane. Ultimo tra questi l'abuso subito ieri mattina da due compagne, fermate durante una delle attività di monitoraggio alla stazione di Menton e trattenute dalla PAF (police aux frontiers) per 3 ore in frontiera assieme ai migranti rastrellati sul treno.
Dopo il brutale arresto di Fouad (*) la notte del 23 agosto, dopo i sei fogli di via consegnati ai compagni/e la notte dell'11 Agosto e il pestaggio da parte della Police Nationale francese e della BAC (Brigade Anti-Criminalité), la stessa notte, di un compagno francese, fermato insieme ad altri due attivisti, affianco ai continui e massicci respingimenti di migranti che la polizia francese e italiana operano ogni giorno, contrastandosi e contraddicendosi continuamente. Possiamo oggi osservare che almeno su un punto i loro interessi si congiungono: reprimere quelle persone che hanno deciso di fare uscire dall'invisibilità il movimento per la libertà che i migranti portano qui e nel resto d'Europa.
Pensano forse di fiaccarci con la loro repressione costante? Credono davvero di poter fermare chi ogni giorno questi confini li oltrepassa? Davanti a tutte le persone che la fortezza Europea assassina quotidianamente nel mediterraneo e sulle sue autostrade opponiamo una sete di libertà incontrollabile. Non saranno certo vecchi e nuovi dispositivi di repressione a fermare questo viaggio. Ci allontanate da qui, ci troverete ovunque, nelle strade e nelle città pronti a far rinascere la lotta contro ogni confine. Il contrattacco sarà la nostra pratica quotidiana. Every cop is a border! We are not going back!

(*) Fouad è impegnato nella frontiera alta (ponte S. Luigi e altri luoghi), ma in territorio francese. Lì si svolge un continuo ping-pong dei migranti da un lato all’altro del confine: chi viene tenuto in detenzione nei container francesi viene portato all’ufficio della polizia di frontiera italiana, competente a convalidare i respingimenti dalla Francia all’Italia. Domenica 23 agosto 55 migranti sono stati detenuti per più di 6 ore nei container della frontiera alta, in Francia, a "causa" della chiusura dell’ufficio della polizia italiana addetto alla convalida dei respingimenti e delle deportazioni dalla Francia all'Italia. Numerose persone solidali, come sempre, erano lì, a portare aiuto, sostegno. In quei respingimenti, contrasti con la polizia Fouad viene fermato… è tuttora in carcere a Nizza con l'accusa di “oltraggio a pubblico ufficiale, violenza”. Il processo è previsto per la fine di settembre.

3 settembre 2015, Presidio permanente No Borders


aggiornamenti dalle lotte dentro e contro i cie
Roma, 30 agosto. Si è tenuta una forte protesta delle persone detenute nella sezione maschile del CIE di Ponte Galeria. La protesta è iniziata quando all’ora di cena hanno ricevuto del cibo scaduto: i reclusi hanno protestato collettivamente e la celere è come al solito subito accorsa per minacciare e reprimere. Del cibo scaduto è volato in faccia ai carcerieri. Nella mattinata era stata scarcerata una persona reclusa che aveva tentato il suicidio perché internata ed in gravi condizioni di salute.
Il 5 settembre, un centinaio di solidali sono tornati/e sotto le mura del CIE di Ponte Galeria. Il presidio, che ormai da un po’ di tempo di si svolge una volta al mese, è iniziato verso le 18,00 andando avanti per circa un paio di ore.
Sin dal primo pomeriggio, le persone recluse hanno portato avanti proteste vivaci attendendo l’inizio del presidio solidale. I detenuti della sezione maschile, una volta usciti nel cortile dopo il pranzo, hanno provato a resistere e restare fuori dalle celle per sentire meglio le urla, la musica e le parole che sarebbero arrivate dopo poche ore dal presidio all’esterno. Come d’abitudine, di fronte al tentativo di resistenza dei ragazzi, le guardie sono arrivate con cani e manganelli ed hanno rinchiuso tutti nelle celle. Per rispondere a questo ennesimo sopruso, alcuni materassi sono andati in fiamme e dei fuochi sono stati accesi in alcuni cortili comunicati tra le celle.Immediato l’intervento degli operatori di Acuarinto e delle forze dell’ordine che hanno spento le fiamme rivolgendo gli idranti anche contro le persone recluse.
A poco è servito questo ennesimo tentativo di isolamento e divisione tra dentro e fuori: una volta arrivati i solidali e montata l’amplificazione, le risposte da dentro si sono fatte sentire con urla e battiture. Per più di mezz’ora musica e interventi dal microfono aperto si sono susseguiti, insieme al lancio di petardi e di palline da tennis con messaggi di solidarietà e il numero di telefono contro le espulsioni. Anche questa volta le mura della struttura sono state oltrepassate! Dopo un po’ di tempo i solidali si sono spostati verso la sezione femminile. Prima però è stato consegnato del cibo, come richiesto dai detenuti. Ricordiamo che un motivo ricorrente delle proteste dentro il CIE è proprio il cibo che viene passato, che è pessimo e a volte scaduto e marcio. Questa operazione è durata un po’ di tempo, perché le guardie davanti il cancello, come ogni volta, hanno dovuto chiamare gli operatori e seguire tutta una trafila burocratica per la consegna, invocando regolamenti che cambiano sempre in base alla situazione. Alla fine qualcuno/a è riuscito/a ad entrare, e sappiamo che il cibo è arrivato solo oggi.
Davanti al femminile si è ripetuto quello che era stato fatto al maschile, con musica interventi e lanci. La risposta delle ragazze è stata incredibile ed emozionante! Le grida “libertà, libertà” si univano ai cori del presidio, alle battiture fatte sia dentro che fuori, alla gioia e alla rabbia. Anche qui si è rimasti per più di mezz’ora. Segnaliamo la presenza massiccia delle forze dell’ordine (quasi il doppio rispetto al solito) e l’atteggiamento molto provocatorio della Digos che è stata letteralmente attaccata ai manifestanti per quasi tutto il tempo, nonostante i numerosi “inviti” ad allontanarsi.

A Bari cambia il direttore del Cie anche se di ufficiale non c’è niente, forse perché non era stato detto ufficialmente neanche che Rohan Lalinda,”l'ex-reclusa” poi diventato direttore, aveva fatto i bagagli e se n’era andato lasciando la gestione del Cie in mano alla polizia. In maniera temporanea, s’intende; giusto il tempo di far formare qualcun altro che andasse a tappare il posto vacante e così, dopo oltre tre mesi, Bari ha ora una nuova direttrice; son le voci da dentro a raccontarcelo e ci dicono anche che appena arrivata, come ben si confà ai nuovi capi, ha dettato subito nuove regole, più repressive ovviamente, come il divieto di stare nei corridoi: l'unico luogo dove i reclusi di tutte le aree possono incontrarsi. Staremo a vedere se ai reclusi andranno giù le nuove disposizioni o meno.
Il 29 agosto, nel pomeriggio si è svolto un presidio solidale con i reclusi nel Cie di Bari Palese, che è una delle strutture di detenzione amministrativa più afflittive d’Italia.
La polizia si è schierata per impedire il presidio, in quanto non autorizzato. Nonostante questo una sessantina di solidali ha trovato il modo di raggiungere le mura del Cie, aggirando il blocco delle forze dell’ordine. La determinazione dei solidali ha fatto intendere alla celere che non sarebbe stato il caso di “calcare la mano”. Nello stesso momento, la polizia ha immediatamente imposto l’interruzione della socialità dei reclusi, rinchiudendoli nelle sezioni, penetrando all’interno delle stesse e salendo sui tetti. Malgrado il tentativo di impedire la comunicazione tra l’interno e l’esterno, per un paio d’ore il presidio è riuscito a salutare i detenuti, che hanno risposto calorosamente.
Nella mattinata dello stesso giorno sono state effettuate delle perquisizioni tra le sezioni del Cie, al fine di sequestrare cellulari dotati di videocamera, proibiti nella struttura. Inoltre, il sindaco di Bari Antonio Decaro del PD ha proposto un progetto al tavolo del comitato provinciale, che prevede l’utilizzo dei richiedenti asilo del Cara di Bari nella pulizia e manutenzione degli spazi urbani. Un vero e proprio sfruttamento gratuito in nome dell’integrazione sociale. Alla proposta del sindaco e alle intimidazioni poliziesche opponiamo il moltiplicarsi di giornate di lotta, per ribadire che strutture detentive e semi-detentive come Cie e Cara devono essere distrutte.

Torino, 20 Agosto. Sembra essere arrivato agli sgoccioli lo sciopero della fame e della sete che, dentro le mura del Cie, alcuni reclusi stavano portando avanti da quasi due settimane. Qualcuno sta ancora scioperando, non volendo abbandonare quella piccola speranza di uscire che aveva animato la protesta negli scorsi giorni, ma i più hanno abbandonato di fronte all’inamovibilità dei medici del Centro che giudicavano idoneo a restare in corso Brunelleschi anche chi si presentava in sedia a rotelle e stremato dai numerosi giorni di astensione da cibo e acqua. L’indifferenza dei gestori sembra, dunque, aver avuto la meglio anche se, come sappiamo, la calma nei Cie non può regnare a lungo. E ci auguriamo che sia così sul serio, visto che sembra ormai certo che siano ricominciati i lavori di ristrutturazione che dovrebbero portare a capienza massima il Centro.

Crotone. Giusto l’altro giorno, alcuni quotidiani online raccontavano di un giovane senza-documenti che, nel bel mezzo di un diverbio di piazza e accecato dalla rabbia, aveva avuto la cattiva idea di usar come arma il vaso da fiori posto ad abbellire… il portone della Questura. L’uso improprio del vaso di coccio, ovviamente, non è passato inosservato al piantone di turno che ha avvertito gli agenti delle volanti e, dopo un inseguimento abbastanza rocambolesco, il giovanotto è stato ammanettato e condotto in carcere. Una notizia che avremmo messo senz’altro tra i “diritti e rovesci” della settimana, se solo avesse avuto per teatro via Grattoni. La Questura invece era quella di Salerno e questa piccola notizia ve la mettiamo invece qui in bella vista per farvi notare come il malcapitato, a detta dei vari organi di informazione salernitani che si sono occupati della vicenda, sia finito rinchiuso nel Cie di Crotone.
Il Cie di Crotone? Chiuso nell’agosto 2013 in seguito alla completa distruzione nel corso di una rivolta, non aveva più fatto parlare di sé. E invece in questi anni è stato parzialmente ristrutturato e nel luglio appena passato il Prefetto della città calabrese aveva affermato di fronte ad una Commissione di inchiesta alla Camera che una trentina di posti erano già belli e pronti per alloggiare ospiti forzati e per incrementare i bilanci di una Misericordia qualsiasi. Se la notizia del vaso rotto di Salerno fosse vera (ma ce ne sono un almeno altre due da altrove che parlan di gente trasferita a Crotone) vorrebbe dire che, zitti zitti, gli uomini del Ministero alla fine quel Cie l’hanno fatto riaprire.
Per una volta sull’argomento saremo brevi, che non bisogna essere il colonnello Bernacca per capire da che parte tira il vento. Magari con pochi posti e dopo piccoli lavori, e sempre in silenzio; ma appiccicando un coccio dopo l’altro, gli uomini del Ministero i Cie stanno riuscendo a rimetterli in piedi e a riempirli di nuovo di gente.

Taranto, 3 settembre. Protesta dei migranti dei centri accoglienza davanti al Municipio, per chiedere documenti d’identità per tutti e l’elargizione dei pocket money.

Foggia, 4 settembre. Manifestazione dei lavoratori agricoli migranti e dei solidali per rivendicare permessi di soggiorno, residenza, rispetto dei minimi contrattuali, casa acqua e trasporto gratuiti per tutti.

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La repressione delle autorità europee contro i migranti si intensifica ovunque, e nello stesso tempo crescono le lotte per opporsi al regime dei controlli e delle frontiere.Una breve panoramica sugli ultimi avvenimenti.

