indice n.101

La guerra dell’Arabia Saudita contro lo Jemen
Baltimora esplode contro la polizia per la morte di Freddie Gray
Istanbul: un servo dei padroni preso da un nucleo del DHKP-C
Collaborazione fra Germania e Kenya
La politica degli stati europei rispetto alle persone “in fuga”
ancona: SALVINI cacciato
i cocci dei CIE
Grecia: lo sciopero della fame ha ottenuto una vittoria
Prigionieri maoisti in sciopero della fame in Marocco
Lettera dal carcere di Piacenza
LO STATO ITALIANO E' UN TORTURATORE?!
Lettere dal carcere di Velletri (rm)
Sulle limitazioni dei libri nelle sezioni a 41bis
Lettera dalla sez. 41bis del carcere di Spoleto (pg)
sul presidio sotto il carcere di cuneo
da una carto-lettera dal carcere di Agrigento
Lettera dal carcere di Terni
roma: ancora sul processo per i fatti del 15 ottobre 2011
Cremona: Sguardi altri sulla repressione
milano, 31 marzo: sul processo ex-cuem in aula bunker
Il movimento No Tav (r)esiste!
milano: Soy Mendel è tornato!
Padova, grave attacco contro il movimento di lotta per la casa
Bologna: crolla un pezzo di articolo 5!
milano: perquisizioni e sgomberi in giambellino
Operazione di polizia a Torino: 12 persone coinvolte
Aggiornamenti dalle LOtte nella logistica


La guerra dell’Arabia Saudita contro lo Jemen
La guerra dell’Arabia Saudita nello Jemen conduce gli USA in una “situazione strana”. Mentre in Irak conducono attacchi aerei a favore delle milizie sciite sostenute dall’Iran nella loro lotta contro l’ISIS (stato islamico dell’Irak e della Siria, anche ISIL - stato islamico dell’Irak e del Levante) nello Jemen sostengono gli attacchi aerei sauditi contro le milizie sciite sostenute dall’Iran.
“Situazione strana” se la guerra nello Jemen viene ridotta allo scontro sunniti/sciiti.
Il punto da chiarire è l’analisi dell’origine e della funzione dell’organizzazione militare chiamata “stato islamico”. Il collegamento degli USA a questa è noto. Si ricordano qui i viaggi nel maggio 2013 del senatore repubblicano John McCain dalle bande assassine in Siria e le affermazioni rilasciate il 18 febbraio scorso alla CNN dal generale USA Wesley Clark: “L’ISIS è stato creato con il sostegno finanziario di amici e alleati nostri… Noi abbiamo creato Frankstein”.
L’ISIS è stato creato per permettere ai paesi NATO di mettere le mani sulla Siria, togliendola dall’influenza della Russia (come l’Irak ai tempi di Saddam Hussein), togliendola al regime “indipendente” del clan Assad. Ma nonostante massacri e bombardamenti aerei il disegno USA non si conclude. Anzi genera “situazioni strane”. Ad esempio: il bisogno di aiuto ha spinto il blocco di potere che in Siria ha ancora nelle proprie mani lo stato, ad allearsi all’Hizbollah, cioè all’Iran. In tal modo, adesso, proprio l’Iran potrebbe sistemare direttamente sue truppe ecc. sul Golan, sul confine Siria/Israele.
Nei bombardamenti di fine marzo nel nord-ovest dello Jemen sono rimaste uccise decine di persone, donne e bambini compresi, ferite più di 80; i profughi si contano a centinaia. L’Arabia Saudita e i suoi alleati, in sostegno di Abed Rabbo Mansur Hadi presidente dello Jemen ora riparato all’estero, nelle settimane scorse avevano iniziato a bombardare le basi degli sciiti Ansarollah ribelli al regime di Mansur Hadi. Gli Ansarollah hanno ora sotto il loro controllo gran parte del paese, persino quello sull’importante porto di Aden. Nella capitale Sanaa sarebbero caduti nelle loro mani il palazzo presidenziale e numerosi centri militari.

Cenni storici
Gli interventi militari dell’Arabia Saudita nel vicino Jemen hanno una lunga storia.
Nel 1962 l’esercito del regno nord-jemenita – allora il sud del paese si trovava ancora sotto il dominio dell’Inghilterra – abbatte con un colpo di stato la monarchia per dar così vita alla repubblica.
L’Arabia Saudita con il sostegno velato dell’Inghilterra corse in aiuto dei regni traballanti in Giordania e Pakistan; pagò migliaia di mercenari per un intervento militare nello Jemen. L’Egitto, dove allora aveva vita uno stato socialista, inviò 70mila soldati nello Jemen in sostegno alla rivolta. Ciò impedì il crollo della repubblica.
Nel 1990 la repubblica popolare del sud si unisce allo Jemen del nord andando così a formare un unico stato. La repubblica popolare, che aveva in suo possesso materie prime e impianti industriali, fu esortata a compiere quel passo dalla scelta dell’Unione Sovietica, allora governata da Gorbaciov, di mettere fine al suo aiuto. Nel sud scoppiò immediatamente la rivolta per l’indipendenza dal nord. La guerra civile terminò soltanto nel 1994 con la sconfitta del sud repubblicano-socialista grazie all’aiuto fornito dall’Arabia Saudita alle forze monarchiche del nord.
Nel giugno 2004 scoppia una guerra mai interrotta fra il governo centrale jemenita e la minoranza sciita arroccata nella città di Saadah (nord del paese). Con il tempo il governo ha inviato oltre 30mila soldati in quella città; l’Arabia Saudita lo ha sostenuto con denaro, armi e attacchi aerei; finché, nel 2009, ha inviato migliaia di militari, fra i quali conta già oltre 100 morti.
Il 6 febbraio 2015 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione unanime che condanna la destituzione del governo e lo scioglimento del parlamento decisi dai ribelli sciiti, esortati a ritirarsi immediatamente e senza condizioni da tutti gli edifici del governo occupati e a normalizzare la situazione nella capitale Sanaa come nelle altre province.
La risposta degli Ansarollah è di aperto rifiuto del ricatto posto dall’ONU, mentre ribadiscono di mantenere le proprie posizioni militari.
Va tenuta qui presente la presa di posizione del Consiglio di Cooperazione degli stati del Golfo Arabico, comprendente l’Arabia Saudita ed altri 5 stati del Golfo, i quali avevano espressamente chiesto al Consiglio di Sicirezza dell’ONU di legittimare un attacco militare violento. Se questo non fosse avvenuto, minacciavano di intervenire direttamente – come sta accadendo e con il sostegno dell’Egitto pronto ad inviare truppe d’assalto.
Nei prossimi giorni al Cairo si terrà una seduta straordinaria della Lega Araba il cui tema è: “I recenti sviluppi pericolosi nello Jemen”. Arabia Saudita e Egitto cercano di ricevere l’aperto sostegno dei 22 stati aderenti alla Lega.

Doccia fredda
In questo modo l’Arabia Saudita ha trainato con sé almeno altri 8 stati musulmano-sunniti. E’ chiaramente una prova di forza diretta a tastare il polso a Teheran – che sostiene politicamente e probabilmente anche materialmente la minoranza sciita nello Jemen. I giornali israeliani festeggiano la guerra nello Jemen, mentre si augurano che “la guerra sunniti-sciiti diventi globale”. Un brutto segnale è l’aperto e immediato sostegno alla coalizione di guerra dichiarato dagli USA. Reazione inattesa poiché finora non sembrava che Washington fosse in discordia con le operazioni militari delle milizie sciite e con le loro forze armate regolari. Pur sempre, queste, negli ultimi mesi si muovevano contro Al-Qaida e chi sosteneva l’ISIS o ISIL in Siria e in Irak; fatto che destava interesse anche presso la Casa Bianca. Il governo iraniano sembrava addirittura abbandonarsi all’illusione che Washington sarebbe stata pronta o persino costretta a dare il proprio aiuto alla lotta contro l’ISIS in Irak e Siria, nel contendere all’Iran una posizione di supremazia nella regione.
Il sostegno USA alla coalizione militare sunnita è una doccia fredda per l’ “opportunismo” iraniano strapazzato da mesi. E’ arrivata esattamente nel momento decisivo dei negoziati sulla limitazione del piano atomico iraniano.

liberamente tratto da jungewelt.de, 28 e 31 marzo 2015


Baltimora esplode contro la polizia per la morte di Freddie Gray
Notte di riots quella appena trascorsa nella città di Baltimora (Maryland), dove oltre 1.500 persone sono scese in strada per il settimo giorno di fila chiedendo giustizia dopo la morte del 25enne afroamericano Freddie Gray, deceduto lo scorso 19 aprile in seguito alle lesioni riportate durante un fermo di polizia.
La manifestazione di ieri era nata come un presidio davanti al municipio cittadino, dopo che negli scorsi giorni centinaia di manifestanti si erano riuniti davanti alla stazione di polizia del distretto occidentale per protestare contro gli abusi degli agenti, che avevano più volte caricato i cortei portando all'arresto di diversi cittadini afroamericani. Durante il sit-in di ieri diversi interventi hanno esortato la folla a “bloccare la città” e a “non avere paura della polizia”, mentre la bandiera degli Stati Uniti d'America veniva sostituita con una versione in bianco e nero da alcuni attivisti.
La rabbia di fronte all'impunità degli agenti che hanno massacrato di botte Freddie Gray – spezzandogli la spina dorsale – e che ora si trovano in congedo pur rimanendo stipendiati e ufficialmente in servizio, ha fatto sì che le proteste di ieri trovassero il giusto sfogo per una rabbia covata troppo a lungo dalla comunità di West Baltimore, dove è avvenuto l'omicidio. Baltimora, infatti, oltre ad essere la città portuale più importante degli USA, ha un numero di omicidi sette volte maggiore della media nazionale (seconda solo a Detroit), e le condizioni di povertà cronica nelle aree del “west side” la rende una delle città con il più alto tasso di “incidenti” mortali dovuti agli abusi delle forze dell'ordine.
Diverse decine di manifestanti si sono quindi spostati in direzione dello stadio di baseball di Camden Yards, circa un'ora prima che iniziasse il match tra i Baltimora Orioles e i Boston Red Sox. La folla, composta per lo più da giovani e giovanissimi dei quartieri popolari, ha tentato di sfondare i cordoni di protezione della polizia antisommossa, lanciando bottiglie e bidoni verso gli agenti; diverse auto della polizia sono state distrutte, mentre i manifestanti – in fuga dalle violente cariche – bloccavano le strade limitrofe allo stadio e saccheggiavano diversi esercizi commerciali della zona.
Gli scontri sono proseguiti fino a tarda serata, in un clima surreale in cui la polizia ha obbligato gli spettatori della partita di baseball a rimanere dentro lo stadio fino a quando i manifestanti non si fossero allontanati; nel frattempo i reparti antisommossa (oltre 1.200 agenti schierati) esortavano la folla a “rimanere pacifica” mentre marciavano a passo di carica per le strade e arrestavano almeno 12 persone, tra le quali un giornalista.
"Tell the truth, stop the lies, Freddie Gray didn't have to die!" nel frattempo è diventato il motto con il quale la comunità afroamericana di Baltimora chiede che venga fatta chiarezza sulle dinamiche che hanno portato alla morte del giovane. Sono diversi, infatti, i punti interrogativi rispetto alla giornata in cui Gray venne arrestato: innanzitutto è stato ormai confermato dagli stessi agenti che non gli furono fornite le necessarie cure mediche immediatamente dopo il fermo; segue quindi il silenzio imbarazzante di polizia e istituzioni cittadine rispetto agli oltre 30 minuti in cui Gray è rimasto rinchiuso nel cellulare della polizia e che nel tragitto verso il commissariato avrebbe fatto almeno tre tappe durante le quali non è dato sapere cosa sia successo.
A questi fatti si legano i dubbi, più che legittimi, rispetto alla reale volontà di accusare gli agenti per l'omicidio. Il Dipartimento federale di giustizia – similmente a quanto fatto dopo la morte di Michael Brown a Ferguson – ha comunicato di avere aperto un'indagine per verificare eventuali violazioni dei diritti civili nell'episodio che ha portato alla morte di Gray, anche se una mossa di questo tipo è più funzionale alla Casa Bianca per tentare di placare gli animi che per provare effettivamente di fare chiarezza sul caso.
Il sindacato di polizia ha dichiarato di difendere gli agenti al 100% e ha definito le proteste di questi giorni un “linciaggio” nei confronti delle forze dell'ordine. Inutile provare, ancora una volta, a questionare sulla differenza che passa tra il massacrare di botte una persona e sfogare la propria rabbia sui responsabili di questi atteggiamenti, siano essi in divisa o in doppiopetto. Ad oggi ci basta sapere che per ogni abuso razzista della polizia ci saranno migliaia di persone pronte a ricordare che la vita di un afroamericano vale tutto l'amore e la rabbia che si prova nel resistere ai lacrimogeni a Ferguson così come nel distruggere le auto della polizia a Baltimora. La lotta non è finita.

26 aprile 2015, da infoaut.org

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USA: Mumia Abu-Jamal trasferito di nuovo in carcere nonostante le sue gravi condizioni di salute
Lunedì 30 marzo Mumia Abu Jamal era stato trasferito d’urgenza dal carcere SCI Mahanoy di Franckville (Pennsylvania del nord) nell’ospedale Schuylkill di Pottsville perché colto da gravi malori diabetici. L’infermeria del carcere ha sempre negato che Mumia soffrisse di diabete e necessitasse di cure particolari. Invece Johanna Fernandez, sua avvocatessa, in merito ha dichiarato: “Questa crisi chiarisce che Mumia è diabetico e da tempo. Se il suo malanno fosse stato curato per tempo, oggi la situazione non sarebbe così critica. Comunque non è solo. Negli USA è attiva la ‘Free Mumia Coalition’, mentre a Berlino giovedì 2 aprile, 80 persone hanno manifestato davanti all’ambasciata USA a sostegno della liberazione di Mumia Abu-Jamal”...
Mumia, giornalista nero molto impegnato nella controinformazione, venne arrestato nel 1981 perché accusato di aver ucciso il poliziotto Daniel Faulkner; in seguito ad un processo oscurato da grosse irregolarità venne poi condannato alla pena di morte, trasformata in ergastolo nel 2011, sotto la spinta di un movimento di solidarietà, anche mondiale, mai venuto meno.
3 aprile 2015, da jungewelt.de


Istanbul: un servo dei padroni preso da un nucleo del DHKP-C
Nel mattino di martedì 31 marzo due compagni del DHKP-C (Partito-Fronte di liberazione popolare rivoluzionario) armati di pistola entrano nel palazzo di giustizia “Caglayan” di Istanbul dove riescono per 6 ore a sequestrare nel suo ufficio al VI° piano il pubblico ministero (pm) Mehmet Selim Kiraz, al quale era affidata l’inchiesta sulla morte, dopo 10 giorni di coma, del 14enne Berkin Elvan, colpito alla testa da una granata sparata dalla polizia; il tutto accaduto nel giugno 2013 nel corso di una manifestazione di protesta nel Gezi Park di Istanbul, contro la sua devastazione.
Contrariamente alla dichiarazione di Recep Erdogan, allora primo ministro ed oggi presidente della repubblica, che definiva Berkin “terrorista”, la sua famiglia ha sempre sostenuto invece che il figlio era in strada per comprare il pane non per le proteste. La sua morte ha portato in strada migliaia di persone in tutto il paese contrarie alla violenza e alle falsità dello stato.
Nelle lunghe ore del sequestro del pm Kiraz i compagni hanno chiesto soprattutto: una pubblica confessione in televisione dei poliziotti responsabili della morte di Berkin, che doveva concludersi con la loro successiva condanna emessa da un “tribunale del popolo”. Inoltre, veniva chiesta la cancellazione dei procedimenti giudiziari avviati in seguito alle manifestazioni di protesta successive all’uccisione di Berkin.
Il padre del ragazzo ucciso ha esortato i compagni a rilasciare il pm, dicendo: “Tutto quello che chiedo è giustizia e un processo onesto”. La decisione di liberare con la forza il pm è stata realizzata dopo 6 ore di “trattative vane”, così definite dal capo della polizia Selami Altinok. Nell’assalto sono stati uccisi i due compagni e lo stesso pm. La sera stessa sono stati arrestati ad Antalaya 22 compagni considerati “membri del DHKP-C”, mentre il giorno dopo all’università di Istanbul nel corso di una manifestazione in memoria dei compagni uccisi nel palazzo di giustizia sono stati arrestati due manifestanti.

liberamente tratto da jungewelt.de, 2 aprile 2015

Collaborazione fra Germania e Kenya
La Somalia da sempre, per ogni imperialismo, è decisiva perché situata sulle coste degli oceani che collegano le vie del petrolio, e non solo, di Asia, Africa dell’est all’Europa e viceversa. Occorre aver presente che in Somalia ONU+NATO sono entrate pesantemente attraverso la “Missione Restore Hope” (Riportare la Speranza) a cominciare dal 1991, quando esplode l’ennesima guerra in quel paese estremamente complesso.
L’Italia si è come sempre accodata alla calata USA in Somalia avviata concretamente nel dicembre 1992 - allo scopo di mettere fine all’assenza dello stato, del controllo centralizzato finalizzato all’egemonia politico-militare, indispensabile alla realizzazione dei commerci. La Somalia in quel tempo era nei fatti percorsa da guerre connesse a questioni territoriali con Etiopia, Eritrea; ed assieme, fra regioni del sud e del nord, fra gruppi islamici e “stato”.
La “speranza” imperialista naufragherà nel marzo 1994 in seguito alla robusta, continua, determinata resistenza della gente di Mogadiscio che sconfigge le truppe occupanti con una guerriglia urbana richiamante la vittoria della popolazione di Stalingrado contro l’assedio nazista nel 1944. Saranno infatti costrette ad abbandonare il territorio, ad ammainare le loro bandiere in fretta e furia.
Nel 2007 gli USA tentarono di rientrare in ballo mettendosi apertamente dalla parte dell’Etiopia. Il risultato fu un approfondimento della guerra causa, un’altra volta, di migliaia di morti fra la popolazione somala. Sotto la critica dell’ONU, ma soprattutto dell’Unione Europea, gli USA si ritirarono per lasciare posto alla soluzione: far agire per gli interessi imperialisti direttamente stati africani. Nasce così “Amisom: African Mission to Somalia” incaricata dall’Unione Africana di controllare la capitale, le principali città, i porti, inoltre di contrastare il ritorno delle “milizie islamiche”… con truppe, chiamate “caschi verdi”, provenienti da Nigeria, Ghana, Malawi, Burundi, Uganda e infine Kenya. La collaborazione militare fra Kenya e Somalia si sviluppa a partire dall’ottobre 2010, con l’appoggio diretto di USA e Francia. Un disegno che trova forma pratica nell’ottobre dell’anno successivo, prendendo a pretesto il rapimento di due donne spagnole attive in “Medici Senza Frontiere”, di cui è accusata l’organizzazione islamica Al-Schabaab.
Con il tempo questa collaborazione si affina al punto che nel 2014 la Germania sostiene il Kenya nella formazione di soldati “ascari”, cioè servili, mercenari con addestratori e armi le più diverse, in nome degli interessi NATO, ma anche dell’Unione Europea.
Gli USA sul territorio keniano dispongono da tempo di basi militari per unità speciali che muovono anche droni. Quelle basi sono coordinate con altre, in questo caso con la base USA Kelley ricavata a Stoccarda-Moehringen – sede dell’alto comando USA per l’Africa (Africom); i droni, in particolare, vengono invece pilotati dalla storica base yankee di Ramstein dislocata proprio nel Palatinato Renano. Nel lancio di droni effettuato il 16 febbraio a Marka, circa 100 km da Mogadiscio sono state uccise almeno 20 persone.
Le unità di polizia del Kenya oggi continuano ad uccidere, arrestare e deportare in Somalia, senza alcun riguardo che per gli ordini della NATO, cittadini somali, da dove invece fuggono per la fame, per tutte le conseguenze della guerra pilotata da ONU e NATO. In queste condizioni ha origine anche l’emigrazione di gente somala verso l’Europa, Italia per prima, sfruttata fino alla schiavitù nel movimento delle merci, nell’edilizia…
Il governo di Berlino sottopone al parlamento federale la proposta di prolungare ancora di un anno la presenza di militari tedeschi in Somalia, inseriti nella “missione” dell’UE, diretta dall’Italia, composta in totale da 146 soldati. Agli 8 militari inviati, tutti addestratori, se ne aggiungeranno un’altra ventina.

