indice n.97

AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
Roma: Corrispondenza da Tor Sapienza
A proposito dei fascisti a Trento
Bologna scaccia Salvini, la LegaNord e le loro provocazioni
Francia, ZAD: LA POLIZIA HA UCCISO REMÌ
Da una lettera dal carcere di La Spezia
Sentenza Cucchi, lo stato si auto-assolve un'altra volta
Il diritto dei padroni: nessun colpevole per i morti di amianto
carrara: E ADESSO COME LA METTIAMO CON LE CAVE?
Ferguson (USA): scagionato il poliziotto killer, esplode la rabbia
Lettera dal carcere di Vigevano (PV)
bologna, 13 dicembre: Assemblea generale su carcere e dintorni
lettere dal carcere di spoleto (pg)
Due presidi: sotto il D.A.P. a Roma e al carcere di Spoleto (PG)
Lettera dal carcere di Terni
Lettera dal carcere di Nuoro
teramo: Per un'assemblea nazionale contro la repressione
sulla chiusura degli o.p.g.
Da una lettera dal carcere di Cremona
Lettera dal carcere di Lanciano (ch)
proteste al carcere di modena
lettera dal carcere di velletri (rm)
Lettera dal carcere di Rossano (CS)
dai processi contro il movimento no tav
milano: non di sgomberi ma della lotta contro gli sgomberi
TUTELE E DIRITTI: JOBS ACT, FINE PENA MAI?


AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
CIE di Bari
4 novembre. I reclusi avrebbero telefonato all’Ansa per spiegare qual è la situazione all’interno del CIE. Innanzi tutto sarebbero preoccupati per la presenza di tre uomini che dichiarano di essere affetti da tubercolosi, epatite C e polmonite. Inoltre nella struttura c’è la presenza di un uomo che continua a tagliarsi in diverse parti del corpo. “Abbiamo chiamato noi l’ambulanza qualche giorno fa perché era in una pozza di sangue. Ma le uniche cure che riceve sono iniezioni per farlo dormire”, raccontano i reclusi. I quali segnalano l’ampio uso di psicofarmaci che si fa all’interno della struttura. “Qui dentro danno a tutti uno psicofarmaco che si chiama Rivotril (un sedativo). Lo scopo è farci stare rintronati da mattina a sera. In molti lo chiedono continuamente perché non sopportano di stare qui senza motivo”.
13 novembre. Alcuni reclusi si sono feriti le gambe con una lametta per attirare l’attenzione sulla loro condizione. La loro situazione è stata segnalata alla stampa da parte di una delegazione che ha visitato la struttura nell’ambito della campagna LasciateCIEntrare. Secondo la delegazione non è stato rispettato l’ordine perentorio emesso dal tribunale il 9 gennaio scorso, secondo cui entro 90 giorni dovevano essere svolti i lavori necessari e indifferibili per garantire le condizioni minime di rispetto dei diritti umani (c’è chi ancora ci crede!), pena la chiusura del CIE. I reclusi hanno raccontato di non poter scegliere gli avvocati per essere difesi, di mangiare cibo scadente, e di non poter usare gli smartphone per inviare all’esterno le immagini del luogo in cui vivono. Piove dal tetto nelle sale “benessere” e in camera da letto. Nei bagni, docce e vasi alla turca sono riuniti in un unico box senza privacy. I lavandini vengono usati anche come lavatoi per gli indumenti.

Roma, CIE di Ponte Galeria
8 novembre. Presidio davanti al CIE. Per due ore le grida dei reclusi e delle recluse si sono intrecciate con quelle dei/delle solidali nonostante l’ente gestore e le guardie avessero deciso, già dalle prime ore del mattino, d’intralciare la giornata di proteste chiudendo tutte le celle e non permettendo a nessuno d’incontrarsi. Attraverso la comunicazione tra dentro e fuori le mura, veniamo comunque a sapere che, dopo il tentativo di fuga del 5 novembre, almeno 1 degli 11 ragazzi fermati dalle forze dell’ordine ha subito pesanti violenze.
Il presidio si è sciolto con saluti rumorosi e con la scelta di portare i racconti dei reclusi e delle recluse in città. I solidali hanno quindi fatto ritorno ad Ostiense per megafonare e volantinare al mercato tra la stazione e la metro Piramide.
Nel CIE di Ponte Galeria sono attualmente imprigionate circa 120 persone, le deportazioni sono all’ordine del giorno, così come i nuovi ingressi a causa delle continue retate in città. L’ultima retata, di proporzioni agghiaccianti, è quella avvenuta all’Esquilino il 6 novembre. Il quartiere, da più di un mese, è sotto la pressione costante di associazioni, legate ad alcuni gruppi fascisti, che invocano quotidianamente l’azione repressiva delle forze dell’ordine con la retorica della lotta al degrado.
11 novembre. L’esercito ha sventato un tentativo d’evasione dal CIE. Il maltempo aveva provocato un blackout che aveva messo fuori uso sia l’impianto d’illuminazione che i sistemi elettronici di vigilanza. Nell’oscurità più completa, i Dimonios del 152° reggimento sono riusciti ad intercettare alcuni fuggitivi e, “dopo averli resi inoffensivi”, hanno provveduto a consegnarli alle forze dell’ordine. Dal 2008 ad oggi il 152° reggimento partecipa all’operazione “Strade sicure” per il controllo del territorio metropolitano delle città.
13 novembre. a Tor Sapienza, piccolo quartiere della periferia romana, viene allestito un centro “di prima accoglienza” per minori non accompagnati, richiedenti asilo e misure alternative al carcere minorile. Dopo un’assemblea pubblica il centro viene attaccato con bombe carta.Dopo il primo attacco ne segue un altro, più pianificato compiuto da molte persone ed è probabile vi fossero fascisti. L’attacco è stato violento ed effettuato da più lati, i ragazzi del centro hanno barricato le porte e lanciato oggetti dalle finestre per impedire l’accesso. Nei giorni successivi i ragazzi sono stati trasferiti all’Infernetto, altro quartiere abbandonato a se stesso. Lega Nord, Casapound e fascisti di ogni generazione soffiano sul fuoco.

CARA di Bologna
11 novembre. Anche il CIE di Bologna, come quello di Milano, è diventato un Centro di “accoglienza” per richiedenti asilo politico. Nei paraggi del centro sono stati incontrati alcuni “ospiti” che hanno mostrato i documenti a loro rilasciati, che non sono altro che minuscoli fogliettini di carta, infilati in una bustina di plastica con su scritto a pennarello il nome e un numero. A questo si aggiunge un braccialetto colorato di plastica con su scritto a pennarello il numero corrispondente a quello sul tesserino. Con questo genere di documento, l’unico fornito da mesi, ci si possa muovere liberamente risulta davvero impensabile. La nuova struttura fa parte di quelli che vengono definiti “hub”(nodi di smistamento) regionali e interregionali previsti dal Piano nazionale per fronteggiare il “flusso straordinario di cittadini extracomunitari”. Viene gestito in forma transitoria da un consorzio di cooperative sociali, alcune appartenenti a Lega Coop, ma non si sa per quale somma. Ne fanno parte: Lai-momo, Camelot, L’Arcolaio e Mondo Donna (associazione sostenuta dal Rotary), tutti con sede a Bologna e provincia.
I pasti vengono forniti dalla Camst (potente gruppo dell’area ristorazione, da più di 60 anni, con forti legami con enti e servizi pubblici). In questo momento nella struttura ci sono solo uomini, mentre le donne sono state da poco trasferite chissà dove. Le condizioni igieniche variano, non sempre i locali sono puliti. Le barriere del vecchio CIE non sono sparite e restano sbarre e gabbie davanti alle camerate. Vengono dati loro pochi spiccioli e niente biglietti del bus, la struttura è in una zona periferica per lo più strade occupate da capannoni. Alcuni hanno incontrato dei giovanissimi ragazzi ghanesi che dicono di essere in 26 sotto i 18 anni. Le autorità avevano promesso di mandarli a scuola per imparare la lingua, ma nulla è avvenuto. Da due mesi stanno sbattuti sulle panchine di un piccolo parco o di un giardinetto nei dintorni, la loro tristezza è visibile in modo straziante: “se avessi i documenti me ne tornerei da mia madre in Ghana per andare a prenderla e ritentare la fortuna altrove”, ci dice uno di loro. Parlano, come i loro compagni adulti, di essere in attesa di trasferimenti. Trasferimento è la parola che ci ripetono di più senza però poter capire dove e quando. La maggior parte viene dalla Nigeria, dal Ghana, dal Senegal, dal Gambia, dal Sudan, dalla Costa d’Avorio, dal Bangladesh, dall’Eritrea e molti hanno fatto la traversato dalla Libia alla Sicilia. Sono in una situazione di stallo, senza soldi e senza documenti. Dal 3 novembre, è in corso una protesta da parte dei rifugiati di Villa Aldini a Sasso Marconi, gestita anche questa dalla Cooperativa Lai-momo. Fanno un presidio sotto la Prefettura perché, dopo aver ottenuto il permesso umanitario, hanno ricevuto la comunicazione di non avere più l’ospitalità. Stanno quindi per finire in mezzo alla strada.

Milano, ex CIE
29 ottobre. Sono arrivati 64 profughi nella struttura dell’ex CIE, diventato CARA. Sono tutti siriani e 29 sono i bambini. La struttura è gestita dalla francese Gepsa insieme con l’associazione Acuarinto, e impiega alcuni lavoratori che si occupavano del CIE quando era gestito dalla Croce Rossa Italiana. La capienza attuale del centro è di 155 posti, in camere per lo più da quattro letti.

Venezia, Mestre: controlli
9 novembre. La questura di Venezia ha messo in atto una operazione di controllo del territorio nel corso della quale sono state identificate 1.571 persone in sette giorni, 501 erano stranieri. Alcuni sono stati portati al CIE di Trapani, per altri sono stati emessi decreti di espulsione; sette persone arrestate, ma non si sa per quale reato, mentre 67 sono le denunce.

Torino: i rifugiati respingono le provocazioni di Lega e Fratelli d’Italia
18 novembre. Dal marzo 2013 come conseguenza dell’emergenza Nord Africa, le palazzine dell’ex Moi, edifici dell’ex villaggio olimpico, da 7 anni in totale abbandono da parte dell’amministrazione comunale, sono state occupate da centinaia di rifugiati. Alla notizia di un sopralluogo di alcuni consiglieri della Lega Nord e di Fratelli d’Italia, i rifugiati hanno lanciato un appello di mobilitazione per impedire a questi figurati di varcare indisturbati le parte dell’ex Moi. Per motivi di sicurezza il Comune di Torino revoca il sopralluogo, ma Maurizio Marrone di FdI (noto per aver fatto carriera tra le fila dell’associazione universitaria neo-fascista del Fuan...) e alcuni consiglieri leghisti e di Forza Italia hanno deciso comunque di recarsi sul posto “a titolo personale...”.
Un partecipato presidio composto da rifugiati, solidali e abitanti del quartiere si è quindi radunato di fronte alle ex palazzine olimpiche. Tutt’attorno un dispiego spropositato di polizia e agenti della Digos. L’arrivo dei consiglieri è stato accolto da fischi e contestazioni e il presidio gli ha impedito di entrare all’ex Moi. I rifugiati hanno denunciato il chiaro intento provocatorio di Fdi e Leghisti, a caccia di uno scontro a tutti i costi con cui guadagnare un po’ di visibilità mediatica. Gli occupanti hanno avuto dei brevi confronti verbali coi consiglieri ma hanno soprattutto svelato il tentativo di criminalizzare l’occupazione delle palazzine cavalcando i problemi del quartiere Lingotto in cui sorgono. Il vero intento di Marrone e soci non era infatti certo quelli di accertarsi delle condizioni in cui vivono i rifugiati, bensì di cercare una sponda sui disagi della zona, un quartiere periferico abbandonato dalle istituzioni (le palazzine olimpiche lasciate per anni al degrado sono solo un esempio), per poi strombazzare le solite retoriche xenofobe e securitarie, magari cercando un pretesto per cacciare i rifugiati. Non è un caso, infatti, che nel pomeriggio nella vicina piazza Galimberti proprio Fratelli d’Italia avesse convocato un presidio “contro il degrado”, che si è svolto in maniera silenziosa e blindatissima mentre tutt’attorno i rifugiati hanno dato vita a un volantinaggio informativo per spiegare che i problemi della zona non derivano dalla loro presenza all’ex Moi ma i responsabili siedono altrove.

Canale di Sicilia
20 novembre. I migranti, provenienti soprattutto dalle coste del nord Africa verso le coste italiane, sono circa mille e sono stati tutti accalappiati dalla nuova missione Triton (*) principalmente nel Canale di Sicilia.

Grecia, il lager di Amygdaleza
18 novembre. Centinaia di immigrati rinchiusi nel centro di detenzione di Amygdaleza hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni disumane del centro e in particolare per la morte di Mohamed Asfak, un ragazzo di 26 anni proveniente dal Pakistan, avvenuta il 6 novembre. Secondo il gruppo anti-razzista Keerfa il ragazzo sarebbe stato vittima di violenza da parte della polizia a giugno nel centro di detenzione di Corinto; i problemi respiratori dovuti al pestaggio non sono mai stati curati a dovere e il ragazzo sarebbe stato portato all’ospedale in fin di vita quando ormai era troppo tardi. Su questa morte non c’è una versione ufficiale da parte di alcun funzionario del centro nè della polizia. Non è certo la prima volta che nel centro di Amygdaleza ci sono delle proteste (la più violenta nell’estate del 2013 quando furono aumentati i tempi di detenzione da 12 a 18 mesi). Il centro infatti ha una capienza di 1.000 persone ma attualmente si stima siano detenute almeno il doppio delle persone senza considerare la totale mancanza di infrastrutture nel centro stesso; inoltre in seguito alla decisione di intraprendere lo sciopero della fame sembra che la polizia abbia aumentato gli episodi di violenza nei confronti dei detenuti impedendo loro di avere contatti con l’esterno. I campi di internamento etnici vanno chiusi, ovunque essi si trovino.
Solidarietà con i reclusi in lotta ad Amygdaleza

(*) Dopo Mare nostrum arriva Triton, la nuova missione per pattugliare le frontiere che prevede l’impiego di due navi d’altura, due navi di pattuglia costiera, due motovedette, due aerei e un elicottero. L’Italia contribuisce alla flotta con quasi la metà dei mezzi: un aereo, un pattugliatore d’altura e due pattugliatori costieri. Alla missione partecipano: Islanda (con una nave) e Finlandia (un aereo).
Il centro di coordinamento internazionale dell’operazione sarà a Pratica di Mare, a Roma. I mezzi Frontex partiranno da due basi: Lampedusa e Porto Empedocle. Le navi pattuglieranno il canale di Sicilia e il mare davanti alle coste calabresi fino a trenta miglia dal litorale italiano. In caso di interventi di ricerca e soccorso potranno comunque spingersi anche oltre. Il budget di Triton è inferiore a quello di Mare nostrum: Triton costerà tre milioni di euro, contro i 9,5 milioni di euro di Mare nostrum.