Ungheria, Bicske, a 40 km da Budapest, la maggior parte migranti che erano stati fatti salire con l’inganno, facendogli credere di essere diretti in Germania, ma destinati ad un centro identificazione, hanno resistito alla deportazione e la protesta continua tuttora. Oltre alla segregazione nei centri, rifiutano anche acqua e cibo: tutto quel che vogliono è poter lasciare il paese. Nel centro identificazione , sempre a Bicske, i migranti stamattina sono fuggiti. A Budapest, mille persone migranti bloccate alla stazione di Keleti hanno intrapreso stamattina una marcia per raggiungere l’Austria a piedi. Nel centro di detenzione di Rozske, al confine con la Serbia, stamattina centinaia di persone recluse sono riuscite a scappare. E’ intervenuta la polizia antisommossa con lacrimogeni e spray urticanti.
Grecia. Nel centro di detenzione di Amygdaleza, vicino ad Atene, i migranti reclusi hanno cominciato ieri sera uno sciopero della fame. Le condizioni del centro, rimasto aperto malgrado le promesse governative, sono rimaste disastrose, il cibo è pessimo e manca l’assistenza sanitaria. Nell’isola di Kos ieri sera i migranti sono stati attaccati e picchiati da un gruppo di fascisti, e ciò è avvenuto davanti alla stazione di polizia, senza che questa muovesse un dito. Ne è seguita una protesta e un blocco stradale dei migranti per lasciare l’isola, questa volta la polizia ha caricato e lanciato gas lacrimogeni sui migranti e i solidali. Nell’isola di Lesbo un migliaio dei diecimila e più migranti presenti hanno protestato e provato a imbarcarsi su una nave diretta ad Atene: anche in questo caso la polizia è intervenuta con gas lacrimogeni, sgomberando la zona del porto.

Francia: a Calais ieri sera presidio dei migranti, che hanno rifiutato di entrare nel ghetto di Jules Ferry, uno pseudo centro accoglienza creato dalle autorità. Rifiutano l’assistenza umanitaria, il cibo e l’acqua erogati dal centro di distribuzione Salaam e vogliono libertà di movimento.
Milano, settembre 2015

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Torino. La lotta di Karima
Una famiglia egiziana si presenta alla caserma dei Carabinieri di San Salvario in via Morgari 29 per sporgere una denuncia: da mesi vivevano accampati al Valentino e la figlia di 16 anni ha appena subito un tentativo di violenza nei bagni pubblici del parco. I Carabinieri, per tutta risposta, chiedono i documenti al padre e iniziano gli accertamenti sulla regolarità della sua presenza sul territorio nazionale. Evidentemente qualcosa non va e l’uomo viene trattenuto. Quando nel pomeriggio vede che il marito non esce dalla caserma, la moglie Karima si mette con i figli a bloccare corso Massimo D’Azeglio.
E resiste, intenzionata a non andarsene finché lei e i figli non lo potranno rivedere, o almeno parlargli: Karima lo sa che, in un Cie o altrove, finir nelle mani dei poliziotti può esser pericoloso ed è preoccupata per la sua incolumità. Ha con sé acqua e succhi di frutta, e i tentativi di mediazione dei Carabinieri e degli assistenti sociali non sbloccano la situazione. Mentre ai vigili non resta altro da fare che transennare il corso, qualche passante si interessa della situazione, si informa sul perché del gesto e qualcuno si ferma. Quando scende la sera spuntano coperte, cuscini e viveri portati da qualche solidale, e ci si prepara per la notte. Qualcuno non si limita solo a portare le vettovaglie necessarie per le ore successive, ma si ferma con la caparbia famiglia per supportare il blocco. L’esempio di una donna e i suoi figli che decidono di inscenare una protesta di questo tipo, riuscendoci, infatti, non lascia di certo indifferenti.
Per loro si scomoda addirittura l’assessore Ilda Curti ma la sua presenza e quella degli assistenti sociali non è meglio gradita di quella della polizia. È Karima stessa a urlare loro quanto sia irritata nel vederli lì invitandoli ripetutamente e fuor dai denti ad andarsene. Nonostante lo scontro verbale abbia talvolta raggiunto punte piuttosto acri, i tanti poliziotti in borghese presenti si limitano a un lavoro di persuasione retorica che non ottiene nessun riscontro, almeno per la durata della la notte. Del resto un’azione coatta in questo caso, vista l’incresciosa genesi della faccenda e vista anche l’attenzione che gli ultimi fatti di cronaca cittadina hanno creato, dev’essere sembrata agli ancora per poco solerti dirigenti di polizia una soluzione da tenere nel bagagliaio insieme alla ruota di scorta.
Solo al mattino, quando già sono passate le nove, Karima e i suoi figli illanguiditi dalle tante ore in strada decidono di seguire gli agenti, avendo loro strappato prima la promessa di poter incontrare il marito al Cie e di una futura sistemazione per lei e figli.
In realtà, l’incontro col marito non avverrà, e, da parte sua, Karima rifiuta l’ospitalità umiliante del Comune nel dormitorio del Sermig. Così, dopo essersene andati da lì, madre e i figli tornano a bloccare corso Massimo D’Azeglio, ma questa volta la polizia interviene subito e, senza troppe storie, vengono portati con la forza su un’ambulanza e trasportati all’ospedale Martini. Le forze dell’ordine, stavolta, non l’hanno tirata certo per le lunghe e sono tornati avari di parole. Dal lato delle strade che si inoltrano in San Salvario hanno impedito che qualsiasi solidale potesse raggiungere per il secondo giorno di fila Karima; dall’altro, quello del Valentino, hanno fatto sì che un tram rimanesse fermo cosicché i passeggiatori del sabato non dovessero assistere alla scena.
Il gruppetto di solidali, alcuni dei quali avevano passato la notte precedente all’improvvisato blocco, preoccupati che il trasporto coercitivo in ambulanza possa significare un Trattamento Sanitario Obbligatorio, si recano all’ospedale Martini per mostrare ancora una volta la loro vicinanza a Karima. Là davanti trovano però già schierati i carabinieri in assetto antisommossa che quasi immediatamente caricano il piccolo presidio.
I solidali, per tutta risposta, decidono di far un saluto breve quanto brioso al Cie, casualmente proprio a due passi da lì.
Dagli ultimi aggiornamenti Karima e figli si trovano tutti all’Ospedale Martini per accertamenti non meglio specificati; il marito, invece, rinchiuso in corso Brunelleschi.

30 agosto 2015, da autistici.org/macerie


E’ tempo di cambiare qualcosa
Lettera dalle carceri USA, di Mumia Abu-Jamal
In ogni esperimento sociale naufragato arriva il momento in cui nulla di positivo può più essere raggiunto. Questa spiacevole verità deve essere finalmente riconosciuta anche in rapporto, al gigantesco, straordinariamente costoso e spettacolarmente inefficace sistema carcerario degli USA. E’ ora di cambiare questo sistema.
Negli ultimi 30 anni tutti gli stati federali USA e il governo di Washington hanno fatto proprio il motto “mano dura contro i carcerati”. Nessuno può contestare che la vita per i prigionieri sia diventata più dura, da quando l’arresto viene eseguito soltanto per pura punizione. I permessi notturni per recarsi in famiglia da tempo praticamente non ci sono più. I programmi di formazione sono stati drasticamente ridotti, l’accesso ai corsi scolastici superiori è da tempo cancellato. La possibilità di tenere in cella oggetti personali è fortemente limitato. Adesso quasi tutti i detenuti sono costretti ad indossare un abito umiliante nella forma di una ripugnante tuta arancione, affinchè chi la indossa personifichi la vergogna di Caino. Come se non bastasse, l’atmosfera nelle galere e l’atteggiamento delle guardie nei confronti dei carcerati è rovesciato in aperta ostilità. Le guardie si realizzano nell’eseguire quotidianamente l’odio della società verso i delinquenti; e giocano questo ruolo con entusiasmo.
I politici sfruttano preoccupazioni e rabbia di chi colpito da reati, costruiscono la loro carriera nell’invocare condanne sempre più dure, nel chiudere in un angolo i prigionieri ormai considerati esseri inumani. Così oggi ci sono migliaia di uomini e di donne condannate/i all’ergastolo per bazzecole ed altre centinaia di migliaia che ritornano nel cerchio diabolico del sistema penale a causa del semplice possesso di droghe (stupefacenti).
Il sistema carcerario USA inghiottisce ogni anno fino a 110 mld di dollari. La percentuale di persone arrestate è pari a 509 ogni 100mila abitanti: è il rapporto più alto rispetto a ogni altro paese industriale. La percentuale di giovani neri chiusi nelle carceri USA è più alta che nei tempi bui del regime dell’apartheid in Sudafrica. Noi siamo soltanto il 4% della popolazione mondiale, ma teniamo chiuse dietro le sbarre il 25% di tutte le persone del mondo chiuse in carcere. Nonostante il finanziamento miliardario e gli arresti in massa di nostri concittadini, il tasso di criminalità negli USA non è più basso che negli altri paesi industriali.
E’ giunto il momento di mettere fine alla guerra contro chi finisce in galera, perché non è più soltanto un attacco al buon senso umano, ma anche perché non ha condotto alle percentuali sulla recidività (ricaduta nel compiere “reati”) promesse. Anzi: 30 anni fa le persone in carcere a causa delle “ricadute” erano pari al 25% del totale (delle persone in carcere), oggi quella percentuale è salita al 70%. Ecco perché il sistema penale deve essere finalmente liberato dalla politica dei partiti e da ogni aizzatore che cucina i tormenti delle vittime del crimine con le zuppe della sua politica. L’impiego forzato negli ultimi tre decenni della “mano dura” ha spinto fuori dal sistema penale gli ultimi rimasugli di giustizia. Bisogna dunque mettere fine alle pratiche fallimentari secondo cui la dura punizione riesce a lenire il dolore delle vittime, prima che diritto e giustizia vengano negati, tolti anche all’altra parte della società.

Nota:
Kenneth E. Hartman da 35 anni è ininterrottamente chiuso nelle carceri della California senza speranza di liberazione anticipata, perché da 19enne ferì a morte in una scazzottata un uomo ubriaco. Hartman, come autore e attivista, da decenni lotta contro l’ergastolo non sostenuto da prove. Anche lui, come Mumia, considera quella condanna un tipo diverso di condanna a morte e si batte per l’abolizione di entrambe le condanne . Info: http://kennethehartman.com/
3 agosto 2015, da jungewelt.de


Lettera dal carcere di Spoleto (pg)
Luigi si trova nella sezione 41bis ci avvisa ad adoperare particolari cure nelle spedizioni di libri, eccole.

Carissimi, ho ricevuto la vostra ultima lettera con opuscolo e libro per tramite raccomandata. Però non ho potuto neanche vederli visto che noi al 41 non possiamo ricevere dall’esterno né libri o simili, ma se potete mandateli senza che ci sia la spilla nel mezzo, cioè solo i fogli, ma non oltre il numero di tre (3), in modo che non somigli agli opuscoli né ai libri. Mi sembra controverso, ma è così, sono le contraddizioni di accumulo di nominativi su nominativi di cui purtroppo nessuno ha colpa!?
Vi auguro ogni bene possibile e vi saluto tutti con una stretta di mano, Luigi. Grazie!