***
“In ogni attacco i droni uccidono mediamente 28 persone”
Segue un’intervista a Elsa Rassbach giornalista e cineasta, da 50 anni attivista nei movimenti pacifisti in Gemania e negli USA.

Una settimana fa c’è stata una manifestazione davanti alla base militare di Chreech (Nevada) contro l’impiego dei droni. Che cosa è accaduto?
Nell’iniziativa “Shut Down Chreech” oltre 100 attivist* hanno chiesto la chiusura della base. Le persone manifestanti hanno occupato i due ingressi alla base per impedire ai piloti dei droni di compiere quel giorno il loro lavoro. Il traffico stradale si è bloccato e si è formata una coda di due km. La polizia ha premuto sui manifestanti affinché lasciassero la strada, questo non è accaduto, da qui gli arresti (34) di chi era in strada. Fra le persone arrestate c’è Brian Terrell, arrestato già nel 2009 in occasione della prima protesta davanti alla base di Chreech. Allora furono eseguiti 14 arresti: quella manifestazione e il processo che ne seguì resero per la prima volta pubblico il tema della guerra con i droni; rappresentano l’inizio delle campagne anti-droni.

Sebbene l’uccisione mirata di persone per mezzo dei droni nella Repubblica Federale (RFT, Germania) sia considerata un effettivo assassinio, la base di Ramstein coopera con quella di Creech. Di che cosa lei è a conoscenza?
I piloti di droni di Creech e di altre basi militari negli USA quasi ogni giorno uccidono persone con joystick (le leve di comando). In ognuno di questi attacchi vengono uccise mediamente 28 persone estranee, fra le quali bambini. I droni sono stazionati nelle vicinanze degli obiettivi, per es., lungo le coste dell’Africa e dell’Afghanistan. Da qui viene inviato via satellite un segnale a Ramstein e poi, via cavo di vetroresina, negli USA dove si trovano i piloti che manovrano i “joystick”
Perché il governo federale tollera tutto questo?
Solo poche settimane fa l’RFT ha concluso con gli USA nuovi accordi per lo stazionamento delle basi. Il governo federale in ogni caso non vuole ammettere che l’agire illegale degli USA sul territorio tedesco implichi un pericolo anche per la sicurezza della Germania e dei suoi cittadini.
Gli USA perseguono dal tempo degli attacchi a New York (alle Torri Gemelle, 2001) una politica che contraddice la concezione europea dei diritti dei popoli e delle persone.
Da allora il presidente degli USA può permettere che ogni persona finita nella lista della CIA come terrorista, possa essere arrestata o uccisa. Questo può avvenire non soltanto in Afghanistan o Pakistan, ma bensì anche a Boston o teoricamente anche in Russia. Il parlamento europeo nel febbraio 2014 ha respinto con decisione questo modo di procedere degli USA con una risoluzione comune: 534 voti favorevoli 49 contrari! – la risoluzione approvata esorta gli stati membri a prendere provvedimenti affinché “essi, in armonia con i loro dettati giuridici non compiano nessuna esecuzione mirata contraria alla legge o la favoriscano attraverso altri stati”.

Lei da anni è impegnata contro l’impiego dei droni. C’è ancora speranza, prima o poi, di riuscire a fermare questo procedere assassino?
Io non sono contro la tecnologia riguardante i droni, ma senz’altro sono avversaria di una politica che li impiega nell’uccisione di esseri umani. Dopo la risoluzione del parlamento europeo sono fiduciosa che noi in Europa possiamo mettere fine alle esecuzioni per mezzo dei droni e che questo certamente avverrà con la chiusura della stazione dei relé satellitari oggi attiva a Ramstein. I circa 650 tecnici che oggi vi lavorano, dovranno dedicarsi a un altro lavoro. L’acquisto di droni armati attraverso le forze armate della RFT già da adesso è stato vietato; la discussione su questo tema nella RFT è un’indicazione per l’intera Europa.

da jungewelt.de, 13 febbraio e 5 marzo 2015


La politica degli stati europei rispetto alle persone “in fuga”
Secondo l’UNHCR (*) l’anno scorso oltre 50 milioni di persone sono fuggite, emigrate dal proprio paese; un numero mai toccato dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, 6 milioni in più del 2013. Una piccola parte di queste persone ha raggiunto i confini dell’Europa, ha cercato di superare muri, fili spinati, spiagge senza il permesso degli stati europei alleati (Unione Europea, UE).
Tutto ciò, un anno dopo la catastrofe di persone immigrate avvenuta a Lampedusa il 3 ottobre 2013, in cui rimasero uccise 3mila persone senza “visto di entrata” che tentavano di forzare i confini. Anche questo è un numero mai toccato prima, la cui gran parte è morta annegata nel mar Mediterraneo. Secondo dati forniti dal governo italiano, nel 2014 ogni mese, nel piano di salvataggio chiamato “Mare Nostrum” (la Germania si è tenuta fuori), sono stati spesi circa 9 milioni di euro - per salvare 120mila persone.
La Germania ha invece preso parte al piano successivo chiamato “Triton”, organizzato unicamente per fermare, dissuadere ed espellere le persone in fuga. L’UE nei fatti non rappresenta nessuna sicurezza per le persone in fuga, immigrate, anzi, innalza barriere di sicurezza di fronte all’immigrazione.
Su questo punto va chiarito che le cause della miseria, delle condizioni che spingono le persone a fuggire dal proprio paese sono conseguenza degli interessi economici, politici e militari dei paesi occidentali. L’UE, la Germania per prima, con imprese superiori e merci sovvenzionate uccide le economie africane e arabe, colpendo così le condizioni di vita delle persone. Questo viene provocato infatti nel Terzo Mondo dalla distruzione delle imprese locali, delle economie, dei mercati tradizionali. Ne sono esempio l’esportazione di polli e altre macellazioni dalla Bassa Sassonia nei mercati dell’Africa centrale o dell’industria manifatturiera, per esempio quella del pesce nel Maghreb, che lascia dietro di sé miglia di persone disoccupate. Oppure la sottrazione di terreni fecondi, produttivi, quali le piantagioni di palme in Costa d’Avorio, di rose in Kenia, di arachidi in Senegal... di territori (laghi, fiumi) da pesca per es. in Mauritania… l’esistenza di materie prime, per esempio l’uranio in Niger, Ciad e Mali accaparrati esclusivamente per la valorizzazione del capitale occidentale.
Le persone che hanno perso, che perdono le basi d’esistenza, diventano disoccupate, devono cercare chi dia loro lavoro, ma in generale, diversamente che nell’UE, nei paesi africani il mercato del lavoro è molto ristretto rispetto al bisogno reale. Un fenomeno che dà grande rilievo alla “sovrappopolazione”, cioè, a povertà, criminalità, ribellione aggredita da polizie, eserciti, dalla politica dell’ordine.
L’emigrazione forzata è dunque tanto la conseguenza indesiderata e inevitabile della concorrenza economica, politica e militare degli stati dell’UE, dei loro alleati e delle loro imprese. Le emigrazioni forzate sono percepibile espressione della rovina dell’altra parte del mondo causata dall’ordine mondiale dominante.
In altre parole: la libertà delle popolazioni ex-colonizzate, le condizioni per guadagnare denaro, non comprendono l’effettiva possibilità di poter rimanere nel proprio paese, anche a causa della crisi che nell’UE crea una sovrabbondanza di forza-lavoro immigrata, di raccoglitori di prodotti agricoli...
Dove, in UE, la forza-lavoro immigrata trova posto sorge l’amara ironia che i salari ad essa pagati, salari del Terzo Mondo, contribuiscono, assieme alla produttività, al successo delle imprese europee, cioè, alla rovina delle economie africane, all’indebitamento dei paesi africani e arabi contratto con la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionzale ecc…
Le persone in fuga dai propri paesi sono conseguenza dell’ordine mondiale occidentale perché:
1. non viene tollerato che questa sovrappopolazione, per i suoi bisogni si rivolti contro il dominio o cerchi aiuto presso altre potenze politiche, in quanto la rappresentazione dell’ordine, in questo caso, deve corrispondere agli USA e all’UE.
2. USA e UE cercano di strumentalizzare le disperazioni in Africa, nel Vicino e Medio oriente, nell’Asia centrale, per far crescere la loro influenza in quelle regioni; per sostenere o reprimere – secondo il bisogno – le rivolte della sovrappopolazione (come è accaduto in Siria, Libia, Libano, Iran, Egitto…).
3. Dove l’imposizione degli interessi di USA e UE trova ostacoli, agiscono in favore della divisione etnica e religiosa, finanziano guerre che scatenano pulizie etniche, deportazioni…
4. Gli stati dell’occidente stanno sulle calcagna, perseguitano i movimenti e le organizzazioni che li disturbano, torturano i loro membri, li mitragliano con i droni, li lasciano uccidere dalle milizie.
5. Sostengono nelle loro guerre regimi loro amici e alleati (Aarabia Saudita, Qatar, Turchia…), li armano in funzione dell’ordine mondiale occidentale e per renderli dipendenti da sé.
6. Con l’embargo economico cercano di peggiorare le condizioni di vita dei popoli degli stati loro ostili (l’embargo di medicinali egli USA contro l’Irak ha causato la morte di 500mila bambini iracheni), per scatenare rivolte all’interno di quei territori.
Così, quando l’emigrazione forzata preme ai confini dell’UE non riesce, non può entrare. L’ingresso sicuro, senza complicazioni organizzato da agenzie di viaggio è loro impedito. Ogni speranza della “popolazione civile innocente” di fuggire in modo sicuro e legale dall’orrore viene frustrato con i confini ermeticamente chiusi.
Le morti ai confini dell’UE sono le vittimi civili del successo economico dell’UE.

(*) UNHCR, (United Nations High Commissioner for Refugees): Alto Commissariato delle Nazioni unite per I Rifugiati, fondato nel 1951.

marzo 2015, liberamente tratto da “Sozialistische Positionen”

***
mediterraneo, un mare di morti
[...] La prima domanda, di fronte al susseguirsi di naufragi inaccettabili, nel tratto di mare più battuto da qualsiasi strumento di vigilanza e controllo, è: cosa sta succedendo? Perché ci si accalca in percorsi condannati? Si parte ancora – soprattutto dalla Libia ma anche dall’Egitto e dalla Turchia – ci si imbarca senza sosta nel mare che sembra più clemente, ma solo perché le guerre avanzano. «Sono loro che vogliono salire a qualsiasi costo!» dice un trafficante intercettato dalla polizia; «Preferiamo morire in mare piuttosto che tornare da dove fuggiamo, o restare in Libia» confermano molte voci dei sopravvissuti. Al di là dei blandi tentativi di “pacificare” la Libia, tentando di imporre un governo di unità nazionale (improbabile, in un paese oggi frantumato) e delle minacce di affondare preventivamente i barconi, questo Paese, da cui fugge la percentuale più alta di profughi, sta per esplodere. Si scappa perché la “caccia al nero” diviene sempre più la normalità.
A fuggire non sono solo coloro che hanno affrontato il viaggio dai paesi dell’Africa Sub-sahariana e del Corno D’Africa, ma anche cittadini del Bangladesh, persino del Suriname, che in Libia lavoravano prima che il caos divenisse totale. Si deve andare via, insomma, ora e subito. In questo quadro è sciocco e ipocrita individuare nei trafficanti la causa principale dei disastri annunciati. I trafficanti sono una “causa occasionale”, determinante è quella dei conflitti ormai diffusi e incontrollati, per cui non si cercano reali soluzioni. Ma se quanto detto è vero salta anche – non è la prima volta che lo scriviamo – il discrimine fra profugo e migrante economico. Come incasellare, altrimenti, una persona che per anni ha lavorato a Tripoli e ora è costretta a cercare scampo in Europa?
A seguire un altro quesito: i problemi riguardano solo le coste libiche, tanto da pensare di poterle blindare? Anche qui, invece di invischiarsi in polemiche vuote, è sufficiente seguire quanto sta avvenendo nel resto del Mediterraneo. Bulgaria e Grecia hanno ampliato un muro per chiudere il confine con la Turchia. Quindi riprendono le fughe anche via mare: un’imbarcazione con circa 200 persone è affondata al largo dell’Isola di Rodi; un’altra, di cui le notizie arrivano confuse, sembra essere naufragata davanti alle coste turche nei pressi di Bodrum e non è ancora chiaro quante persone si siano salvate. Erigere muri, inventare misure di contenimento, porta a cercare strade più impervie e rischiose per salvarsi la sola cosa che è in ballo, la vita.
Si riparte, in silenzio, anche dalle coste egiziane. E pensare che Egitto e Tunisia erano stati pensati come i Paesi in cui poter “esternalizzare” le frontiere, dove fare scremature fra aventi diritto all’asilo e non, e gestire da fuori l’emergenza. Ora si cercano soluzioni simili in Paesi ancora più lontani, come Niger e Sudan. Un tentativo di attuare gli elementi peggiori del Processo di Karthoum, in cui non si tiene minimamente conto del fatto che in questi Paesi ci sono forti tensioni interne, che le condizioni minime di trattamento non potranno essere garantite e che, già ora, le condizioni climatiche riprodurranno in maniera amplificata quelle dei peggiori campi profughi mediorientali. [...]

24 aprile 2015, estratti da corrieredellemigrazioni.it


ancona: SALVINI cacciato
Una giornata che si ricorderanno Salvini e i suoi scagnozzi della Lega Nord e dei Fratelli d'Italia. Il tour organizzato nelle Marche il 27 aprile doveva essere un susseguirsi di provocazioni in varie località della regione e avere come epicentro mediatico l'entrata all'Hotel House di Porto Recanati, grattacielo dove convivono moltissimi immigrati e alcune famiglie italiane. Spazio abitatiivo che per Salvini andrebbe "raso al suolo".
In mattinata ad Ancona, nella centrale Piazza Roma, dove doveva arrivare Salvini si sono radunati compagni e antirazzisti, fronteggiati dalla celere in antisommossa, che hanno fortemente contestato il gazebo leghista che veniva montato. Poco prima dell'arrivo di Salvini la celere ha effettuato una pesante carica a freddo contro i compagni per tentare di disperderli e farli uscire dalla piazza. I compagni si sono difesi e hanno tenuto. Un fitto lancio di uova, bottiglie ed altri oggetti ha impedito a Salvini di avvicinarsi al gazebo e la celere ha effettuato altre dure cariche a cui si è risposto adeguatamente.
Gli scontri sono durati una buona ventina di minuti e Salvini è stato costretto a rimanere, e a parlare ai suoi fedelissimi, in un lato estremo della piazza, protetto da un muro di celerini e carabinieri. Vista l'accoglienza il ras padano ha preferito rinunciare a "visitare" (come da programma) il popoloso quartiere del Piano di Ancona, dove forte è la presenza degli immigrati, e si è diretto all'Hotel House di PortoRecanati dove ad aspettarlo ha trovato una bella sorpresa. Tre-quattrocento immigrati e compagni hanno formato un grande cordone davanti all'entrata del grattacielo decisi ad impedire ad ogni costo l'ingresso di Salvini. Gli abitanti, determinati e compatti insieme agli antirazzisti, hanno difeso il posto. Dopo un primo tentativo fallito di aprirsi un varco la celere, vista la compatezza dei cordoni, ha deciso di rinunciare a tentare di sfondarli e Salvini ha girato i tacchi ed è tornato indietro. Ad Ancona come all'hotel House per i fascio-razzisti non c'è spazio. Qui non si passa.
aprile 2015
Gruppo "Malatesta" FAI Ancona e USI-AIT Marche

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Torino, 28 marzo: in migliaia odiano la Lega
Migliaia di persone hanno partecipato oggi alla manifestazione contro Salvini e i suoi seguaci che si radunavano in piazza Solferino, con la partecipazione, annunciata all'ultimo, di Casapound. Se Salvini negli ultimi mesi sta ricevendo in ogni dove dure contestazioni, lasciando intravedere un nervosismo malcelato per l'ostilità che incontra in ogni città, oggi Torino non poteva essere da meno. Così all'appuntamento indetto in piazza Castello, grande è stata la partecipazione da parte degli antirazzisti torinesi, pronti a dimostrare a Salvini che neanche a Torino è gradito. Così è andata, nonostante ingenti forze di polizia disposte a grande quantità nelle vie del centro, a chiudere tutte le vie che avrebbero portato alla piazza dove i leghisti si erano dati appuntamento.
Il corteo, composto da studenti, precari, ANPI di Torino, sindacati di base, Notav e migranti, è partito da piazza Castello in direzione piazza Solferino, qui si scontra con lo sbarramento di polizia – pronto a caricare i manifestanti decisi a proseguire. Le cariche hanno portato a diversi feriti e al fermo di almeno 8 manifestanti. Per un ragazzo colpito alla testa con i manganelli è risultato necessario il soccorso di un'ambulanza, trattenuta in piazza Castello per circa un'ora prima che la polizia la autorizzasse a partire. Dopo la prima carica, il corteo ha proseguito determinato per le vie del centro, reclamando inoltre con forza la liberazione dei manifestanti fermati.
Un secondo attacco della polizia è iniziato con il lancio di lacrimogeni nel tentativo di disperdere ulteriormente i manifestanti che, invece, hanno proseguito ricompattandosi poco dopo. Il corteo è ripreso percorrendo le vie del centro completamente militarizzate, passando anche dal mercato all’aperto di Porta Palazzo, dove ha incontrato la solidarietà della gente, immigrata in particolare.
Molto sentite, sul finire della manifestazione erano anche le urla “Daniele libero!”, il compagno arrestato. Lui la sera stessa lo hanno portato in carcere a Le Vallette, dopo tre giorni lo hanno mandato ai domiciliari, dove si trova tuttora.