Milano, novembre 2014

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modifica legislativa: tempi di permanenza nei cie e altro
Lo scorso 21 ottobre, la Camera ha approvato in via definitiva la legge europea 2013 bis, che contiene una riforma in tema di detenzione amministrativa per gli stranieri irregolari. Con la riforma si passa da un massimo di 18 mesi, introdotto nel 2011, ad un termine improrogabile di 3 mesi, o di 30 giorni quando lo straniero abbia già trascorso almeno 3 mesi in carcere.
Le statistiche da anni mostravano come mediamente il rimpatrio dei detenuti nei CIE o avveniva entro i primi 30-60 giorni, oppure era difficilissimo che avvenisse, essendovi ostacoli (come di frequente la mancata cooperazione al rimpatrio del Paese di origine dello straniero) che assai raramente potevano venire superati nei mesi successivi.
Questa riforma comporta la riduzione del termine massimo da 18 mesi a 3 mesi; l’eliminazione, almeno per le proroghe successiva alla prima, di una durata fissa del trattenimento; l’affidamento alla valutazione del questore e del giudice di pace del tempo che in concreto risulti necessario per l’esecuzione del rimpatrio.
Ancora più significative sono poi le modifiche relative al trattenimento nei CIE di stranieri che abbiano già trascorso dei periodi di detenzione penale in strutture carcerarie. Mentre precedentemente succedeva che una volta scontata in carcere la propria pena, la persona si trovasse poi nuovamente in un CIE per un periodo fino a 18 mesi, adesso tale periodo di “doppia detenzione” non potrà superare i 30 giorni giacché l’autorità amministrativa si deve attivare già durante la detenzione in carcere per rendere effettiva l’espulsione appena terminata l’esecuzione della pena.
Altra modifica è stata attuata nella disciplina della procedura per intimazione, cioè delle situazioni in cui l’espulsione viene eseguita mediante intimazione allo straniero di lasciare lo Stato entro il termine di sette giorni. È stato previsto che l’ordine di allontanamento venga altresì pronunciato quando dalle circostanze concrete non emerga più alcuna prospettiva ragionevole che l’allontanamento possa essere eseguito e che lo straniero possa essere riaccolto dallo Stato di origine o di provenienza; quindi il trattenimento non è più giustificato e la persona interessata è immediatamente rilasciata. Se il trattenimento ha lo scopo dell’esecuzione del rimpatrio, qualora l’espulsione appaia impossibile, immediatamente cessa.
La Commissione propone di coinvolgere il Ministero degli Affari Esteri affinché realizzi “protocolli di collaborazione con le autorità diplomatiche” così da velocizzare la procedura d’identificazione in carcere e nei CIE. Laddove anche le autorità diplomatiche dovessero fallire e non riuscire nel loro lavoro, non resta che favorire la collaborazione diretta del recluso. L’incentivo pensato per spingere chi è senza documenti a rivelare la propria identità, e farsi deportare, è quella di cancellare automaticamente il divieto di reingresso per chi collabora alla propria identificazione. Se ci dai una mano a espellerti, in cambio noi ti consentiamo di riprovare un’altra volta a tornare in Italia: ecco il ricatto per facilitare l’espulsione. Oggi infatti chi viene espulso non può rientrare in Italia per un periodo variabile dai 3 ai 5 anni.
Altra novità riguarda i reati legati alla condizione di irregolarità del soggiorno con sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 103 a euro 309 ai contravventori.
Allo straniero che si è trattenuto nel territorio nazionale oltre i 3 mesi dall’ingresso, il questore intima di recarsi immediatamente, e non oltre i 7 giorni dalla notifica dell’intimazione, nello Stato membro dell’Unione Europea che ha rilasciato il permesso di soggiorno o altra autorizzazione che conferisce il diritto di soggiornare. Nei confronti dello straniero che viola l’intimazione è adottato il provvedimento di espulsione. L’allontanamento è eseguito verso lo Stato membro che ha rilasciato il permesso di soggiorno con destinazione fuori del territorio dell’Unione Europea. È autorizzata la riammissione nel territorio a chi è in possesso del permesso di soggiorno a condizione che non costituisca un pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nei confronti dello straniero sottoposto alle pene della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, in ogni caso è eseguita l’espulsione e i giorni residui di permanenza domiciliare o di lavoro di pubblica utilità non eseguiti si convertono nella corrispondente pena pecuniaria. La riforma ha in particolare interessato la materia del rimpatrio dello straniero irregolare verso o da altro Paese membro di provenienza, e quella della durata del divieto di reingresso in caso di espulsione applicata come sanzione sostitutiva per i reati di competenza del giudice di pace (divieto di reingresso da tre a cinque anni) o del giudice ordinario (divieto non inferiore a cinque anni).
Questa nuova riforma ha rafforzato la grande macchina delle espulsioni.

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Processo Nottetempo: Sentenza Corte di Cassazione
Il 14 novembre 2014 i giudici della V sezione della Corte di Cassazione hanno annullato, con rinvio alla Corte d’Appello di Taranto (per competenza territoriale), la condanna per associazione sovversiva a carico di 12 anarchici leccesi inquisiti nel 2005 nell’ambito dell’operazione Nottetempo. I reati specifici sono tutti prescritti.
In primo grado l’accusa per associazione sovversiva (art 270 bis) era stata riformulata in associazione a delinquere (art. 416) a carico di solo quattro imputati; ed otto erano stati assolti. Poi, in secondo grado nel 2010, la Corte d’Appello di Lecce aveva emesso sentenza di condanna per tutti gli imputati per associazione sovversiva semplice (art. 270).
Quando saranno disponibili le motivazione della Cassazione, si capirà in che modo la Corte di Taranto è chiamata ad esprimersi.
Ricordiamo che l’accusa di associazione ed i vari “reati” specifici contestati (istigazione a delinquere e manifestazioni non autorizzate; diffamazione; incendio di alcuni bancomat di Banca Intesa, del portone del Duomo di Lecce e contro l’abitazione di don Cesare Lodeserto; danneggiamento degli erogatori di alcune stazioni di distribuzione carburante Esso) erano legati alle lotte in corso contro l’ex CPT “Regina Pacis” di San Foca (Lecce) e contro la guerra in Iraq.
Alcuni degli imputati
17 novembre 2014, tratto da informa-azione.info


Roma: Corrispondenza da Tor Sapienza
Tor Sapienza, esempio di architettura concentrazionaria. Piccolo quartiere disperso nell’immensa periferia romana. Case popolari, edifici disposti ad anello, con un’unica via di accesso ed un unico bar come punto di ritrovo. Il cento di prima accoglienza (per minori non accompagnati, richiedenti asilo e misure alternative al carcere minorile) lo hanno piazzato lì, al centro della discarica sociale costruita trent’anni fa, ma è corpo estraneo anche ai codici condivisi del ghetto, unico edificio in qualche modo collegabile allo Stato, altrimenti ritiratosi da questo suo lembo estremo. Un edificio in cui vivono dei poveri considerati privilegiati perché hanno tetto e pasti assicurati. É in questo luogo, che martedì scorso dopo un’assemblea pubblica una parte degli abitanti ha protestato contro il centro di accoglienza ed alcuni lo hanno attaccato con bombe carta.
Il Centro non ha mai creato particolari problemi a nessuno. Parlando con persone diverse (ospiti, operatori, residenti) non è emersa una chiara causa scatenante degli attacchi. Neppure i media abituati a sponsorizzare la guerra etnica, ci hanno detto qual’è stata la “colpa” degli immigrati, se non quella di esistere.
I pochi episodi citati come “causa scatenante” non coinvolgono gli ospiti del centro: i residenti lo sanno perfettamente. Non si è verificata, da quanto abbiamo appurato, una lesione degli interessi criminali di qualche capo-zona, recondita causa di episodi similari.

Cos’è successo quindi e perché?
Ci sembra che Il centro di accoglienza sia stato individuato come anello debole, come punto facile da attaccare per rendere visibili le proprie rivendicazioni e sfogare la frustrazione.
Da quanto abbiamo appreso esiste nel quartiere un forte malessere legato alla qualità della vita ed alla mancanza di servizi. Vi è una difficile convivenza, nella comune povertà, degli italiani con gli stranieri residenti in zona, in particolare con il vicino campo nomadi. Vi è un evidente dilagare di una sottocultura razzista, malcelata dietro il solito “io non sono razzista ma …”.
Esiste poi chi questi attacchi li sta pianificando da tempo. Chi fomenta e incanala l’odio, indirizzandolo contro i poveri tra i poveri. Il tutto palesemente finalizzato al controllo sociale, ad un progetto politico di destra che ricalca modelli che hanno avuto successo in Grecia e Francia.
Dietro episodi come questo, che si stanno susseguendo sul territorio romano troviamo sempre gli stessi attori: pezzi del neofascismo e famiglie criminali fanno il lavoro sporco, comitati anti-degrado ed il partito “Fratelli d’Italia” si muovono alla luce del sole.
É l’anticipo di una campagna elettorale sporca.
É, inoltre, una battaglia che questi fascisti stanno vincendo nel momento in cui sono riusciti a determinare il terreno dello scontro: quello del degrado e della sicurezza. La sinistra, con la sua aggiunta dose di ipocrisia, insegue sullo stesso piano. Il risultato per i poveri è la repressione. Per gli immigrati in particolare, ad ogni sparata di questi “cittadini per l’ordine”, seguono retate, deportazioni nei CIE, espulsioni.
Successivamente al primo assalto, diversi solidali hanno preso contatti con questa realtà. Si tratta di un quartiere di duemila abitanti con scarsa presenza di compagni, nonostante la zona di Roma est abbia un’alta concentrazione di case occupate, centri sociali, collettivi.
Mercoledì sera, quando tutto sembrava tranquillo, si è verificato un secondo attacco. In questo caso si è trattato di un’azione pianificata compiuta da non molte persone, capaci di stare in strada e reggere gli scontri. É molto probabile che una parte degli assalitori sia venuta dall’esterno del quartiere e che vi fossero fascisti. L’attacco è stato violento ed effettuato da più lati, i ragazzi del centro hanno barricato le porte e lanciato oggetti dalle finestre per impedire l’accesso.
Alcuni solidali con gli immigrati hanno tentato di radunarsi per portare un aiuto, ma sono giunti sul posto quando l’accesso al quartiere era bloccato dalla polizia giunta in forze.
I razzisti hanno vinto questo scontro nel momento in cui hanno fatto assumere all’episodio una dimensione di carattere nazionale, garantendosi il successo del trasferimento della struttura e costruendo un precedente riproducibile a cascata su tutto il territorio. Di questo va preso atto.
Prendendo contatti con il centro, il giorno successivo, ci è stato fatto presente come la minaccia di tornare ad incendiare il posto fatta la sera precedente fosse da prendere seriamente. Nel pomeriggio, da parte degli operatori che temevano per l’incolumità degli ospiti, è stata fatta una chiamata per intervenire a difesa nell’eventualità di un attacco.
Non nutriamo simpatia per i centri di accoglienza, ma ci sembra interessante sottolineare il fatto che da un’entità legata alle istituzioni sia partito un appello verso contesti solidali, informali o antagonisti. Ci sembra che ben simboleggi il ritirarsi dello Stato, di fronte alla crisi, dalle sue diramazioni periferiche.

Questo territorio abbandonato cos’è?
É certamente un terreno su cui rischia di insediarsi la guerra civile, la barbarie dello scontro etnico. Per qualcuno è un terreno sul quale bisogna fare ritornare lo Stato, richiamandolo ai suoi doveri. Ci piace proporre un’altra lettura, più difficile da concretizzare ma molto più allettante: quella di un terreno provvisoriamente liberato, sul quale si può trovare lo spazio per costruire forme di sperimentazione, di autonomia, auto-organizzazione, autogestione. Non chiediamo nulla ma ci riprendiamo quanto lo Stato abbandona retrocedendo.
Alla richiesta di intervento, molti hanno risposto negativamente, anteponendo considerazioni di stampo strategico, che sconsigliavano di intervenire. Insieme ad altri abbiamo risposto all’appello partendo da considerazioni di natura etica. Volevamo dire a ragazzi, alcuni con alle spalle esperienze traumatiche, che fuori da quelle mura non vi era solo odio contro di loro. Queste persone erano in pericolo, noi potevamo intervenire, quindi lo dovevamo fare.
Le considerazioni strategiche le lasciamo a persone sicuramente più abili di noi.
Siamo andati in un contesto non facile, con il centro presidiato dalle polizia, ed alcuni dei solidali sono riusciti ad entrare. Il nostri bottino politico consiste nell’accoglienza e nei sorrisi sinceri che abbiamo ricevuto dai ragazzi: siamo contenti così.
All’esterno le voce dell’arrivo dei fasci si sono susseguite senza che i fasci arrivassero. Dall’alto lato della strada si è radunato un folto gruppo di persone, visto che siamo stati invitati a parlare ci siamo avvicinati. L’impressione è stata quella di trovarsi di fronte la Folla nel senso teorico del termine, con i suoi umori, la sua imprevedibilità, la sua plasmabilità. Persone che, in fondo, hanno un gran bisogno di parlare e di sfogare il loro disagio. Ci hanno identificai come “quelli dei centri sociali”, che non sanno niente, e che vengono a gettare discredito su di loro. Ci vorrebbe molto tempo per stabile un dialogo proficuo, abbiamo una forte necessità di capire, oltre ogni letture ideologica e precostituita.
Abbiamo semplicemente detto di non avere nulla a che spartire con le guardie e questo era l’unico punto d’incontro immediatamente possibile.
Parlando della famosa guerra tra poveri, abbiamo chiesto come si potesse prendersela con dei ragazzini e non con i veri responsabili del disagio che non sono certo difficili da individuare. Qualcuno ci ha risposto – parole letterali – che il centro è solo un capro espiatorio, insomma il posto giusto per fare casino, attirare l’attenzione, farsi dare qualcosa e probabilmente, aggiungiamo noi, fare un piacere a qualcuno che poi si ricorderà.
La notte è molto buia in questa via. Nei prossimi giorni arriveranno i politici a farsi fare le foto davanti al trofeo. La guerra sociale, invece, riprende da domani in un punto qualsiasi qua attorno. Chi vuole star sveglio prenda il suo posto.