12 agosto 2015
Luigi D’Alessandro, via Maiano, 10 – 06049 Spoleto (Perugia)

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Libri e galera: cosa succede nel carcere di Biella (agosto 2015)
In quel carcere “il regolamento non prevede l’operazione di far uscire i libri attraverso il colloquio con i famigliari”, così dicono le guardie.
C’è chi non ci sta, chi scrive su questo impedimento al Magistrato di sorveglianza e al Garante dei detenuti. Le lettere vengono lette dalla Direzione che in breve appende in bacheca la “Disposizione” in cui è scritto che via colloquio da quel giorno possono uscire libri, lettere e altro materiale finora non previsto nel regolamento interno.
Niente di che dal punto di vista della lotta, ma un buon passettino.


lettera dal carcere di massama (or)
[…] i mafiosi dell’antimafia urlavano a destra e a sinistra che c’era bisogno della rotazione in Cassazione, ora che hanno il potere, hanno fermato i ricorsi sulla 1° sezione. Non solo, sono riusciti con i ricatti a Berlusconi e Alfano, a calpestare la Costituzione sul giudice naturale, ed hanno adibito il Tribunale di Sorveglianza di Roma come unico magistrato (di Sorveglianza) sui 41 bis d’Italia.
Alcuni mesi fa è venuta una delegazione ONU sui diritti umani, quando gli hanno detto o sono venuti a conoscenza che c’era il 41bis, hanno esclamato; “Avete ancora il 41bis? Dopo tutte le lettere di raccomandazione che vi abbiamo fatto per abolirlo.”
I media hanno censurato persino il Papa quando ha dichiarato che l’ergastolo è una pena di morte nascosta e il regime del 41bis è una tortura, l’hanno censurato con il silenzio. Su questo tema c’è una censura rigida simile a quella delle dittature alla luce del sole. Credo che ci vorrebbe una campagna all’estero, principalmente in Europa, per superare la censura italiana. Vi mando in proposito un’intervista a Maurizio Turco (Partito Radicale).
Hanno istituzionalizzato la tortura e la censurano con le parole “carcere duro”; se è tutto lecito perché hanno paura che trapeli la verità?
Anche la censura del 41bis è ferrea, hanno terrore che dall’interno fuoriesca la repressione crudele che applicano, e quando concludi che è infame ciò che fanno, coprono e giustificano con il “dovere” come se il dovere potesse giustificare ogni cosa, se fosse così si potrebbe legittimare anche i lager nazisti, le SS facevano il loro dovere.
Se volete avviare una corrispondenza dovete usare le raccomandate con le ricevute di ritorno, e quando le fermano dovete intervenire sul magistrato di sorveglianza che le deve vagliare (complice), così capiscono che non possono fare ciò che vogliono e si moderano. Mi avvio alla conclusione, un forte abbraccio a tutti voi. Ciao, Pasquale.

Fine luglio 2015
Pasquale De Feovia Is Argiolas Località Su Pedrixiu – 09170 Massama (Oristano)

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Seguono estratti da altre due lettere a proposito del regime di 41bis.

[…] nello scrivere a persone nelle sezioni del 41bis per prima dovete sapere che tutti quelli sottoposti al 41bis hanno la censura, è difficile che gli danno la posta della famiglia, figurarsi da un’associazione o da altri compagni carcerati. Tanta posta viene mandata alla procura. Quindi è meglio evitare di tenere i contatti con persone al 41bis, anche per non metterli in difficoltà, perché quando faranno richiesta per togliere il 41bis non mettano nella relazione che ancora hanno contatti, e giustificano anche una parola di solidarietà a loro piacimento. Quindi meglio lasciare stare le persone al 41bis perché hanno troppe sofferenze e problemi di diverso tipo.
Certo il nostro piacere sarebbe che al 41bis non ci deve stare nessuno…
[…] qui come altrove se venissero a conoscenza di un interessamento riguardo a chi si trova nel 41bis, si scatenerebbe il putiferio con conseguenze che ben potete immaginare. La discrezione è obbligatoria. Anche per quanto riguarda il loro stato attuale è buio completo, se solo sfiori la segretezza del reparto 41bis sei attenzionato in maniera ossessiva…

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Da un’intervista a Maurizio Turco (Partito Radicale)
in Ristretti Orizzonti, dicembre 2013
Abbiamo cercato di mettere a fuoco i meccanismi di come funziona il 41 bis, quello che volevamo sapere è come pensate si possa superare questo regime, perché siamo consapevoli che la resistenza rispetto alla possibile abolizione di queste forme di carcerazione è trasversale, politicamente parlando, per cui crediamo sia molto difficile. Quali strumenti pensate di adottare per fare questo passaggio, concretamente, perché si arrivi al superamento? C’è uno spiraglio, una possibilità?
Penso che non ci sia nessuno spiraglio, né alcun cambiamento in vista, anzi, penso stiamo andando verso una sempre maggiore militarizzazione del sistema carcerario, in assenza di possibilità alcuna di un carcere che risponda a quelli che sono i dettami costituzionali. Il resto è resistenza. Noi stiamo cercando di resistere al fatto di un peggioramento del 41 bis, ma so se ci riusciremo, nel senso che già parlano di riaprire Pianosa, l’Asinara, e sappiamo che cosa significa. Io sono stato questa estate a Badu e Carros (Nuoro) e c’è solo un detenuto in 41 bis, ed è un fatto contrario alla legge, perché comunque anche i detenuti in 41 bis hanno diritto alla socialità, per quanto simbolica. Le condizioni di detenzione stanno sempre più peggiorando, nel senso che ormai c’è una parte di detenuti in 41 bis che scontano un 41 bis aggravato e sono tutti quelli che sono in aree riservate, che sono completamente isolate dal resto del mondo, e c’è ancora la difficoltà per noi di poterli andare a vedere nelle necessarie condizioni, per cui voi capite che è una situazione che va sempre più ingarbugliandosi, nel senso di violazioni sempre più dure, violente, della legge. La nostra prima proposta è quella del rispetto della legge così come è scritta. Il fatto che poi ci siano tutta una serie di regolamenti che il DAP ha emanato, che hanno reso il 41 bis quello che è oggi nella realtà, una realtà contraria alla legge. Noi siamo riusciti in una occasione a fare andare il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa non nei posti dove di solito si andava, ad esempio Spoleto, dove c’è una realtà molto più aperta, diciamo. Quando siamo però riusciti a fare andare il Comitato a Parma, lì sono venute fuori 50 pagine di critica al sistema penitenziario, al sistema italiano, all’applicazione della legge italiana. Ecco perché il problema che oggi dobbiamo porci come obiettivo è quello di fare rispettare la legge, il 41 bis, in tutti i luoghi di privazione della libertà, da parte dello Stato e nella società intera.

Prima c’erano delle garanzie, ora che invece è diventato un sistema, quali tutele ci sono?
Intanto vanno ricordati positivamente i 16 senatori e 44 deputati che, tra ottobre e dicembre 2002, votarono contro la legge istitutiva in senso permanente del 41 bis. Il regime straordinario è stato reso ordinario attraverso una “stabilizzazione”, perché era una legge che doveva essere rinnovata ogni due anni, proprio per le particolari -cioè, lo ripeto, violente- condizioni di detenzione. Poi, nel 2002, il Parlamento ha deciso di farlo diventare un sistema “ordinario”. Andrebbero studiati gli ultimi sei mesi del 2002. Quello che veniva detto in Parlamento e cosa veniva pubblicato sui giornali e nelle agenzie. Io so solo che Giuseppe Ayala, già membro del pool con Falcone e Borsellino, e già sottosegretario alla Giustizia, e che nel 2002 era membro della Commissione antimafia, nell’ambito della discussione in Commissione sulla stabilizzazione del 41 bis, disse… “… saranno stati centinaia i provvedimenti che ho firmato, le motivazioni delle proroghe appartengono a quella categoria di cose che si firmano previa bendatura degli occhi (tanto è un’azione automatica che sappiamo fare tutti e con l’occhio bendato viene meglio)”. Perché prorogava ad occhi bendati la permanenza in 41 bis? Perché ci sono persone che continuano a restare in 41 bis sulla base della dichiarazione dei e carabinieri di un paese del quale magari mancano da 30 anni. Carabinieri che affermano che questa persona continua ad avere rapporti con la gente del luogo pur essendo da 10 anni in 41 bis: questa è negazione del diritto, della giustizia, della logica e dell’intelligenza. E di questo il sottosegretario Ayala che prorogava i 41 bis ad occhi bendati se ne è accorto? Certo che se ne era accorto, tant’è che aggiunge: “… Questo lo dico senza avanzare assolutamente critiche nei confronti degli organi che erano di volta in volta chiamati a fornire gli elementi, ma perché certe volte è quasi una ‘probatio’ diabolica”.
Per quella che è la mia esperienza, ho visto poche persone uscire dal 41 bis e le ho ritrovate quasi tutte, ancora insieme, a… Badu e Carros, a Nuoro, in Sardegna. L’unico cambiamento è stato un peggioramento delle condizioni di detenzione. Intendo con questo soprattutto la difficoltà ad avere rapporti con i familiari, perché è chiaro che quanto ti sbattono in Sardegna, se hai parenti in qualsiasi parte d’Italia, diventa un costo serio, sei tagliato fuori da qualsiasi possibilità di un rapporto costante. Fra pochi mesi in Sardegna risiederanno la metà dei detenuti in 41 bis e quasi tutti coloro che ci sono passati e sono vittime (e sottolineo: vittime) di un reato ostativo, cioè sono condannati a non uscire mai. In altre parole questo significa avere introiettato il senso dell’impunità da parte di chi dovrebbe applicare la legge ed invece la viola. C’è un giovane detenuto che ho incontrato una volta in 41 bis e due volte a Badu e Carros ristretto in alta sorveglianza. L’ultima volta mi ha detto “noi qui rappresentiamo il fallimento dello Stato. Siamo da decenni in galera. Siamo condannati all’ergastolo ostativo. La Costituzione non permette la restrizione a vita, ma c’è una legge che la consente attraverso un meccanismo dal quale risulta che siamo noi che vogliamo restare in carcere. Ogni volta che viene e ci trova ancora qui deve pensare: abbiamo fallito”.

Ci racconti come si vive nel 41 bis?
Vivere? Tanto per cominciare non si potrebbero tenere le telecamere in cella, soprattutto se sono puntate sui servizi igienici, ma questo continua ad accadere in tutte le aree riservate. Ho avuto modo di vedere una cosa allucinante a Badu e Carros, dove c’è un solo detenuto in 41 bis. C’è un corridoio con diverse celle, ma una sola è occupata, ha una telecamera puntata sui “servizi igienici”, che consistono in un bagno alla turca anomalo, non si trova ad altezza di pavimento, ma è rialzato di un metro per ovvie ragioni, perché c’è la volontà di manifestare un potere fisico, di umiliarlo di fronte alla telecamera, quando deve fare i suoi bisogni, e questo è qualcosa che è intimamente connaturato al 41 bis. La legge prevede espressamente che chi va in 41 bis può uscire unicamente se si pente. Noi siamo riusciti -triste consolazione!- a fare morire a casa almeno due persone, una c’è rimasta in agonia dieci giorni, l’altra non hanno fatto in tempo a farla uscire dall’ambulanza che è morta sull’uscio di casa. C’è proprio anche una logica dimostrativa per gli altri, nel senso che una di queste due persone era stata curata per tutt’altra patologia. La cartella clinica è stata inviata al professore Tirelli, del centro oncologico di Aviano, il quale disse: questa persona ha una prognosi infausta certa. Può avere un mese di vita. E dopo un mese è morto. Devo dire grazie al ministro Castelli che risposto positivamente al nostro appello a non farlo morire come un cane ed è morto a casa sua. Di solito un detenuto in 41 bis muore in ospedale dove viene trasportato dal carcere in prossimità del decesso. Morire nella propria casa è un fatto rarissimo. Certi accadimenti hanno solo un senso dimostrativo. E’ chiaro che non c’è nessun problema di sicurezza per quella persona ammalata di tumore che sta morendo, però il tenerla lì è di esempio per gli altri. Diciamo che lo Stato ha fatto propria, ha assimilato e riprodotto la logica mafiosa. Lo Stato, cioè, chi dovrebbe prevenire e contrastare il formarsi di una tale logica.