aprile 2015, liberamente tratto da infoaut.org


i cocci dei CIE
Nell’ultimo anno è apparso chiaro quanto la macchina delle espulsioni sia in forte difficoltà, se non persino vicina al collasso. Il motivo principale - come detto più volte - è che le strutture che tengono ingabbiati i senza-documenti sono state fortemente danneggiate dal fuoco delle rivolte. La rabbia dei reclusi ha imposto, nei fatti, un forte ridimensionamento dei posti a disposizione fino a far chiudere sette Centri, dichiarati totalmente inagibili; per mesi diverse gare d’appalto per la gestione di alcuni Cie sono andate deserte e da più parti si sono alzate voci per chiedere la riduzione dei tempi di permanenza, anche nel tentativo di raffreddare gli animi all’interno dei Centri.
Tuttavia il problema non è solo quello delle strutture fisiche, ma anche quello del funzionamento generale del meccanismo delle espulsioni. Non a caso nel recente “Rapporto sui Centri d’identificazione ed espulsione”, redatto da un’apposita commissione parlamentare, emergono altre criticità come l’identificazione lenta e sommaria da parte delle autorità consolari, la disomogeneità degli accordi sui rimpatri tra i vari Stati, la vicinanza o meno di aeroporti o di collegamenti con i paesi di rimpatrio. Certo, questi problemi ci sono sempre stati dacché esistono i Centri e la macchina delle espulsioni è sempre stata un po’ farraginosa fin dai tempi della Turco-Napolitano. Ma può dare da pensare che proprio adesso, dopo anni di rivolte e danneggiamenti, addirittura al Viminale comincino a parlare di superamento dei Centri. O che lo lascino per lo meno intendere, perché in realtà di soluzioni alternative non ne hanno e questo comporta un accanimento terapeutico sulle poche strutture ancora in funzione. I corpi moribondi di alcuni Centri stanno subendo, con tempi e modi diversi, una ristrutturazione che non solo li renderà di nuovo agibili, ma che potrebbe aprire la porta ad altre possibili destinazioni d’uso.
Il primo esempio è quello di Gradisca d’Isonzo dove la recente rimessa a nuovo ha aperto un dibattito su quale potrebbe essere la destinazione di questa struttura, in tempi in cui “il problema” di come gestire chi scappa, in massa, dai conflitti che scuotono l’Africa e il Vicino oriente ha quasi del tutto oscurato il “problema” di come gestire chi, semplicemente, non è in regola con i documenti. Le strutture d’accoglienza esistenti sono numericamente insufficienti rispetto al numero in continuo aumento degli aspiranti profughi. Già da qualche mese il centro di Gradisca offre una soluzione temporanea ai richiedenti asilo quando non riescono a essere ospitati altrove, ma la discussione su quale sarà la destinazione d’uso ufficiale del Centro è ancora aperta.
Discorso simile per quanto riguarda la ristrutturazione del Cie di Palazzo San Gervasio, che va avanti in sordina da ormai un anno senza che si sappia con chiarezza quale sarà il suo futuro utilizzo. Infine l’ex Cie di via Mattei a Bologna sembra ormai del tutto destinato al suo ruolo di “Hub regionale”, una sorta di centro smistamento profughi da destinare poi a varie altre strutture d’accoglienza.
Questione diversa quella di Caltanissetta dove la polifunzionalità della struttura che ospita Cda, Cara e Cie non è mai stata messa in discussione ed ha colpito persino la Commissione europea per i diritti umani che l’ha definita l’unico modello d’eccellenza in Italia per gli standard dell’accoglienza. Anche i reclusi hanno però una loro opinione sull’eccellenza del Centro, tanto che questo autunno sono continuati i tentativi di fuga e le rivolte.
A Bari il Centro è stato ristrutturato da poco e poche settimane fa si è svolta una gara d’appalto per ulteriori non specificati “lavori di completamento”, che saranno realizzati dall’azienda pugliese Ieva Michele SNC.
I Cie di Roma e Trapani Milo, al pieno delle loro possibilità detentive, risultano avere un numero esiguo di presenze, senza che se ne capisca bene il motivo. Tra le possibilità che saltano alla mente c’è sicuramente la volontà di non creare situazioni di tensione tra i reclusi, per migliorare la gestibilità interna e rendere un po’ meno frequenti danneggiamenti e rivolte. Ma questa è un’ipotesi e, anche se valida, non sarà di certo l’unica risposta che ci si può dare; in mancanza di altri elementi toccherà per il momento sospendere il giudizio.
A Torino - lo sappiamo già - i lavori procedono, seppur con qualche piccolo intoppo. L’obiettivo minimo è quello del raggiungimento di 90 posti effettivi, poco meno della metà della possibilità di capienza totale. Da pochi giorni ha aperto ufficialmente l’area bianca che rinchiude ora 16 persone divise in quattro camerate mentre l’area rossa sembra pronta per essere utilizzata ma risulta per il momento ancora chiusa. Sulla sua funzione non ci sono dubbi: Cie è e Cie rimarrà - peraltro l’unico del nord Italia dopo la trasformazione in Cara di quello milanese - e ce lo confermano gli ultimi arrivi provenienti da retate avvenute addirittura nei dintorni di Pescara.
Tuttavia, anche in quei Cie che rimangono tali, la funzione di identificazione ed espulsione dei senza-documenti potrebbe non essere oramai l’unica. In realtà era già previsto che nei Cie potessero essere rinchiusi dei cittadini comunitari in attesa di espulsione in quanto “socialmente pericolosi”, ma alcune dichiarazioni emerse in questi giorni potrebbero dare ad intendere una loro prossima evoluzione in direzione più strettamente repressiva. Alfano stesso ha recentemente ipotizzato che dentro ai Cie possano venire rinchiusi quei richiedenti asilo che presentano un profilo di pericolosità sociale tale da giustificare un trattamento più restrittivo rispetto a quello di un Cara. Ed è recentemente apparso sulla stampa il fatto che in Corso Brunelleschi siano transitati, seppur per pochi giorni, dei sospettati di jihadismo, stranieri ma con in tasca un regolare permesso di soggiorno. Insomma, pur non volendo per ora dare troppo peso alle dichiarazioni di politici e giornalisti, si potrebbe intravedere, per un prossimo futuro, una possibile apertura a situazioni che richiedono uno spazio detentivo diverso dal carcere ma con delle caratteristiche di controllo affini. Del resto già nel documento programmatico che nel 2013 fu redatto dall’allora ministro dell’Interno Cancellieri si alludeva a una differenziazione nell’utilizzo degli spazi delle strutture, con l’auspicio di creare «moduli idonei a ospitare persone dall’indole non pacifica». In quel caso si alludeva a reparti destinati a chi nel Cie fa troppo casino, ma si può ipotizzare come, anno dopo anno, proposta dopo proposta, qualcosa cambi sul serio in direzioni non del tutto inaspettate.
Insomma, è molto difficile ipotizzare nel dettaglio quale sia il futuro dei Centri italiani per senza-documenti. L’impressione che abbiamo è che la partita sia ancora aperta; e sappiamo pure che, per quanto ridimensionati, continuano a ricoprire la loro solita funzione intimidatoria e di ricatto per tutti coloro che non hanno i documenti in regola e per chi, avendoli, vive nella costante minaccia di vederseli togliere. Ma non solo, le vicende bresciane degli scorsi giorni ci dicono che i Cie sono e rimangono posti utili per rinchiudere tutti coloro che rompono le scatole, protestano e osano alzare la voce.
A fronte di queste considerazioni dove allora dirigere lo sguardo per capire come portare avanti la lotta contro i Cie e la macchina delle espulsioni?
Quello che emerge senz’altro è un paradosso evidente. La forza materiale che ha distrutto quasi completamente i Centri - costringendo quindi giornalisti fino al giorno prima ciechi e muti a denunciare la disumanità di queste strutture, politici fino ad allora complici a chiederne la chiusura e mettendo addirittura il Governo nella situazione di chi non sa evidentemente che pesci pigliare - è di fatto al lumicino proprio ora che potrebbe dar l’ultima spallata: quel che è demolito dei Cie è stato demolito da chi vi era rinchiuso, ma i reclusi di conseguenza son diminuiti tanto da esser troppo pochi e dispersi per finire il lavoro.
Certo, non si può aspettare che la macchina torni a funzionare a pieno regime, che quindi dentro ai Centri il clima si scaldi nuovamente e che… si debba ricominciar tutto daccapo. Ora, evidentemente, tocca a chi sta fuori, all’iniziativa autonoma di chi nei Cie non ci è mai stato e forse non ci entrerà mai. Non è certo una proposta nuova, questa, ma se prima era solo un pezzo della lotta, in questo momento è centrale. Una buona indicazione, dunque, ce la forniscono proprio quei lavori di ristrutturazione che stanno rimettendo in piedi alcune delle strutture danneggiate. A dirlo, è semplicissimo: si debbono mettere i bastoni tra le ruote a queste ristrutturazioni, infastidire le ditte coinvolte e, quando possibile, impedirne lo svolgimento. Come avete visto in queste settimane qualcosa in questo senso si muove, per lo meno qui a Torino. Troppo poco senza dubbio, e forse troppo tardi; anche perché in troppo pochi si stanno facendo carico di una lotta che, almeno in teoria, dovrebbe interessare a molti e che, almeno in teoria, si potrebbe pure vincere.
Da parte nostra vi giriamo questa lista, sicuramente incompleta, preparata da chi in questo periodo si sta occupando di più dell’argomento. Far circolare le informazioni su chi lavora e guadagna sulla pelle dei reclusi, inchiodarli alle loro responsabilità, è sempre una buona cosa. Ma ora, che l’esistenza dei Centri è legata al filo dei lavori in corso e che questi lavori sono nelle nostre mani, è essenziale.

Ditte impegnate nella ristrutturazione del Cie di Torino:
COEMA Edilità SRL, Corso Unione Sovietica 560 - Torino, Via Donati 14 - Torino, Via Carpice 15/B - Moncalieri (TO) - www.coema.com - info@pec.coema.com - Telefoni 0113970222 - 0113473815 - Fax 0113283555
CAR.FER. SNC, Via Torino 80/b - Druento (TO) - www.carfer.it - car.fer@infinito.it - info@carfer.it - Telefono 0119945056
TERMOTECNICA FUTURA SNC, Via Martiri della Libertà 81 - Mathi (TO) - www.termotecnicafutura.it - Telefono 0119268604
GARIGLIO SPURGHI, Via San Benigno 124 - Volpiano (TO) - www.garigliocanaljet.it - info@garigliotorino.com, Telefono 0119882274 - Fax 0119885416
B&B Pavimenti SRL, Via Togliatti 50 - Savigliano (CN) - www.beb-online.com - info@beb-online.com, Telefono 017222388 - Fax 017271139
CERIT (c/o Studio Di Virgilio - SI SNC), Via Muriaglio 8/C - Torino - studiodivirgilio.geocow.it - www.sisnc.it - studio.immidivirgilio@tiscali.it - s.i.sncitalia@gmail.com - Telefono e Fax 0113853828
IL.MA SNC, Vicolo San Giacomo 9 - Carignano (TO) - Telefono 0119699728

Ditte impegnate nella ristrutturazione del Cie di Bari:
IEVA MICHELE SNC, Via Marco Aurelio Nemesiano 61 - Andria (BA), Via Manzoni 76 - Andria (BA) - www.ievamichelesnc.it - info@ievamichelesnc.it - Telefono e Fax 0883552501

Ditte impegnate nella ristrutturazione del Cie di Caltanissetta:
LA GARDENIA COSTRUZIONI SOC. COOP., Via Platone - Contrada Conti - Mussomeli (CL), Contrada Polizzello - Bivio Mappa (CL) - Telefono 0934991315

Ditte impegnate nella ristrutturazione del Cie di Palazzo San Gervasio:
IMPRESA EDILE RAGUSO ANTONIO, Via Nazionale 39 - 70020 Poggiorsini (BA), Via XX Settembre 37/A - 37/C - Poggiorsini (BA) - www.impresaraguso.it - impresaraguso@hotmail.it - impresaraguso@pec.it - Telefoni 0808979350 - 3333948968 - 3928085461 - 3928085433 - Fax 0803146001
28 marzo 2015, da autistici.org/macerie
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Roma: Sul presidio solidale al CIE di Ponte Galeria
Sabato 11 aprile, un gruppo di solidali si è riunito in presidio di fronte alle mura del CIE di Ponte Galeria per sostenere le persone recluse, dopo le notizie degli ultimi giorni che raccontano l’ennesimo episodio di resistenza e repressione nel centro: di fronte ad un tentativo di deportazione in Tunisia alle 4 del mattino, un prigioniero, Mohammed, ha tentato di opporre resistenza tagliandosi le vene e ingerendo una lametta. Un gesto estremo, che ha messo a rischio la sua vita, per evitare di essere riportato con la forza nel paese dove lo aspetta il carcere e per protestare contro la macchina delle espulsioni che schiaccia le volontà dei singoli con la connivenza delle autorità implicate, italiane e dei paesi di origine dei reclusi (basti pensare che in questo caso era stata avanzata una richiesta di protezione internazionale).
Dopo essere stato lasciato per alcune ore senza alcuna forma di assistenza, disteso nel suo stesso sangue, finalmente qualcuno si è degnato di trasportarlo al pronto soccorso dell’ospedale San Camillo. Non per un atto di umanità ovviamente, ma solo grazie alla solidarietà degli altri reclusi che hanno spinto il personale del CIE ad intervenire e che, a seguito dell’episodio, hanno iniziato uno sciopero della fame.
Mohammed è stato riportato dall’ospedale di nuovo al CIE ancora con la lametta nello stomaco e poi nuovamente al pronto soccorso dove ha subito un’operazione, mentre un piantone delle guardie non gli permetteva alcuna forma di comunicazione. Dubitiamo, ovviamente, della qualità dell’assistenza che ha ricevuto in un ospedale i cui medici non si sono fatti scrupoli a riconsegnarlo velocemente nelle gabbie del CIE senza preoccuparsi della sua salute. Ospedale, il San Camillo, tristemente noto per la sua collaborazione con la direzione del CIE con cui, evidentemente, collabora sulla pelle dei reclusi che vengono rimandati in fretta e furia al CIE senza le cure necessarie.
Proprio in queste ore Mohammed è stato riportato al CIE di Ponte Galeria e lo sciopero della fame dei reclusi sembra essere concluso.
La rabbia dei compagni di Mohammed è forte e ce l’hanno dimostrata durante il presidio, facendoci sentire urla e battiture, dando senso e forza alla nostra presenza lì, in un posto generalmente isolato dalla città ma, in occasione di una fiera commerciale, pieno di persone completamente indifferenti a quanto stava succedendo. Rabbia, la loro e la nostra, diventata ancor più forte dopo la notizia, arrivata dai reclusi, che due deportazioni verso la Tunisia erano effettivamente avvenute, con lo stesso volo su cui sarebbe dovuto salire Mohammed e che uno dei ragazzi deportati, una volta arrivato in Tunisia, è finito in ospedale dopo essere stato ferocemente picchiato dalla polizia italiana e tunisina. Rabbia, la loro, che ha anche spinto uno dei reclusi a cucirsi le labbra con il fil di ferro, come già accaduto in passato ad altri reclusi.
Solidarietà con i prigionieri e le prigioniere di Ponte Galeria. Contro tutti i CIE e contro tutte le frontiere.
12 aprile 2015, da hurriya.noblogs.org


Grecia: lo sciopero della fame ha ottenuto una vittoria
Oggi è il giorno in cui si è aperta una breccia nelle mura che ci imprigionano. Dopo 32 giorni di sciopero della fame, la madre di Christos e Geronimos Tsakalos e la ragazza di quest’ultimo presto usciranno dal carcere, di nuovo libere…
32 giorni di sciopero della fame, con 8 compagni della Cospirazione delle cellule di fuoco ricoverati in ospedale, in equilibrio tra la vita e la morte. Mihalis si è ritrovato in ICU (ndt: unità intensiva) gli ultimi giorni, Olga è arrivata a pesare 40 chili, Panagiotis aveva già la salute compromessa da precedenti interventi chirurgici alla testa, Giorgos P. ha un problema cardiaco, con i battiti che hanno raggiunto i 30 e tutti loro dalle misurazioni mediche hanno perso circa il 15/20% del peso corporeo iniziale.
32 giorni, lo sciopero della fame è diventato un quotidiano, lento tormento mortale, per non farci giungere ad una tregua con la morte assoluta di un ricatto emotivo. Un insidioso ricatto che l’autorità voleva imporci sequestrando e tenendo i nostri familiari in ostaggio in carcere.
32 giorni di sciopero della fame, ogni battito del nostro cuore che si affievoliva, ci ricordava la promessa che ci eravamo fatti quando ci siamo incontrati l’ultima volta, ”andiamo avanti, fino alla libertà…”
Dopo 32 giorni di sciopero della fame, l’ombra della repressione si è affievolita, i muri della cattività si sono indeboliti e la prigione ha ammesso la sua sconfitta.
Questa vittoria non è solo il risultato dello sciopero della fame della Cospirazione delle cellule di fuoco. E’ una vittoria dell’ intero mondo solidale con attacchi incendiari, occupazioni, sabotaggi, cortei, presidi, interventi inaspettati, che hanno rotto la pace sociale, trasformatole città in campi di momenti insurrezionali ed edifici occupati in laboratori viventi di situazioni sovversive. Nella vita quotidiana in cui il desiderio di libertà è stato sospeso in maniera indefinita, la vita è fluita attraverso piccoli e grandi gesti di liberazione, con fuochi, slogans e gli occhi scintillanti degli incappucciati.
Siamo invasi da innumerevoli pensieri che vogliono essere colmati con parole adeguate. Ma ora, non è un giorno per fare celebrazioni, ne resoconti vittoriosi. Oggi sospendiamo uno sciopero della fame, avendo battuto gli spaventapasseri dell’autorità che volevano i nostri familiari in carcere, MA nello stesso tempo lo sciopero della fame dei restanti prigionieri politici, per tutte le richieste presentate, continua…
I giorni che seguono sono critici sia per la loro salute che per l’intera scommessa della lotta anarchica. Quindi, non c’è tempo di rilassarsi ne di celebrare la vittoria. Il dado è stato tratto molto tempo fa… Noi, come Cospirazione delle cellule di fuoco, rimaniamo sulle barricate e prepariamo il contrattacco, sostenendo la lotta condotta fuori e dentro le prigioni.
L’autorità ed i suoi spaventapasseri dovrebbero sapere che ogni colpo giudiziario, ogni incarcerazione, ogni momento di oppressione, ogni menzogna propagandistica, ogni ombra della moralità borghese, torneranno indietro ai loro artefici ed istigatori, con moltiplicate potenza e vemenza. Con il potere e la vemenza del sabotaggio del fuoco, dell’esplosione, dell’ esecuzione… Alla guerra, rispondiamo con la guerra. E’ tempo per noi di attaccare per primi…
FORZA E SOLIDARIETA’ al compagno anarchico Nikos Maziotis, membro di R.S., ed alla rete dei Prigionieri in lotta. VITTORIA ALLA LOTTA DELLO SCIOPERO DELLA FAME.
TUTTO CONTINUA…

Cospirazione delle Cellule di fuoco – FAI/IRF, Cellula dei prigionieri

4 aprile 2015, da autistici.org/cna


Prigionieri maoisti in sciopero della fame in Marocco
Comunicato rivolto all'opinione pubblica nazionale e internazionale
Mentre il regno del Marocco si rende partecipe della sanguinosa aggressione al popolo dello Yemen da parte delle classi dominanti arabe, con l'appoggio dell'imperialismo Usa, i prigionieri politici maoisti nella galere marocchine danno avvio ad un nuovo sciopero della fame. iffondiamo e solidarizziamo con questa lotta, facciamola conoscere fra gli studenti, nel movimento contro la guerra imperialista e contro la repressione.