Roma, 13 novembre 2014, pubblicato su vari siti di movimento

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Tor Sapienza e dispositivi mediali: chi soffia sul fuoco?
Sarebbe inutile sottolineare la tristezza che sussegue alle scene di stanotte quando per un’altra volta in un quartiere della Capitale un episodio di rigurgito anti-migrante è stato messo in campo. Si parla di rigurgito, in fondo, perché è chiaro che cinquanta persone non sono un numero passibile di poter rappresentare decine di migliaia di persone di un quartiere. Nella vicenda, la seconda della stessa portata in due giorni nello stesso angolo di città, alcuni caratteri che possono stimolare un primo abbozzo di riflessione sul fenomeno si possono cogliere.
Colpisce, in primo luogo, la morbosa dedizione giornalistica alle ragioni della protesta: con tanto di dichiarazioni, di prese di parola virgolettate dei protagonisti; sarebbero cittadini “normali”, ma “forse appartenenti a gruppi organizzati”… un mix un po’ contraddittorio…
Dunque gli episodi di rabbia e le forme di contestazione e aggressione ai centri di accoglienza sono, per il mainstream, ampiamente giustificabili: “si è ormai giunti all’esasperazione, il limite è ormai colmo..”, e la giustificazione non sta tanto nel fatto che la povertà e lo smantellamento dei servizi riducono le speranze di tutti (su questo aspetto nessun accenno: esiste solo lo “scontro” orizzontale, non una questione di differenze tra ceti nella retorica degli articoli giornalistici e dei servizi del piccolo schermo di oggi), ma tutto è fatto incanalare nell’aumento di sensazione di insicurezza portato dal “fattore esterno”, le comunità migranti che aumentano nel territorio...
Passiamo dunque a un secondo aspetto (non secondario) che occorre sottolineare: la modalità di giustificazione delle pratiche per mezzo stampa.
Da tempo si è abituati al fatto che una manifestazione di contestazione annunciata, con rivendicazioni politiche precise e tangibili che propongono un obiettivo definito, incontra spesso argini della controparte volti a dissuadere ad una partecipazione sia in termini fisici che emotivi, spesso incentrati sulla retorica del “pericolo violenza e devastazione”. Lo si vede chiaramente sfogliando il Messaggero quando parla delle mobilitazioni che caratterizzeranno il 14 novembre romano: “pericolo guerriglia”, “si preparano” e immagini non riconducibili ad alcuna rivendicazione politica si susseguono a preparare un determinato clima...
Quel che si è visto invece delle narrazioni di ieri è la constatazione quasi amichevole con la quale si è narrato dell’uso di bombe carta indirizzate a persone recluse contro un centro di accoglienza (sic!)... in questo caso una azione subito accostata non a persone “addestrate”, mitizzate e sbattute in prima pagina, ma a semplici cittadini stufi, aggiunge il mainstream a mò di coda di paglia, forse pure a soggetti provenienti da gruppi organizzati (dai chiari connotati politici eppure non esplicitati).
Ora, è chiaro e palese che raccontare in un certo modo una storia ingenera a volte una maggiore simpatia verso chi la sta agendo, in questo caso contro la presenza dei migranti nelle periferie… è altrettanto palese che far correre determinate pratiche di intolleranza rappresentano uno stimolo per chi le compie a poterle ripetere con maggiore convinzione…
Da qui la domanda (retorica): chi soffia sul fuoco di una nuova ondata di rigurgito razzista nella capitale? Pare veramente difficile credere di fatto che tutti i giornali misconoscano che nella zona operino da tempo militanti di Forza Nuova, seppure questi non tendano a pubblicizzarsi più di tanto.
12 novembre 2014, tratto da infoaut.org


È PIÙ VIOLENTO PRENDERLE O DARLE?
A proposito dei fascisti a Trento
A Trento, da quando a Madonna Bianca è stata inaugurata la sede di Casapound, gruppo politico dichiaratamente fascista, le aggressioni a sfondo politico, razziale, sessista sono sistematicamente aumentate.
Anche se questi bravi ragazzi “non c’entrano mai niente”, da quando ci sono loro, per chi ha un aspetto a loro non gradito, o viene riconosciuto come vicino ad ambienti di sinistra, Trento è diventata meno vivibile. A parte un paio di iniziative di propaganda, l’attività principale del gruppo è calare in città per menare qualcuno.
L’ultima “calata” è costata ad alcuni ragazzi, sospettati di essere di ritorno da una serata al centro sociale Bruno, diverse ferite e cure mediche perché pestati sul ponte di San Lorenzo.
Queste spedizioni squadriste avvengono con la palese collaborazione delle forze dell’ordine. Prima di muoversi i fascisti ridono e scherzano con carabinieri e polizia. Aggrediscono in gruppo solo quando “qualcuno” li avvisa che gli antifascisti hanno finito il giro di attacchinaggio.
Il 28 ottobre scorso, a Trento, un gruppo di “fascisti del terzo millennio” stava festeggiando la laurea di un loro militante. La notizia della presenza di fascisti in un bar di piazza Venezia fa il giro della città. Un raduno di fascisti, è ormai risaputo, vuol dire una ronda in cerca di qualcuno da menare: antifascisti, stranieri, senza casa, prostitute, zingari. Tutti quelli che la parte forcaiola della città vorrebbe eliminati. D’altro canto, i fascisti fanno quello che la propaganda razzista suggerisce.
Qualcuno decide che ai fascisti bisogna cominciare a dare il benservito. Così un fascista, uno degli aggressori dei ragazzi pestati sul ponte San Lorenzo, rimedia un bel po’ di botte. Superfluo dire che non ci dispiace. I fascisti subito dopo entrano nel bar e minacciano con i coltelli bariste e titolari, rei, secondo loro, di aver avvisato gli antifascisti della loro presenza. Non c’è dubbio: si sentono protetti.
C’è chi dice che non si può reagire con la violenza alla violenza fascista, perché si entrerebbe in un vortice senza fine. Noi non siamo di questo avviso: crediamo che chinare il capo sia molto più pericoloso, perché non mette un freno alle aggressioni.
C’è chi dice che è necessario e giusto denunciare le aggressioni alla polizia e alla magistratura. A chi? A quelli che hanno ammazzato Cucchi e girano indisturbati?
Solo l’azione diretta ci potrà liberare da queste mosche cocchiere dello Stato e del capitale.

Anarchiche e anarchici
12 novembre 2014, da informa-azione.info


Bologna scaccia Salvini, la LegaNord e le loro provocazioni
Sin dalle 9 di mattina entrambi gli accessi del campo rom di via Erbosa (Bologna) sono stati presidiati da manifestanti di tutte le realtà antifasciste e antirazziste cittadine. L’obiettivo era impedire che il ducetto della Lega Matteo Salvini, in piena campagna elettorale, entrasse nel campo a effettuare una nuova passerella di propaganda beceramente razzista sulle spalle delle comunità rom e sinti.
In attesa dell’arrivo di Salvini, diversi esponenti leghisti avevano cercato di effettuare una raccolta firme nella zona, finalizzata alla chiusura dei campi rom. Un’iniziativa arrivata sull’onda della precedente provocazione leghista di qualche giorno fa ad opera della consigliera comunale Bergonzoni.
Questa, munita di telecamera, era entrata nella struttura ed era stata a sua volta presa a schiaffi da una ragazza rom che ne denunciava le parole razziste nei confronti di chi viveva nel campo. La raccolta firme è comunque fallita, dato che il cartello per raccogliere le firme è stato strappato dalle mani di uno dei leghisti e ridotto a brandelli.
Dopo qualche ora di presidio, si presenta Matteo Salvini il quale, irritato dall’impossibilità di varcare i cancelli della struttura, ha cercato di sfondare il presidio, accelerando alla guida della sua macchina e investendo diversi manifestanti, ferendoli (uno ha dovuto ricorrere all’ospedale) ma fortunatamente in maniera non grave.
A quel punto la rabbia dei manifestanti si è sfogata nei confronti della provocazione leghista arrivando a spaccare il vetro posteriore dell’auto dell’aspirante Le Pen italiano e costringendolo alla fuga rovinosa. Con lui in macchina, il candidato alla regione Emilia Romagna Alan Fabbri e la stessa consigliera comunale Bergonzoni.
Ancora una volta Bologna ha dichiarato un forte no, senza mediazioni, alla presenza e alle provocazioni della Lega Nord, dimostrando che la città non sarà mai tollerante verso chi propaga tutti i giorni beceri argomenti razzisti e xenofobi.

8 novembre 2014, da infoaut.org


Francia, ZAD: LA POLIZIA HA UCCISO REMÌ
Sabato sera, alla Zad du Testet, Rémi viene ucciso dalla polizia. Il suo corpo viene agguantato e trascinato per decine di metri dalle forze dell’ordine mentre gli scontri continuano. A volte la morte sconvolge un movimento intero. A volte una persona muore, un paese si infiamma. La morte di Remì ci riempie di rabbia. Essa non è un errore commesso per caso dalla polizia, ma è parte inscindibile dei metodi che impiegano. Sono previste iniziative per venerdì 31 ottobre e sabato 1 novembre, per rendere omaggio a Remì e per protrarre la rabbia che doveva essere la sua.
Segue la traduzione di una lettera aperta scritta da Farid El Yamni, fratello di Wissam (assassinato dalla polizia il 1 gennaio 2012) e indirizzata alla madre di Remi Fraisse.

Lettera ad una madre
Mentre a Parigi si condannano le manifestazioni violente e si preferiscono i sit-in pacifici, vi scrivo questa lettera.
Ho perso mio fratello nella condizione simile in cui voi avete perso vostro figlio. Mio fratello, che aveva tanta cura di mia madre, non tornerà più. La perdita di mio fratello è stata sul momento un dolore immenso che risento ogni volta che lo stato assassina di nuovo. “Dove cresce il pericolo cresce anche chi salva” dice qualcuno. Ogni volta che lo stato uccide si ha anche la possibilità di fermarlo, di costringerlo a cambiare e rendere la dignità perduta a tutti gli altri.
La morte di Remi non colpisce una vita sola, ma intreccia le vite di tutti, individualmente e collettivamente. La criminalizzazione che fanno è terribile. È stata la stessa cosa per noi. Ho capito dopo che era voluta. Io non volevo che una cosa, che la Giustizia facesse uscire la verità e rendesse la dignità che mio fratello meritava. Che questa storia servisse a tutti, a noi, ai governati per amarci meglio e alla polizia per riconciliarsi con la nazione. Pensavo che la polizia non potesse accettare nel suo corpo degli assassini, all’epoca non la conoscevo abbastanza bene. Mi sbagliavo. I quartieri si sono infiammati, e si è richiamato alla calma: ogni macchina o cassonetti bruciati erano vissuti come un insulto, una spina nel cuore, una spina sulla quale si premeva.
Poi il tempo è passato, ci hanno promesso la verità ma abbiamo avuto solo menzogne, false promesse come tanti altri prima di noi. Qualcuno ci aveva avvisato, ma non gli abbiamo creduto. François Hollande stesso aveva abbracciato mia madre e le aveva promesso che l’avrebbe aiutata a fare luce sulla morte di suo figlio. Senza giustizia né verità vivevamo il tempo che scorreva come una condanna. Eravamo imprigionati a soffocare e invocare aiuto alla giustizia.
E poi abbiamo capito che il nostro caso non era isolato, che tante altre famiglie vivevano e vivono la stessa cosa. Ci sono tante umiliazioni e mutilazioni commesse coscientemente dalla polizia e protette dalla giustizia, tante!
Abbiamo anche scoperto la maniera di pensare dei poliziotti, e ci ha fatto venire i brividi... Ecco un esempio: mercoledì scorso dopo la manifestazione a Parigi uno degli sbirri mi ha detto “uno a zero!” davanti ai suoi colleghi della questura che sghignazzavano quando hanno visto la mia maglietta “allerta! la polizia assassina”. Nessuno lo ha ripreso... Degli esempi del genere, tanti francesi ne vivono quotidianamente, non ne possono più di questa polizia e non ne vedono una fine.
Capisco i richiami alla “calma”, anche noi lo abbiamo fatto. Comprendete anche voi che numerose persone non credono più in questo sistema che dà un impunità di fatto alla polizia. Capite che si può concepire la non-violenza solo a condizione di credere che l’avversario è capace di mettersi in discussione: ne sono umanamente incapaci, perché considerano che mettere in discussione la polizia sarebbe mettere in discussione lo stato.
Da 40 anni la polizia uccide impunemente a ripetizione. Da 40 anni, si assiste allo stesso spettacolo di nascondere i morti dello stato, malgrado i video, le testimonianze, le evidenze. Da 40 anni ci sono dei sit-in, delle manifestazioni, dei libri, delle prese di posizione di politici, delle richieste indirizzate al ministro dell’interno. Da 40 anni non funziona.
Ecco come avviene: articoli di giornale, menzogne della procura, indagini di scarsa qualità e troncate per rendere una condanna ricola o assente dopo numerosi anni. Il peggio è che chi affossa il caso avrà delle promozioni, e quelli che uccidono i nostri fratelli, figli, o amici saranno visti come dei campioni dai loro colleghi. Questa è la realtà che vivrete anche voi.
Manuel Valls (Primo ministro francese) dice che le violenze sono insulti alla memoria di Rémi, ma dovete sapere che Manuel Valls, non combattendo l’impunità poliziesca, è il primo assassino di vostro figlio. È un criminale recidivo. È venuto a Clermont-Ferrand una settimana prima del risultato della contro-autopsia ridicola di cui già conosceva il risultato, e ha parlato del caso solo per condannare le violenze di quelli che si sono rivoltati per la morte di mio fratello.
Signora, le persone combattono per Rémi, per la loro dignità e le loro idee. Combattono per voi, per tutti noi, per una fraternità reale. Chi si batte conosce abbastanza la malafede dei governanti per capire che provano a farci credere che siamo in uno “stato di diritto” mentre siamo in uno “stato di dovere”. Lo stato non rispetta la legge che ci chiede di rispettare. Gioca con il nostro corpo, la nostra fiducia, il nostro denaro, la nostra dignità. Ci ordina di inginocchiarci, come imperativo categorico.
Scrivo questa lettera a voi e a tutti quelli che la leggeranno per esprimere che capisco oggi più che mai che la non-violenza nei casi di crimini di stato ha dei limiti. La non-violenza può essere più condannabile, più letale che la violenza stessa. La gente che ci governa è infame, arrivista, sadica e recidiva. Devono andare via con tutti i mezzi necessari.