Da lettere di diversi prigionieri
Sui “ricatti” che aiutano a impoverire la socialità, la resistenza, la ribellione dentro le carceri
[…] questa notte qui un ragazzo che avevo conosciuto appena ero entrato in carcere si è tolto la vita. Si chiamava […] e aveva chiari segni di insofferenza. Tutti sapevamo che sarebbe andata a finire così. Ormai questi sono veri e propri cimiteri e tante sono le persone tumulate vive dentro le celle.
Questi benefici di 5 mesi hanno creato un sistema perfetto per i nostri carnefici. Tutti hanno paura e si fanno i cazzi loro e la fila per andarsela a cantare è sterminata. Se appena qualche anno fa era alquanto difficoltoso mettere in piedi proteste diffuse, oggi le vedo quasi impossibili.
Questi non sono più, o almeno a me così sembra, luoghi di conflitto. La realtà carceraria rispecchia un po’ la società e anche se qui il razzismo non viene palesato per evitare scazzottate, nei discorsi a piccoli gruppi il tema è presente. In poche parole, la crisi con tutte le sue sfaccettature, anche qui non ha alimentato rabbia ma rassegnazione totale oltreché indifferenza.
E’ da ipocriti attendere la mossa nostra per sollevarsi e mobilitarsi. Chi è libero ha possibilità di muoversi e creare momenti di confronto e tutto ciò che una lotta ha bisogno, mentre noi possiamo solo avere soddisfazioni personali e trasferimenti.
Sia ben chiaro questa non è una resa ma uno stimolo a chi è cosciente della realtà carceraria di iniziare a battere nuove strade, prima tra tutte quella del dialogo tra chi combatte il carcere stesso. Lo so che sono anime diverse e soprattutto sono diversi i modi di agire, ma se chiudiamo il confronto alla fine ci rimettiamo un po’ tutti. Sappiamo bene invece chi ci guadagna. E poi, chi lo dice che portando sul tuo terreno di scontro chi non la pensa come te poi cambia idea? Ragionateci…
Da un’altra lettera dove si mette in rapporto l’oggi con i contenuti, il contesto del libro “Liberare tutti i dannati della terra”.
Quelle che oggi avvengono nelle carceri, battiture, ‘finti scioperi della fame’ non si possono definire rivolte, sono bensì solo proteste passive che durano brevemente e che non hanno mai portato niente di concreto. E’ vero erano altri tempi ed altri cervelli. Ma tutto si è guastato quando tirarono in ballo la legge Gozzini e piccoli premi interni delle carceri. Oggi ci sono le telefonate premiali in più, i colloqui premiali, la liberazione anticipata, l’art. 21… come si può parlare di rivolte? E quindi quei pochi che ci sono si devono adeguare nel partecipare alle piccole proteste pacifiche – che anche queste non le vogliono più fare.
Ma la cosa più fastidiosa è leggere lettere, che appaiono anche su “Ampi Orizzonti”, di pietosità, la direzione è qui, la direzione è là, però quando la direzione concede qualche beneficio in più allora è umana. Basta con questa ipocrisia.


Carto-lettera dal carcere di agrigento
Carissim* compagn*, salute! Qui come al solito, sempre combattendo! Come d'altronde anche voi fuori!|
Vi sto mandando insieme a questa bandiera sarda [è la cartolina dei “Quattro Mori”, ndr], una sorta di verbale di trattenimento con cui mi impediscono di leggere “n° 1 lettera”, l'ultima da voi inviata. Siccome sono anni che ricevo da voi sempre in forma di “piego di libri”, vi prego di farmi sapere quanto prima il contenuto di ciò che mi avete inviato.
Ultimamente, avendo la censura, si stanno verificando più “trattenimenti”, per graziare ancor di più l'isolamento con l'esterno e con l'interno. Anche per me ci sarà da divertirsi quando mi porteranno al tribunale di Sorveglianza di Palermo in merito ai miei “reclami” sempre inerenti alla censura. Ognuno si prende quel che si merita.
L'illusione giurisprudenziale porta solo a imprenditorializzare e soffocare quei momenti in cui si vuole utilizzare la propria presenza come una delle tante possibilità di rispondere alle motivazioni/provocazioni politiche oppressive che adottano nei loro provvedimenti e alle condizioni strumentalmente torturo-centriche dei regimi punitivi (come questo carcere).
Un'occasione in più per rompere i coglioni se si ritiene vi sia il caso.
In attesa di vostre e di farmi sapere cosa si sono presi dal vostro ultimo piego di libri, vi abbraccio con determinazione, sempri ainnanttis!

Cloaca di Petrusa, 23 agosto 2015
Davide Delogu, C.da Petrusa p.za Di Lorenzo,1– 92100 Agrigento

In una successiva del 30 agosto, ci comunica che il “piego libri” è stato sbloccato. E’ la prima volta dopo tutti questi periodi di censura che gli sbloccano qualcosa. Davide è nell’isolamento del 14bis da più di un anno.

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solidarietà a davide dal carcere di terni
Oggi in data 24 agosto ho deciso di intraprendere uno sciopero della fame per la durata fino al 30 ottobre. Mi sono levato tutti gli alimentari che possedevo all’interno della cella, compreso il pentolame. Dal carrello prenderò solo la frutta, e ho tenuto all’interno della cella zucchero e the.
Purtroppo non posso fare lo sciopero solamente a acqua date le mie condizioni di salute; prendo dei farmaci salvavita che sono pesanti. Ogni tanto mi farò alla sera qualche mela bollita e del the. Comunque ce la farò.
Questo sciopero non è per ragioni personali, ma bensì per fare sentire a Davide Delogu tutta la mia vicinanza e solidarietà. Il motivo è la corrispondenza con Davide che continuano a sequestrare, compreso l’invio di libri e anche dei bolli. Mi domando se tutto questo non sia nient’altro che un atto mirato a isolare Davide, a non dargli nessuna possibilità di scrivere, né ricevere. E’ solo un atto di bastardaggine con la complicità dell’autorità giudiziaria. Mauro.

Mauro Rossetti Busa, v. delle Campore, 32 - 05100 Terni


carcere di venezia: caldo d’agosto, un racconto
Questo testo vuole essere prima di tutto un racconto di ciò che è avvenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia tra i mesi di luglio e agosto. Molte delle vicende in questione sono ancora in corso, abbiamo sentito la necessità di metterle nero su bianco perché riteniamo possano essere dei punti di partenza per una discussione allargata sul carcere, sul suo funzionamento e sugli incontri che, dentro e fuori di esso, possono avere luogo.

In estate le condizioni di chi è recluso diventano ancora più difficili. Il caldo, in una situazione di sovraffollamento coatto, con spazi di movimento ridottissimi, può rendere la quotidianità insopportabile, spingere chi è dentro a gesti e azioni prima impensati. Esattamente ciò che è avvenuto nel penitenziario veneziano di recente: è di metà luglio la notizia che un ragazzo recluso, per protestare contro il proprio trasferimento in una sezione con le porte sempre chiuse, ha incendiato i materassi della cella, intossicando tre agenti.
Da questo episodio ogni piccola provocazione delle guardie contribuisce ad esasperare il clima generale: il 27 luglio un detenuto, trattenuto dai secondini in malo modo, stacca con un morso una falange a uno di questi. La rappresaglia della direzione è tempestiva e, come al solito, diretta a tutti: vengono chiusi i blindi per tutto il giorno.
Il 29 luglio, nel tardo pomeriggio, una forte battitura scuote le mura e la monotonia di Santa Maria Maggiore.
Nonostante il ricatto sempre presente dei “richiami”, un provvedimento che annulla le cospicue riduzioni di pena in caso di buona condotta, la maggior parte dei ragazzi decide di prendere parte alla protesta. Urla e battiture di piatti e pentole contro le sbarre, più un giorno intero di sciopero della fame.
I rumori vengono sentiti in tutto il circondario e attirano l’attenzione di chi vive e passa lì vicino. Una cinquantina di persone si raduna sotto il carcere, improvvisando un presidio in solidarietà. Le cause scatenanti della protesta non sono ancora chiare, ma sono ben note le condizioni disumane in cui i detenuti trascorrono le loro giornate.
“Non va bene un cazzo, ci trattano come bestie” dicono da dentro.
Si innesca un “botta e risposta” , tra chi fa casino dentro e chi fuori, che dura tutto il pomeriggio, tra gli sguardi sbigottiti delle guardie e degli sbirri accorsi a dare man forte. Questi ultimi, al passaggio dei solidali davanti all’ingresso, spauriti, si chiudono goffamente dietro la pesante porta di ferro del carcere.
La solidarietà continua anche il giorno seguente: viene organizzato un altro presidio con musica e pentole per far rumore. La risposta dentro è forte, la paura dei ricatti sbirreschi sembra già un ricordo lontano.
“Libertà, hurriya! Guardie bastarde!”. Vengono scambiati, in diversi modi, vari contatti tra detenuti e solidali: la voglia di comunicare è tanta.
Nei giorni successivi esce la notizia che la protesta è stata efficace. I blindi e le porte delle celle sono di nuovo aperte ed è possibile passeggiare liberamente tra i corridoi.
“Grazie a voi e al casino che avete fatto adesso abbiamo di nuovo le celle aperte” senza dimenticare che ogni supporto è inutile senza il coraggio di chi, da dentro, decide di ribellarsi, assumendosi le inevitabili conseguenze della propria rabbia.
“Il problema principale è la burocrazia, non permette di fare niente”, “ La direttrice ignora ogni richiesta. E’ impossibile telefonare e molto difficile ottenere i colloqui”. Ma anche “Qui dentro si respira l’integrazione, quella vera, non quella ipocrita del falso sorriso che c’è fuori” .
Le finestre dei corridoi sono, inoltre, aperte per la maggior parte del tempo. Il passaggio sotto il carcere, se prima dava solamente un senso di impotenza e frustrazione è, ora, un modo per rompere in parte l’isolamento, vedere quelle mura sempre più sottili.
”Qui in carcere non si gioca a calcio perché la direttrice non vuole” “In libreria non ci sono libri in arabo perché sono vietati”. Dentro Santa Maria Maggiore pare che ogni cosa in grado di allietare, anche per poco, le giornate sempre uguali sia vietata, o comunque sia difficilissimo accedervi.
“Resterebbe solo il calcio balilla, ma è rotto pure quello e nessuno viene ad aggiustarlo”, “ho fatto richiesta di accedere in palestra e, per fortuna!, dopo tre mesi me l'hanno accettata”.”Sto scrivendo domandine ogni giorno per parlare con educatore e psicologo e da due settimane nessuno mi sta cagando”.
Anche la sala computer dove dovrebbe venire redatto il giornalino del carcere, tramite un progetto finanziato dal Comune, pare sia considerata dalla direzione inaccessibile e, pertanto, rimane chiusa.
Il 2 agosto un presidio di qualche decina di persone racconta la protesta dei detenuti di S. Maria Maggiore alle ragazze del carcere femminile della Giudecca : dal microfono si aggiornano le detenute su quanto sta succedendo nel maschile e in altre prigioni italiane.
Il 21 agosto si è nuovamente sotto le mura, in Rio Terà dei Pensieri. Con musica, giocolieri e aria di festa si parla con i ragazzi, cercando di movimentare un po' il pomeriggio. Dopo poco intervengono i secondini, che chiudono le finestre più rivolte all'esterno.
Provvedimento che, tuttavia, non basta a fermare la voglia dei detenuti di stare assieme, comunicare, ballare: si riesce comunque a mantenere un contatto visivo, le richieste di canzoni si sentono a fatica tra le urla di entusiasmo. Qualcuno incendia dei fogli di giornale e inizia un'altra battitura. Si viene a sapere che un detenuto è in sciopero della fame da ferragosto per chiedere il trasferimento in un' altra struttura.
Prima di iniziare a trarre delle considerazioni dai fatti qui raccontati va premesso che, per il carcere di Venezia, le mobilitazioni e le iniziative di questo mese presentano dei lati inediti. Nel corso degli ultimi anni non è mai mancata l'attenzione verso ciò che succedeva a Santa Maria Maggiore, né ci si è mai tirati indietro quando si trattava di far sentire la rabbia per fatti particolarmente gravi accaduti. Uno su tutti il recentissimo suicidio di Adrian, un ragazzo di 19 anni, morto impiccato nella propria cella a gennaio 2015. Anche fra i detenuti i momenti di protesta non sono mai mancati: ricordiamo tutti le battiture del 2009 a seguito del “suicidio procurato” di Cherib, o la battitura per il caldo e l'invivibilità della prigione del luglio 2013. La novità sta nel fatto che, il 29 luglio e nei giorni successivi, le due facce del dispositivo carcere, il dentro e il fuori, siano entrate in un rapporto di scambio reciproco fra di loro. Uno scambio che non sarebbe stata possibile se il carcere di Venezia non si trovasse in pieno centro cittadino.
Santa Maria Maggiore è un carcere storico e di vecchia costruzione. Come tutte le carceri costruite tra otto e novecento si trova immerso nel tessuto urbano della città, a pochi passi dalla principale porta d'accesso (Piazzale Roma) e non lontano dall'università e dai quartieri più vissuti. La sua posizione, unita alla particolare conformazione urbanistica di Venezia, fa in modo che i rumori e le voci dei detenuti non rimangano inascoltate. Un aspetto prezioso, rende relativamente facile avere dei contatti con l'esterno.
Con un po' di fantasia possiamo provare a immaginare come questa caratteristica possa tornare utile per supportare vertenze e rivendicazioni dei reclusi. Osservare chi e cosa entra ed esce, salutare un amico, conoscere orari e ritmi del sistema carcere può essere una pratica quotidiana per supportare i detenuti e per attaccare il dispositivo carcerario con maggiore efficacia.
Supportare i prigionieri nelle loro lotte è un affare di tutti. Dentro come fuori.
Il carcere, il dispositivo che rinchiude insieme agli essere umani tutte le contraddizioni che la società produce, è un luogo dove la ribellione,la lotta sono una necessità di sopravvivenza e dignità.
Non dimentichiamo che ogni concessione e ogni miglioramento delle condizioni di vita nei penitenziari è stato guadagnato grazie alle rivolte e le battaglie dei carcerati.
Combattere per una finestra o una porta aperta, per dei libri, per giocare a pallone, per un trattamento meno disumano, con l'obiettivo di “vincere” anche su una singola rivendicazione è, anche in caso di sconfitta, un modo per mettere in discussione i rapporti di sottomissione e isolamento che garantiscono il funzionamento e l'esistenza di questa stessa società, non solo delle sue galere.
Se un prigioniero ripreso, rinchiuso, minacciato, umiliato 24 ore su 24 trova il coraggio di dar battaglia ai suoi aguzzini per strappare un centimetro di libertà, la possibilità di rivoluzionare anche solo alcuni aspetti della nostra vita appare come qualcosa in più di un semplice miraggio.