È in corso uno sciopero della fame di durata indefinita da parte del gruppo di prigionieri politici Aziz Elkhalfawi e Aziz Elbour, nelle prigioni di Boulmharez and Oudaia Marrakech. Stiamo continuando la nostra lotta nelle prigioni di Boulmharez e Oudaia Marrakech contro la catastrofica realtà nella quale viviamo e contro il continuo rifiuto dell’amministrazione carceraria di accettare le nostre richieste, nonostante i numerosi scioperi della fame di cui siamo stati protagonisti. Denunciamo anche gli abusi e le minacce che quotidianamente riceviamo all’interno delle nostre prigioni sotto forma di insulti, prevaricazioni, e aggressioni fisiche condotte da guardie semplici, graduati, direttori e presidenti delle prigioni in cui siamo rinchiusi.
Noi, prigionieri maoisti, abbiamo deciso di intraprendere una nuova fase della nostra resistenza conducendo un nuovo sciopero della fame di durata indefinita per quanto riguarda il gruppo di Aziz Elkhalfawi e un altro sciopero della fame di tre giorni, e oltre se necessario, per quello di Aziz Elbour. Questi scioperi inizieranno lunedì 23 marzo 2015 in memoria della gloriosa rivolta del 23 marzo 1965. In questo modo cercheremo di imporre le nostre legittime richieste nelle carceri in cui siamo imprigionati.
Le nostre richieste sono:
- lo stralcio delle accuse e i procedimenti a nostro carico
- lo stralcio delle accuse contro i nostri compagni incondizionatamente
- la chiusura dell’università militare e l’abbandono della circolare tripartita
- l’autorizzazione alle visite ai nostri famigliari, agli studenti e a chiunque ci voglia visitare
- il miglioramento della nostra dieta giornaliera, la garanzia al diritto alla salute e all’igiene
- la garanzia del diritto allo studio
- la possibilità di poter avere uno spazio e un tempo per i passeggi adeguato
- la fine della dispersione dei prigionieri politici e il loro accentramento in una prigione e nelle stesse celle
- la fine di tutte le forme di abuso che ogni giorno siamo costretti a subire
Infine vogliamo comunicare all’opinione pubblica nazionale e internazionale la nostra piena solidarietà: con tutte le lotte del popolo marocchine in tutte le sue forme (dei lavoratori, dei contadini, degli studenti, dei giovani, e dei disoccupati…), con tutti i prigionieri politici all’interno del paese e all’estero.
Condanniamo con tutta la nostra forza: la repressione e l’isolamento a cui sono stati costretti i nostri familiari, l’unione nazionale degli studenti del Marocco, gli attivisti del movimento 20 febbraio e tutti gli attivisti democratici. Infine, ribadiamo la nostra determinazione a continuare la lotta all’interno delle prigioni con tutti i mezzi necessari a nostra disposizione per raggiungere pienamente le nostre richieste e riteniamo unici responsabili di quello che ci potrebbe accadere all’interno delle nostre prigioni l’amministrazione carceraria e il regime reazionario che governo il nostro paese.
“Potrai raccogliere tutti i fiori, ma non potrai mai fermare l'arrivo della primavera”
Lunga vita alla lotta del movimento studentesco
Lunga vita alla rivoluzione marocchina
Lunga vita alla rivoluzione proletaria mondiale
Lunga vita al marxismo-leninismo-maoismo

I firmatari:
Gruppo Aziz Elkhalfawi: Aziz Elkhalfawi – n° 2375 (Oudaia) Radwan
Aladimi – n° 2376 (Ouadhias)
Gruppo Aziz Elbour: Aziz Elbour – n°12679 (prison de Tiznit) Mohammed
Almouaddine – n° 21409 (Boulmharez) Hicham Almiskini – n°21 415
(Boulmharez) Abdelhak Atalhaoui – n° 21 853 (Boulmharez) Marrakech

21 marzo 2015
traduzione da signalfire.org a cura del Collettivo Tazebao


Lettera dal carcere di Piacenza
Con questa lettera voglio farvi presente la mia storia di detenuto attualmente recluso nella C.C. di Piacenza, trasferito e arrivato dal carcere di Ferrara il giorno 11-10-2014 dopo aver subito lesioni gravi e abuso di potere da parte delle guardie di sorveglianza con la complicità dell’ispettore e degli organi superiori tenuti a garantire la sicurezza nei limiti della legalità e di legge per i detenuti.
Premetto che sono di origine tunisina e che trovandomi in reclusione nel carcere di Ferrara dove quotidianamente succedono situazioni ambigue e coercitive, con veri e propri atteggiamenti di istigazione, con i soliti ricatti che la legge ha preposto, tipo “maturazione della libertà anticipata”.
Per cui voglio raccontarvi dell’episodio successo nel carcere di Ferrara il giorno giovedì 9 ottobre 2014 giorno dell’aria dedicato al campo sportivo. Nel campo vi era un numero indefinito e superiore a 22 persone impegnate a giocare una partita di calcio. A metà delle due ore di aria la palla va fuori dalla rete del campo, a quel punto viene segnalato il recupero del pallone all’assistente guardia di turno con la solita educazione che si prefigge nei confronti degli addetti ai lavori dello Stato. Costui in modo sdegnato e con toni di impazienza si rivolse a noi dicendoci che non si trovava lì per lavorare per noi…detenuti. Continuando con educazione, chiediamo che apra il cancello così uno di noi recupera la palla, lui ancora esagitato dice che dobbiamo giocare come i cristiani. A quel punto, parte dei ragazzi di origine araba, non capendo il significato e il senso della parola, non conoscendo la lingua italiana, hanno capito che fosse riferita in modo offensivo in quanto loro musulmani come me.
Nel frattempo io spiego ai miei compagni paesani tale significato, la guardia infieriva agitatamente contro la pacifica protesta di incomprensione al momento sedata; chiama i rinforzi della sorveglianza della direzione penitenziaria compreso il comandante e l’ispettore che dispongono l’interruzione dell’ora d’aria e veniamo mandati tutti in sezione e in cella; veniamo chiamati a conferire nell’ufficio sorveglianza con un interrogatorio che aveva gli aspetti aggressivi da parte loro nei nostri confronti, 5 persone, me compreso, di cui 3 tunisini e 2 algerini.
Nell’interrogatorio chiarisco la mia posizione dicendo che la vicenda poteva essere risolta e che non serviva che ci mandassero in sezione interrompendola nostra ora d’aria. A quel punto gli altri quattro vengono mandati in cella dopo un’attesa di due ore in camera di sicurezza di isolamento, tranne me, con la promessa che mi avrebbero fatto andare in sezione nel pomeriggio. A quel punto ne chiedo le spiegazioni, ma il loro atteggiamento e la loro decisione presa era che dovevo stare in camera di sicurezza fino all’indomani.
Alle 18,30 nella sezione inizia una protesta, battendo contro gli sportelli delle porte. A unto i 4 riportati in sezione rivengono di nuovo prelevati dalla sezione e riportati in isolamento separati come me. La protesta si accende con l’autolesionismo di 3 di noi con dei tagli sulle braccia di cui due in modo grave; arriva l’autoambulanza che porta due di noi all’ospedale. Io vengo medicato in infermeria e così passano due giorni, tempo che avviene un’altra autolesione di protesta in sezione da parte di un ragazzo tunisino che era stato riportato il giorno prima in sezione, anche lui medicato in ospedale.
Il giorno seguente, l’11-03-2015, siamo stati chiamati io sottoscritto Abdulllah Mohamed nato in Tunisia, con altri, poi trasferiti (io a Piacenza), Abdel Said anche lui tunisino (trasferito a Parma), Abdel Wahed Taher tunisino (trasferito a Modena), Bedisha Lotfi tunisino (trasferito a Reggio Emilia), infine Hlma Hemli Khalil tunisino (trasferito a Bologna).
Chiamati e portati all’infermeria per le medicazioni, al ritorno nell’isolamento ad un tratto privo di telecamere, veniamo bloccati e aggrediti con i polsi dietro la schiena e hanno cominciato a picchiarci un numero spropositato di agenti con i capi sorveglianti compresi, ispettore partecipe, lui mi scaraventa di persona per terra, aggredendomi con calci, pugni e manganellate in tutte le parti del corpo. Finito mi hanno caricato sul furgone blindo e trasferito direttamente a Piacenza senza alcuna cura medica che constatasse le mie condizioni dopo l’aggressione, senza aver potuto recuperare i miei effetti personali tra cui i vestiti, senza scarpe addirittura.
A Piacenza vengo accolto e visitato dal medico di turno che constata le lesioni inferte con una visita poi diventata specialistica dopo quasi 2 mesi dove refertano la lesione di una costola, la 10 dalla parte destra e fratture varie del costato. A oggi, all’incirca sono passati 4 mesi, ancora devono farmi una TAC per i colpi subiti in testa, tutt’ora riporto i sintomi e dolori emicranici e lo scompenso psicologico di quel giorno.
Dopo 3 giorni di permanenza a Piacenza mi viene comunicata da parte dell’Ufficio Sorveglianza che gli agenti di Ferrara mi denunciano per lesioni aggravate nei loro confronti. Per tale ragione mi sono avvalso la controdenuncia in quanto ciò riportato da loro è falso. Mi fa allibire il fatto che la lungaggine per formulare i miei referti tuttora mi è resa difficile e intralciata dalla commissione di sorveglianza di Piacenza.
In tal caso credo che i detenuti in genere non abbiano diritto di replica e gli viene difficile difendersi e avere giustizia dicendo la verità che, come già detto nel vostro giornale anch’essa deve rimanere prigioniera. Tutti i tentativi di far uscire questa storia mi vengono intralciati e depistati, in quanto non fanno uscire comunicazioni ad altri enti tipo il RIS di Parma e altri.
Vorrei che il caso venisse visionato non dal tribunale di Ferrara, ma da un altro esterno e lontano dall’accaduto, ma ciò mi viene intralciato in tutti i modi coercitivi e psicologici possibili. Con tale storia voglio puntualizzare che la situazione carceraria anche qui a Piacenza non è delle migliori. Vi sono più o meno le stesse metodologie e situazioni pur con diversi esiti e combinazioni, di cui vi informerò. Spero in un futuro di legalità e soprattutto di sicurezza per l’individuo in qualsiasi condizione sociale ed economica.
Più diritti sia agli italiani che sono in sofferenza politica e per gli stranieri che in altre situazioni vengono emarginati.
Vi saluto e saluto tutti quelli che come si trovano in questa situazione.
Distinti saluti Abdullah Mohamed

14 marzo 2015
Abdullah Mohamed, Strada delle Novate, 65/B - 29100 Piacenza



LO STATO ITALIANO E' UN TORTURATORE?!
Volantino distribuito fuori dal carcere di San Vittore
Il 7 aprile la corte europea dei diritti dell'uomo ha riconosciuto colpevole l'Italia del reato di tortura per i pestaggi accaduti alla scuola Diaz il 21 luglio del 2001. “Questo risultato – scrivono i giudici – non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri”. A ogni detenuto italiano verranno alla mente episodi di cui è stato testimone diretto o indiretto o in cui egli stesso è stato vittima di vessazioni, intimidazioni o pestaggi (meglio di torturato). La stessa condizione detentiva italiana è da considerare tortura. Per questo i giudici europei hanno multato l'Italia perchè non rispetta i limiti minimi di spazio per detenuto all'interno delle celle (almeno 3 metri quadri per detenuto) senza parlare delle disastrose condizioni igienico sanitarie. Migliaia di richieste di risarcimento sono pervenute da parte dei detenuti italiani verso la corte di Strasburgo per la violazione degli articoli 35 bis (riguardo lo spazio delle celle) e 35 ter (relativo alla salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali). Nonostante questo lo stato protegge sempre i suoi aguzzini e le sue forme di tortura come dimostrano le prime risposte alla condanna per i fatti della Diaz sono state: “questa sentenza è una campagna diffamatoria nei confronti delle forze dell'ordine.” (Giovanardi) “Bisogna stare attenti perchè adesso potranno dire che pure Cucchi ed Aldovandri sono vittime di tortura” (Alfano).
Insomma il potere aizza e difende i suoi mastini in carcere come fuori, così come con leggi ad hoc ha trovato il modo per non risarcire la stragrande maggioranza dei detenuti italiani reclusi in maniera disumana attraverso vizi di forma richiamandosi a leggi addirittura del 1975.
– Domanda: ”sà quando riceverà il denaro dell'indennizzo?”
Risposta: ”No, e se devo dire la verità non sono nemmeno sicuro che mi venga dato” (intervista del corriere della sera a F.T. Presso il Carcere di Padova)
“...vi scrivo sul fatto della legge, anzi, sul decreto legge 26 giugno 2014 n° 92, il reclamo sui diritti dell’uomo e sulle disumane situazioni in questi fottuti lager. Ai sensi del comma 3 dell’art. 35ter, legge n° 354 del 1975, vi faccio presente che a me personalmente era stato accolto il mio reclamo, come previsto, della tutela penale e civile. Invece, parlando con il mio avvocato ho scoperto che mi era stato applicato, dal magistrato di sorveglianza, il decreto di inammissibilità (art. 666 comma 2 e art. 678 stesso decreto). Come definire questo! Fanno le leggi e poi il magistrato rigetta il reclamo, un’altra volta calpestati i nostri diritti; ma non calpesteranno mai la mia dignità! Questo è il loro fottuto potere.” (da una lettera di Claudio dal carcere Velletri)
Da troppi anni assistiamo a reiterate rassicurazioni, da politici di ogni colore, agli organi di polizia penitenziaria sulla loro totale impunità per le loro provocazioni, pestaggi, uccisioni. Per questo non crediamo alle vie istituzionali!! Crediamo che il carcere sia la conseguenza di tutte le contraddizioni di questa società e solo con la comunicazione fra dentro e fuori, facendo conoscere le problematiche che si subiscono in carcere, e coordinando e sostenendo le iniziative sia di informazione che di lotta si possono rivendicare le posizioni dei detenuti e dei loro familiari.
Tortura è la consapevolezza dei carcerieri e di tutti gli organi creati dal potere (DAP, magistratura di sorveglianza etc..) di dover isolare e calpestare la dignità personale di ogni individuo che finisce in carcere.
aprile 2015, OLGa - Milano

Lettere dal carcere di Velletri (rm)
Cari compas, mi rifaccio vivo sul vostro/nostro opuscolo dopo un po’ di silenzio meditato e meditativo. E’ passato un anno e qualche giorno dal tentativo di coinvolgimento-sconvolgimento del coordinamento detenuti. Da allora, almeno per quanto mi riguarda, sono intercorse decine e decine di lettere e passati sotto la lente della coscienza vari propositi e proposte tra compagni ancora non domi, non rassegnati a questa pace fatta di sbarre.
Ci sono compagni così puri che ancora si dibattono e si battono per una distruzione di questa istituzione di merda. Il mio umile pensiero è che se ci fosse un pulsante per far saltare tutto in aria… beh, il mio pollice sarebbe suo… ma quel pulsante non c’è! E a chi sputa sull’abolizione del carcere (lo farei anch’io) suggerirei di “passeggiare” qualche mese tra i corridoi “comuni”, lontano dai nostri dibattiti e dal nostro ardore, per rendersi conto che sarebbe come (ri)proporre un rifiuto dell’amnistia!
I partigiani incarcerati dopo il ’45 per le cosiddette “faide politiche” fecero di tutto per uscire, compreso il fingersi pazzi per entrare temporaneamente negli OPG di allora. Questo per dire che, escludendo infami e delatori, nessuno è giudicabile quando rivuole la sua libertà: l’importante è tenere la schiena diritta!
Penso che una cosa accomuni tutti i ribelli che in questi ultimi anni si battono o si sono battuti nelle carceri italiane: il dolore che provoca sbattere sul muro di indifferenza e rassegnazione di chi invece dovrebbe essere al loro fianco! Ma non allineiamoci, non facciamolo. In fondo è il prezzo che spesso anche fuori bisogna pagare… soffrire!
E, di più: anch’io tante, troppe volte, ho scritto e interpellato i compagni fuori quasi elemosinando un gesto, una scossa che servisse la causa qua dentro, ma non c’è nulla che possa supplire una determinazione diffusa che qui latita!
Allora a quei compagni ora chiedo di non dimenticare chi ancora resiste a quella rassegnazione, e se la lotta al carcere è un tema lontano dal quotidiano ugualmente non rompere le comunicazioni, anzi, intensificare quella dinamica per cui ciò che è antagonismo (faticosamente) dentro viva all’aria aperta e ciò che coinvolge i compagni che sono fuori arrivi a noi e ci includa, così che, sentendoci inclusi in questa dialettica, piano piano, ma inesorabilmente, anche la lotta al carcere tornerà ad essere complementare ad ogni lotta per la libertà.
Colgo l’occasione per salutare tutti i compagni e le compagne impegnati nel mio Salento contro la TAP e nella difesa dei nostri ulivi contro ogni interesse naturicida.
E buona Liberazione a tutti/e quanti! Enko
PS: Un mese fa mi hanno messo a soqquadro la cella in una perquisa mirata di una squadretta ricca di stellette e eleganti uniformi: mi han preso per qualche ora tutto il materiale cartaceo e chissà cosa han infilato… non so cosa cercavano o cosa vogliono ascoltare, certo “se so attaccati ar…” ‘sti babboni! Un abbraccio complice.