Farid El Yamni
2 novembre 2014, da informa-azione.info


Da una lettera dal carcere di La Spezia
[…] il 21 ottobre 2014 sono venuti a fare la perquisizione, a prima mattina sono entrati e un mio connazionale l'hanno massacrato di botte e l'hanno messo in isolamento nudo, senza materasso, in mutande. Io ho fatto richiesta di carne Halal, mi hanno detto “tu non prendi la carne musulmana”. In questo carcere da 30 anni funziona così. Devi stare zitto e si sta molto male, l'acqua è fredda […]

23 ottobre 2014


Sentenza Cucchi, lo stato si auto-assolve un'altra volta
E dire che ci eravamo abituati al peggio. Ai presidi dei poliziotti sotto casa di Patrizia Aldrovandi, alle provocazioni di chi tenta di infangare il nome di Carlo Giuliani, persino agli applausi - infami, provocatori, assassini - di chi ha coperto i suoi colleghi fino allo stremo, senza curarsi del sangue che hanno sulle mani e sulla coscienza, con complicità. Ci ricordiamo anche di quando Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, fu querelata dal COISP per diffamazione dopo che aveva, invano, tentato di ristabilire un po' di verità per sé, per i suoi familiari e per tutte le vittime della violenza cieca dello Stato.
Avremmo dovuto capire che al peggio, ormai, non c'è più limite quando uno degli agenti imputati per la morte di Stefano aveva rivolto ai suoi familiari il dito medio, dopo aver ricevuto la sentenza di assoluzione in primo grado. Quel gesto non aveva nulla di liberatorio e, soprattutto, nulla di assolutorio: era anzi il gesto di chi rivendicava la sua appartenenza, di chi si vedeva giustificato per avere, ancora una volta, “obbedito agli ordini”, era il gesto di chi sa di essere dalla parte dei garantiti sempre e comunque, di chi agisce in nome dello Stato e rivendica il suo ruolo forte dell'approvazione di quegli stessi poteri che gli hanno fornito la legittimità per uccidere impunemente.
La condanna in primo grado per la morte di Stefano era ricaduta solamente sui medici e sugli infermieri che lo avevano abbandonato dopo il pestaggio, lasciandolo morire di fame, di sete e di stenti. Già allora il tentativo di minimizzare l'operato dellecucchi1forze dell'ordine era risultato palese, in qualche modo lasciava anche intendere che sì, forse Stefano poteva essere aiutato, ma comunque era un reietto, un drogato, un disadattato, uno a cui la vita prima o poi sarebbe stata tolta ugualmente.
Oggi la sentenza si ribalta e ci lascia con il più infame degli epiloghi: nessun colpevole, Stefano è morto da solo, in una cella del tribunale, senza che nessuno si accorgesse degli ematomi che lo ricoprivano su tutto il corpo.
Non sono colpevoli i poliziotti che lo arrestarono, né quelli che lo “accompagnarono” nelle camere di sicurezza, poichè “la loro specchiata carriera al servizio della legge e dello Stato senza mai essere stati coinvolti in fatti negativi” li rende immuni dalla possibilità di compiere qualsiasi reato.
E gongola Gianni Tonelli, segretario nazionale del SAP, perché sa che ancora una volta a farla franca non sono quei poliziotti, ma l'intero sistema di bugie, illazioni e insabbiamenti di cui sono i principali promotori. Lo stesso sistema che permette quello stesso sindacato di scrivere un comunicato in cui si accusa Stefano di avere avuto “disprezzo per la propria condizione di salute” e di avere pagato le conseguenze per la vita dissoluta che conduceva.
La mancata condanna di chi l'ha ucciso si trasforma così in un indice puntato contro chi ha pagato la pena più alta pur essendo innocente: il processo si trasforma in una diffida morale contro il diverso, contro quelle condizioni di vita che discordano con il modello socialmente accettato perché una persona possa godere degli stessi diritti di chi l'ha ammazzato in nome della legge che servirà ad assolverli.
Le lacrime dei familiari di Stefano, oggi, non sono più lacrime di dolore. Sono lacrime di rabbia, di chi ha capito che per opporsi ad un ingiustizia che si è fatta legge e potere assoluto bisogna opporre la pratica della resistenza quotidiana contro gli i soprusi del potere costituito.

31 ottobre 2014, da infoaut.org

Nel tardo pomeriggio di sabato 8 novembre circa 3mila persone hanno manifestato in piazza Indipendenza a Roma, dietro uno striscione che recitava: "Per noi non è finita". La fiaccolata, organizzata dai parenti del giovane ucciso e dall'Associazione contro gli abusi in divisa (Acad) ha voluto ancora una volta portare l'attenzione sulla sentenza di assoluzione che vi è stata, chiedendo verità e giustizia.
Davanti al Csm quindi numerose famiglie, giovani e non che con migliaia di fiaccole a simboleggiare una determinata richiesta: fare luce sui responsabili della morte di Stefano; non solo per lui ma anche per tutte le vittime dello Stato. Emblematico era infatti un altro striscione che richiamava alla memoria le molte altre persone uccise dalla violenza di Stato, ricordando le più recenti: Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva, Gabriele Sandri e Domenico Budroni. Durante l'iniziativa, numerosi sono stati gli interventi, attraverso i quali sono stati dati aggiornamenti, dal punto di vista giudiziario, sulla vicenda.
Il 22 novembre per la seconda volta il sito del SAP è stato violato: sul sito sap-nazionale.org è comparso il comunicato di Anonymous. Gli hacker sono inoltre riusciti a sottrarre e rendere pubblico moltissimo materiale relativo al sindacato di polizia: nomi, cognomi, password, indirizzi e-mail, messaggi privati e persino il numero di cellulare di Tonelli, che Anonymous ha subito ironicamente invitato a contattare tramite un tweet...
Seguomo alcuni estratti dal loro comunicato.

Quasi 1.000, sono le morti nelle carceri italiane dal 2002 al 2012. Per la precisione 518 sono i suicidi (56%), 183 (20%) sono le morti per malattia,177 (19%) sono le morti in carcere per le quali vi sono indagini in corso. Si aggiungono le 26 morti in carcere per
overdose e gli 11 omicidi. Per un totale di 915 detenuti morti dal 2002 al 2012.
Tale conteggio non comprende le morti in questura , C.I.E., arresti domiciliari.
La fatiscenza e l'inumano sovraffollamento delle carceri italiane è evidente, ma, nostro avviso non basta a spiegare una media di circa 100 morti l'anno. Di fronte a forze dell'ordine che hanno torturato nelle caserme durante il G8 del 2001 a Genova, che hanno ripetutamente ucciso cittadini inermi sotto loro custodia (Cucchi, Aldrovandi,...) e che si sono poi permesse azioni intimidatorie verso i familiari delle vittime, la diffidenza ci sembra necessaria. Considerando quanto appena riportato, chi potrebbe davvero giurare che alcuni dei sopra indicati suicidi in carcere non siano stati in realtà omicidi provocati dagli agenti? Del resto in Italia non esiste alcuna legge contro la tortura da parte delle forze dell'ordine e le carceri rimangono luoghi di omertà dove carcerieri aguzzini possono operare senza alcun controllo. [...]
La stessa magistratura non manca di ricordare la sua totale funzionalità agli interessi dello stato, suprema espressione dei padroni, con sentenze abominevoli come quella riguardante l'uccisione di Stefano Cucchi. Intanto poche ore fa un'altra persona caduta nelle mani delle forze dell'ordine è morta in circostanze sospette: Luigi Bartolomeo, arrestato il 21 ottobre per l'evasione dagli arresti domiciliari viene poi colto da malore e ricoverato d'urgenza all'ospedale di Loreto Mare dove muore qualche giorno dopo. L'avvocato del sig. Bartolomeo parla di "sottovalutazione delle condizioni di salute di Luigi Bartolomeo al momento dell'incarcerazione" oppure,sostiene "deve essere successo qualcosa" durante la carcerazione stessa; in altre parole o Bartolomeo è stato lasciato senza cure dai carcerieri così che andasse in coma, oppure è stato malmenato o torturato dagli agenti stessi. [...]


Il diritto dei padroni: nessun colpevole per i morti di amianto
La Corte di Cassazione, accogliendo la tesi del procuratore generale Francesco Iacoviello, ha annullato la condanna a 18 anni di reclusione del magnate svizzero Stephan Schmidheiny, padrone e Amministratore Delegato della fabbrica Eternit, (uno degli uomini più ricchi del mondo) che si è arricchito sulle pelle di decine di migliaia di operai, lavoratori e cittadini nel mondo.
La ‘giustizia’ ha stabilito che, pur avendo provocato la morte di migliaia di lavoratori e cittadini, essendo passato troppo tempo, il reato è prescritto. Così il responsabile della morte – solo in Italia - di centinaia di lavoratori nei 5 stabilimenti dell’Eternit italiana (Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli e Siracusa) e di migliaia di cittadini rimane impunito e se la cava senza neanche aver chiesto scusa. Facendo propria la tesi del procuratore generale della Cassazione, che aveva chiesto l’annullamento della sentenza d’appello per prescrizione affermando che «Anche se oggi qui si viene a chiedere giustizia, un giudice tra diritto e giustizia deve scegliere il diritto», il Tribunale assolve il colpevole e condanna le vittime, che non saranno neanche risarcite.
Per la Corte di Cassazione il diritto di vita e di morte del padrone viene prima della giustizia dovuta alle vittime di un crimine contro l’umanità – di cui tanti si riempiono la bocca - che a Casale come in tanti altri luoghi non solo ha ucciso, ma continua e continuerà ad uccidere ogni giorno.
Per anni Schmidheiny, industriali e manager senza scrupoli, pur di risparmiare pochi centesimi e aumentare i profitti, non hanno esitato a far lavorare gli operai senza adeguate misure di sicurezza, non hanno rispettato le minime misure di prevenzione e di protezione individuale e collettiva che la lavorazione della fibra killer amianto necessitava. Insieme ai lavoratori, sono morti migliaia di cittadini per mesotelioma, tumori polmonari, asbestosi e altre patologie dell’amianto, uomini e donne “colpevoli” solo di aver respirato la fibra killer senza nessuna protezione, e purtroppo altre ne moriranno.
Ora questa sentenza dice che il “diritto” dei padroni vale di più della giustizia. Così tanti industriali come Stephan Schmidheiny, vedranno legittimato il loro “diritto” a continuare ad arricchirsi sfruttando, avvelenando e inquinando i lavoratori e cittadini con le loro fabbriche di morte. Questo sistema economico, politico, giudiziario basato sullo sfruttamento dell’uomo concede l’impunità e la licenza di uccidere a chi ha soldi per comprarsela. Al danno si aggiunge la beffa. [...]

Sesto San Giovanni (Mi), 19 novembre 2014
Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio


carrara: E ADESSO COME LA METTIAMO CON LE CAVE?
Volantino diffuso durante l’occupazione del Comune di Carrara
«Le nocività sono percepite coscientemente come tali quasi soltanto a fronte di un evento che ne mostra la pericolosità». Questa è una delle conclusioni che abbiamo tratto dall’inchiesta svolta nel maggio 2014 fra la popolazione di Carrara e dintorni a proposito del rapporto tra salute, lavoro e territorio. Un’inchiesta-pilota di cui, all’indomani dell’alluvione, ci sembra fondamentale diffondere i risultati.
La devastazione delle montagne sopra le nostre teste - così come la cementificazione sotto i nostri piedi - facilmente, con una pioggia, diventa devastazione della nostra salute, così come delle strade e delle case in cui viviamo. Non da ieri, ma da decenni. In particolare da quando il saccheggio delle nostre montagne è stato accelerato per riempire le tasche di multinazionali, che come la Omya, si arricchiscono col carbonato di calcio.
Il mito che l’escavazione del marmo sia una ricchezza per Carrara è stato sepolto dai fiumi di fango di questi giorni o ancora la cittadinanza crede a queste fandonie?
Il mito delle grandi opere, come il Tav o il Terzo Valico, crolla oggi di fronte alla necessità di investire il denaro pubblico nella messa in sicurezza di fiumi, scuole, e di tutto ciò che di pericolante e pericoloso attraversiamo quotidianamente?
A queste domande potremo rispondere soltanto quando, passata “l’emergenza alluvione”, Carrara capirà se c’è bisogno del morto per guardare le cave con occhi diversi e darsi da fare fermare il saccheggio dei signori (e delle multinazionali) del marmo. Al momento abbiamo una sola certezza: per noi terrorista è chi devasta i territori e la salute delle popolazioni che li abitano e non, invece, chi lotta contro queste devastazioni, usando anche lo strumento del sabotaggio. A metà dicembre andrà a sentenza, a Torino, il processo contro Chiara, Malta, Niccolò e Claudio, accusati di “terrorismo”per aver bruciato un compressore nel cantiere Tav di Chiomonte, Rischiamo vent’anni di carcere per essersi opposti con i fatti e non con le parole alla devastazione della Valsusa, Noi sappiamo da che parte stare
Sintesi finale inchiesta
Nel maggio 2014 abbiamo svolto 90 intervista-pilota per sondare la percezione del rapporto tra salute, lavoro e ambiente in chi abita a Carrara e dintorni. Due terzi delle interviste sono state raccolte al mercato di Carrara; le rimanenti al mercato di Avenza e in località limitrofe. La griglia delle interviste era costituita da 10 domande che sono state somministrate a 50 donne e 40 uomini di età prevalentemente compresa tra i 30 e gli oltre 70 anni, tra cui cinque lavoratori o ex-lavoratori del marmo. Ne sono emersi alcuni dati rilevanti.
Innanzitutto, a fronte del permanere delle mito che l’escavazione del marmo sia molto importante - quando non addirittura fondamentale - per l’economia della zona, d’altra parte la maggioranza delle/dei intervistate/i ammette di non sapere, nemmeno approssimativamente, quanti siano i lavoratori impegnati tra marmo e indotto.
Va annotata, poi, una sorta di “consapevolezza inconsapevole” delle nocività prodotte dall’estrazione e dalla lavorazione del marmo tanto sulla salute umana che su quella dell’ambiente. Che l’estrazione del marmo sia dannosa per le sorgenti e per i corsi d’acqua e che l’intera filiera del marmo - dall’estrazione incava al trasporto e alla lavorazione in azienda - causi soprattutto malattie respiratorie è riconosciuto dalla gran parte delle persone intervistate ma, al contempo, ancora maggiore è il numero di coloro che non ricordano perché Carrara se è rimasta senz’acqua nell’estate del 1991, pur se un terzo del totale riporta episodi più recenti di inquinamento dell’acqua potabile - in particolare l’acqua bianca/torbida o marrone che frequentemente è erogata nelle case.
Un ulteriore dato degno di nota è la consapevolezza dei danni alla salute prodotti dalla Farmoplant e, più in generale, dell’ex polo chimico - elemento che si può far risalire all’allarme generato in seguito” all’incidente” alla Farmoplant.
Si confermano, in tal modo, alcuni dati ricorrenti nel rapporto tra lavoro, ambiente e salute: in primo luogo il fatto che le nocività sono percepite coscientemente come tali quasi soltanto a fronte di un evento che ne mostra la pericolosità, mentre un inquinamento costante e continuativo per quanto foriero di malattie viene più facilmente rimosso - anche in forza del mito del “lavoro” e di una certa rassegnazione di fronte all’inevitabilità dei danni alla salute che ne possono derivare. Lo stesso si può affermare per i danni provocati all’ambiente: la consapevolezza delle sorgenti d’acqua inquinate dall’attività estrattiva e l’evidenza dell’inquinamento dovuto alla marmettola difficilmente vengono le collegate ai ricorrenti episodi di acqua domestica imbevibile. D’altra parte se chi ha qua avuto un parente molto prossimo ammalato polmoni ne attribuisce la responsabilità a fattori che nulla hanno a che vedere con le cave, c’è chi, pur avendo subito un’operazione di calcolosi, afferma che l’acqua erogata nelle case è buona perché contiene tanto calcio.
La chiara consapevolezza delle nocività causate dall’estrazione e dalla lavorazione del marmo resta appannaggio di poche persone, così come il dato di fatto che la devastazione della montagna carrarina generi benessere economico solo pochi - fondamentale a chi è proprietario delle concessioni di escavazione - mentre per il resto della popolazione si rivela essere irrilevante quanto non addirittura dannoso.