Lettera dal carcere di Velletri (rm)
Carissimi amici e OLGa, vi scrivo di nuovo della situazione in questo fottuto carcere, dove ancora le istituzioni non fanno niente per migliorare le cose, ma preferisco dire “né classi né prigioni”. Ormai questo carcere è al collasso, ma io preferirei bruciarlo.
Ci vorrebbe un aiuto dal di fuori per incoraggiare più detenuti possibile, per incoraggiare tutti noi prigionieri che devono capire che c’è da fare qualcosa di eclatante.

Il compagno fa riferimento ad una rissa scoppiata fra due prigionieri, dove uno dei due è rimasto ferito allo stomaco da una sorta di puntello, che il peggio sarebbe stato evitato dall’intervento della guardia di sezione ecc. Le guardie ne hanno fatto occasione di osanna per loro, per aver immediatamente portato in infermeria e poi in ospedale il prigioniero colpito ed anche ne hanno approfittato per stringere gli spazi, per reclamare “sicurezza”. Claudio scrive del caos esploso nei momenti compreso il fatto che…

Siamo rimasti chiusi per quattro giorni per tutto il giorno. Potevamo solo andare all’aria; niente socialità, uno per volta per farsi la doccia. Ma quale sicurezza, ribelliamoci a questi ordini, a questa repressione fisica e psicologica. C’è stata molta confusione, battiture, ma chi ci ha rimesso sono i prigionieri che non c’entravano niente, che la direzione ha preso di mira. Dicono solo bugie.
I sindacati delle guardie chiedono interventi urgenti. Ora è successo questo, domani capiterà di nuovo, e forse di peggio. Si vedrà nelle prossime settimane… Non possono più farmi di quello che mi hanno già fatto. Ciao a tutti voi carissimi amici e compagne/i: un giorno ci ritroveremo insieme. Claudio.

29 luglio 2015
Claudio Perrone, via Campoleone 97 – 00049 Velletri (Roma)


Lettere dal carcere di Rebibbia (RM)
[...] Vi scrivo dopo un po’ di tempo perché pochi giorni fa ho letto sul giornale una notizia paradossale. “Detenuti in calo ma resta il sovraffollamento”. Non è strano...
Questo perché è stato consegnato il rapporto sulla detenzione nelle nostre carceri presentato dall’associazione Antigone, dove si sostiene che i detenuti sono diminuiti. Si è fatto un confronto con il 30 giugno 2010 finoad oggi. Si è registrato un calo di oltre 15mila unità. Dicendoci anche che la stessa associazione ha visitato nel mese di giugno oltre 40 carceri, la condizione di vita non è migliorata. Ma scusate, una domanda banale ve la siete posta? Perchè? Bisogna ricordare che nei primi sei mesi di questo anno sono morte 57 persone per suicidio. Questo è un segnale di forte disagio che si vive all’interno delle carceri. Ma la notizia più preoccupante è che sono in aumento gli ergastoli (1603).
L’unico passo positivo di questa analisi, cje nei nostri istituti ci sono 15mila volontari ed è un primato per i paesi europei, per una volta i primi. Credo che sia gkiunto il momento di cambiamento, bisogna riformare l’ordinamento penitenziario, cercando di mettere in evidenza affetti e sessualità, non siamo bestie ma uomini che cercano di riprendersi la propria libertà. Per una società senza prigini.

Altre due persone si sono suicidate a Regina Coeli
Lo stato delle carceri italiane continua a mostrare tutte le sue lacune. Sovraffollamento, carenza di organico, morti sospette, suicidi, anche se, secondo i dati di “Ristretti Orizzonti” la situazione sembra leggermente migliorata, però nelle carceri si continua a morire, 44 suicidi nel 2014, a fine luglio di quest’anno siamo già a 23 persone suicidate. In media ogni giorno nella carceri italiane si verificano nelle celle almeno 18 atti di autolesionismo da parte dei detenuti, 3 tentativi di suicidio, 10 colluttazioni e 3 ferimenti.
A Regina Coeli la situazione sembra ancora più difficile, la VIIa sezione, quella dei “Nuovi Giunti”, di notte c’è solo una guardia in questo periodo estivo, chi come me ci ha passato diverse notti, si ricorda ancora di come vengono trattati i detenuti, la mattina tutti in piedi alle 7,00 vicino alla branda, stanza pulita e letto fatto, non bisogna alzare lo sguardo, e agli insulti delle guardie non devi rispondere.
Ma le storie che percorrono “quelle celle oscure” parlano di solitudine, disadattamento, e anche di poca possibilità di riscatto. Forse entrambi i suicidi ci fanno immaginare che non ci sia via d’uscita. Che le loro vite erano ormai perse; allora per loro non è rimasto che tagliuzzare un lenzuolo di stoffa e impiccarsi alle grate delle celle.
Basta morti, i detenuti devono e vogliono vivere, certamente più dignitosamente.

Inizio e fine agosto 2015
Marco Costantini, v. Majetti, 70 – 00156 Roma
Lettere dal carcere di Bancali (ss)
Ciao, un caro saluto a te e compagne/i. Ho ricevuto libri, opuscolo e lettera e come sempre ringrazio tutti voi per quello che fate. Ho letto l’opuscolo e i lamenti dei detenuti. Come sempre sono da parte di quelli che si lamentano. Io, nella mia lettera che ho scritto al Ministero di “Giustizia” e pubblicata da voi, ho fatto un piccolo sbaglio, invece di scrivere “non ho commesso” ho scritto “ho commesso”, perché tante volte scrivo in fretta e mi capita di sbagliare. Mi sono dichiarato sempre innocente perché sono innocente. Nella mia lettera per i vermi del Ministero di “Giustizia” ho scritto esatto.
Ho ricevuto la lettera dalla Biblioteca dell’evasione di Sassari e ho chiesto loro un po’ di libri, poi quando finisco di leggerli li metto nella biblioteca del carcere, visto che qui ci sono pochi libri.
Per altre cose è sempre tutto uguale. Viviamo come in un lager, solo che questo non è un lager di Hitler e Mussolini, questo è un lager “democratico”, tutto è schifo, si mangia male e poco. In 3 mesi che sono qui sono stato 30 giorni in “punizione” e sempre per proteste. Mi ha scritto il compagno F. Michele dal carcere di Ferrara, mi ha mandato un libro e altro.
Ho scritto ai miei amici lasciati nel carcere di Bergamo, ma non ho mai ricevuto risposta, da 3 mesi. Sono sicuro che non hanno ricevuto le mie lettere, perché a Bergamo non sono in rapporti amichevoli con la direzione…
Speriamo che mi capita qualche buona notizia anche riguardo alla mia estradizione, ma è difficile aspettare qualcosa dai coccodrilli del DAP.
Finisco questa lettera, spero che trovo tutti voi in buona salute. Un caro saluto a te e tutti compagne e compagni, Jasmir.

19 luglio 2015
Sabanovic Jasmir, str. Provinciale 156, via Abbaccurrente, 4 – 07100 Bancali (Sassari)

***
Ciao compagni, ho ricevuto la busta con il libro e l'opuscolo.
Mi ha colpito molto il fatto dei curdi, gli americani prima li hanno aiutati per non fare brutta figura davanti al mondo, e adesso li hanno venduti ai turchi, proprio chi ha aiutato l'ISIS e continua a farlo. I curdi sono stati gli unici a dare filo da torcere, mentre gli altri guardavano o aiutavano questi fanatici dell'ISIS.
Ci vorrebbe una mobilitazione mondiale per informare la gente di questo atto infame da parte degli americani contro il popolo curdo. Il loro bizantinismo amorale non conosce freni, ma tutti sappiamo la fine che hanno fatto i bizantini.
Il ministro della Giustizia Orlando va a Strasburgo a dire che ha sistemato il sovraffollamento, quando invece ha fatto il gioco delle tre carte.
Tutto è rimasto immutato, principalmente i metodi, come si può leggere dalle lettere su OLGa. Le direzioni delle carceri interpretano secondo il metro di giudizio del direttore di turno; il DAP e anche i magistrati di Sorveglianza (nella stragrande maggioranza) né vogliono e né intervengono, per loro l'importante è che tutto sia calmo e che i detenuti si sottomettano alle loro disposizioni.
Purtroppo questo gli è permesso perché non ci sono più i prigionieri di una volta…
vi saluto con un sincero abbraccio, ciao Pasquale

Oristano, 24 agosto 2015
Pasquale De Feo, v. Is Argiolas, Loc.Su Pedraxiou 09170 Massama (Oristano)
Lettere dal carcere di Opera (MI)
Carissimi compagni, dopo questa mia assenza, da oltre un anno per motivi di trasferimento. Mi auguro che tutti voi godiate di ottima salute.
Tornando al trasferimento, questa è la 10° volta che vengo trasferito da un carcere all’altro, praticamente una ogni anno di carcere, “sono dentro dal luglio 2005”!!
Come già negli anni scorsi vi avevo scritto la nuova politica del DAP è di trasferire i sardi nella penisola e mandare invece tutti quelli in AS1, AS2 in Sardegna, lontano dalle proprie famiglie, costringendo queste ultime a sacrifici per poter vedere i propri congiunti. Un traffico di esseri umani autorizzato dal ministro di grazia e giustizia.
Sono a Opera dal marzo scorso e non c’è verso di farsi trasferire, nemmeno buttandosi nelle celle d’isolamento. Da sempre ho dei problemi nei confronti dei miei aguzzini.
A maggio sono stato portato a Cagliari per un processo contro una guardia, sono stato condannato a 4 mesi. Ma non è questo il problema, dopo tre giorni mi hanno detto che ero in partenza nuovamente per Opera.
Come segno di protesta mi sono denudato e non ho messo più i vestiti. Non si sono fatti scrupoli, visto che il volo era di soli detenuti, Alghero-Milano 95 detenuti, il resto guardie, con tanto di mascherata all’aeroporto di Alghero, perché presente quel giorno c’era un certo generale della polizia penitenziaria. Sono stato sballottato sull’aereo nudo fino a Milano. All’arrivo all’aeroporto sono stato minacciato dalla scorta con: sé non indossi i vestiti quando arriviamo a Opera paghi tutto. Ormai il mio tentativo era fallito quindi mi sono rivestito. Adesso da marzo ho inoltrato diverse istanze di trasferimento, ma so per certo che da qui non sono mai partite. Mi chiedo se questa politica di trasferimento sia un’arma usata dal DAP per creare problemi a chi ha reati associativi? In questo caso hanno nuovamente creato la Caienna Sarda e questo, da sardo, non è un orgoglio.
Adesso vi saluto con un abbraccio, vostro compagno Davide.