fottutissima Velletri, 18 aprile 2015
Enrico Cortese, v. Campoleone, 97 - 00049 Velletri (Roma)

***
Carissimi amici, compagni/e di Olga vi scrivo sul fatto della legge, anzi, sul decreto legge 26 giugno 2014 n° 92, il reclamo sui diritti dell’uomo e sulle disumane situazioni in questi fottuti lager. Ai sensi del comma 3 dell’art. 35ter, legge n° 354 del 1975, vi faccio presente che a me personalmente era stato accolto il mio reclamo, come previsto, della tutela penale e civile. Invece, parlando con il mio avocato ho scoperto che mi era stato applicato, dal magistrato di sorveglianza, il decreto di inammissibilità (art. 666 comma 2 e art. 678 stesso decreto). Come definire questo! Fanno le leggi e poi il magistrato rigetta il reclamo, un’altra volta calpestati i nostri diritti; ma non calpesteranno mai la mia dignità! Questo è il loro fottuto potere.
Innanzitutto continuerò a far valere i miei diritti, e andrò in Cassazione e, inoltre, manderò la notifica che ho mandato a voi, a Strasburgo per un eventuale ricorso. Non so se servirà a molto. Vediamo, intanto ci provo.
Quello che è successo a me, come a molti altri, è causato da una falsa legge il cui scopo infatti è di raggirare la Corte Europea di Strasburgo per non far pagare la multa all’Italia. Su questo dice bene il mio amico e compagno “Enko”, che tramite l’opuscolo saluto tanto, nel finale della sua lettera dove parla delle furbe dinamiche italiane. Potremmo provare tante cose, che i detenuti non sono una massa sociale, come del resto anch’io, ma con la mia coscienza e conoscenza ho poco da spartire con la maggioranza dei presenti qui se non la mia dignità e a muso duro quando si prova a prendermi per il culo!
E aggiungo che questo mi fa più rabbia e sono incazzato sempre di più! Perché, come sempre lo stato italiano fa le leggi solo a suo favore, non a favore della povera gente, in tutti i casi, anche per chi sta fuori, non solo per chi è prigioniero di queste fottute fogne di galere! E spero che tutti uniti, in lotta, cambieremo questo sistema. Io ne sono più che convinto: la lotta non si arresta. Sono fianco a fianco a tutti e compagni e alle compagne per la nostra rivoluzione.
Mercoledì 11 marzo 2015 finalmente ero contento, perché ci hanno portato materassi e cuscini nuovi. Siccome, a mio parere, ho trovato che il cuscino era troppo duro, che se ci dormi ti vengono gli incubi, ho deciso di ridurlo in pezzettini ed ora ho il cuscino che voglio. Appena è arrivata la perquisa ha notato il cuscino, ma chi se ne frega, cosa mi possono fare che già non mi hanno fatto…
Voglio aggiungere un’ultima cosa. Quando hanno portato i materassi hanno portato anche i coprimaterassi nuovi. Su 26 celle solo la mia ha i coprimaterassi vecchi e pure sporchi e di fatto non l’ho messo, ho reclamato. Quando la guardia è entrata nella cella si è messa ad aprire gli stipetti, allora mi sono avventato su di lui e a muso duro gli ho detto “che cazzo stai facendo!”. Mi risponde: “sto controllando se hai lenzuola in più”, gli rispondo: “che vuoi che ci faccio con i vostri lenzuoli schifosi”, uscendo mi chiede nome e cognome, dicendomi minaccioso: “ti faccio vedere io”. Gli rispondo che con il suo rapporto mi ci pulisco il culo!!
Ora carissimi amici, compagni e compagne vi mando la mia più sincera solidarietà a chi fuori e a chi è rinchiuso in questi fottuti lager. Un saluto e un forte abbraccio a tutti, in particolare a “Enko”. Abbattiamo questo sistema! Libertà per tutti e tutte…la mia solidarietà ai compagni/e in lotta del movimento No Tav.
Un saluto a muso duro e a pugno chiuso… Claudio.

Velletri 17 marzo 2015
Claudio Perrone, via Campoleone, 97 - 00049 Velletri (Roma)

Sono disponibili per chiunque ne faccia richiesta i seguenti testi di legge coordinati cioè contenenti i riferimenti alle leggi citate.
- Testo del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, coordinato con la legge di conversione 21 febbraio 2014, n. 10, recante: «Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fondamentali dei detenuti e di riduzione controllata della popolazione carceraria».
- Testo del decreto-legge 26 giugno 2014, n. 92, coordinato con la legge di conversione 11 agosto 2014, n. 117, recante: "Disposizioni urgenti in materia di rimedi risarcitori in favore dei detenuti e degli internati che hanno subito un trattamento in violazione dell'articolo 3 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nonche' di modifiche al codice di procedura penale e alle disposizioni di attuazione, all'ordinamento del Corpo di polizia penitenziaria e all'ordinamento penitenziario, anche minorile".
***
Ciao carissimi amici e compagni e compagne, un saluto a OLGa…
Ho scritto a Davide Emanuello, dove si trova prigioniero in 41bis in condizioni di salute non molto buone. L’indirizzo è: via dei Meli, 218 - 63100 Ascoli Piceno.
Invito tutti a scrivergli anche se ha la censura; indirizzate lettere di saluti e di solidarietà, perché significa far capire ai suoi carcerieri che non è solo, che c’è chi dall’esterno lo sta aiutando. Scrivetegli in molti, non dobbiamo dimenticare Davide anche per quello che sta passando in questo periodo.
Lottiamo per abbattere il 41bis, iniziando con piccole cose. E voglio aggiungere di non dimenticare la morte di suo fratello per mano della polizia. “Servi dello stato” che con il loro potere si vantano di tante uccisioni. “ACAB”…
Un doveroso saluto al fratello di Davide: che riposi in pace R.D.D.
Voglio anche salutarlo così: “Non piangete la mia assenza sono beato in Dio e prego per voi dal cielo. Continuerò ad amarvi come vi ho amato sulla terra”… (S.Ambrogio)
Non dimentichiamolo, perché è morto per mano della polizia. Continuiamo la nostra lotta contro questo sistema, perché di carcere non si muoia più, ma neanche di carcere si viva… Contro ogni carcere, giorno dopo giorno. Libertà per tutti e tutte i compagni e le compagne in prigioniere/i in queste fogne di stato. A fuoco le galere.
Un saluto a testa alta e a pugno chiuso. Abbattiamo il 41bis/ il 14bis/ l’isolamento/ la repressione fatta fisicamente e psichicamente.

Claudio anarco-insurrezionalista Ombra… 15 aprile 2015
Claudio Perrone v. Campoleone, 91 - 00049 Velletri (Roma)


Sulle limitazioni dei libri nelle sezioni a 41bis
Da alcuni mesi, ormai in maniera definitiva, chi sottoposto al regime carcerario 41bis (in vigore da 30 anni, ora riservato a oltre 700 persone chiuse in sezioni particolari ricavate nelle carceri di: Cuneo, Novara, Parma, Milano-Opera, Tolmezzo-Udine, Ascoli Piceno, Terni, Spoleto, L’Aquila, Rebibbia-Roma e Ferrara), non possono più ricevere libri, qualsiasi forma di stampa, attraverso qualsiasi tipo di corrispondenza, nemmeno attraverso i colloqui sia con parenti che con avvocati.
Questa realtà, come documentiamo più avanti, si sta avverando in seguito ad una circolare del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, in sostanza l’organo che governa ogni carcere) inviata nel novembre 2011. In base a questa le persone chiuse nelle sezioni 41bis possono ricevere libri soltanto acquistandoli per il tramite dei carcerieri.
Qui restrizione, aggressione all’essere di ogni prigioniera, prigioniero, alla socializzazione in carcere e con l’esterno di sentimenti, conoscenze, esperienze, saperi si sommano in maniera feroce, diretta, inasprendo la carcerazione. Avere libri in cella diventa un problema per tante ragioni, per es.: difficilmente gli uffici preposti del carcere andranno ad acquistare libri specifici necessari allo studio della crisi economica, delle guerre, delle lotte nelle metropoli; mette in seria difficoltà chi ha scarse possibilità di denaro; è altresì grave in quanto si aggiunge alle restrizioni sulla “quantità” di libri che è consentito tenere in cella, soltanto 3 (tre).
Contro la situazione che hanno ormai determinato i carcerieri siamo chiamati a muoverci, ci riguarda da vicino anche perché ogni restrizione adottata nelle sezioni del 41bis (per esempio l’impiego del processo in videoconferenza) prima o poi, con nomi e forme diverse, viene impiegata nelle sezioni dell’Alta Sorveglianza, contro prigionieri ribelli, compagni…
Diverse persone chiuse nel 41bis hanno inviato al giudice di sorveglianza competente sul carcere in cui sono rinchiuse un ricorso contro le conseguenze della circolare, cioè la mancata consegna di libri, opuscoli, stampe giunte per posta e colloqui. Qui teniamo come esempi di questi ricorsi quelli avanzati da Roberto e Nadia (compagni delle Br-Pcc), perché in entrambi i casi è stato a noi possibile raccogliere una documentazione più chiara e comprensibile. Roberto ha presentato reclamo quando si trovava a Terni (ora è a Spoleto), Nadia a L'Aquila dove è reclusa da oltre 10 anni nella sezione 41 bis.
In particolre abbiamo così seguito l’impugnazione del giudice di sorveglianza di Spoleto (competente anche sul carcere di Terni) e le impugnazioni del pm della procura dell'Aquila e due sentenze di Cassazione (tragicomiche se non fosse per le conseguenze sulle persone). Le sentenze di Cassazione sono diventate mezzo di riapplicazione della circolare Dap a tutti i detenuti in regime 41bis compresi quelli che attraverso reclamo avevano riottenuto il permesso di ricevere libri.

Le tappe dell’attacco del DAP: la circolare cosa comanda?
Nell’impugnazione del giudice di sorveglianza di Spoleto è riportata in sintesi la circolare del DAP, eccola:
“[…] il reclamante si duole delle limitazioni impostegli nella ricezione di libri e stampa dall’esterno, nonché del divieto di passaggio di tali beni tra componenti del medesimo gruppo di socialità ed ancora dei limiti al numero di testi che si possono tenere presso la propria camera detentiva”.
Nella circolare, dopo un preambolo sulla fattispecie concreta che ha generato la necessità di rivedere alcune limitazioni imposte ai detenuti in regime differenziato, in senso restrittivo per esigenze di prevenzione, si dispone che:
1) siano eliminati dalle biblioteche degli istituti penitenziari libri contenenti tecniche di comunicazione criptata;
2) sia vietato l’acquisto di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) al di fuori dell’istituto penitenziario, compresi abbonamenti, da sottoscriversi direttamente da parte della Direzione o dell’impresa di mantenimento per la successiva distribuzione ai detenuti richiedenti, per impedire che terze persone vengano a conoscenza dell’istituto di assegnazione dei detenuti;
3) sia vietata la ricezione di libri e riviste da parte dei familiari, anche tramite pacco consegnato al colloquio o spedito per posta, così come l’invio del predetto materiale ai familiari da parte del detenuto;
4) sia vietato l’accumulo di un numero eccessivo di testi, anche al fine di agevolare le operazioni di perquisizione ordinaria;
5) sia vietato lo scambio di libri e riviste tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità.
La circolare si conclude poi rammentando che tali disposizioni non incidono sulle “possibilità offerte” ai detenuti dall’ordinamento penitenziario, poiché “vengono cambiate le modalità di acquisirne ma rimane garantito il diritto all’informazione”.
Le altre restrizioni, già esistenti, citate dal giudice a sostegno dell’accettazione del ricorso di Roberto, sono queste:
“[…] è pervenuta inoltre nota della Direzione della Casa Circondariale di Terni in cui si dà atto dell’emanazione di ordine di servizio 965/2011, a seguito della detta circolare, e se ne allega copia, unitamente ad avviso alla popolazione detenuta con cui si precisano alcune puntuali limitazioni.
In particolare, si prevede che possano essere detenuti presso la propria cella un codice penale, un testo religioso ed un dizionario, tre libri di lettura, compresi quelli eventualmente in prestito dalla biblioteca, due riviste periodiche e tre quotidiane.
Circa gli studenti, è consentito detenere cinque libri di studio presso la cella e cinque all’interno di un armadietto esterno, da prelevare secondo necessità.
Al punto 5, infine, si aggiunge che “non sarà più possibile lo scambio di quotidiani, riviste e libri o altra stampa in generale”.
Sull’ammissibilità del ricorso delle persone colpite dalla circolare il giudice scrive:
“Occorre preliminarmente dichiarare l’ammissibilità dell’istanza proposta ed infatti, alla luce dell’orientamento espresso dalla Corte Costituzionale e dalle Sezioni Unite della cassazione, i provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria che incidano su diritti soggettivi della persona detenuta sono sindacabili in sede giurisdizionale mediante reclamo al magistrato di sorveglianza”.

“Motivazioni” delle restrizioni previste dalla legge
“Viene dunque in rilievo innanzitutto una incisione del diritto costituzionale alla libertà della corrispondenza, sancito nell’art. 15 […] In particolare, per i detenuti e gli internati, qualsiasi limitazione in tale materia è regolata dall’art. 18 ter ord. pen., come è noto introdotto con L. 95/2004 anche a seguito di alcune condanne della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che avevano censurato l’assenza di un puntuale controllo giurisdizionale e di precisi limiti temporali circa le limitazioni imposte in materia di corrispondenza alle persone detenute.
Nel predetto articolo si esplicita come tanto le limitazioni quanto la sottoposizione a visto di controllo possono avvenire con decreto motivato emesso dall’autorità giudiziaria competente, in presenza di richiesta da parte della Direzione dell’istituto penitenziario o del Pubblico Ministero procedente, per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, per periodi non superiori a mesi sei, prorogabili, con provvedimento motivato, per ulteriori periodi non superiori ciascuno a mesi tre.
La corte di cassazione è intervenuta più volte a ribadire la portata dei precetti contenuti nell’art. 18 ter ord. pen. tra l’altro evidenziando come in presenza di sottoposizione a visto di censura qualsiasi scritto rientri nella nozione ampia della norma e come anche i testi che siano inseriti all’interno di pacchi contenenti beni di altro genere non possono essere trattenuti dall’amministrazione se non mediante le indicate procedure e sulla base della sussistenza dei presupposti esplicitati dalla norma.
Nel caso, dunque, di detenuto sottoposto, come il reclamante, a visto di controllo sulla corrispondenza, “il trattenimento di libri, ivi compresi i testi universitari o di altro tipo, spediti al detenuto, può ritenersi consentito se i testi celano al loro interno qualcosa o contengono scritti pericolosi per la sicurezza o l’ordine interno dell’istituto”.

Conclusioni del giudice
“In forza dei principi sin qui riassunti, non può quindi essere imposta mediante circolare ministeriale nessuna limitazione alla ricezione della stampa ed alla sua trasmissione all’esterno, dovendo la stessa essere vagliata, in casi singoli e per periodi di tempo determinati, soltanto dall’autorità giudiziaria.
Deve dunque disapplicarsi la circolare ministeriale in tutte le parti in cui impone alla Casa Circondariale di Terni di limitare, mediante divieti, il diritto del detenuto a ricevere tramite corrispondenza qualsiasi stampato, o a ritrasmetterlo all’esterno […]
In conseguenza di ciò devono ritenersi da disapplicarsi anche i provvedimenti conseguenti assunti dall’istituto penitenziario.
Quanto alla doglianza circa l’obbligo di contrarre gli abbonamenti alle riviste mediante l’istituto penitenziario e non invece anche tramite i familiari dall’esterno, in grado di manlevare l’interessato degli oneri economici legati all’abbonamento, la circolare ministeriale appare priva di adeguata motivazione e perciò illegittima, poiché non precisa quali rischi per l’ordine e la sicurezza, o quali vantaggi di prevenzione, derivino da tale limitazione. Viene unicamente citato un generico riferimento al pericolo che terze persone vengano a conoscenza dell’istituto di assegnazione dei detenuti, circostanza che si verifica comunque ordinariamente, posto che della ubicazione degli stessi sono a conoscenza i familiari e la difesa.
Appare inoltre non credibile che tale strumento consenta ai familiari di veicolare informazioni fraudolente, intanto perchè la stampa deve comunque essere sottoposta a visto di controllo e poi perchè la sottoscrizione di abbonamento da parte dei familiari non prevedrebbe la consegna diretta delle riviste (comunque consentita tramite posta) ma il mero pagamento del costo relativo […]. Il numero dei libri e delle riviste incide infatti sul diritto allo studio del detenuto, che non può vedersi limitato nella consultazione dei testi richiestigli per il corso di formazione cui attende.
Dovrà dunque disapplicarsi l’ordine di servizio nella parte in cui limita il numero di testi di studio che il detenuto studente può tenere presso la camera detentiva”.

41bis, carcere in sé azzannatori della socialità, della reciprocità…
(DAP, direzioni delle singole carceri, gruppi di guardie, giudici di sorveglianza, legislatori, digos, carabinieri…)
“Quanto al divieto di scambio di riviste, la disposizione contenuta nell’avviso comunicato ai detenuti, facendo riferimento ad una sopravvenuta impossibilità, non può che riferirsi, univocamente, allo scambio tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità (essendo da sempre vietato lo scambio tra appartenenti a gruppi di socialità diversi).
Occorre affermare che la Casa Circondariale si è in questo discostata dalla circolare DAP che ribadiva il comprensibile divieto di passaggio tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità.
In tal senso l’ordine di servizio dell’istituto penitenziario va censurato, e quindi disapplicato, poiché non sorretto da adeguate ragioni di ordine e sicurezza.
Il legislatore del novellato 41 bis ha infatti limitato espressamente le dimensioni dei gruppi di socialità, ponendo particolare attenzione alla loro composizione, con ciò di fatto distinguendo le possibilità di comunicazione tra i membri del gruppo e tutti gli altri detenuti in regime differenziato.