9 Novembre 2014
Individualità anarchiche e femministe Apuane


Ferguson (USA): scagionato il poliziotto killer, esplode la rabbia
C’era chi lo dava per certo, conoscendo bene come funziona la “giustizia” negli Stati Uniti. C’era chi invece all’interno delle comunità afroamericane sperava che almeno questa volta l’establishment volesse e dovesse dare un segnale di discontinuità incriminando il poliziotto che il 9 di agosto ha ucciso il giovane Michael Brown, un diciottenne disarmato colpevole solo di avere la pelle scura così come tante delle vittime della brutalità delle forze di polizia nel paese di Obama.
Ma così non è stato. Darren Wilson, il poliziotto che ha premuto il grilletto – bianco, come il 95% dei suoi colleghi in un sobborgo di Saint Louis dove la popolazione è per la maggior parte afro – non sarà processato, e tornerà libero a fare il giustiziere in una comunità in cui si accumulano le denunce di angherie e prevaricazioni da parte degli uomini dell’ufficio dello sceriffo nei confronti dei cittadini coloured.
Così ha deciso poche ore fa il Gran Jury della contea, che non ha trovato nulla da eccepire, e di penalmente rilevante, in quello che a molti, moltissimi, è apparso un omicidio a sangue freddo e che ha già scatenato durante l’estate e più recentemente una ondata senza precedenti di proteste, manifestazioni, assemblee e scontri nonostante l’invito alla calma della famiglia della vittima e gli appelli ipocriti alla ‘pazienza’ da parte di un presidente dall’appeal sempre più sbiadito. D’altronde la giuria che ha deciso il non luogo a procedere era composta da 9 bianchi e 3 neri, giusto per non smentire una lunga e apparentemente inattaccabile tradizione di esclusione della popolazione non Wasp. E solo negli ultimi giorni sono stati due i neri vittima del fuoco della polizia. Uno colpevole di aspettare l’ascensore in penombra, assieme alla sua ragazza, nel palazzo dove abitava. L’altro, di soli 12 anni, perché agitava una pistola giocattolo in un parco giochi. In un paese dove la lobby delle armi la fa da padrona e gli uomini in divisa prima sparano (meglio un innocente morto che un colpevole vivo e pericoloso) nessuno mette in discussione il dogma del ‘diritto degli americani a portare un’arma’ e quindi il diritto degli agenti a sparare per primi anche quando non serve.
La decisione del Gran Jury è arrivata con molto ritardo rispetto alle previsioni e ai tempi previsti. Forse perché i tre neri presenti nella giuria popolare hanno provato a far cambiare idea alla maggioranza bianca, forse perché ha prevalso fino ad un certo punto la paura delle prevedibili conseguenze di un proscioglimento intollerabile.
Accolto naturalmente da una nuova esplosione della popolazione di Ferguson dove a migliaia si sono riversati immediatamente nelle strade e dove si annuncia una lunga giornata di proteste e scontri. Che si sono subito estese ad altre città. La misura è colma, e ormai da molto.
All’annuncio del procuratore, la famiglia Brown si è detta “profondamente delusa per il fatto che l’assassino di nostro figlio non dovrà rispondere delle sue azioni”.
Se migliaia di persone hanno sfilato pacificamente nelle maggiori città degli Stati Uniti, con le mani in alto, obbedendo allo slogan “Hans Up!”, in alcuni casi la rabbia è esplosa senza mediazioni.
Manifestazioni, proteste e scontri si registrano in parecchie località di tutti gli Stati Uniti. Ma è stata soprattutto la comunità di cui faceva parte Michael Brown ad esplodere. A University City, altro sobborgo di St. Louis a una decina di chilometri da Ferguson, un poliziotto è stato ferito a colpi di pistola. Secondo il capo della polizia della contea di St.Louis, Jon Belmar, ci sarebbero in zona circa dodici edifici in fiamme mentre contro i poliziotti schierati in città per impedire le proteste sarebbero stati sparati in poche ore almeno 150 colpi di arma da fuoco.
A Ferguson è stato devastato anche il negozio in cui la giovane vittima del poliziotto scagionato avrebbe rubato una scatola di sigari facendo così scattare l’omicidio. Numerosi le autopattuglie ed altri mezzi delle forze dell’ordine date alle fiamme dai manifestanti, mentre centinaia di agenti in assetto antisommossa cercano di disperdere la folla sparando lacrimogeni in quantità industriale (numerosi gli intossicati, anche tra i giornalisti) e fermando quanti più dimostranti possibile (finora gli arrestati sono una trentina). Intanto a Ferguson a dare man forte alla polizia è stata schierata la Guardia Nazionale pesantemente armata, e probabilmente nuove unità arriveranno in Missouri nelle prossime ore per fronteggiare una situazione veramente esplosiva. Il capo della polizia di Ferguson ha affermato che la situazione è talmente fuori controllo da richiedere lo schieramento di almeno 10 mila agenti solo nella città del Missouri.
Sia a St. Louis che ad Oakland centinaia di dimostranti hanno invaso le corsie dell’autostrada bloccando la circolazione stradale e scontrandosi con la polizia mentre a causa di presunti spari in aria vicino allo scalo della città la Federal Aviation Administration ha dirottato verso altri aeroporti una decina di voli diretti a St. Louis.
A New York il passaggio sui ponti di Brooklyn, Manhattan e Triborough è stato bloccato dai manifestanti mentre familiari e amici di Eric Garner, ucciso dalla polizia nel luglio scorso, hanno protestato ad Harlem. Alcune centinaia di persone si sono radunate a Manhattan e hanno marciato pacificamente da Union Square a Times Square. Ad un certo punto un gruppo di attivisti ha spruzzato sangue finto contro i funzionari e gli agenti di polizia che a quel punto hanno arrestato alcuni dei contestatori. Scontri durante la notte quando migliaia di dimostranti sono scesi in piazza nella metropoli statunitense e sono stati attaccati dalla polizia che ha cercato di sequestrare alcuni striscioni e di impedire il blocco di importanti arterie stradali.
A Los Angeles centinaia di persone hanno protestato al Leimert Park, mentre un gruppo di 200 manifestanti ha marciato verso il centro bloccando la Interstate 110, che da Pasadena a Long Beach attraversa la metropoli, straiandosi sulle corsie.

25 novembre 2014, da contropiano.org


Lettera dal carcere di Vigevano (PV)
Carissime/i compagne/i di Olga, e detenuti d’Italia, rieccoci qui ancora con l’intento di portare a conoscenza di voi tutti quanto succede qui al carcere di Vigevano.
Iniziamo con l’aria sanitaria. Qui se si sta male, sia di giorno che di notte, si rischia di morire. Specialmente nella seconda sezione, la nostra, quella chiusa. Qui è fatto divieto di ammalarsi fuori orario e/o fuori giorno. Non si sa bene chi sia lo scienziato di turno che ha strutturato in questo modo l’area sanitaria e i vari trattamenti.
Mi spiego, ad ogni gruppo di detenuti, in base a quando fanno la prima visita d’ingresso, viene assegnato un medico. Questo medico è in struttura un solo giorno della settimana, dalle 8.00 alle 20.00. Se un detenuto sta male nel giorno in cui il proprio medico non è di turno, non viene visitato e tanto meno gli vengono somministrati medicinali. Solo se si è in effettivo pericolo di vita (infarto ecc.) viene presa una qualche decisione, ma solo dopo parecchio tempo. Nessuno si sa assumere le proprie responsabilità. Anche qui ci sono state vittime della mala sanità e dell’indegna etica professionale di chi ha tra le mani la vita di persone private della libertà personale. Ultima di queste vittime, l’amico Giuliano F. . Troppi detenuti sono stati e sono tutt’ora costretti a subire questo trattenimento disumano. Quello che l’aria sanitaria di Vigevano, non è in grado di offrire, anche per il personale e per i servizi messi a disposizione dell’azienda ospedaliera di Vigevano, viene assolto presso gli ospedali cittadini o nell’hinterland milanese. Solo che poi, quello che viene prescritto, o deve essere somministrato non sempre si può completare, anzi quasi mai.
Odontoiatria. È un’emergenza permanente. Una carie non può essere curata con un farmaco, ma c’è bisogno delle mani di un operatore. Sembra una cosa strana o eccessiva, ma è la pura e semplice realtà delle cose. E Vigevano è un carcere con meno di 400 detenuti.
Vogliamo parlare ora del sopravvitto: i prezzi sono allucinanti in base alla qualità dei prodotti. Vengono ritoccati i prezzi ogni 2/3 mesi in base ai consumi. Quando un prodotto, con un prezzo inferiore ad un altro prodotto simile, viene consumato più di quest’ultimo, dopo poco tempo viene aumentato e abbassato l’altro. La cosa strana è che il prodotto dal prezzo abbassato, quando viene acquistato, è ormai da buttare. Anche qui, se non ci devono guadagnare sulle spalle e sulla salute di chi è privato della libertà, non sono appagati. Loro però stanno sempre al loro posto.
Parliamo di assistenza ai detenuti. Hai voglia a fare domandine per educatore, assistenti sociali, direttori e quant’altro. I magistrati di sorveglianza? Ci sono ogni morte di papa, incredibile. Tutti gli operatori, dall’assistente volontario al Ministro della Giustizia, vivono il carcere, anche se con diversi propositi, con le stesse finalità. Accontentare il detenuto nel minimo possibile senza intervenire veramente sugli aspetti di ogni singolo detenuto. Fargli trascorrere la detenzione senza che questo crei problemi di nessun genere. Facendo questo in modo generale, vengono meno i principi costituzionali. Viene meno la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, anche se detenuto (giusto processo, giusta difesa, comprovate prove di colpevolezza, diritto alla salute, allo studio etc… ).
L’art. 27 comma 2 detta la presunzione di non colpevolezza dell’imputato. Qualcuno del governo se ne faccia una ragione e ne renda visione anche ai carcerieri o agenti P.P., ai direttori delle carceri, ai medici e tutti gli operatori degli istituti di pena italiani.
Care/i compagne/i, detenute/i d’Italia, nella viva speranza di sapervi in ottima salute e presto in libertà, vi salutiamo dal C.C. Vigevano non prima di rendervi a conoscenza della nostra volontà di trovare un giorno da dedicare ai nostri compagni caduti, massacrati per mano dello stato italiano, come Stefano Cucchi. La nostra intenzione sarebbe quella (in tutti gli istituti di pena italiani) di fare lo sciopero del carrello. Per motivi organizzativi riteniamo che il giorno migliore per attuare la proposta sia il 20 gennaio 2015, da ripetere negli anni a seguire sino a quando le sentenze verso i colpevoli diretti e/o indiretti di questi omicidi di stato, siano come le nostre. Il 20 gennaio è un martedì, la spesa nelle carceri arriva il lunedì o il martedì. In questo modo tutti possono mangiare.
Tanti saluti a tutti. Graziano, Antonio, Giorgio, Nori, Ermal e tutti i detenuti

Vigevano, 12 novembre 2014


bologna, 13 dicembre: Assemblea generale su carcere e dintorni
In quest'ultimo anno sono accadute molte cose che hanno portato ad intensificare ed estendere l'attenzione su ciò che avviene all'interno delle carceri. Senz'altro ha contribuito l'innalzamento della repressione delle lotte che, portando sempre più compagni/e dietro le sbarre, ha innescato nuove relazione all'interno delle carceri e fra interno ed esterno.
In tale contesto ha trovato sviluppo l'attività dei collettivi e delle esperienze “anticarcerarie” soprattutto come ponte tra il dentro e il fuori: da una parte veicolando dentro le istanze di lotta più rilevanti e incisive, e per questo attaccate sul piano giudiziario e carcerario, e dall'altra portando fuori le esperienze di lotta, individuali e collettive, e i contenuti espressi dalle carceri.
Così, attraverso presidi sotto le carceri, solidarietà agli arrestati, sostegno a iniziative e mobilitazioni di gruppi di detenuti, socializzazione delle pratiche intimidatrici ed assassine messe in atto dalle guardie e coperte ai più alti livelli dello Stato si è generata una reciproca “contaminazione” fra il dentro e il fuori che ha contribuito, anche se in modo limitato, a consolidare relazioni e a collocare la lotta contro la repressione ed il carcere all'interno di un piano meno generico e ideologico ovvero più preciso nel definire gli aspetti centrali del sistema carcerario e più consapevole dei nessi che legano tale sistema al mondo del lavoro, alla gestione della marginalità, all'immigrazione, al razzismo, alla guerra. Il piano dell'attività è dunque si più specifico ma non in un'ottica specialistica o settoriale: non un ambito di lotta fra gli altri ma un aspetto imprescindibile di ogni di lotta.
Avvertiamo adesso l'esigenza di “fare il punto” su una serie di questioni emerse lungo quest'ultimo anno al fine sia di socializzarle che di trovare degli obiettivi, da assumere collettivamente, capaci di rafforzare e rilanciare questo percorso di lotta in modo più coordinato. In particolare vogliamo evidenziare:
- estensione del processo in videoconferenza e di alcuni aspetti propri del 41bis;
- la recente legislazione improntata sulla riduzione del sovraffollamento carcerario e il ruolo che questa affida ai giudici di sorveglianza in un quadro di “riforma” più complessiva del ministero della giustizia;
- a proposito di alcuni processi (quello contro Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, il processone No Tav, quello contro la giornata del 15 ottobre 2011 a Roma) che stanno per concludersi e la loro influenza sull'azione controrivoluzionaria-repressiva;
- ciò che è accaduto in quest'ultimo anno e che sta accadendo nelle carceri, tratto dalle lettere e da ogni altra fonte e le indicazioni di lotta che fornisce;
- la sorveglianza speciale, che pende da subito su (Marianna, Andrea, Fabio e Paolo) arrestati il 3 giugno a Torino;
- trasformazioni predisposte per gli “Ospedali Psichiatrici Giudiziari”.