Opera, 23 agosto 2015
Davide Matta via Camporgnago, 40 - 20090 Opera (Milano)

***
[…] Qui nei giorni del caldo forte che c’è stato a luglio e a seguire, non si respirava nel vero senso della parola, inoltre nella sezione dove sono, al finestrone del corridoio hanno applicato un bel pannello di plastica perché sotto di noi stanno costruendo un nuovo padiglione e qualche mente brillante ha pensato che noi potessimo recare disturbo agli operai. Qui non sono stati rari i casi di svenimento, di collassi ecc. ecc., perché non passava la poca aria che c’era, inoltre, a volte, qualche sbirro infame si metteva a fare il fiscale del cazzo, e ci chiudeva le docce senza darci la possibilità di farci docce fredde per rinfrescarci un po’.
Poi, la notte non si dormiva perché i muri, essendo stati tutto il giorno sotto il sole, durante la notte rilasciavano il calore. Un vero e proprio inferno credimi. Sono anni che sono in galera, questa è stata l’estate più calda, insopportabile in assoluto, se ci metti che soffro d’asma… Qui la solita vitaccia e i soliti detenuti ormai sodomizzati dalle istituzioni. Sono veramente pochi i detenuti che lottano per i propri diritti e la propria dignità, e certe volte ti passa pure la voglia di fargli capire le cose, ti rispondono che hanno paura di perdere i giorni, di essere sballati lontani e tutte queste cazzate qua…
Un forte abbraccio, vi saluto calorosamente, con affetto e amicizia…

Agosto 2015
lettera dal carcere di cassino (fr)
[…] qui succede di tutto, botte, insulti… barzellette come dicono loro, isolamento senza motivo, rapporti disciplinari senza pietà… dobbiamo per forza fumare sigarette perché il tabacco è vietato… insomma, chi comanda il carcere ha un tabaccaio che deve fare dei soldi sulle nostre spalle… questo vale per ogni altra spesa che facciamo.
Ho vissuto e sono cresciuto in Italia dal 1984 fino al 1993, ho lavorato sempre onestamente nei campi agricoli in Sicilia, a Napoli, in ristoranti, macellerie a Bolzano dove abitavo in una roulotte.
Un giorno a 500 mt dalla roulotte hanno trovato della droga. Sono stato arrestato assieme ad altri miei amici operai: il signore della droga ha parlato, a noi ci hanno condotti verso la fabbrica dove lavoravamo, ci hanno dato la paga e poi ci hanno rilasciati con un foglio di via, prima ci hanno ritirato il permesso di soggiorno. Io ho ignorato la legge, come dicono i grandi maestri della legge, e sono stato espulso, accompagnato fino a Fiumicino verso la Tunisia.
Ci tengo molto alla mia bella Italia, così, dopo che sono stato assolto torno a Bolzano per chiedere il permesso di soggiorno e per riprendere il mio lavoro. Niente da fare non riesco a concludere niente. Devi tornare alla droga, mi hanno detto. Così nel ‘90 mi arrestano davvero, faccio 18 mesi di carcere e esco libero, questa volta senza foglio di via o di espulsione. Riesco a fare l’ambulante nei mercati di Bolzano, Trento e dintorni. Compro una macchina e decido di tornare definitivamente in Tunisia.
Ma la macchina giudiziaria non mi lascia in pace, mi sequestrano l’auto dopo avermi arrestato con altri due amici, uno di loro aveva due o tre bustine di droga, arrestano solo lui. Niente da fare: mi sequestrano tutto quello che avevo nella macchina, vestiti, scarpe, cintura ecc., dicono che è roba rubata perché non avevo le fatture per dimostrare da dove veniva. Il giudice mi crede e mi rilascia.
Siamo nel ’93, sono senza soldi, non riesco ad adoperare l’auto, sono imbottito di valium. Mi arrestano con una pistola scarica, l’avevo trovata in una casa abbandonata perché a quell’epoca non avevo più il mio bel caravan. Dopo due mesi mi espellono; mi portano su una nave a Genova diretta in Tunisia. Nel 1998 vado in Francia, intanto mi sono sposato e ho quattro bambini, lavoro, tiro avanti.
Quest’anno decido di compiere il solito ritorno dalla Francia in Tunisia, passando per l’Italia, di sbarcare a Civitavecchia e lì mi arrestano con la scusa che ho due anni e quattro mesi di carcere da fare per un cumulo di pena. Contatto un avvocato che chiede il mio fascicolo al tribunale di Bolzano. Vengo a sapere che il cumulo di pena riguarda il possesso di droga, furto e possesso di pistola sequestro di persona con violenza carnale di cui non so niente perché non ho mai sequestrato una persona come non ho mai fatto del male a qualsiasi altra persona.
L’avvocato fa richiesta, al tribunale di Bolzano di sospensione della pena perché sono passati più di 21 anni. Tutto respinto con il motivo che c’è la recidività della droga. Questo, come ho raccontato, non è vero perché mi hanno arrestato ma rilasciato il giorno dopo. L’avvocato adesso è ricorso in Cassazione che, però aspetta il parere del giudice d’appello di Bolzano che, per decidere, ha fissato una camera di consiglio per il 14 settembre 2015 in cui prenderà in esame la mia richiesta di estinzione del reato…
Cara Olga, non voglio niente, voglio solo rientrare a casa mia in Francia e trovare mia moglie, i miei bambini. Vi ho scritto questa lettera per sfogarmi e per vedere se potevi fare qualcosa per me verso il giudice di Bolzano.
I miei distinti saluti, forte abbraccio per i carcerati che soffrono in tutto il mondo. Che giustizia si fatta per tutti. A bientot Chaker.

Inizio agosto 2015
Marzouk Chaker, via Sferracavalli, 3 – 03043 – Cassino (Frosinone)


da una Lettera dai domiciliari
[...] E' passato del tempo dall'ultima mia lettera ma ero di nuovo in carcere e lì il vostro giornale non lo facevano entrare! Sono stato arrestato per un'operazione antidroga, ma stavolta sono stato costretto perché mia moglie è malata e avevo bisogno di molti soldi per le sue cure in quanto la ASL di Savona è una merda e non ci passa niente cazzo. Scusate le parolacce ma l'Italia non si smentisce mai perché tra la sanità e la situazione carceri siamo proprio indietro! Piano piano diventiamo l'Africa.
Sono riuscito per un pelo ad ottenere gli arresti domiciliari dopo 6 mesi e stavolta è stato un miracolo, così posso stare più vicino a mia moglie in questo cammino per la sua guarigione ...a pagamento.
2 scatole di medicine 1.000 euro!!! più la clinica a pagamento al mese, come le medicine. Ma dove cazzo è l'ASL? E la Sanità? E il ministro della Salute fa le leggi o gioca a carte in Parlamento?
Ero di nuovo detenuto con 8 persone in una cella fatiscente e maggio e giugno e luglio c'era da morire dal caldo! Come al solito i detenuti sono reputati bestie dai politici pur essendo pregiudicati pure loro! La loro lista è lunga! Che tristezza!
Vi lascio il mio nuovo indirizzo... un abbraccio a tutti voi come sempre, Stefano.

Savona, 20 agosto 2015


da una lettera dal carcere di vercelli
Scrivo sperando di trovare un piccolo spazio... Scrivo perché qua ormai lo spazio è così poco che non c'è posto nemmeno per parlarne.
Una delle tante tantissime voci di donne e uomini rinchiusi in piccole gabbie dove il "tintinnio" delle grosse chiavi ha sostituito il "rumore" del nuovo giorno che sorge.
Ogni giorno di questi ultimi tre anni mi ricorda e mi piega...non vi è nulla di rieducativo in tutto questo! Donne che ogni giorno alla stessa ora camminano in un cubo di cemento sulle linee bianche disegnate a terra...un camminare allucinante. Donne madri come me che piangono e rimpiangono i propri figli lontani. Figli immersi in una società che per le loro madri non ha parole di affetto, ma di giudizio e ripugnanza. Donne che hanno sbagliato, che vanno esiliate in queste "scatole di cemento" dove i loro volti prendono il colore delle pareti che le contengono.

Una ragazza della Casa Circondariale di Vercelli


Lettera dal carcere di Livorno
“Lettera dal carcere di Livorno” così fu il titolo di una lettera a voi pervenuta e stampata. Questa lettera fu scritta da un detenuto della mia stessa sezione, e grande uomo, Tedesco Daniel. Personaggio in carcere e nella vita, con il quale facevi sempre due risate, o parlare di cose serie. Scaltro ladro di auto (capacità) per la quale ha dovuto scontare 3 anni e 8 mesi.
Vista la scarsa qualità del carcere di Livorno, già da lui scritta nella sua lettera, era un “Pifferaio magico”; quando mi vedeva giù non si è mai scordato di darmi due parole di conforto, oppure una battuta del tipo “Mirko sono mesi, passano” eppoi, “Come si sta bene in galera dé, non hai da fare benzina alla macchina, ci portano da mangiare in casa (cella), non si fanno file al supermercato dé, ci portano la spesa, cosa volete di più?”. Con queste parole tirava su il morale a mezzo carcere, in più era un generoso, cosa rara sia fuori che dentro.
Come me è un grande ascoltatore di Virgin Radio e competente, nel panorama di qualsiasi gruppo rock. Musicalmente io e lui ci scambiavamo sempre opinioni sui vari gruppi, con i quali eravamo tutti e due in sintonia.
Dal punto di vista lavorativo anche se guadagnava poco era veloce, pulito e infatti è soprannominato “Furmine”, per la sua velocità nel fare mille cose e tutte bene. Uno che sapeva farsi la galera e oggi che è uscito, posso dire di essere contento di aver conosciuto una persona carismatica come lui. Poi lui non è lontano da dove vivo io, perché abito a Livorno e lui a Cecina (provincia di Livorno), 30 km di distanza.
Lui diceva sempre che i “signori” ci tengono buoni con immagini, libri, tv ecc. perché vogliono condizionarci, che possono toglierci tutto, ma non la libertà, perché nei nostri cervelli, nelle nostre menti, noi oltrepassiamo queste mura marce.
Da “Mirkino” un saluto speciale a te Daniel Tedesco e un saluto particolare anche alla resistenza e alla lotta comune che continuiamo fino alla fine. Mirko

6 agosto 2015
Mirko Carlotti via delle Macchie, 9 - 57121 Livorno


ancora notav
Chiomonte, sabato 5 settembre 2015. Appuntamento No Tav, presenti duecento manifestanti, davanti al cantiere di Chiomonte. Viene compiuta una battitura delle recinzioni (negli stessi momenti Turi è riuscito a scavalcare e ad entrare nel cantiere, dove è poi stato fermato dagli sbirri). Fa seguito una semina simbolica in terreni circostanti il cantiere.
“Seminare è un gesto antico come il mondo. Semplice ma ricco di significati. Vogliamo ribadire ancora una volta che per noi quel cantiere di morte e devastazione va chiuso. La Valsusa che vogliamo non è cemento e recinzioni, non è un corridoio di traffico, ma una valle viva e verde”. (da un intervento alla manifestazione)
La sera dello stesso giorno… “un nutrito gruppo di no tav ha cercato di avvicinarsi al cantiere della Val Clarea. Durante l’iniziativa un reparto di polizia è riuscito a dividere il gruppo in due tronconi uno dei quali non è più riuscito ad allontanarsi. Gli arrestati sono otto tra cui uno studente delle scuole superiori di Torino che è stato portato al carcere minorile di Torino. Altri 4 sono studenti universitari torinesi, un altro un compagno del centro sociale Askatasuna e due No Tav bolognesi.
Questi arresti non ci intimidiscono e non fermeranno la nostra lotta che è fatta di tanti momenti, tra cui le iniziative notturne contro quel cantiere che devasta e uccide il nostro territorio e il futuro di tutti.
Per mercoledì sera organizzeremo una fiaccolata di solidarietà a Bussoleno.
liberi tutti, avanti notav!