Decisione finale del giudice
ACCOGLIE il reclamo proposto dal detenuto sopra generalizzato, e per l’effetto:
dispone che la circolare DAP n. 8845/201 sia disapplicata nella parte in cui inibisce ai detenuti in regime differenziato la ricezione dall’esterno e la trasmissione all’esterno di libri e riviste ed impone loro di acquistare gli stessi soltanto mediante l’istituto penitenziario invece di poterli ricevere anche mediante abbonamenti sottoscritti dai familiari;
dispone che siano disapplicati gli ordini di servizio emessi dalla Casa Circondariale di Terni in conseguenza delle disposizioni DAP sopra richiamate, nonché quelli che limitano il numero di testi di studio che il detenuto in regime differenziato può tenere presso la propria camera detentiva e che impediscono il passaggio, salvo visto di controllo, di libri e riviste tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità…
(in data 31 gennaio 2012)

Quello che è successo a Nadia
Sappiamo dagli atti che a Nadia nell'ottobre del 2013 è stato accolto dal Magistrato di sorveglianza dell'Aquila il suo reclamo contro la circolare del Dap. L'ordinanza del Magistrato ricalca quella del suo collega di Spoleto.
Il 20 Dicembre dello stesso anno il procuratore dell'Aquila presenta ricorso in cassazione contro l'ordinanza che in sostanza disponeva la disapplicazione della circolare del Dap. In sintesi il procuratore sostiene invece: “che le misure limitative stabilite con la circolare oggetto di disapplicazione siano del tutto rispondenti al regime 41bis [...] non limitativa dei diritti costituzionali [...] in quanto contempera quei diritti con le esigenze preventive.”
Inoltre richiamandosi ad una precedente sentenza della Cassazione favorevole al Dap (Parma 2013*) sulla stessa questione argomenta: “la circolare non limita in alcun modo i diritti del detenuto ma sottoponendo ad un più rigoroso controllo la provenienza di libri e stampe impedisce al detenuto di effetuare scambi sospetti i libri che potrebbero detenere messaggi criptici...”
Il 9 Giugno 2014 il Sostituto Procuratore Generale della cassazione nella requisitoria chiede alla corte di rigettare il ricorso sostenendo che: “[...] la giurisprudenza evidenzia come l'ordinanza (emessa dal Magistrato di sorveglianza) impugnata dal Procuratore della Repubblica di L'Aquila abbia invece dato una corretta intepretazione del principio costituzionale della libertà della corrispondenza che può essere limitato solo da un provedimento dell'autorità giudiziaria e non da un provedimento amministrativo” (quale la circolare Dap).

Il Pilato di turno
Come raramente succede, nonostante la requisitoria favorevole la Corte di Cassazione, il 16 Ottobre 2014 con una sentenza ultrarapida (insolita alla Cassazione), vigliacca e pilatesca riesce comunque a pronuciarsi a favore del Dap. In sintesi la sentenza dichiara:
1) Che il reclamo della compagna è “innammissibile [...] perchè la circolare del Dap è da considerarsi circolare interna”.
2) “Le circolari contenendo istruzioni, ordini di servizio [...] impartite dalle autorità amministrative centrali esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti fra i suddetti organismi e i loro funzionari [...] quindi non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all'amministrazione essendo esclusivamente destinate ad esercitare una funzione di direttiva nei confronti degli uffici dipendenti.”
In conclusione la persona in carcere (come già sapevamo) è considerata dalla massima magistratura alla stregua di uno schiavo, indegna della minima attenzione e tanto meno di essere ascoltata. Il loro obiettivo perseguito è ridurre la persone prigioniere totalmente sottomesse e rassegnate al sistema carcere (di cui il Dap è parte importante).

(*) Riportiamo qui per maggiore informazione stralci della sentenza di cassazione richiamata dal Procuratore della Repubblica di L'Aquila, citata per dar forza al respingimento del reclamo di Nadia.
Sentenza del Novembre 2013 n°46783 che ha accolto il ricorso della Procura di Reggio Emilia e del Dap contro l’ordinanza con la quale il magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia, lo scorso 10 gennaio, aveva autorizzato, Giuseppe Gullotti (53 anni), recluso nel carcere di massima sicurezza di Parma, a ricevere libri e riviste inviategli dai familiari anziché attraverso i canali dell’amministrazione penitenziaria, a tenere più volumi in cella e a restituirli ai parenti.
Secondo il magistrato di sorveglianza competente, la circolare del Dap, ha introdotto "gravose limitazioni" che violano "norme di rango costituzionale quali il diritto all’informazione del detenuto ed anche alla rieducazione, di cui la lettura e l’istruzione sono elementi fondanti, nonchè il diritto allo studio che veniva limitato dal divieto”.
La sentenza della Corte di Cassazione si esprime attraverso questo “inno” al Dap:
“[...] risulta evidente che le regole introdotte dal Dap hanno l'espressa finalità di impedire che, attraverso la ricezione o la consegna di testi, il detenuto sottoposto a regime speciale possa ricevere o comunicare all’esterno messaggi cifrati [...] Con l’introduzione delle suddette regole non viene limitato in alcun modo il diritto del detenuto ad informarsi o studiare attraverso la lettura di testi, ma si sottopone a un più rigoroso controllo la provenienza dei libri o delle stampe e si impedisce al detenuto di effettuare scambi sospetti con familiari di libri che potrebbero contenere messaggi criptici, non facilmente individuabili dal personale addetto al controllo".
maggio 2015, OLGa - Milano


Lettera dalla sez. 41bis del carcere di Spoleto (pg)
Cara Associazione Ampi Orizzonti, vi comunico che ormai è da tempo che l’opuscolo viene sistematicamente bloccato perché una circolare del DAP vieta la ricezione di riviste, libri, giornali dall’esterno. Tale circolare è stata confermata da sentenza di Cassazione. Ho ritenuto dirvelo per correttezza. Scusate il ritardo, ma siccome siamo ancora a reclamare per lo sblocco di tale situazione, pensavo, ottimisticamente, che ciò si sarebbe verificato. Così non è.
Per il resto il morale è alto e mi auguro di trovarvi tutti in ottima forma. Come si può dire di me. Un salutone rosso e comunista, con affetto rivoluzionario, a presto risentirci, Roberto.

Spoleto 25 marzo 2015
Roberto Morandi, v. Maiano, 10 - 06049 Spoleto (Perugia)


sul presidio sotto il carcere di cuneo
Il 18 aprile si sono svolti a Cuneo due presidi, in città e al Cerialdo, “contro criminalizzazione delle lotte, repressione e carcere” nell'ambito di “Dieci giorni di iniziative tra diverse vallate alla ricerca della Resistenza oggi – per un 25 aprile popolare e ribelle: lontano dalla retorica istituzionale, vicino a chi lotta oggi”.
La chiamata di “Alpi Libere” ha raccolto oltre una cinquantina di compagne e compagni di diverse città: questo nonostante le perquisizioni intimidatorie subite dal collettivo lo scorso 18 marzo.
La giornata si è svolta in due momenti. Nel primo pomeriggio nelle vie del centro tra i banchetti informativi è stata esposta una mostra “sulle evasioni e assalti alle prigioni di Saluzzo e Fossano durante la guerra partigiana”, con interventi al microfono sul tema del carcere (isolamento, trasferimenti punitivi, ostacoli alla comunicazione, processi in videoconferenza, 41bis, 14bis..) e dell'antipsichiatria.
Verso le 18 ci si è mossi in corteo prendendoci la strada fino al carcere del Cerialdo, con interventi lungo il percorso sugli stessi temi.
Il corteo, arrivato davanti alla sezione del giudiziario, è stato accolto – e a sua volta ha risposto – da un boato di di grida entusiaste e battiture da parte dei prigionieri, che erano già stati avvisati nel corso della settimana da una macchina con altoparlante. Lo scambio di battute tra dentro e fuori ha dimostrato l'energia che ci hanno saputo trasmettere da dentro, bella, immediata. Da dentro ci hanno gridato che fra le altre censure, non gli era consentito però di avere la radio.
Oltre alla battitura in comune tra chi era fuori e chi è dentro, vari interventi di solidarietà, comunicazione di indirizzi e musica, grida di libertà come “fuori tutti dalle galere, dentro nessuno solo macerie”, due episodi non si possono dimenticare: il saluto al microfono da parte di una bambina con le parole “voglio scavalcare così li liberiamo tutti!” e la comunicazione tra diversi prigionieri e i loro parenti e amiche che hanno partecipato al corteo.
Tutti insieme, poi, ci siamo spostati sotto la sezione del 41bis dove, a differenza dell'altra, dominava il silenzio (celle singole con finestre a bocca di lupo molto strette e di metallo); nonostante questo il corteo, grazie a microfono, battiture, urla, chiamate è riuscito a ottenere diverse risposte dell'interno. Il saluto finale del corteo è stato: “ritorneremo!”.

Milano, aprile 2015
carto-lettera dal carcere di Agrigento
[…] non so se vi ho già scritto che la direzione del carcere mi ha soppresso il colloquio con la mia compagna per il mese di marzo. Ho risposto con uno sciopero della fame. Avrei preferito scatenare l’inferno, ma lo farò nel momento più opportuno!
Istrale a su meri! A tutte/i un abbraccio. Davide.

Presoni e Petrusa, 15 aprile 2015
Davide Delogu, Contrada Petrusa - 92100 Agrigento


da una Lettera dal carcere di Terni
[…] una buona notizia: il mio fine pena è 5 dicembre 2016, però nel 2016 il tribunale di sorveglianza di Spoleto (Pg) dovrà rivalutare la mia “pericolosità sociale”. Se confermeranno la particolarità sociale datami dal tribunale di sorveglianza di Napoli con i 2 anni di Casa del Lavoro, allora dovrò anche fare la misura di sicurezza di anni 2 di libertà vigilata. Vedremo.
Intanto il tribunale di sorveglianza di Spoleto ha rigettato la detenzione ai domiciliari per motivi di salute. Riconoscono le mie aggravate patologie, però, non che sono in fin di vita e, quindi, sono compatibile con il regime carcerario. Nel rigetto leggo anche l’informazione della questura di Lucca; mi considerano pericoloso perché, scrivono, “ha collegamenti con anarchici insurrezionalisti e con Nadia Lioce”…
Mando un abbraccio a tutti voi, Mauro.

Terni 14 aprile 2015
Mauro Rossetti Busa, via delle Campore, 32 - 05100 Terni
roma: ancora sul processo per i fatti del 15 ottobre 2011
Sono passati tre anni e mezzo da quella giornata di rivolta che attraversò le vie centrali di Roma, una giornata in cui tanti focolai di lotta diffusi nei territori e tante singole tensioni scelsero di trovare forza l'una nell'altra.
Una giornata di lotta internazionale, con manifestazioni in più di 900 città del mondo, che assunse caratteristiche specifiche in ogni contesto ma che racchiudeva il rifiuto della miseria cui il sistema di sfruttamento capitalista vorrebbe costringerci.
La giornata del 15 ottobre 2011 a Roma è stata ossigeno per le nostre lotte e per migliaia di persone che hanno animato il corteo. La minaccia di tante degne rabbie è stata fortemente sentita da chi ha voluto rispondere scatenando nelle strade la ferocia dei tutori dell'ordine: decine di persone ferite e arrestate per distribuire paura e rassegnazione.
Sin dalle prime ore in piazza, le immagini e gli appelli alla delazione che correvano sui media di regime ed internet hanno consentito di arrestare, processare e condannare numerosi compagni e compagne che erano in piazza con tutte/i noi. L'accusa di "devastazione e saccheggio", la stessa utilizzata contro chi era nelle strade di Genova durante le indimenticabili giornate del luglio di dieci anni prima, ha già portato a pesanti condanne nei confronti dei compagni dell'Azione Antifascista Teramo e ad oggi piove sulla testa di altre 18 persone tuttora sotto processo, con 3 di loro accusate anche di tentato omicidio per la resistenza all'attacco militare dei blindati in piazza San Giovanni.
Ciò che è risultato necessario da subito era costruire delle reti di solidarietà reale per non permettere l’isolamento delle persone colpite duramente dallo Stato. Le stesse reti di solidarietà che, nei quartieri e nei nostri territori, sono necessarie ogni giorno per resistere al dominio e all'alienazione.
A breve si chiuderà il primo grado del processo contro 18 di noi ed il rischio di condanne pesantissime e di richieste di risarcimenti ingenti è reale.
Tra le 18 persone ancora sotto processo c'è anche Chucky, compagno di tante lotte suicidatosi lo scorso settembre, che non smetteremo mai di ricordare.
Invitiamo tutte e tutti ad impegnarsi nelle proprie città per non lasciare nessun@ sol@ davanti la ferocia dello Stato. Partecipiamo ai presidi solidali previsti durante le udienze del 16 marzo, 11 maggio, 12 maggio e dell' 8 giugno.
Costruiamo iniziative di lotta che dichiarino la solidarietà concreta con chi, tra noi, è colpit@ dalla repressione.
Mobilitiamoci durante le udienze dell’11 e 12 maggio, quando il Pm Minisci terrà la requisitoria con le richieste di condanna.
12 MAGGIO, ORE 11, PRESIDIO SOLIDALE A PIAZZALE CLODIO, DAVANTI IL TRIBUNALE DI ROMA.

Sottoscriviamo alla cassa di solidarietà:
Bollettino di conto corrente postale CCP n. 61804001
intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001, Via dei Volsci 56 – 00185 Roma
Causale: “15 Ottobre”
Bonifico bancario intestato a: Cooperativa Culturale Laboratorio 2001
Codice IBAN: IT15 D076 0103 2000 0006 1804 001
ll 15 ottobre 2011 c’eravamo tutti e tutte. La solidarietà è necessaria.

Le compagne e i compagni di Roma
13 aprile 2015, da inventati.org/rete_evasioni
Cremona: Sguardi altri sulla repressione
Negli ultimi giorni a Cremona stanno succedendo dei fatti. L’agguato fascista del 18 gennaio dove Emilio ha rischiato la vita e tutto quello che è successo dopo con il corteo rivoltoso del 24 gennaio hanno posto un significato alla questione delle lotte in questa città: da li tutto è cambiato e, volente o nolente, un ritorno alla normalità non potrà più esserci.
Questo “non ritorno” è sicuramente un buon auspicio per compagni, sfruttati e ribelli che in questi ultimi anni hanno portato in questa piccola cittadina un radicalità e un’alterità che ha inciso anche sui fatti sopracitati.
Naturalmente a quegli attimi di serenità che vengono assunti da momenti dove le lotte sembrano incrinare (di poco, purtroppo…) il corso degli eventi di potere e l’eterna ripetizione dello spazio dell’oppressione, la repressione non resta a guardare.
In questi giorni con gli arresti prima di Tide e Sbob, due ragazzi legati al Kavarna per simpatia e come luogo altro, con l’accusa pesantissima di “devastazione e saccheggio” per i fatti del corteo del 24 gennaio, e poi, gli arresti di Are e Alberto (con altri 5 compagni ai domiciliari, tra cui lo stesso Emilio…), per l’aggressione fascista del 18 gennaio avvenuta davanti al Dordoni, il potere inquisitorio, cioè la sinergia fra Questura e Comune di Cremona, ha evidenziato un fatto: quello di voler eseguire una punizione esemplare a gruppi e individui che vorrebbero far crollare questo sistema di dominio per creare qualcosa di totalmente altro, nelle sue smisurate possibilità che da la lotta esistenziale.
Oltre a Questura e Comune di Cremona, un ruolo fondamentale lo rivestono i media locali. Essi fanno il lavoro più difficile ma allo stesso tempo quello che serve fondamentalmente per creare un becero consenso negli atti repressivi.
Essi narrano delle storie che fanno a cazzotti con la realtà, abboccano consensualmente in modo totalizzante ai racconti del potere e tracciano un immaginario difficilmente incerto e dato per vero, come se i più attenti non sapessero veramente il ruolo primo dei media: essere, con dialettica e linguaggio, lo strumento del potere per formare l’opinione pubblica, fatta non da individui pensanti ma da una massa che viene informata ma che non sa niente.
Informati di fandonie, per non disturbare le reale decadenza di questo mondo.
I racconti allucinanti sugli interrogatori dei due ragazzi arrestati per “devastazione e saccheggio”, il continuare a ribadire la pericolosità sociale anche degli ultimi arresti, creare ad arte paura e incertezza per avvenimenti di bassa conflittualità come il 25 aprile e rimandare ad un opposizione molto più grande come quella di Expo a Milano, sono tutti atti per creare una narrazione delinquenziale di lotte e individui.
Infine, l’opera mediatica della Questura di Cremona di colpire in due settimane tutti, dagli anarchici (anche con le denunce, chiamate condanne, per la manifestazione antifascista del febbraio dell’anno scorso contro la commemorazione fascista delle foibe a tre compagni), agli autonomi con gli arresti di giovedì. Anche i fascisti di Casa Pound, per ribadire che la legge è uguale per tutti, quando si sa benissimo che il legame fra fascisti e polizia è sempre stato evidentissimo, qua a Cremona come altrove. Come dimenticare la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969?
Oltre al legame fra fascisti e polizia, è un dato che la legge è funzionale a difendere i ricchi dai poveri, che la legge è a difesa dell’unica comunità possibile oggi: quella del denaro, dell’oppressione e della miseria generalizzata.
Chi dimostra di volere un altro modo di vivere insieme, incontra la repressione a difesa dell’esistente: sarà un caso?
Molte lotte ci hanno insegnato che la becera dicotomia fra legale e illegale è comoda per chi sta in difesa degli interessi dei soliti noti e di chi usa manovalanza fascista in difesa dei propri profitti a discapito delle vite di molti.
Sappiamo bene che chi devasta e saccheggia le nostre vite è chi sta in alto nella gerarchia sociale, oltre ai loro servi e ai falsi critici di quello che abbiamo intorno a noi.
Adesso per chi lotta in questa città avviene la difficoltà maggiore: rispondere alla repressione e cercare di rivedere Are, Alberto, Roma, Tide, Sbob, Gian, Emilio, Jonny e Pippo nelle strade, nei sentieri e nei luoghi dove la pesantezza di questo mondo è più leggera.
I saluti al carcere dopo gli arresti sono stati partecipati, per portare solidarietà diretta agli arrestati e, perché no, anche a tutti i detenuti che non si piegano alle proprie condizioni di oppressione carceraria.
Allargare la solidarietà con intelligenza, cercare di portare un linguaggio in città che possa arrivare a chi ci vuole ascoltare e assumersi di essere “socialmente pericolosi” perché la libertà è la tensione che sta tra pensiero e azione.
Tutto questo mi sembra urgente e assolutamente indispensabile da affrontare.