Bologna, sabato 13 dicembre 2014, ore 11.30, presso circolo IQBAL MASIH, via dei Lapidari 13/L, Bologna.

l'assemblea che si è tenuta a Milano il 16 novembre 2014

Invitiamo ad inviarci per tempo contributi e proposte da dentro le carceri da riportare all’assemblea di Bologna.


lettere dal carcere di spoleto (pg)
[...] Prima di tutto vi devo dire una cosa che mi sono tenuto dentro e mi faceva male... ma la colpa non è solo mia e poi potete capire e commentare la situazione in cui mi sono trovato e che ora rendiamo pubblica.
L’anno scorso mentre a Terni ero sottoposto al 14 bis arrivarono due ragazzi, li sentivo urlare che volevano essere trasferiti perché le guardie avevano ammazzato un loro amico… così mi faccio raccontare tutto, e loro mi dicono che un loro amico di 31 anni era stato picchiato perché lo avevano trovato che stava passando un orologio (da 5 euro) dalla finestra con una cordicina, così lo chiamarono sotto e lo picchiarono dicendogli che lo toglievano anche dal lavoro (era il barbiere), lui minacciò che se lo avessero chiuso si sarebbe impiccato, così dopo le botte lo mandarono in sezione, lui cercò di impiccarsi ma i detenuti lo salvarono tagliando il lenzuolo, così quei bastardi lo chiamarono ancora sotto e lo presero a schiaffi dicendogli che se non si impiccava lo uccidevano loro. Così quel povero ragazzo è salito, ha preparato un’altra corda, i suoi amici se ne sono accorti ed hanno avvisato la guardia, ma nel frattempo era salito l’ispettore perché era orario di chiusura, l’agente iniziò a chiudere le celle, ne mancavano solo tre da chiudere, tra cui quella del povero ragazzo, i due testimoni gridano all’ispettore che il ragazzo si sta impiccando e per tutta risposta ricevono minacce di rapporto perché si rifiutavano di rientrare in cella, finché dalla paura anche loro sono rientrati dopo aver visto che il loro amico romeno si era lasciato andare dallo sgabello con la corda al collo, e quei bastardi hanno chiuso a tutti tornando dopo un’ora con il dottore che ne costatava la morte e facendo le fotografie al morto…
Quei ragazzi mi hanno scritto la testimonianza quando sono scesi in isolamento, poi li chiamò il comandante Fabio Gallo e gli disse che se non dicevano niente li avrebbe trasferiti dove volevano… quei ragazzi vennero da me piangendo, implorandomi di non denunciare la cosa e di ridargli ciò che avevano scritto, io in un primo tempo non volevo, mi arrivò una perquisizione in cella alla ricerca della testimonianza ma non la trovarono, loro il giorno dopo furono trasferiti, poi mi scrissero che se pubblicavo la cosa li avrebbero uccisi, io confermai che potevano fidarsi. I fatti risalgono a luglio 2013, ai due ragazzi mancava un anno per cui ora saranno fuori. La testimonianza è al sicuro fuori di qui, assieme ad un’altra su un pestaggio di un detenuto che ho difeso e dice delle cose molto belle su di me. Ecco perché da Terni mi hanno trasferito subito!
Ora possiamo fare aprire un’inchiesta e a voi spetta una mobilitazione fuori per supportarmi perché adesso cercheranno di farla pagare a me, ma io non ho paura di loro.
Perdonatemi se sono stato zitto tutto questo tempo ma lo ho fatto per quei due ragazzi che erano terrorizzati… ora ci vuole un’inchiesta per far interrogare tutti i ragazzi che erano in sezione, serve un presidio sotto al DAP a Roma così a me non possono farmi niente. Non possiamo lasciar impunita questa istigazione al suicidio… devono pagarla.
Ora mi sento a posto con la coscienza, sono stato male a pensare alla mamma di quel povero ragazzo che lavorava e mandava 80 euro alla sua famiglia per mangiare, quei due ragazzi erano terrorizzati, non ho voluto fare niente finché non uscissero, adesso per dare giustizia iniziamo noi a mobilitarci… sono sicuro che voi capirete perché sono stato zitto fino ad ora. Un abbraccio con ogni bene e tanto amore. Maurizio.

Carcere di Spoleto, 20 settembre 2014

***
Compagni/e ciao un abbraccio, non ho fatto neanche un’ora di isolamento che ho visto il primo abuso e istigazione nei confronti di un detenuto extracomunitario ad auto-lesionarsi e vi racconto il fatto.
E’ arrivato verso le 10.30, lo sentivo urlare e riempire di parolacce le guardie, chiedendo perché era stato portato in isolamento, così dopo averlo fatto spogliare e lasciato nudo è andato in escandescenza, ha iniziato a rompere il plaforo con la lampadina, ha iniziato ad urlare che si sarebbe tagliato, ma la guardia gli diceva che cosa aspettava a farlo, così iniziò a tagliarsi dappertutto, vi premetto che conosco bene questo ragazzo che è stato in sezione dove ero io, è educato, rispettoso e pulito, ho cercato di dissuaderlo io e gli altri perché avrebbe fatto solo felice questi infami di Spoleto, ma lui non ha voluto sentire a nessuno.
Dopo diversi tagli arrivano tutti gli agenti, compreso il vice comandante Cuomo, gli danno i vestiti e gli promettono che lo mandano subito in infermeria per le medicazioni, ma come sempre le loro promesse sono menzogne che puzzano come la merda... così dalle 11 del mattino ci si arriva alle 17 di sera, e il ragazzo inizia a rompere la porta del bagno dove c’è un vetro molto duro che cede ai colpi, così tutti i vetri del diametro di 1 cm per 1 cm si trovano sul pavimento di tutta la cella, allora inizio a chiamare il brigadiere di aprirmi che avrei cercato io di calmarlo, mi aprono, gli porto il tabacco con cartine e filtri, cerco di calmarlo, ma lui diceva: hai visto Maurizio è da stamattina che mi prendono per il culo e mi istigano... mentre gli sto per dire di mettersi sul letto che il pavimento era pieno di vetri e rischiava di infilzarsi un vetro nel piede, appena glielo ripete anche il brigadiere inizia ad andare su tutte le furie... così inizia a saltare con tutto il suo peso sui vetri, il sangue inizia a colare come se fosse stata versata una bottiglia da un litro sul pavimento... (ormai era fuori di senno).
In conclusione oggi giorno 18 quel povero ragazzo non si può muovere e devono portarlo in ospedale, si è appena svegliato dai psicofarmaci che gli hanno dato (questi infami) e i primi infami sono questi (pseudo dottori) se così possiamo definirli, che somigliano molto alle cure di Josef Mengele (l’angelo della morte) come veniva definito ad Auschwitz (infami come Mengele).
A Spoleto possono stare sicuri che tutte le loro infamie e abusi verranno resi pubblici, questo non è che l’inizio, così dopo un anno di prese per il culo sul trasferimento vicino alla mia famiglia per tenermi buono, adesso sono proprio incazzato, e quello che cerco io sono proprio le sezioni di isolamento, così non potrete nascondere ed occultare i vostri abusi. […]
Vi comunico che alle 21 gli hanno tirato fuori i vetri dai piedi però lui è in sciopero della fame perché vuole partire da sto carcere infame, il ragazzo si chiama Ibrahim El Almaraini, ha 26 anni, ma qui vige il razzismo come è accaduto poco tempo fa con quel ragazzo che durante il Ramadan gli mandavano la carne cruda, adesso lo hanno chiamato 5 volte per fargli ritirare la denuncia contro la direzione ma lui non ritira niente, la storia è sull’opuscolo n.94. Questo è il carcere di Spoleto (e degli abusi) con la complicità dei magistrati di Sorveglianza.

Spoleto, 17 ottobre 2014
Maurizio Alfieri, via Maiano 10 – 06049 Spoleto (PG)

***
[...] vi informo che Stefano Marucci si trova a Livorno, lui è originario di Firenze, e siccome il direttore e comandante dopo la denuncia della madre erano preoccupati, gli avevano promesso che se la ritirava lo mandavano in Toscana. Per cui, detto fatto...
Per forza, hanno massacrato un ragazzo che prendeva metadone, poi la guardia dopo un certo orario non poteva aprire la cella, e in più il fatto della lite con la guardia era già successo, e invece loro sono saliti e lo hanno massacrato, rompendogli costole e la testa in più parti con le chiavi, oltre a renderlo irriconoscibile in viso...
Per cui queste merde quando vogliono le strade per trasferire vicino a casa le trovano... Ecco perché io non mi farò più prendere in giro da questa feccia, ho aspettato un anno, dopo varie promesse a me e al mio avvocato, adesso sarò la loro ombra e tutti gli abusi di qua li renderò pubblici e me ne fotto dell’isolamento e le corna che hanno sti cornuti.
Aggiungete questo scritto a quello dove vi informo che mi avevano portato in isolamento, e di preparare attraverso il coordinamento dei detenuti uno sciopero nazionale da concordare, logicamente con tutti i collettivi che porteranno il loro appoggio dall’esterno.
Un abbraccio forte, Maurizio.

Maurizio Alfieri, Via Maiano 10 - 06049 Spoleto (Perugia)
***
[...] vi scrivo dal carcere di Spoleto, dove mi trovo da 11 anni da quando sono definitivo dell’ergastolo. In questi 11 anni ho avuto sempre un buon comportamento, ho sempre lavorato anche in cucina, ho fatto tutte le scuole fino ad arrivare a prendere il diploma. Da un paio di anni cerco di essere trasferito in un istituto qualsiasi della Lombardia dove vivono i miei fratelli, così da poter agevolare la mia famiglia per fare i colloqui, sia economicamente ma soprattutto per le condizioni di salute di mia madre.
Mi è stato sempre negato il trasferimento per motivi di sicurezza quando io da 15 anni, come vi dicevo prima, ho avuto ed ho sempre un buon comportamento perciò la motivazione non regge, come mai se le direttive della corte europea R(2006) n°2 leggi relative previste dalle regole penitenziarie europee art.42, art.28.230/2000 art.61 comma 2 prevede che dobbiamo stare al massimo a 200 km dai nostri cari? Non è che la mia condanna all’ergastolo prevede che io debba essere allontanato dalla famiglia? Perché io non debbo vedere mio figlio, quando mi hanno arrestato aveva 2 anni oggi 17 anni e l’ho potuto vedere in 11 anni neanche 10 volte, chi lo prevede questo il DAP?
Come mai il DAP può violare tutte le leggi, le direttive della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ammassandoci uno sopra l’altro, e nessuno di loro ne paga le conseguenze nessuno lo può contrastare.
Gli avvocati dicono che con il DAP non si parla in nessuna maniera, perciò noi da qua cosa possiamo fare. Non sapendo più cosa fare quando mi hanno chiamato per raddoppiare le celle in questo istituto che prima era a celle singole mi sono rifiutato io sono ergastolano l’art.22 prevede l’isolamento notturno ma il DAP quando ci conviene le cose se le dimentica. Così mi trovo da 8 mesi in isolamento. Se lo è dimenticato di prendere un provvedimento magari la direzione non glielo ha detto. Non accettandomi l’istanza per andare dalla mia famiglia in Lombardia, mi sono messo in contatto con il garante di Roma e mi hanno proposto se volevo andare a Rebibbia per frequentare l’università che lì non è a pagamento, o meglio pagano loro, invece io qua non posso iscrivermi perché non ho la possibilità economica, così con il parere della mia famiglia ho subito accettato in quanto da Catania con l’aereo qualche colloquio mi viene meglio a farlo, e soprattutto quando mi ricapita un’occasione come questa, posso laurearmi senza avere spese, era un riscatto per me, mi mettevo in gioco per un paio di anni una bella sfida, così abbiamo fatto l’istanza con il garante di Roma (qua a Spoleto non esiste) mi hanno rigettato anche questa istanza, sempre per la sicurezza, se voglio studiare mi devo iscrivere qua, ma io soldi non ce ne ho come faccio? La mia famiglia non la posso vedere, non posso studiare, è questo il modo per rieducare il detenuto tenendomi 8 mesi in isolamento, ma soprattutto se quelli che mi devono rieducare non rispettano per niente le regole e se ne fregano delle leggi che esempio mi danno? Non so se mi potrete aiutare ma sicuramente lo possiamo far sapere a tutti quello che fanno questi signori “perbene” del DAP. Ciao grazie e a presto.

Spoleto, novembre 2014
Luciano Rossa, via Maiano 10 – 06049 Spoleto (PG)


contro il dap, per maurizio e i detenuti in lotta
Due presidi: sotto il D.A.P. a Roma e al carcere di Spoleto (PG)
Il 25 giugno 2013, nel carcere di Terni un altro detenuto è morto di Stato, ucciso dal cinismo dei servi in divisa. Le guardie lo hanno picchiato, lo hanno chiuso in cella da solo dopo che i compagni lo avevano salvato da un primo tentativo di suicidio, lo hanno incitato ad uccidersi e infine visto morire senza muovere un dito in suo soccorso.
Episodi come questo sono all’ordine del giorno nelle carceri italiane, tenuti in un silenzio che va spezzato.
Maurizio Alfieri, ora detenuto a Spoleto, denuncia pubblicamente i responsabili di questa morte: i secondini agli ordini del comandante Fabio Gallo.
Maurizio da anni lotta coraggiosamente contro tutti i soprusi e le violenze del sistema carcerario di cui viene a conoscenza. Per questo ha subìto pesanti ripercussioni: minacce, isolamento, procedimenti giudiziari con false accuse, continui trasferimenti che tentano di spezzare le reti di solidarietà che gli si creano attorno, dentro e fuori le carceri.
Questo è il trattamento riservato a tutti e tutte quelle detenute che non abbassano la testa e lottano per la libertà e per delle condizioni più degne.
Ai servi in divisa, nelle carceri come nelle strade, è stata garantita l’impunità. Nelle carceri come nelle strade sono sempre più le persone che vengono uccise, subiscono violenze e umiliazioni. Solo lottando, solo organizzandoci, solo rispondendo direttamente ai soprusi ci possiamo difendere.
Opponiamoci alle continue morti nelle carceri e denunciamo la responsabilità delle amministrazioni carcerarie nei continui casi di suicidio. Opponiamoci alle condizioni di reclusione all’interno del carcere di Spoleto. Opponiamoci all’uso delle sezioni di isolamento all’interno delle carceri: vera e propria forma di tortura.
Se le guardie sono i responsabili di queste morti, il DAP è il mandante.
Il 28 novembre saremo in presidio di fronte al DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) a Roma. Dentro quel palazzo, seduti dietro le loro comode scrivanie, quegli aguzzini decidono le sorti di migliaia di persone. Che per un giorno sentano l’urlo di rabbia che viene da dentro le carceri.

VENERDÌ 28 NOVEMBRE ORE 14,00 appuntamento a Largo Dama, Roma
SABATO 29 DALLE 14,00 saremo invece di fronte al carcere di Spoleto a portare calorosi saluti a Maurizio e ai detenuti/e lì rinchiusi/e.

novembre 2014, da informa-azione.info


Lettera dal carcere di Terni
Lettera aperta a Maurizo Alfieri
Ciao Maurizio, voglio scriverti questa lettera e renderla pubblica per fare omaggio e per dar forza ad un compagno di sventura, con il quale ho condiviso pasti, discussioni, solitudini e solo qualche abbraccio, perché a Tolmezzo, in quel freddo isolamento anche l’umanità tra detenuti doveva essere soffocata dalla densità del cemento che copriva l’orizzonte, smorzava voci e recideva gli abbracci e le strette di mano.
Alla tua partenza, come a quella di Massimo, anche questo gesto umano ci è stato rubato, il saluto fraterno. Ho visto un detenuto apparentemente non tropo diverso dagli altri, con le spalle impolverate dagli anni detentivi, con i limiti umani che il carcere enfatizza e a volte regola, prendere atto del vero senso della lotta solidale e del rifiuto dell’acquiescenza che cerca di inculcarci il regime penitenziario. Questo anche grazie all’incontro con Massimo che non è stato solo un ulteriore pungolo per la tua e mia sensibilità, ma ci ha messo in contatto con amici che sono venuti fin davanti quelle infauste mura per gridare il loro sdegno e la loro vicinanza.
Amico mio è una frase logora dire che non sei solo, però sia a te che ai compagni, ricordo che invece spesso lo si è ugualmente, quando le luci si spengono, quando le lettere vengono chiuse, quando le imprecazioni alle guardie scemano, quando i reclami ed i ricorsi cadono nel vuoto, quando alle ideologie pure si contrappongono i provvedimenti, quando alla forza vitale viene imposto l’isolamento. Provo un affetto immenso per te e per il tuo grande cuore e mi rivolgo prima a quello quando ti dico che è inutile fare un concerto quando le vere orecchie ed i veri applausi sono fuori del teatro, è inutile fare l’attore quando il pubblico non può riscaldare con il suo calore le notti fredde delle celle. Amico mio, il samurai sacrifica il braccio pur di vincere il duello, è impavido ed intelligente, ma non sacrifica la testa. Maurizio, stai pagando con una moneta troppo cara una guerra fatta con i mezzi sbagliati. I Vietcong hanno battuto gli Stati Uniti prima con i tunnel sotto la giungle e poi con le armi. Non ti sto dicendo di piegarti, né tanto meno di fare un passo indietro, bensì di farne due avanti. Devi solo pensare ad uscire in fretta. Fuori hai una famiglia che ti aspetta e dei compagni che non vedono l’ora di abbracciarti. Non hai bisogno che ti dica altro, amico mio, sei abbastanza intelligente per capire, nonostante tu sia accecato dalla rabbia. Tienila in serbo per i periodi a venire, è un ottimo carburante e la lotta ne ha bisogno di interi barili.
Amico mio, spero terrai presente queste mie parole che sono prive di saccenza ma colme di amicizia. Nutro sempre il desiderio di poterti rincontrare come uomo libero e condizione necessaria, è che il mio processo vada per il meglio e che tu faccia di tutto per evitare scontri che possano inutilmente arrecarti danno. Con stima e rispetto, Il tuo amico e compagno Valerio.