settembre 2015, da notav.info

***
La solidarietà abbatte sbarre, divieti…
Abbiamo appreso con sgomento dell'arresto di un gruppo di compagne e compagni che partecipava ad un'azione volta a denunciare la devastazione dell'opera della tav in Val Susa. Martedì 15 settembre andremo al cantiere di Chiomonte insieme alla Carovana Femminista Internazionale (che farà tappa a Torino dal 14 al 16 settembre con una serie di iniziative), per parlare di resistenza delle donne e territori, nel giorno della mobilitazione alla frontiera tra Suruc e Kobane. La coincidenza non è casuale: pensiamo che quel filo spinato, quella frontiera che separa popoli e territori in Kurdistan non è poi così diverso da quello che in Valsusa separa un popolo dalla sua terra; pensiamo che la militarizzazione e la devastazione dei territori abbia un'unica matrice comune, e crediamo che la forza delle donne che lottano, che pensano, che agiscono, in ogni parte del mondo, insieme col movimento tutto, sia ciò che garantisce la costruzione di una società finalmente libera dall'oppressione di qualsiasi natura.
Francesca stava organizzando con noi questo appuntamento, insieme al collettivo sguardi sui generis. Ma arrestandola non hanno fermato niente: martedì saremo ancora di più e porteremo lei, Valeria e gli altri compagni rinchiusi, ancora una volta in valle, a urlare NOTAV su quelle barriere!
Il nostro abbraccio e il nostro pensiero va anche a Cecca e ai compagni arrestati pochi giorni prima per aver partecipato a un corteo antirazzista contro la Lega; in questi giorni in cui è così palese la tragedia che vive chi sfugge a guerre e povertà sono gli/le antirazzisti/e il vero pericolo, poichè di fronte alla violenza istituzionale, o alla sua ipocrisia melensa, svelano quali siano i reali meccanismi che muovono le persone e quanto siano inutili e razziste le politiche fin qui messe in campo dai governi.
Francesca, Valeria, Cecca, Jacopo, Alex, Pierpaolo, Donato, Mattia, Luca, Gianluca, Damiano, Nicola, Carlo, Checco vi vogliamo fuori presto!
Martedì 15 settembre appuntamento al presidio di Venaus alle ore13 per un pic nic insieme, a seguire assemblea sulla resistenza e la lotta delle donne notav con le compagne della Carovana. Alle ore 17.30 partenza da Giaglione per la passeggiata al cantiere. Vi aspettiamo numerose e numerosi.
Assemblea antisessista

***
Verranno scarcerati nel primo pomeriggio i notav arrestati nella notte di sabato scorso durante un attacco al cantiere di Chiomonte. Il gip ha convalidato gli arresti, disponendo però la scarcerazione per tutti i 7 notav rinchiusi nel carcere delle Vallette di Torino, mentre per lo studente notav delle delle scuole superiore, rinchiuso nel carcere minorile, si trova da ieri ai domiciliari. I 7 notav, quindi escono dal carcere lasciando l'amaro in bocca ai pm Marco Gianoglio e Antonio Rinaudo, i quali nell'udienza di ieri avevano chiesto la custodia cautelare in carcere. In 24 ore il gip, che ieri si era riservato di decidere, ha deciso di lasciare cadere le richieste dei pm disponendo per 6 notav l'obbligo di dimora nel Comune di residenza mentre per Alex, che risiede a Cosenza potrà rimanere a Torino per motivi di lavoro. Oltre all'obbligo di dimora i notav avranno firme giornaliere e rientro notturno.
Da notare come sia assurda la misura cautelare imposta dal giudice minorile nei confronti del giovanissimo notav. In questo caso il giudice minorile, invece di rompere il rito del carcere preventivo, strumento da sempre abusato da giudici e pm, seguendo il "principio minimo indispensabile a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto", come avvenuto per i 7 notav, impone, seppur ai domiciliari e con ovvie differenze dagli arresti in carcere, la continuazione della detenzione.
Il movimento notav conferma comunque la fiaccolata di stasera alle 20.30 a Bussoleno, per ribadire che la lotta notav non si fermerà e che continuerà a lottare contro chi devasta un territorio e uccide il futuro di tutti e tutte.
Libertà per i notav! Liberi tutti*!
9 settembre 2015, da infoaut.org


ancora sorveglianza speciale
È il Tribunale di Teramo il primo a rispondere positivamente all’appello lanciato negli ultimi mesi da diverse Questure italiane, isole comprese, sulla necessità di mettere sotto Sorveglianza speciale chi intendono togliersi dalle scatole, e togliere dalle strade.
Ad essere raggiunta in questi giorni dalla sentenza di applicazione della Sorveglianza speciale per diciotto mesi è stata Chiara, attualmente detenuta agli arresti domiciliari per l’attacco contro il cantiere del Tav di Chiomonte del maggio 2013…
Essendo Chiara agli arresti domiciliari, la Sorveglianza speciale rimane per ora chiusa in un cassetto, le prescrizioni appioppate a Chiara sono: obbligo di vivere onestamente; obbligo di restare in casa tra le 20 (o le 21 nei mesi di ora legale) e le 7 del mattino, e nelle restanti ore di comunicare all’Autorità locale di pubblica sicurezza ogni allontanamento dalla propria dimora; obbligo di presentarsi all’Autorità locale di pubblica sicurezza ogni qualvolta questa lo richieda, e di portare con sé una copia della Carta di permanenza in cui è attestato lo status di Sorvegliata speciale; divieto di frequentare persone che hanno subito condanne o sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza; divieto di partecipare a pubbliche riunioni e di detenere armi.
A queste misure è stato poi aggiunto, per “consentire un più vigile e penetrante controllo» al fine di «inibire la proliferazione del c.d. fenomeno di esportazione criminale”… “l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza” che, oltre a vietare di uscire dai confini del proprio comune, aggrava notevolmente le sanzioni previste per eventuali violazioni delle prescrizioni sopra elencate, fino a prevedere “l’arresto in flagranza e una successiva condanna da uno a cinque anni di carcere”.
Le tante pagine imbrattate dagli scribacchini di Questura e tribunale ruotano tutte, sostanzialmente, attorno a questi elementi: Chiara e il suo essere anarchica, i comportamenti “disdicevoli” - anche quelli non penalmente rilevanti, risultanti “dall’appartenenza (di Chiara) a frange estreme organizzate ideologicamente orientate e dalla tenuta di plurime condotte riconducibili a quelle tipiche dell’area di provenienza”…
Dipingono la compagna come “elemento di pessima condotta morale” che manifesta una “naturale e innata attitudine a delinquere» e una perdurante insensibilità agli stimoli esterni virtuosi”… (crepino).
8 settembre 2015, da autistici.org/macerie

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Ciao a tutti e tutte, volevo informarvi che da qualche giorno i giudici del Tribunale di Teramo hanno fatto l'onore di annoverarmi ufficialmente tra le persone socialmente pericolose e hanno quindi disposto la misura della Sorveglianza Speciale nei miei confronti per un anno e mezzo. Le varie prescrizioni che questa misura prevede non sono ancora scattate perché sono detenuta agli arresti domiciliari e diventeranno quindi esecutive quando non avrò più la misura detentiva.
Al momento è difficile capire quando finiranno questi domiciliari, forse dopo il processo d'appello contro me, Claudio, Mattia e Nicco fissato per la seconda metà di ottobre, forse più in là. Ad ogni buon conto la Sorveglianza Speciale che mi hanno appioppato è aggravata dall'obbligo di soggiorno, cioè dal divieto di uscire dal Comune dove vivo.
Per quanto il piccolo Comune abruzzese dove attualmente «vivo» sia bellissimo, circondato da colline e montagne e con vista sul mare ho il malsano desiderio di tornare lassù al nord tra contraddizioni, lotte, cemento e, perché no, con almeno lo sguardo verso la montagna e i suoi Giacu. Per quanto domiciliata, sorvegliata, confinata quell'aria da respirare mi manca e non ho di certo intenzione di passare quest'eventuale (non è detta l'ultima parola) anno e mezzo di Sorveglianza a zonzo tra queste pur bellissime colline.
Insomma non potendo per ovvi motivi riprendere per ora il mio posto nella casa occupata di via Lanino, sto cercando un appartamento da affittare a Torino così da poter essere rinchiusa, quando inizierà la Sorveglianza Speciale, in un recinto comunale un po' più ampio e con il cuore più vicino ai luoghi e alle persone con cui ho condiviso gli ultimi anni pieni di sogni ad occhi aperti. [...] A presto, Chiara.
8 settembre 2015

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Per la seconda volta la Cassazione nega la finalità di terrorismo
Dopo il riesame anche la Corte di Cassazione ha negato l’esistenza delle finalità di terrorismo per l’azione del 14 Maggio 2013 al Cantiere TAV di Chiomonte per Lucio, Francesco e Graziano processati per la stessa azione. E’ la seconda volta che i supremi giudici di Roma smontano quello che il movimento NoTav ha definito il “Teorema Caselli” e cioè il tentativo della Procura di Torino di equiparare semplici atti di lotta e sabotaggio al terrorismo.
La prima volta che la Cassazione si era espressa contro l’ipotesi del terrorismo era nel quadro del primo processo a Mattia, Chiara, Nico e Claudio arrestati nel dicembre 2013 e processati per la stessa azione. Nelle sentenze di primo grado tutti sono stati condannati per reati specifici e per tutti sono state escluse le finalità di terrorismo. Le ultime condanne sono quelle a 2 anni e 10 mesi (con rito abbreviato) appunto contro Lucio, Francesco e Graziano.

17 luglio 2015, da milanoinmovimento.com


Milano, quartiere Corvetto: buttate in strada 60 famiglie
Con un dispiegamento di polizia, carabinieri ancor più elevato (almeno 400 sbirri) di quello organizzato nello scorso metà novembre, la mattina del 19 agosto Corvetto è stato bloccato per cacciare da un vecchio condominio di via Comacchio, occupato da tanti anni, intere famiglie provenienti in gran parte dal SudAmerica.
Lo sgombero, per la sua mole, per tutte le istituzioni che vi hanno preso parte, assieme a quelle accennate cioè Aler l'ente pubblico regionale a capo dell'edilizia pubblica, Comune, Protezione civile, Amsa (trasporto rifiuti), Comunità di “accoglienza”... è stato pianificato nei mesi scorsi infine realizzato a metà agosto anche per incontrare la minor resistenza possibile. In tal modo viene ripetuto che Milano è da intendere nell'affermazione, messa in mostra con Expo: una metropoli chiaramente nelle mani della proprietà e speculazione finanziaria, bancaria, edilizia, dove l'ambiente viene devastato, assieme alle condizioni di lavoro, sanitarie, culturali...della classe lavoratrice, puntando a dividerla sempre più anche attraverso il razzismo.
Il dispiegamento è iniziato verso le 7. Gli sbirri sganciati nei cortili del condominio, si sono lanciati lungo le quattro scale e i rispettivi camminamenti di ringhiera dei quattro piani, intimando alle famiglie di uscire immediatamente negli stessi istanti in cui spalancavano le porte degli appartamenti con la forza, con piedi di porco e simili. Quasi nessuna persona è riuscita a indossare qualche cosa, tantomeno a lavarsi il viso, prima della penetrazione degli invasori. Spavento, pianti in particolare di bambini-e, che hanno voluto muoversi solo se aggrappati alle gonne o addirittura in braccio alle madri e ai padri. Alle famiglie, abbandonate a se stesse, è stato ordinato di allontanarsi al più presto dal cancello e dalla via del condominio sgomberato; così non gli è stato permesso di portare giù tutta la roba, ma “solo il necessario”, di sistemarlo in cartoni, che gli sarebbero stati consegnati nei giorni successivi. Ciò che non è avvenuto se non in pochi casi.
Dopo alcuni giorni di sorveglianza dello stabile sgomberato affidata a polizia, carabinieri…sulla sua facciata sono state montate videocamere ed appeso un cartello di “inizio dei lavori” con su scritto: “Messa in sicurezza e disinfestazione” firmato ALER. In realtà la “sicurezza” è quella di sempre in questi casi: distruzione delle prime rampe di scale, dei cessi, delle tubature…così da innalzare le difficoltà ad una rioccupazione soprattutto collettiva, ma anche individuale.
Le famiglie infine sono state ulteriormente divise: la gran parte, oltre trenta sono “scomparse” magari presso parenti, soltanto una decina ha scelto di andare nelle “comunità d’accoglienza” del comune perché queste sono conosciute per lo stretto controllo esercitato sulla persona esercitato; altrettante si sono fermate in un grosso seminterrato occupato nel novembre scorso.
Da questo luogo liberato in serata famiglie occupanti, compagneros, insomma solidali, si sono messe in strada e condotto una manifestazione aperta dallo striscione “Tutti uniti contro sgomberi&sfratti”. Nel percorrere le vie interne del quartiere alla manifestazione si sono unite, direttamente e dai balconi, decine di famiglie con le loro bambine e bambini, anche neonati che conoscevano e urlavano: “Basta sfratti basta sgomberi”, “La paga è mille euro al mese per questo le case ce le siamo prese”, “Via via la polizia”, “Gli unici stranieri gli sbirri nei quartieri”, “La casa si prende l'affitto non si paga”, “Il Corvetto paura non ne ha”...
Anche in questo quartiere le premesse per mettere in piedi una resistenza adeguata al futuro ci sono, sta certamente a noi tutt* alimentarle.