13 aprile 2015, da informa-azione.info


milano, 31 marzo: sul processo ex-cuem in aula bunker
Ci troviamo in una cinquantina, fuori dall’aula bunker di Ponte Lambro per il processo per la resistenza allo sgombero dello spazio ex-Cuem, Università statale (occupato nell’aprile 2012, sgomberato nel maggio 2013).
Si è comunque riusciti ad essere presenti, a prenderci un pezzo di ingresso e di strada, importante per comunicare anche se indirettamente con i compagni in aula; a far sentire a Graziano, in viaggio da Ferrara, chiuso nel furgone-cella il nostro saluto, a costringere il tribunale a pronunciarsi contro la nostra presenza in aula, perché contraria alle “ragioni dello stato”. “Per la serenità della corte il processo prosegue qui e a porte chiuse”, questa infine la loro decisione.
In una cinquantina ci troviamo sbarrati da diverse decine di poliziotti nei pressi dell’aula bunker; le poche persone del quartiere che passano ci vedono, chiedono della presenza, leggono il volantino, capiscono, alcune anche si fermano.
I compagni dentro riescono ad ottenere di avvicinarsi, uno per volta, a Graziano chiuso in una gabbia; sta bene, saluta tutte, tutti; intervengono, escono per prendere una boccata d’aria, per tenerci informati.
Il clima che si è formato dentro ostacola ogni possibile difesa, schiacciata com’è dalla prepotenza di pm, corte e codazzo di sbirri.
La chiusura dell’udienza, in cui sono stati ascoltati quasi tutti i testi arriva intorno alle 14. Riusciamo a salutare, come in entrata, Graziano.
L’udienza conclusiva è stata fissata per il 30 aprile. Ci diciamo di ritrovarci, così sarà; consapevoli tuttavia di dover essere presenti, prima, il 23 aprile, al tribunale di Torino dove è previsto l’inizio del processo a Lucio, Francesco e Graziano per il sabotaggio in Clarea avvenuto nel maggio 2013.

Milano, 1 aprile 2015

***
milano: inizia il processo per "rissa" alla statale
Nell’assordante silenzio mediatico è iniziato il processo per la presunta rissa alla Statale avvenuta nel contesto di una festa all’università Statale di Milano a metà febbraio del 2013. I due imputati hanno sempre respinto le accuse senza alcun tipo di vittimismo e nel rispetto di realtà varie quindi compagni-e e “situazioni” organizzatrici della festa organizzata in Statale indirizzata giustamente alla raccolta fondi per spazi sociali, casse di solidarietà Notav ecc. Sei mesi dopo il litigio avvenuto alla festa di autofinanziamento avvengono i due arresti.
L'ordinanza di custodia cautelare che legittima le carcerazioni preventive è “curata” da agenti e reparti Ros che hanno “creato” l'indagine in maniera particolarmente anomala e ambigua. Infatti è sostenuta da dubbi e contraddittori riconoscimenti spacciati per “genuini” ed è ricca di descrizioni (del tutto simili a quella di tg e giornali) che dipingono i due come persone vigliacche e violente, perdigiorno nullafacenti e tante altre falsità, nel tentativo di attaccare anche le mobilitazioni e le lotte in generale a cui i due compagni hanno dato il loro contributo.
Il 18 marzo 2015 dopo ennesimi rinvii si è aperto il dibattimento, segue il resoconto dell’udienza.

Entrando nel vivo del processo, la commissione giudicante ha preferito addentrarsi immediatamente nei fatti vivi di quella serata, cercando di iniziare a capirci qualcosa partendo dalle testimonianze dei carabinieri intervenuti quella sera.
Sono stati sentiti 3 carabinieri per il momento (di cui uno soltanto intervenuto quella sera, gli altri due provenienti dal Nucleo Informativo dei Carabinieri – alias ROS – il reparto che ha condotto le indagini).
Il primo agente racconta di aver visto, due ragazzi discutere animatamente (gesticolando), quindi chiede cosa sia successo (poiché chiamati parecchio tempo prima per via di una rissa) e procede così all'identificazione di due persone. Uno è un imputatoto (Lollo), che dalle dichiarazioni dello stesso agente, tutto sembra fuorchè aver appena massacrato di botte una persona. A suo dire, appare perfettamente lucido e corretto nel dialogo. L'altro soggetto, che diventerà poi il testimone chiave dell'accusa (ritrattando poi una parte della testimonianza), dopo essere stato identificato a voce viene lasciato allontanarsi.
Il secondo agente è uno dei reparti speciali Nucleo informativo che contribuisce alle indagini fino agli arresti del 3-4/09/2013.
Questa è stata la testimonianza più lunga perché ricca di contraddizioni, evidenziate dalle difese ed esposte qui di seguito:
1. la presunta vittima non è mai stata sottoposta a riconoscimento fotografico dei suoi presunti aggressori;
2. il testimone chiave d'accusa (la stessa persona che viene identificata quella sera) è sottoposto a visione di album fotografici mesi dopo e che contengono foto di diversi compagni in contesti di militanza (come dichiarato dagli agenti stessi), quali presidi, manifestazioni ecc;
3. con tono estremamente basso e titubante dice “…attraverso le foto si è potuto appurare che le persone coinvolte erano...” e dice i cognomi.
Gli viene chiesto di spiegare meglio le modalità attraverso le quali vengono sentite a sommarie informazioni alcuni soggetti invece che altri. Emerge che i fatti risalgono al 14 febbraio e la “vittima” si fa refertare - a Varese - in ospedale e denuncia solo il 27 febbraio.
Viene posta una domanda sul teste chiave, riguardo la sua anomala identificazione e quindi sulle modalità di identificazione dei presunti responsabili. L'agente a questo punto entra in confusione. Prima gli viene chiesto come mai tale testimone sia stato verbalizzato come “NOTO A QUESTO UFFICIO” e non sa rispondere. Allora gli si domanda come sia stato identificato nel momento in cui venne sentito a sommarie informazioni (dichiarazioni fondamentali per gli arresti che avverranno mesi dopo!). Suppone “attraverso un documento personale”. Le difese perentoriamente dicono “No, ricorda male! Non c'è lo aveva!”. Alla fine, con pacifico imbarazzo, è costretto a dichiarare che il giorno in cui il soggetto in questione venne sentito non era presente (“scaricando il barile”) e che sapranno rispondere meglio altri agenti. Le difese sottolineano che né durante l'intervento della pattuglia né mentre rilascia pesanti accuse contro altre persone, questo soggetto si fa identificare!
A questo punto il PM entra “nel pallone” e cerca scuse per non andare avanti nella discussione. Si contraddice diverse volte volte in pochi secondi e nasce un battibecco ma l'udienza va avanti. Nel forte imbarazzo entra l'ultimo agente.
Il terzo teste è un altro carabiniere del Nucleo informativo al quale viene posta la domanda alla quale il precedente non aveva saputo rispondere andando nel pallone. Il brigadiere dichiara di aver proceduto all'identificazione del teste chiave d'accusa il giorno in cui gli ha notificato la convocazione (aprile, 2 mesi dopo i fatti e mesi prima degli arresti) a casa sua e per questo non c'è stato bisogno di identificarlo più volte.
Nonostante questo punto sia stato in qualche modo chiarito, ci appare particolarmente ambiguo, poiché ad ogni interrogatorio, i carabinieri hanno sempre richiesto le generalità, delle persone sentite.
Ci si concentra sugli album fotografici e gli si chiede se le foto dei presunti aggressori fossero presenti in tutti gli album mostrati.
Con assoluta sicurezza dice si. Gli viene posto in visione un album in particolare (di cui è chiesta con successo l'acquisizione). Sfogliando ripetutamente l'album dichiara che l'accusato principale (su cui pende una richiesta di risarcimento danni dalla parte civile di 100mila euro) non è presente!
Questa la sintesi di un'udienza durata circa tre ore.
Per chi volesse partecipare, solidarizzare qui sotto il calendario delle prossime udienze.
Aula 8 presso VIII sezione penale del tribunale di Milano:
16 aprile h 9:30. Saranno presenti la “vittima”, il teste chiave di accusa e altri;
6 maggio fine testi e PM; 20 maggio esame imputati + testimonianze difesa + perito parte civile; 10 giugno inizio discussioni; 17 giugno probabile sentenza.

Milano, 6 aprile 2015


Il movimento No Tav (r)esiste!
L’11 aprile si è svolto il consueto aperitivo No Tav ai cancelli della centrale di Chiomonte. Ad attendere i manifestanti la celere schierata fuori dal cancello e lungo Via dell’Avanà e funzionari della Questura che da subito hanno mostrato un atteggiamento aggressivo.
Nonostante l’invadente presenza, ci si è organizzati per l’aperitivo difendendo in certi momenti coi propri corpi lo spazio fisico che la polizia avrebbe voluto negare.
Mentre un gruppo di No Tav è riuscito ad aggirare il cordone di celere lungo Via dell’Avanà per la consueta partita a bocce quadre, si sono continuati i blocchi dei mezzi nonostante il continuo intervento degli uomini in divisa.
Verso le 21.30, a conclusione dell’iniziativa, c’è stata una vera e propria aggressione da parte della polizia che dapprima ha spostato di peso e in malomodo alcuni manifestanti che si erano seduti a terra, intervenendo in un secondo tempo con una carica corredata di manganellate sugli altri presenti che erano accorsi in aiuto ai ragazzi per terra. Nonostante le manganellate e le scudate, i No Tav non si sono però fatti intimidire, guadagnando metro su metro, spingendo sugli scudi fino a far rientrare  la celere all’interno dei cancelli della centrale. Inutile l’intervento dei funzionari della questura che dopo aver ordinato il primo intervento non sono più riusciti a “contenere” i loro in assetto antisommossa.
E’ evidente come la presenza sempre maggiore ai cancelli della Centrale inizi ad infastidire non poco coloro che dovrebbero garantire il passaggio dei mezzi di operai e di quelli delle forze dell’ordine. Per quanto ci riguarda, la violenza subita ieri sarà un motivo in più per tornare, ancora più numerosi e determinati.
Questo episodio ha indotto gli sbirri a deviare il traffico in entrata e uscita al cantiere da via dell’Avanà all’autostrada (dotata di ingresso ed uscita esclusiva), così la sera del 17 aprile attorno al cantiere della Maddalena, i No Tav accorsi numerosi all’appuntamento hanno dato vita a diverse azioni di disturbo all’interno del cantiere.
Alla centrale si son impegnati in una lunga battitura e allo stesso tempo dai sentieri sono stati lanciati numerosi fuochi d’artificio. In chiusura altri fuochi sono stati lanciati dal ponte adiacente ai cancelli. Tutto ciò nonostante il lancio di acqua sui manifestanti per mezzo dell’idrante mobile e lo schieramento della celere.
Sui giornali dell’indomani viene scritto che diversi auto e blindo di militari e polizia sarebbero stati bucati da chiodi a quattro punte. Alla prossima!

***
Ma quale pacificazione, arrendetevi e portate via le vostre cose!
Operazione “Facia ‘d tola” è questa la nuova operazione messa in campo dalla Telt, la società privata che sostituisce Ltf nella gestione della Torino Lione, con l’onnipresente Mario Virano nel ruolo di direttore generale.
Ieri il nuovo organismo si è riunito per la prima volta e cosa ha prodotto come documento ufficiale? Una proposta di pacificazione con il movimento notav ben dettagliata in un documento, che propone, dopo la resa del movimento, di rivedere le richieste di risarcimento comminate ai notav con i processi, ovvero “una revisione delle iniziative giudiziarie intraprese da LTF, per la tutela dei suoi interessi, dei suoi diritti e del personale coinvolto, e, da parte delle Autorità, della presenza delle forze dell’ordine a presidio del cantiere”. 
Il documento entra ancora nel merito della proposta di pace: “Riconoscimento del dissenso e della piena legittimità purché espresso nella legalità” e “una nuova fase di condivisione delle ricadute occupazionali possibili e dello sviluppo dei territori attraverso la realizzazione dell’opera”.
Si perché il sistema tav ha il coraggio di imputare ai notav persino i costi (ben gonfiati) della “sicurezza” del cantiere (su questo si veda il dossier Nel cantiere di Virano).
Su questo possiamo subito sgombrare il campo, quel cantiere si è insediato con la forza, senza nessun consenso, è nato in quell’area proprio perchè difendibile, oggi è un sito d’interesse strategico e se non ci fosse non ci sarebbe motivo di spesa.
Ma la “Facia ‘d tola” che in questo caso sarebbe più paragonabile al lato B del corpo umano, raggiunge i livelli più alti quando solo ieri un bel pezzo del sistema Tav è caduto sotto i colpi della magistratura, che in piccolo ha svelato come funziona il sistema della grandi opere diretto da diversi soggetti tra cui Incalza (al quale nel 2013 scrisse Ltf per avere 21 milioni di euro per la sicurezza).
Fa strano quindi leggere una fantomatica proposta di pacificazione da parte di Telt se i notav sono come li dipinge Virano in conferenza stampa: sconfitti, abbacchiati, prossimi alla pensione visto che ormai è tutto deciso e quasi realizzato. Balle, le solite balle e raccontate pure male. Non si capirebbe allora perché hanno deciso di non aprire i cantieri a Susa per la stazione internazionale, e fare tutti i lavori dal cantiere della Maddalena, scavando in discesa per poi uscire tra non si sa bene quanti anni a Susa.
Non ci può essere nessuna pacificazione con chi sta distruggendo un territorio e saccheggiando le casse pubbliche in nome di non si sa quale credibilità. Forse quella che rimane dopo gli scandali quotidiani?
La verità è che il terreno frana sotto i piedi, e la paura fa novanta. Siete impresentabili anche se vi vestite bene: il finanziamento europeo non è certo, i costi dell’opera sono previsioni di un veggente, l’utilità di una nuova linea ferroviaria, se mai esistita, sta scomparendo con la crisi.
Un metro di Tav costa 158.712 euro sottratti a qualcosa di sicuramente più utile per tutti e il costo della corruzione e dei privilegi che il sistema tav si ritaglia per se e per i propri amici è sempre più impresentabile (tipo 9.000 euro al mese per spiare i siti notav).
Dopo aver imbastito, a braccetto con la magistratura (che si sta dimostrando quello che è visto che a Torino il problema sono solo i notav mentre appena qualcuno indaga sulle grandi opere scopre la melma), processi, condanne e richieste di risarcimento non ci avete sconfitto ed oggi ci proponete uno sconto. Vergognatevi e sappiate che vi presenteremo il conto un giorno.
La proposta ve la facciamo noi: arrendetevi e vi lasciamo portare via le vostre cose.

aprile 2015, liberamente tratto da notav.info

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Lucio, Francesco e Graziano a processo
Il 23 aprile è iniziato il processo contro Lucio, Francesco e Graziano, in carcere dallo scorso 11 luglio perché accusati del sabotaggio contro il cantiere di Chiomonte del maggio 2013. Dall’udienza a porte chiuse si viene a sapere che i tre compagni sono stati trasferiti dal carcere di Ferrara a quello delle Vallette già da qualche giorno. Rinchiusi in un reparto destinato ai detenuti sotto protezione e autorizzati ad andare all’aria solo tra di loro, per evitare che possano incontrare altri prigionieri, i tre hanno passato le prime due notti privi persino dei materassi, consegnati loro solo il terzo giorno.
L’udienza non dura a lungo, il giudice accetta la costituzione di Ltf come parte civile e fissa il calendario delle prossime udienze, due in tutto, visto il rito abbreviato scelto dai tre compagni.
Il 12 maggio ci sarà dunque la requisitoria dei Pm e l’arringa degli avvocati e il 27 maggio verrà invece letta la sentenza. Prima che l’udienza termini prendono la parola Lucio e Francesco e dichiarano che c’erano anche loro, quella notte di maggio, a sabotare il cantiere del Tav.
I solidali radunatisi nel frattempo fuori dal Tribunale decidono di muoversi in corteo verso il vicino quartiere di San Paolo per ribadire le ragioni della lotta contro il Tav e ricordare come il sabotaggio accompagni da sempre gli sfruttati che lottano, sia lungo i sentieri di montagna che nelle strade delle città.

Il nuovo indirizzo per scrivere ai tre compagni è:
Lucio Alberti, Graziano Mazzarelli e Francesco Sala
C.C. “Lorusso e Cotugno” via Maria Adelaide Aglietta, 35 - 10151 Torino

24 aprile 2015, da autistici.org/macerie
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lettera dalle vallette
Ciao a tutti da ieri ci troviamo al carcere delle Vallette. Siamo partiti da Ferrara alle 9.00 e dopo 5 ore siamo arrivati a Torino. La trafila usuale di arrivo al nuovo carcere tra matricola, visita medica e casellario, è durata fino alle 18.30. Nessuno in quelle ore ci ha informati su quale tipo di sezione ci avrebbe "ospitato". Saliti al blocco "C", 6^sezione, abbiamo scoperto una volta chiusi di trovarci nella sezione protetta, in tre celle attigue. Alle nostre immediate proteste per il contesto e la separazione ci è stato risposto che trattandosi di un trasferimento giudiziario temporaneo non ci sarebbero stati cambiamenti. Nonostante "l'impossibilità" di cambiare sezione, abbiamo intrapreso una lunga battitura che ha richiamato l'ispettore e gli agenti. Gli abbiamo fatto notare la totale inadeguatezza delle celle in quanto prive di cuscini, un materasso, una tv, senza alcuno strumento di pulizia e versanti in pessimo stato (perdite d'acqua, vetri rotti...). L'ufficiale ci ha risposto "state fin troppo bene". Abbiamo ritenuto tali condizioni e atteggiamenti inaccettabili e abbiamo risposto lanciando in corridoio bombolette di gas (vuote), condite con frutta marcia trovata in cella, che le guardie cercavano dal cancello di rispedirci a calci. Il tutto di nuovo accompagnato da battitura. Dopo qualche ora, in tarda serata, è terminata la latitanza del personale e così abbiamo ottenuto almeno il materasso per Graziano. Stamattina sono arrivati i cuscini e presto troveremo il modo di avere tutto il necessario. Le due ora d'aria le facciamo insieme e radio Blackout ci tiene compagnia! Alla prossima! Graziano, Lucio, Francesco.