Terni, 4 novembre 2014
Valerio Crivello, via delle Campore 32 – 05100 Terni


Lettera dal carcere di Nuoro
L ‘AFFETTIVITÀ ALL’ INTERNO DEL CARCERE
Quando si parla di affettività in carcere è difficile da descrivere alle persone del mondo libero e, soprattutto, non conoscitori del pianeta carcere. L’affettività è quella sfera di sentimenti che la propria persona condivide con la persona amata. Questi sentimenti influiscono al livello psicologico e danno una forte spinta a far sì che il rapporto non si affievolisca. Questa sfera o sentimenti sono innati nell’essere umano; venendo meno questi stati emozionali, l’essere umano comincia ad annullarsi in se stesso e ha sviluppare reazioni non tollerabili con il proprio io.
Persone che vivono da lungo tempo in carcere hanno perso, non solo tutti questi stati emozionali, ma hanno causato la lontananza dalla propria compagna o famiglia. Oggi in istituti di pena questo problema è stato risolto, come in Croazia sono consentiti colloqui non sorvegliati con il partner, in Germania sono predisposti piccoli appartamenti in cui i detenuti con lunghe pene possono incontrare i propri cari; in Olanda, Norvegia e Danimarca ci sono miniappartamenti immersi nel verde, forniti di camera matrimoniali. La situazione in Italia è molto diversa rispetto agli altri Stati Europei perché, basti pensare che tutt’oggi in Italia prevale il CODICE ROCCO, nato nel 1930 e tutt’ora in vigore. Certo e stato un po’ migliorato nel corso degl’anni ma resta sempre obsoleto. Ora io mi chiedo perché in Italia si parla continuamente di diritti umani? Ossia di rispettare questi diritti? Non credete che i politici esagerino quando parlano di diritti? Non si vuole capire che la rieducazione del detenuto è la propria famiglia. Io credo che oggi in Italia ci sia una buona parte di istituzioni che, non hanno un’etica morale, ma sono delineati a portare una politica dispotica e nello stesso tempo vittimista di Stati altrui. Oggi L’ Italia è stata più volte richiamata dall’Unione Europea, per far sì che la situazione carceraria venga migliorata. Nonostante questo l’Italia non ha saputo gestire la condizione e oggi ci ritroviamo a risarcire una crossa ammenda a l’Unione Europea.
Salvuccio Pulvirenti, ergastolano ostativo

Nuoro, 5 novembre 2014
Salvatore Pulvirenti, Via Badu e Carros 1 - 08100 Nuoro


teramo: Per un'assemblea nazionale contro la repressione
Davide Rosci e Mauro Gentile, compagni condannati per i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma, lanciano un appello per una assemblea nazionale contro la repressione e per l’abolizione del Codice Rocco da tenersi a Teramo il 20 dicembre 2014.

Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito pressoché inermi ad uno dei più grandi e gravi attacchi repressivi mai attuati nei confronti dei movimenti di lotta sociale e le 17.000 denunce, censite dall’Osservatorio sulla Repressione, stanno lì a certificarlo. Consapevoli che il tempo dell’attesa sia da tempo scaduto di seguito lanciamo il nostro appello.
Il processo per gli scontri di Roma del 15 ottobre 2011, che ci vede inquisiti, riporta alla memoria il procedimento per i fatti del G8 di Genova del 2001. Allora come oggi le modalità politico-giuridiche avanzate ai danni dei manifestanti risultano essere sempre le stesse ed infatti, grazie ad un aborto legislativo di epoca fascista, chiamato reato di Devastazione e Saccheggio, questo Stato di Polizia è riuscito nel suo becero intento di ottenere pene esemplari contro i manifestanti e impunità per se stesso attraverso abili operazioni di copertura e depistaggio.
Genova, così come Roma, rappresenta una ferita ancora aperta e gli ultimi pretestuosi attacchi portati avanti ai danni dei fratelli e delle sorelle NO TAV, contro i compagni del movimento di lotta per la casa e le organizzazioni popolari e operaie rendono questa ferita ancora più profonda.
E’ inutile oggi girarci attorno o continuare a scrivere analisi fine a se stesse dopo che i resistenti vengono arrestati, è giunto il momento di reagire e per farlo dobbiamo essere uniti e decisi. E’ pertanto arrivato il tempo di aprirci tutti ad un confronto propositivo perché la fase storica che stiamo attraversando chiede, oggi come non mai, una concreta e condivisa strategia di lotta politica, una strategia da pianificare nell’immediato che porti alla nascita di un fronte unitario antifascista capace a fatti, e non a parole, di combattere la repressione e quindi abolire l’ariete legale dei padroni, il Codice Rocco, che via via che avanza la crisi viene sempre più spesso utilizzato. Non c’è più tempo da perdere!
Attraverso questo appello vogliamo esprimere un pensiero di autocritica che dovrebbe accomunare tutti/e e dire che, fatta eccezione della strenua e salda resistenza che il movimento NO TAV è stata capace di esprimere, le restanti realtà conflittuali hanno purtroppo perso la sfida nei confronti dell’apparato repressivo statale perché incapace di mobilitarsi unitariamente.
A riguardo è emblematico il caso del processo per i fatti del G8 di Genova del 2001 dove il movimento, allora forte di numeri e strutture organizzative, non riuscì a dare quella indispensabile risposta perché diviso da una condotta settaria e disfattista figlia di deleterie ed eterne divisioni. 
Badate bene, noi non intendiamo additare nessuno, sappiamo benissimo quanto sia difficile trovare la giusta quadratura fra realtà tra loro differenti, ma crediamo fermamente che continuare lungo questa suicida strada ci vedrà inevitabilmente sconfitti così come crediamo che tali barriere ad altro non serviranno che agevolare il lavoro sporco dei nostri aguzzini e soffocare sul nascere ogni forma organizzata di opposizione popolare. Ci sembra quindi giunto il momento di mettere da parte l’interesse particolare per dare spazio a quello generale.
Pertanto invitiamo tutti i movimenti in lotta, tutti i sindacati conflittuali, tutte le organizzazioni politiche comuniste e antifasciste e tutti i sinceri democratici a prendere parte sabato 20 dicembre a Teramo all’Assemblea Nazionale Contro la Repressione e per l’abolizione del Codice Rocco.
Chiamiamo al dibattito tutti coloro che condividono e fanno proprio lo spirito di questo appello e quanti ritengono che sia necessaria inaugurare una pagina nuova della resistenza italiana per costruire un’alternativa politico-sociale che sia in grado di dare risposte concrete a chi ci reprime ed ai milioni di individui che credono in un mondo diverso e giusto.
E’ per questo che eravamo in piazza il 15 ottobre 2011 e per questo che dobbiamo continuare a lottare!

Davide Rosci e Mauro Gentile, prigionieri politici per gli scontri di Roma del 15 ottobre 2011
22 novembre 2014, da contropiano.org

***
roma: dalle udienze del processo “15 ottobre 2011”
Udienza del 13 Novembre, Roma aula 9 penale.
Dopo aver finito l’ascolto dei vari teste della difesa il Presidente della giuria dedica questa giornata a rispondere (finalmente) alla richiesta fatta dalla difesa, già dalla prime udienze, di poter produrre e quindi farle acquisire i nastri audio delle comunicazioni radio tra i vari reparti e la centrale operativa della questura visto che nessun teste né della difesa né dell’accusa è riuscito a far luce su chi dirigeva i reparti mobili e soprattutto che disegno avesse in mente. La seconda richiesta era di poter acquisire tutti i filmati della polizia scientifica e non solo i fotogrammi prodotti dall’accusa. Un’immagine va contestualizzata: non basta mostrare il fotogramma in cui un compagno lancia un sasso o altro, ma bisogna far vedere tutto il video soprattutto visto che i vari filmati mostrati dalla difesa hanno dimostrato come le “forze dell’ordine” hanno in più di una occasione usato violenza contro i manifestanti: lanciando sassi e lacrimogeni ad altezza uomo, caricando con caroselli di camionette e blindati i compagni e accanendosi su ragazze e donne inermi.
Tanto per cambiare la Giuria si pronuncia a favore dell’accusa dichiarando che il processo deve essere basato solamente sulle prove prodotte nella fase delle indagini preliminari andando contro a tutte le basi del processo: cercare e stabilire la verità. Come fai a stabilire la verità sulla base di prove fornite e tagliate unicamente dall’accusa solamente per dare veridicità alla sua tesi accusatoria?
Unico contentino dato alla difesa è l’accoglimento della richiesta di produrre tutti i video ripresi dall’elicottero di servizio in quella giornata. Nell’udienza del 18 Dicembre l’accusa dovrebbe produrre questi filmati e finalmente la difesa potrà prenderne visione. Prossime udienze 18 Dicembre, 15 Gennaio entrambe ore 9:30 sempre stessa aula stesso tribunale stessa ingiustizia!!!
Milano, novembre 2014
sulla chiusura degli o.p.g.
Alla recente tre giorni antipsichiatrica di Donoratico, una decina di collettivi/realtà e diverse individualità provenienti da tutta italia hanno deciso di organizzare una manifestazione a chiamata nazionale a Reggio nell'Emila contro il magistrato di sorveglianza e gli Opg per Marzo 2015. Di seguito stralci del documento prodotto durante dall'assemblea.

Il Manicomio Criminale (MC) come principale istituzione per l’esecuzione delle misure di sicurezza è stato introdotto nel 1876 e regolamentato nel 1930 con il Codice Rocco.
Nel 1891, con il Regio Decreto 1 febbraio 1891, n. 260 “Regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi”, il Manicomio Criminale viene ridenominato Manicomio Giudiziario (MG), pur rimanendo sostanzialmente invariato.
La ridenominazione è un elemento centrale nella storia della psichiatria: da quella del Manicomio Criminale (MC-MG-OPG-REMS) a quella dell’Elettroshock (oggi definito Terapia ElettroConvulsiva –TEC-). Lo scopo è evidentemente quello di “cambiare nome” per “cambiare significato” e nascondere così gli orrori legati a certe pratiche e a certe strutture.
Nel 1975, con la Legge n. 354 “Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta” (legge Gozzini), il Manicomio Giudiziario (MG), viene ridenominato Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG), pur rimanendo sostanzialmente invariato come principale istituzione per l’esecuzione delle misure di sicurezza.
Le riforme carcerarie del '75-'86 e quelle psichiatriche del '65-'78 hanno prodotto solo un cambiamento di definizione. In tutti questi anni, mentre l'OPG è rimasto cristallizzato nella sua forma fascista, con la legge 180/1978 gli Ospedali Psichiatrici vengono lentamente smantellati e sostituiti da una serie di istituzioni (ospedali, case famiglia, comunità, ecc.) ed il ricovero coatto viene regolamentato e ridefinito come Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) in reparto psichiatrico.
Allo stesso modo le carceri vengono formalmente coinvolte in un processo di apertura, che paradossalmente conduce ad un allargamento della popolazione carceraria tramite un più ampio e capillare sistema di controllo esterno al carcere. Con la legge Gozzini le carceri si aprono alla società e si instaurano una serie di misure alternative all'internamento.
Il fondamento di queste istituzioni è ed è sempre stato l’internamento di una persona giudicata socialmente pericolosa, cioè di una persona che potrebbe reiterare la stessa condotta in futuro. In altre parole, si priva della libertà un individuo per quello che si suppone sia e non per quello che effettivamente fa. Tale principio è un fondamento delle società autoritarie, non a caso è stato il fascismo a introdurre le misure di sicurezza.

La situazione attuale
E' del 30 maggio 2014 la Legge n°81 che converte il decreto legge del 31 marzo 2014 n°52 recante “disposizioni in materia di superamento degli OPG”.
Il decreto n° 52/2014 prevede la proroga dal 1° aprile 2014 al 31 marzo 2015 il termine per la chiusura degli OPG e la conseguente entrata in funzione delle REMS (Residenze per l’Esecuzione Misure Sicurezza).
Attualmente in Italia gli OPG presenti sono sei e si trovano ad Aversa, Napoli, Barcellona Pozzo di Gotto, Montelupo Fiorentino, Reggio Emilia, Castiglione delle Stiviere. Ad oggi, in questi veri e propri manicomi criminali, ci sono rinchiuse circa 850 persone.
I dati nel trimestre 1 giugno/1 settembre 2014 segnalano: n. 84 ingressi contro n. 67 persone dimesse; quindi continuano nuovi ingressi, nonostante si debbano privilegiare le misure alternative al ricovero in OPG.
Come si finisce in un OPG? In Italia, in caso di reato, se vi sia sospetto di “malattia mentale”, il giudice ordina una perizia psichiatrica; se questa si conclude con un giudizio di incapacità di intendere e di volere dell'imputato, lo si proscioglie senza giudizio e se riconosciuto pericoloso socialmente, lo si avvia a un OPG (articolo 88 c.p.) per periodi di tempo definiti o meno, in relazione alla pericolosità sociale.
Nelle future REMS la durata della misura di sicurezza non potrà essere superiore a quella della pena carceraria corrispondente al medesimo reato compiuto: ci preoccupiamo, pertanto, del fatto che le persone che hanno già scontato in OPG tale pena non finiscano nelle REMS, ma vengano liberati subito e senza condizioni.
Tuttavia la legge prevede, al momento della dimissione dagli OPG, percorsi e programmi terapeutico-riabilitativi individuali. Tradotto significa l’inizio di un processo di reinserimento sociale infinito, promesso ma mai raggiunto, legato indissolubilmente a pratiche e sentieri coercitivi, obbligatori, contenitivi (*).
Noi crediamo, invece, nel bisogno e nella costituzione di reti sociali autogestite e di spazi sociali autonomi, in grado di garantire un sostegno materiale, una casa senza compromessi di invalidità, nonché un reddito e un lavoro non gestiti dai servizi socio-sanitari, bensì autonomamente dal soggetto. Una rete in grado di riesumare e coltivare quel legame unico, antispecialistico e non orientato a una cura protocollare che, in nome della scienza, non lascia spazio all’uomo. Quel legame sciolto dal discorso capitalistico, demiurgo di consumatori in solitario godimento.
Per abolire realmente gli OPG bisogna non riproporre i criteri e i modelli di custodia ma occorre metter mano a una riforma degli articoli del codice penale e di procedura penale che si riferiscono ai concetti di pericolosità sociale del “folle reo, di incapacità e di non imputabilità”, che determinano il percorso di invio agli Opg.
Viene ribadito, oltretutto, il collegamento inaccettabile cura-custodia riproponendo uno stigma manicomiale; dall’altro ci si collega a sistemi di sorveglianza e gestione esclusiva da parte degli psichiatri, ricostituendo in queste strutture tutte le caratteristiche dei manicomi. La proliferazione di residenze ad alta sorveglianza, dichiaratamente sanitarie, consegna agli psichiatri la responsabilità della custodia, ricostruendo in concreto il dispositivo cura-custodia, e quindi responsabilità penale del curante-custode.
La questione non è solo la chiusura di questi posti: non si tratta solo di chiudere una scatola, per aprirne tante altre più piccole. Il problema è superare il modello di internamento, è non riproporre gli stessi meccanismi e gli stessi dispositivi manicomiali. Il problema non è se sono grossi o piccoli, il problema è che cosa sono. Il manicomio non è solo una questione di dove lo fai, se c’è l’idea della persona come soggetto pericoloso che va isolato, dovunque lo sistemi sarà sempre un manicomio. Magari più bello, più pulito, ma la logica dominante sarà sempre quella dell'annientamento.
Benché nella riforma sia previsto un maggiore contatto dell'individuo con la società, l'isolamento rimane all'interno dell'individuo attraverso trattamenti psicofarmacologici debilitanti che conducono a fenomeni di cronicizzazione.
Cambieranno i luoghi di reclusione, in strutture meno fatiscenti e più specializzate, ma allo stesso tempo ci sarà una gestione affidata al privato sociale, andando così incontro a fenomeni di allungamento della degenza per mantenere i finanziamenti, con una presa in carico vitalizia ad opera dei servizi psichiatrici.
Questa legge non soddisfa l'idea di un superamento di un sistema aberrante e coercitivo, infatti permangono misure di contenzione svilenti per l'individuo. Una nuova tecnologia del controllo sociale si diffonde: l'industria farmacologica sforna prodotti capaci, in alcuni casi, di sostituire le camicie di forza, i letti di contenzione e le sbarre.
Il manicomio non è una struttura. Il manicomio è un criterio.