Milano, agosto 2015


Rovereto: blocco del traffico dopo la morte di un operaio
Martedì 21 luglio, a Rovereto, un operaio della Marangoni pneumatici è morto, letteralmente bollito vivo, nel reparto vulcanizzazione della fabbrica. La risposta degli operai è stata... un'ora di sciopero per turno. La pressa dove il lavoratore è morto ha continuato a funzionare.
Martedì 28 luglio, alle 13,30, una trentina di compagni ha bloccato la strada di fronte alla Marangoni, con lo striscione "Basta morire per i padroni", interventi al megafono e dei volantini. Il traffico è rimasto bloccato per un'ora, paralizzando una parte della città. "Basta morire per i padroni. A Carmine" è stato scritto a pennello davanti alla fabbrica, assieme a "Marangoni assassino". Questa iniziativa, le numerose scritte apparse in città e le discussioni che sono nate con altri lavoratori stanno portando a un'assemblea pubblica e a un corteo a Rovereto. Di seguito il volantino distribuito durante il blocco

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MALEDETTO MARANGONI, MALEDETTI PADRONI
Si chiamava Carmine. Lavorava come operaio alla Marangoni pneumatici. Martedì 21 luglio, in uno dei giorni più caldi che la storia abbia registrato, stava lavorando al reparto vulcanizzazione della fabbrica, dove la temperatura sfiorava i 50 gradi senza impianti di ventilazione. Si è accasciato a terra stremato. Portato via in ambulanza, è morto in ospedale durante la notte.
Come tutti gli operai della Marangoni, con il nuovo contratto aveva visto aumentare i propri carichi di lavoro, le pause diminuire da mezz'ora a dieci minuti, arrivando a lavorare un mese all'anno gratis per l'azienda.
Marangoni, dopo i milioni di euro che ha ricevuto dalla Provincia (grazie soprattutto all'assessore all'industria Olivi), ha deciso di recuperare i propri investimenti aumentando lo sfruttamento dei lavoratori, spinto ancora più a fondo in vista delle ferie estive.
Gli operai hanno accettato, sempre più all'angolo.
Non conoscevamo Carmine e non lavoriamo alla Marangoni.
Non essendo né politici né rappresentanti sindacali possiamo dire e fare ciò che ci dettano la ragione e il cuore, senza dover dar conto a niente e nessuno all'infuori della nostra coscienza.
Per noi Carmine è stato ucciso dal padrone. Come tanti, troppi sfruttati (due operai morti a Rovereto in una settimana, quattro lavoratori che muoiono ogni giorno in Italia). Per i padroni la vita degli operai non vale neanche i soldi di un impianto di areazione. Questa verità non ha bisogno di aspettare alcuna inchiesta della magistratura (dov'erano gli ispettori del lavoro mentre gli operai lavoravano a quasi 50 gradi di temperatura con dieci minuti di pausa?) e non sa che farsene degli ipocriti minuti di silenzio di un consiglio comunale.
La rabbia ci stringe un nodo in gola.
E diciamo una cosa sola: che tutto si fermi. Che la città, fin'ora unita dal silenzio e dall'indifferenza, si divida in due, tra chi accetta e chi non accetta simili ingiustizie. Affinché chi non le accetta lo dica, lo urli, lo dimostri.
Fermiamoci. Per Carmine. Per non diventare noi stessi disumani, abituandoci a tutto.
Non si può vivere così. Non si può morire così.

ASSEMBLEA PUBBLICA: Martedì 4 agosto, ore 20,30 Circolo Cabana, via Campagnole 22 a Rovereto
CORTEO: Giovedì 6 agosto, ore 18,00 Piazza Posta a Rovereto

compagne e compagni
1 agosto 2015, da informa-azione.info


Privatizzare la sanità. Il modello Unipol
Il piano è sempre lo stesso, qualsiasi sia il settore pubblico da smantellare. Tagli la spesa, restringi i servizi, aumenti le tariffe, fai incazzare gli utenti, muovi un po' di giornalisti prezzolati, alimenti una campagna contro "il pubblico" che incontra resistenze via via più febili (il servizio funziona sempre meno) e alla fine privatizzi tutto.
Abbiamo visto i "grandi successi" di Telecom e dell'Alitalia, per non dire dell'Italsider diventata Ilva. Lo stiamo vedendo con la scuola e l'università, fatte marcire tra taglio dei fondi, maltrattamento del personale e aumento delle rette, parallelo all'aumento dei fondi regalati alle scuole private.
La "fase finale" ora tocca alla sanità.
Come si privatizza la sanità pubblica? All'americana, naturalmente, dandola in mano alle assicurazioni e alle strutture private. C'è ancora un po' di timore a presentarla così, quindi si comincia con degli studi, in cui magari un centro di ricerca serio come il Censis si mette a duettare con un qualcosa che si chiama Unipol, si comincia a far circolare il mantra che "bisogna superare certi pregiudizi" (le assicurazioni, in Italia, non godono effettivamente di grandi simpatie nella popolazione...), ma si comincia anche a disegnare teoricamente il nuovo assetto possibile di una sanità completamente privatizzata. A cominciare dal nome, ovviamente in inglese: white economy.
Il rapporto Censis-Unipol prende atto con soddisfazione che la sanità pubblica è stata ormai "frollata" a sufficienza e quindi "Appare ormai maturo il tempo di una nuova integrazione tra pubblico e privato, capace non solo di garantire la tutela sanitaria e sociale delle persone, ma anche di favorire la crescita economica, a partire dai territori".
In fondo gli utenti sono stati ormai abituati a pagarsi quasi tutte le prestazioni sanitarie, a cominciare dall'assistenza agli anziani. Dunque non ci sarebbero troppi ostacoli pratici. Anzi, bisogna anche sbrigarsi perché la crisi ha ristretto la capacità di spesa delle famiglie in questo settore. Al punto che ci si cura in generale di meno (nonostante l'aumento dei ticket, infatti, nel 2014 la spesa delle famiglie è scesa del 5,7%) e per la prima volta è in diminuzione anche il numero delle badanti assunte per assistere gli anziani.
Per il presidente di Unipol, Pierluigi Stefanini, "Se sapremo superare i pregiudizi consolidati, il pilastro socio-sanitario, inteso non più solo come un costo, può divenire una solida filiera economico-produttiva da aggiungere alle grandi direttrici politiche per il rilancio della crescita nel nostro Paese". Et voilà, il gioco è fatto. La salute della popolazione smette di essere un diritto individuale garantito dallo Stato e diventa una merce "prodotta" da una "solida filiera economico-produttiva", con aziende private (cliniche, laboratori di analisi e diagnostica, ecc) che sostituiscono quasi in tutto la rete sanitaria pubblica. Cui dovrebbero essere affidate, in misura assolutamente residuale, tutte quelle prestazioni da cui proprio è impossibile estrarre profitti privati: pronto soccorso, malattie gravi e/o invalidanti di persone con redditi troppo bassi, ecc.
Naturalmente bisogna "comunicare" qualcosa di più attraente e meno volgare. Quindi si argomenta in modo solidale alle famiglie italiane che "nei lunghi anni della recessione hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico". E anzi ci si presenta come pronti a correre in loro soccorso, perché "oggi questo peso inizia a diventare insostenibile. Per questo è necessario far evolvere il mercato informale e spontaneo dei servizi alla persona in una moderna organizzazione che garantisca prezzi più bassi e migliori prestazioni utilizzando al meglio le risorse disponibili".
Sembra la pubblicità di una catena di supermercati che garantisce "prezzi bassi e fissi". E bisognerebbe chiedersi come sia possibile che una "moderna organizzazione" della sanità in mano ai privati riesca a garantire -in futuro - prezzi più bassi e migliori prestazioni. L'esperienza comune, infatti, registra l'esatto opposto: prezzi spaventosi (una clinica privata con una certa affidabilità può arrivare a chiedere 500 euro al giorno per il solo ricovero, senza ancora calcolare i costi di visite specialistiche e medicinali, per non dire delle operazioni chirurgiche), qualche problema con i casi clinicamente più complessi (specie nella neonatologia, dove non è infrequente che bambini nati in cliche private vengano trasferiti d'urgenza in ospedali pubblici specializzati, come il Bambin Gesù di Roma). Poi, certamente, in una clinica privata il "numero chiuso" - ristretto a chi si può permettere di pagare certe cifre o è coperto da un'assicurazione (appunto...) - garantisce un rapporto meno frettoloso con medici e infermieri, meno affollamento e nessun letto nei corridoi. Queste sono piacevolezze che vengono da sempre assegnate alla sanità pubblica che deve accogliere e assistere chiunque – meritoriamente – anche se non c'è posto.
Ma ci sono dettagli decisamente interessanti nel rapporto Censis-Unipol. Per esempio, lo scorso anno la spesa sanitaria privata è crollata del 5,7%. La riduzione generalizzata dei redditi, insomma, sta mettendo in crisi i profitti dei padroni delle cliniche e dei centri diagnostici privati (gli Angelucci e i Debenedetti, per esempio); quindi è decisamente il "momento" di garantir loro un solido aumento delle entrate.
L'idea è di copiare il modello anglosassone, soprattutto statunitense, con qualche mediazione: "un'integrazione tra offerta pubblica e strumenti assicurativi (che permettano di sottoscrivere polizze a costi accessibili per poter godere in futuro di servizi di assistenza, di cura e di long term care) e di intermediazione organizzata e professionale di servizi".
Come farlo senza consegnare immediatamente e brutalmente la popolazione agli "intermediatori" sanitari privati? Con una attenta regolamentazione che serva a "stabilire le modalità precise per attivare tale percorso di integrazione, non tralasciando che molti fenomeni di cambiamento socio-demografico variano ed assumono sfumature differenti a seconda dei territori in cui si articola il Paese. Coinvolgere, pertanto, gli Enti territoriali nella definizione di processi di integrazione pubblico-privato, ma soprattutto coinvolgerli nella definizione di strumenti integrativi di welfare può essere una pista di lavoro per attivare servizi maggiormente rispondenti ad uno scenario in cambiamento. In questa prospettiva si pongono le proposte, di alcuni operatori privati, in primis Unipol, di attivare fondi sanitari integrativi di tipo territoriale, con una forte compartecipazione degli Enti locali".
Decentramento, accordi con enti locali inchiodati dal "patto di stabilità" e dunque impossibilitati ad opporsi validamente alle pressioni dei "privati" in presenza di una riduzione generalizzata della spesa sanitaria pubblica e quindi alle montanti proteste della popolazione. La chiave per disarticolare le resistenze passa da qui.
Il tutto, ovviamente, per "stimolare la crescita del paese", sviluppando "filiere". Perché "è evidente che la modernizzazione e la crescita della white economy, non possono passare solo per un investimento pubblico ma, viceversa, dovrebbero passare attraverso l'attivazione di un'offerta privata di servizi e di strumenti assicurativi e finanziari privati, di tipo integrativo, coordinati con l'offerta pubblica e sottoposti, ovviamente, alla vigilanza di organismi indipendenti competenti per materia".
Preparatevi a fare a schiaffi con le assicurazioni. Che, come in America, pretendono di coprire soltanto i clienti in perfetta salute, scartando tutti quelli che rischiano di costar loro più di quanto non versino di polizza.

7 settemre 2015, da contropiano.org