Torino Vallette, 21 aprile 2015


milano: Soy Mendel è tornato!
“Di Baggio siamo e a Baggio restiamo". Così vi avevamo lasciati circa un mese fa quando hanno cercato di distruggere ciò che con molta fatica stavamo costruendo e in qualche modo restituendo al nostro quartiere: uno spazio sociale, culturale e di aggregazione aperto a tutti.
Con questa frase si apriva il corteo che dopo lo sgombero ha attraversato le strade di Baggio. Dietro a questo erano presenti tante persone che frequentando Soy Mendel si sono sentiti parte di un progetto che in poco tempo aveva conquistato tanti. Uno spazio sociale dedicato ad un quartiere, il nostro, ormai abbandonato a se stesso come molti altri.
Non sono riusciti a fermarci o peggio ancora a distruggerci. L'abbiamo gridato con orgoglio attraverso il megafono che apriva la manifestazione e in questo mese pensiamo di averlo dimostrato a tutti. La condivisione di esperienze e il senso di appartenenza che si costruisce all'interno di realtà autogestite come Soy Mendel non possono essere cancellati da un singolo e infame episodio di inutile repressione fine a se stesso.
Questo perché le idee, i sogni, i progetti e le lotte non si possono sgomberare con qualche camionetta, con un centinaio di schiavi in divisa o con un martello pronto a rompere ciò che si era costruito. S.O.Y. Mendel, da quel giorno, si è compattato e ha continuato a vivere nei parchi e nelle strade del quartiere.
Non avevamo più il nostro spazio, ma la voglia di stare insieme ci ha portato a rafforzare le iniziative e i progetti che nelle strade ci ha­nno visto crescere. Ci è stato utile per consolidare i legami che si stavano pian piano costruendo con le altre associazioni di Baggio che, come noi, cercano di portare avanti dei valori fondamentali che le istituzioni sembrano aver dimenticato. Ci hanno tolto uno spazio pieno e vivo, ma sopravviviamo anche senza un tetto sopra di noi. Questo abbiamo fatto a partire dal 4 marzo scorso.
Una brutta giornata, che sicuramente non abbiamo dimenticato, ma che ci ha dato la forza per continuare con più determinazione e compatezza di prima.
Oggi pomeriggio abbiamo occupato a Baggio in via Gervasini 7 uno stabile di proprietà MM. Siamo sicuri che questo spazio potrà avere grosse possibilità e potrà diventare una bella risorsa e opportunità per tutto il quartiere.
Occupiamo una proprietà Ex Aler ora passato a Metropolitana Milanese perché vogliamo denunciare la gestione da parte di questa azienda del patrimonio di strutture pubbliche a sua disposizione, che in tutti questi anni non ha fatto altro che mal gestire, chiudendo le liste di assegnazione degli appartamenti, sgomberando famiglie in difficoltà, lasciando centinaia di case vuote e spingendo verso la privatizzazione del mercato immobiliare e la speculazione edilizia.
Torniamo perché vogliamo portare avanti progetti e iniziative che nascano dal basso, dalla semplice necessità di conoscersi, che siano proposte e aperte ai cittadini, in cui la cultura e l’aggregazione possano essere davvero accessibili a tutti.
Vogliamo continuare ad essere un valore aggiunto per Baggio, un luogo in cui la socialità passi attraverso la condivisione e la partecipazione, cercando di rispondere alle reali esigenze di chi abita questo quartiere e lottando contro chi, avido dei suoi poteri, continua a speculare alla spalle degli abitanti ignorando le loro vere esigenze.
Lo scorso 4 Ottobre abbiamo iniziato un progetto in cui credevamo e che pian piano ci ha reso tutti un unico grande gruppo. Eravamo singoli con tante belle idee e determinazione. Ora siamo il collettivo Soy Mendel!
Siamo in ballo, siamo in ballo adesso. Non spegni il sole se gli spari addosso.

Le compagne ed i compagni del S.O.Y Mendel
3 aprile 2015, da milanox.eu


Padova, grave attacco contro il movimento di lotta per la casa
Questa mattina, sabato 4 aprile, a Padova una settantina di persone, tra cui diverse famiglie di immigrati con figli e alcuni compagni, hanno provato ad occupare una palazzina a scopo abitativo in zona di Via Cave. La risposta è stata immediata ed è passata direttamente dalla questura con l’invio di ingenti forze, camionette e macchine della polizia, i numerosi agenti non hanno esitato ad aggredire fisicamente gli occupanti ancora prima che scendessero dalle rispettive macchine.
E’ cominciata una caccia all’uomo per le vie del quartiere, alcuni compagni sono stati malmenati, una donna incinta è stata fatta cadere atterra, altre compagne sono state fatte cadere e manganellate a terra, mentre alcuni abitanti delle case che si erano affacciati alle finestre urlavano contro la violenza della polizia e in solidarietà ai compagni.
Di fronte al manifestarsi della solidarietà la reazione della polizia è stata di intimidire gli abitanti stessi salendo perfino nelle case di chi si era affacciato alla finestra. Alcuni compagni sono stati portati in questura insieme ad alcuni immigrati. Un compagno immigrato è stato ricoverato in ospedale per le manganellate prese alla testa e un compagno è stato denunciato per resistenza a pubblico ufficiale.
Fuori dalla questura c’erano una trentina di compagni e quando anche l’ultimo dei trattenuti è uscito un corteo spontaneo è partito in direzione della Mensa Marzolo Occupata.
A Padova, come in tante altre città italiane, il problema della casa è serio e grave. Il lavoro scarseggia giorno dopo giorno, la precarietà dilaga tra giovani, meno giovani, per non parlare della condizione degli immigrati, l’affitto di abitazioni private è una spesa inaccessibile per la maggior parte delle persone e il patrimonio di case pubbliche viene svenduto, ristrutturato per poi essere rivenduto a privati.
Di fronte ad una necessità oggettiva, come quella di poter avere una casa e di poter avere il diritto di vivere dignitosamente l’unica risposta della giunta è quella della repressione, in linea coerente con le politiche del governo che mentre vara decreti quali il piano casa, il Jobs Act e l’ultimo decreto antiterrorismo, contemporaneamente si macchia le mani del sangue di chi lotta e scende in piazza a manifestare.
La lotta non si arresta! Diamo tutta la nostra solidarietà ai compagni e alle famiglie di occupanti! La casa è un diritto, l’affitto una rapina!
5 aprile 2015
Comitato Lotta Casa Padova, mensa Marzolo Occupata, Info Spazio Chinatown


Bologna: crolla un pezzo di articolo 5!
Con un’ordinanza il comune di Bologna ha imposto il riallaccio immediato dell’acqua all’occupazione abitativa di via Mario de Maria. Quasi un anno fa il proprietario avvalendosi dell’articolo 5 del Piano Casa dell’ex ministro Lupi era riuscito a far smantellare le condutture idriche e a privare dell’acqua circa 60 persone tra cui minorenni, neonati e disabili. Da quel momento le iniziative di lotta contro l’articolo 5 si sono succedute con grande intensità tra nuove occupazioni abitative, presidi, campagne di sensibilizzazione, e occupazioni degli uffici competenti dell’amministrazione e dell’azienda erogatrice dei servizi.
Le Marce della Periferia e della Dignità, e non ultima la Prima Assemblea Popolare per il Diritto alla Casa di domenica scorsa, hanno prodotto effetti importanti che stanno dando nuova forza alla battaglia del Comitato Inquilini Resistenti contro gli sfratti e le istanze sollevate dalle occupazioni abitative.
L’ordinanza di oggi è una conquista collettiva importante, risultato delle mobilitazioni che hanno coinvolto negli ultimi mesi migliaia di occupanti, inquilini in lotta e tantissimi solidali. Nei fatti è il primo atto di un ente locale dal giorno dell’attuazione del Piano Casa che va in esplicita controtendenza con l’articolo 5, riconoscendo il problema socio-sanitario provocato da quello scellerato decreto che toglie il diritto all’acqua e alla residenza alle persone costrette ad occupare per necessità.
Nel contesto della lunga e determinata campagna di lotta contro il Piano Casa promossa dalla rete nazionale Abitare nella Crisi portiamo questo contributo nella direzione dell’abolizione immediata dell’articolo 5 e di tutto il Piano Casa.
Rilanciamo con ostinata determinazione la volontà di smantellare pezzo per pezzo l’articolo 5 nella nostra città dove ha già causato grandi sofferenze a centinaia di persone che per conquistare il proprio diritto ad un tetto hanno occupato edifici non utilizzati e sfitti da anni. Ricordiamo alla città che la privazione di residenza vuol dire espulsione da welfare e diritti considerati inalienabili quali il diritto alla salute, all’infanzia, all’istruzione e alla maternità e rendono impossibile il rinnovo del permesso di soggiorno e difficilissimo l’impiego lavorativo. Ci impegniamo quindi ad aumentare le iniziative di lotta forti di piccole e grandi vittorie che sfrattati ed occupanti stanno conquistando insieme grazie alle decine e decine di picchetti anti-sfratto, marce, occupazioni di piazze e di strade, e assemblee.
Vogliamo rilanciare pubblicamente la promessa dell’abolizione dell’articolo 5 dicendo chiaramente che siamo determinati a mantenerla costi quel che costi!
Abolire l’articolo 5! Difendere tutte le occupazioni abitative! Resistere ad ogni sfratto!

Assemblea Occupanti e Comitato Inquilini Resistenti con Social Log
27 aprile 2015, da infoaut.org


milano: perquisizioni e sgomberi in giambellino
Martedì e mercoledì mattina sono stati sgomberati sette appartamenti e la Base di Solidarietà Popolare, punto di riferimento per la comunità di questo quartiere. In essa si svolgevano varie attività, tra cui le riunioni del Comitato Abitanti, il doposcuola per i bambini, la ridistribuzione di cibo, cene, pranzi, feste e numerosi altri momenti di organizzazione e di condivisione fra abitanti del quartiere.
Il pretesto è un’operazione di “monitoraggio e azione preventiva in vista del corteo del Primo Maggio”. Ufficialmente le case e la Base sono state perquisite alla ricerca di “armi, munizioni o materiali esplodenti”. Ovviamente niente di tutto ciò è stato trovato e la polizia ha dovuto inventarsi delle armi immaginarie. Così una tanica per trasportare benzina trovata all’interno di una macchina – oggetto ordinariamente presente in un qualsiasi veicolo – abbinata a delle bottiglie di succhi di frutta – ancora piene e sigillate – diventa “un kit per fabbricare molotov”! Caschi, attrezzi da giardinaggio, guanti, giubbotti sono cose che si trovano in ogni casa. Solo la fantasia di una polizia impegnata a costruire dei mostri ci può vedere delle “armi atte ad offendere”. Per quanto riguarda le maschere antigas, chiunque abbia partecipato ad una manifestazione in Italia in questi ultimi anni sa benissimo che le forze dell’ordine fanno un uso indiscriminato e sistematico di gas lacrimogeni pericolosi per la salute. Cosa c’è di così strano nel voler partecipare a un corteo senza venire intossicato?
Diverse persone che stavano dormendo in quelle case sono state portate in questura, la polizia ha provato ad allontanare dall’Italia quelli che venivano da altri paesi e un ragazzo – il proprietario della macchina in questione – è stato addirittura arrestato. Ovviamente i giudici non hanno accettato la richiesta di espulsione, per il semplice motivo che nessuno dei fermati aveva compiuto un reato o portava con se alcuna di queste cosiddette “armi”. Tutto ciò che si è potuto leggere sui giornali è pura manipolazione dei fatti funzionale alla costruzione, ancora una volta, di un clima di tensione e di paura alla vigilia del grande corteo del Primo Maggio.
Quelle persone venute da altri paesi erano arrivati in questi giorni in Giambellino per conoscere la realtà del quartiere, raccontare le proprie esperienze di lotta, rafforzare i legami internazionali fra territori resistenti. Presentarli come dei pericolosissimi eversivi serve solo a nascondere la bellissima realtà della solidarietà internazionale che si manifesterà durante le Cinque Giornate attorno al corteo contro l’inaugurazione di Expo 2015, con la presenza di delegazioni di vari paesi europei.
Oltre alle perquisizioni e ai fermi, sono anche stati effettuati degli sgomberi. Una delle attività del Comitato Abitanti è la difesa delle case occupate e di quelle sotto sfratto. Gli appartamenti sgomberati facevano parte delle 9000 case popolari riscaldate e lasciate vuote da anni da ALER e MM. È palese che la funzione di queste due aziende non è la risoluzione dell’emergenza abitativa ma la svendita del patrimonio immobiliare in chiave speculativa e di risanamento del debito accumulato in anni di gestione mafiosa.
L’occupazione delle case sfitte è non solo un gesto legittimo per rispondere ad un bisogno immediato ma anche un atto di resistenza e di costruzione di un altro approccio alla questione dell’abitare. Ogni casa occupata è una risorsa in più, un pezzo di quartiere strappato al privato e restituito all’uso comune. Questa pratica, insieme a tutte le altre attività del Comitato Abitanti, si colloca all’interno di una lotta contro la cosiddetta “riqualificazione” del quartiere, che consiste nell’abbattere le case, mandare via gli abitanti – occupanti come assegnatari – e svendere i terreni ai colossi dell’immobiliare.
Lo scopo di tutta questa operazione è di spaventare il quartiere. Più numerosi e gioiosi saremo al corteo del Primo Maggio, più dimostreremo che tutti uniti non abbiamo paura.
È stata aperta una nuova Base in via Manzano, dove nei prossimi giorni si svolgeranno le riunioni del Comitato. Passate a trovarci lì o nelle strade del quartiere. [...]

30 aprile 2015
Comitato Abitanti Giambellino-Lorenteggio

Al corteo del 28 sera, indetto in P.za Tirana, si sono trovati un centinaio di compagni. Una volta partiti lungole strade del Giambellino, il corteo, si è arricchito della presenza di molti abitanti del quartiere, raddoppiando i numeri iniziali, e tra slogan e interventi al microfono ha sostenuto la giustezza delle occupazioni e della lotta per la casa. Nonostante la presenza massiccia di polizia e carabinbieri, alla fine del corteo è stato rioccupato uno spazio chiuso da anni.


Operazione di polizia a Torino: 12 persone coinvolte
Si avvicina il 1° Maggio
Venerdì 24 aprile, un’operazione di polizia ha coinvolto diversi compagni torinesi. Dodici persone coinvolte, diverse perquisizioni, due misure cautelari ai domiciliari, quattro obblighi di dimora (al momento questo sembra il computo, eventuali aggiornamenti seguiranno). L'operazione riguarda due episodi differenti; per la maggior parte delle persone coinvolte, esponenti del csoa Askatasuna e del Collettivo Universitario Autonomo, si tratta della contestazione al vertice europeo dei ministri del lavoro.
Per tre No Tav tra Torino e Valle di Susa, invece, si tratta dell'episodio legato al corteo di solidarietà con i NoTav condannati al maxiprocesso lo scorso gennaio.
Evidente il tempismo con cui la Questura di Torino decide di intervenire su molti militanti attivi nelle lotte sociali una settimana prima del corteo No Expo di Milano. Nelle settimane scorse i media hanno provato in ogni modo ad alzare la tensione sul primo Maggio No Expo, ora questa operazione si aggiunge al tentativo di depotenziare il percorso di contestazione (si veda analogamente le motivazioni dei recenti arresti di Cremona). È evidente che in certi ambiti istituzionali siano preoccupati che qualcuno possa rovinare la festa a Renzi ed al suo governo dell'immagine. D'altronde il rischio per loro è che una piazza No Expo determinata possa svelare una contrapposizione diffusa al modello di sfruttamento e rapina delle risorse collettivamente prodotte che l'Expo rappresenta.
Da un altro punto di vista (quello più locale), questa operazione più che “ad orologeria”, può essere definita a comando! Giusto ieri senatore Stefano Esposito chiedeva ai sindacati di proteggere lo spezzone del PD al Primo Maggio torinese. Negli anni il partito espressione del potere economico cittadino ha subito molteplici e dure contestazioni per il suo ruolo nelle politiche di impoverimento e di precarizzazione del paese e della città. Forse che il regalo della Questura fosse inteso a far dormire sonni più tranquilli al povero senatore? A Torino e a Milano: ci vediamo il Primo Maggio in piazza!

24 aprile 2015, da infoaut.org
Aggiornamenti dalle LOtte nella logistica
Giovedì 26 marzo, dalle prime ore del mattino, sciopero e picchetto alla Rhiag (Milano) e alla Mirror di Ferrara, due posti di lavoro dove fascisti da una parte, nella veste di caporali e sostenitori dell'UGL, e padrone leghista, sostenuto dai politici del suo partito, da celerini e fascisti stanno a guardia del potere per disporre della vita della forza lavoro come gli pare e piace: oggi ti sfrutto e domani ti licenzio e se non accetti tutto questo ti faccio manganellare dai pulotti e ti spedisco al tuo paese.
Alla Rhiag, di fonte allo sciopero, caporali e fascisti hanno aggredito con spranghe e bastoni il picchetto. La risposta dei compagni è stata dura e ha ricacciato questa feccia dietro i cancelli del magazzino. Tra i nostri compagni vi è qualche ferito, uno è al pronto soccorso, ma il picchetto continua e la fila dei camion si allunga.
Alla Mirron il picchetto continua con qualche fastidio da parte delle forze del disordine.

DHL di Carpiano: anche i corrieri entrano in lotta!
L'eco delle conquiste sindacali che, dopo i facchini, cominciano ad attraversare anche la categoria dei corrieri (in particolare alla Tnt e alla Sda di Bergamo e Brescia, ma anche in Brt e Gls) e giunge fino alla DHL.
A nulla sono valsi i tentativi di stroncare sul nascere il Cobas che si stava confermando su scala aziendale, allontanandone i due promotori.
La risposta (unica possibile in realtà) è stata immediata. Il tam-tam fra i cobas della zona (facchini della stessa DHL in primis), con il solito massiccio appoggio dei compagni della Dielle, produce un picchetto di una settantina di operai che bloccano i cancelli dalle 7.
I corrieri della DHL vedono con favore la mobilitazione in favore dei loro due compagni e per la fuoriuscita di tutti dal ricatto di contratti di lavoro precari e sottopagati. Ma allo stesso tempo la solita paura attraversa la maggioranza di loro.
Il picchetto, in ogni caso, permette a tutti di fare i conti con l'esistenza di un sindacato capace di proporre un'alternativa concreta al caporalato, allo sfruttamento, alle divisioni, e nessuno di loro tenta in alcun modo di forzare il blocco.
Dopo 5 ore di braccio di ferro l'azienda che ha in mano l'appalto, il consorzio Consea (presieduto dal sindaco di Pieve Fissiraga - Lodi) decide così di scendere a trattativa con il SI.Cobas, decidendo che il reintegro a tempo indeterminato dei due delegati allontanati dal magazzini e l'apertura di una trattativa che porti all'applicazione del CCNL di categoria. Il picchetto, a quel punto si scioglie, nella consapevolezza collettiva di aver ottenuto il risultato più importante: si è vissuto il battesimo di un nuovo Cobas!

Milano, 3 aprile 2015