(*) Dal 1930 nel Manicomio Criminale sono stati internati i folli rei e i rei folli. I folli rei sono coloro che hanno compiuto un reato in stato di incapacità di intendere e di volere per infermità mentale, sono stati prosciolti ma internati perché ritenuti socialmente pericolosi. I rei folli, invece, sono coloro che hanno compiuto un reato, sono stati condannati ad una pena detentiva e, successivamente, in carcere sono stati riconosciuti socialmente pericolosi per infermità mentale. Nella proposta di superamento degli OPG, le REMS accoglieranno i folli rei condannati alla misura di sicurezza; mentre i rei folli rimarranno all’interno delle carceri, trasformate in novelli OPG. L'OPG viene quindi abolito, ma solo per creare all'interno del carcere strutture adeguate alla “cura” dei disturbi mentali, reparti psichiatrici interni all'istituto penitenziario, così da aumentare il ruolo della psichiatria in carcere senza modificare la situazione attuale.

novembre 2014
Campagna per la Chiusura degli OPG - Rete Antipsichiatrica (rapaviola@gmail.com)


Da una lettera dal carcere di Cremona
L'infermeria e dove ti ricoverano al carcere di Cremona
[…] su consiglio del dottore dovevo essere ricoverato, questo perché dovevo essere tenuto sotto controllo, in quella che loro chiamano infermeria. Io non essendoci mai stato mentre mi portavano mi immaginavo un camerone pulito, sterilizzato con i letti uno a fianco all'altro, magari con qualcuno con la flebo e giustamente all'entrata due agenti di guardia che li controllavano. Comunque mi portavano li perchè oltre le botte ricevute in testa soffro anche di epilessia. Ma arrivato nella cosiddetta infermeria c'è stata la sorpresa. L'infermeria non era altro che un lungo corridoio sporco ed ad ogni metro c'era una cella che sono della lunghezza di 2 metri e della larghezza di 2 metri, compreso il bagno, che oltre essere puzzolentissimo, piccolissimo, i rubinetti non sono come quelli soliti ma uno che è al di sopra del lavandino e caccia solo acqua fredda, lo scarico dell'acqua rotto, poi la cella è da una sola persona ma ne mettono due, io infatti mi sono dovuto andare a prendere un materasso nel magazzino che non sto a elencare le condizioni dove c'erano i letti e materassi messi alla rinfusa uno sopra l'altro e i materassi in gomma piuma erano anche bucati. Io ho cercato di prendere quello con meno buchi prima che arrivassi a trovare la cella dove dall'altra persona fossi accettato ed ho scorso le altre vedendo anche le persone che c'erano dentro oltre quelli che dormivano quasi 24 ore su 24. Poi c'erano quelli che si tagliavano, infatti uno di questi appena gli hanno chiesto se potevano mettermi dentro ha minacciato di iniziare a tagliarsi, spaccare la TV, poi ci sono malati di cuore che oltre la cardiospirina gli danno gli psicofarmaci, tanto che stanno sempre inebetiti e vari derelitti che non vi sto a elencare. Nella cella dov'ero c'erano infiltrazioni di acqua, lavandini che perdevano tanto che il tunisino per non far allagare la cella aveva messo vicino alla porta, nella parte esterna, asciugamani. Nell'infermeria non puoi avere il fornello a gas, neanche per farti un caffè, né detersivi. Hai una piccola finestra dove non puoi neanche stendere i panni, li devi appendere alla porta del bagno e come dicevo prima, non avendo il fornello, ti devi magiare la schifezza passata dal carcere. Nella cella come insetti puoi trovare di tutto, cimici verdi, mosche, zanzare, scarafaggi. Poi sia i medici che le infermiere per qualsiasi cosa, hai mal di pancia, mal di testa, ecc., insomma per tutto ti danno la Tachipirina o se stai un po' più male antibiotici a go go. Ma il peggio accade la sera perchè il corridoio che dicevo prima è del tutto buio e l'infermiera alle 20 quando passa le medicine con il carrello, la sua unica luce per leggere i nomi e il farmaco che gli deve dare e una torcia lunga quanto le pile da walkman e la parte davanti da dove emette la luce e larga 2 o 3 centimetri. Voi immaginate la difficoltà nel totale buio a parte quella lucetta nel leggere i nominativi e trovare i farmaci che deve dare e infatti detto da chi ci sta da più tempo, alcune volte ha sbagliato dando un farmaco per un altro con le eventuali conseguenze per chi le ha prese. Per non parlare degli psicofarmaci in gocce che neanche conta, ad esempio al mio concellino gli ha dato quasi mezzo bicchiere di plastica, di quelli del caffè, più pasticche sempre di psicofarmaci... Vengono dati Nozinam, Seroquel, Tavor, Seroquel da 300, Depakin, Minias, Rivotril, Talofen. Voi fate conto con la facilità con cui le danno i dottori, oltre a far star tranquilli i detenuti quanto ci guadagnano i dottori dalle case farmaceutiche. E' veramente sproporzionato l'uso di psicofarmaci.
Mentre, come dicevamo prima, ti ricoverano li (quando sono andato via mi hanno fatto anche le dimissioni) è perché devi essere tenuto sotto controllo a parte l'infermiera quando ti porta le medicine, durante tutto il giorno non vedi nessuno, né dottori, né infermiere, né agenti, a parte se stai male devi chiamare l'agente che poi è lo stesso che apre i blindi che sono in due parti diverse e i detenuti che devono andare in infermeria dal dottore mentre il detenuto spiega il suo male e viene visitato, l'agente rimane li per controllare, poi rispondere al telefono per qualsiasi cosa sia se gli agenti di sezione chiedono se c'è la fila in infermeria e lui li deve controllare, sia ai nuovi detenuti che accompagnati da un altro agente e l'ispettore tramite telefono gli dice se vanno a quello vecchio o al carcere nuovo e in quale sezione o cella... e secondo voi quando viene chiamato perchè qualcuno sta male dopo quanto arriva? I dottori si vedono solo quando qualcuno è disteso per terra!
Comunque dopo 3, 4 giorni che ho protestato facendo giornalmente battitura e sciopero della fame (anche perchè quello schifo che passano non lo mangio) sono stato rimandato dall'ispettore e dopo avergli spiegato la situazione dell'infermeria e che se non fossi stato rimandato nella mia sezione e nella mia cella avrei denunciato la situazione dell'infermeria e delle condizioni in cui sono i detenuti, ed in più la prima sera ho avuto un attacco epilettico senza essere soccorso dato che il concellino, essendo pieno di psicofarmaci, non sentiva neanche le campane e non so se per questo o altro sono stato rimesso nella mia sezione e cella. […]

21 ottobre 2014
Giannuario Claudio, via Palosca, 2 – 26100 Cremona


Lettera dal carcere di Lanciano (ch)
[...] oggi i compagni di “Fiore Selvaggio” si sono riuniti ed hanno manifestato sotto le mura del lager di Lanciano... È stato bellissimo, purtroppo la sezione dove sono rinchiuso è lontana dalla strada e quindi sicuramente loro non sentivano noi, ma qui dentro è stato meraviglioso!!!
Ovviamente ci sono stati “degli individui” che hanno utilizzato il volantino dell’appuntamento al presidio per cantarmi (tanto per cambiare) ed infatti sono stato chiamato più volte da tutto lo “stato maggiore” (direttore, comandante e vari ispettori) che con varie minacce hanno provato a dissuadermi, ma come da contratto non ci sono riusciti ah ah ah, ma si sa i condannati, nell’ozio, moltiplicano i loro vizi e non è colpa mia se ho il bellissimo vizio di volere in ogni momento distruggere questi luoghi di tortura che non danno l’esempio, non servono a nulla e sono costosi per la società...
Prima di essere definita la pena per eccellenza l’istituzione “prigione” era la forma generale di un apparato per rendere gli uomini docili e utili, la prigione s’impone su tutte le altre punizioni immaginate da riformatori e, nonostante tutti i suoi inconvenienti, alla soluzione detestabile a cui non si trova alternativa... Sono noi tutti che viviamo al suo interno e (solo se siamo compatti), possiamo riuscire a cambiare qualcosa.
Sembrano frasi fatte, ma è così! Se oggi, nelle celle possiamo usare il fornellino da campeggio è perché molti anni fa un nostro compagno detenuto è morto mentre lottava in carcere... Pensateci quando domattina lo accendete per fare il caffè, e così per molte altre comodità (se così le possiamo chiamare) che oggi abbiamo nel lager, solo la lotta ci porterà qualcosa le chiacchere se le porta via il vento!!! Impariamo ad essere meno egoisti e più solidali, non preoccupatevi delle infami che parleranno di noi, se siamo uniti verranno puniti!!!
Chiudendo questa mia, voglio ringraziare nuovamente i compagni che hanno manifestato, spero che non abbiano avuto problemi con gli “omini blu”, ma non saluto a voi tutti/e augurandovi una presta libertà a tutti. Il compagno Ivano.

Lanciano, 26 ottobre 2014
Ivano Matticoli, Via Villa Stanazzo 212 66034 Lanciano (CH)

***
Dal presidio al carcere di Lanciano
Domenica 26 ottobre un bel gruppo di compagni/e e solidali sono andati sotto le mura del carcere di Lanciano, per esprimere solidarietà ai detenuti e per dare sostegno a chi, anche nel carcere lancianese, cerca di opporsi alle angherie ed ai soprusi che vengono perpetrati dalle guardie e dal sistema carcerario stesso.
Durante il pomeriggio, da un luogo in cui parte dei detenuti potevano vedere e sentire i solidali (a dispetto della volontà degli sbirri locali che volevano relegare i compagni nel piazzale antistante il carcere, nel più totale isolamento ed assenza di contatto coni i carcerati), sono stati letti comunicati ed è stata fatta ascoltare un bel po’ di musica a quell’ambiente tetro. Sono state raccontate le esperienze delle mobilitazioni nelle altre carceri, come ad esempio nel carcere di Asti o in quello di Aosta; sono state raccontate delle petizioni collettive fatte dai detenuti; e di rivolte che ci sono nelle galere. È stato detto che anche fuori le carceri c’è chi sostiene le lotte dei detenuti, oltre che con presidi, con azioni contro chi specula sui detenuti o contro chi decide della vita dei carcerati. Da dentro le mura del carcere a tratti venivano fatte battiture e si alzavano urla di libertà e di gioia quando dalle casse degli altoparlanti venivano lanciati insulti contro le guardie ed il sistema penitenziario o quando venivano fatti discorsi di solidarietà e di lotta. Fuochi d’artificio e grossi petardi hanno poi colorato un po’ l’atmosfera triste del carcere, con la promessa, gridata forte dai compagni, che chi lotta, non verrà mai lasciato solo!

2 novembre 2014, tratto da freccia.noblogs.org


proteste al carcere di modena
Apprendiamo dai media locali che diversi detenuti del carcere di Modena si sono ammutinati contro le condizioni in cui sono costretti. Le uniche fonti riportate, come sempre accade, sono le veline dei sindacati dei secondini, evitando accuratamente di diffondere le testimonianze dirette dei prigionieri coinvolti.
A quanto pare, inizialmente, un detenuto a cui era stato nuovamente negato un colloquio con la direttrice ha reagito cospargendosi di olio da cucina, minacciando di darsi fuoco; a prescindere da questa ricostruzione fornita ai media dalle guardie, ricordiamo che cospargersi d’olio può rappresentare una tecnica per rendere più difficoltose per i secondini le operazioni di immobilizzazione.
Nella stessa giornata un altro detenuto si è cucito la bocca, procurandosi ulteriori lesioni sul corpo con una lametta. Nel frattempo numerosi prigionieri hanno organizzato una battitura utilizzando gli sgabelli e altro materiale percosso contro le inferriate. Successivamente, all’arrivo di una squadretta nella sezione all’interno della quale i detenuti si trovavano in regime di sorveglianza dinamica (quindi con le celle aperte), un recluso si sarebbe scagliato contro il comandante di reparto cercando di colpirlo con una lametta.
Nonostante l’interesse dei sindacalisti delle guardie sia quello di descrivere uno scenario di violenza immotivata, utile per richiedere aumenti di personale e ulteriori restrizioni per i detenuti, nei giorni scorsi sono stati segnalati diversi elementi che ci lasciano ipotizzare alcune possibili rivendicazioni dei prigionieri ammutinati: il razionamento dell’acqua, disponibile solo in alcuni momenti della giornata; l’aumento dei prezzi operato dalla ditta che lucra sul sopravvitto; la mancanza di attenzione da parte del magistrato di sorveglianza, apparentemente in prolungato periodo di ferie; 93 detenuti sono recentemente risultati positivi al test di Mantoux, certificandone l’esposizione al virus della tubercolosi (seppur inattivo); topi vivi e morti sono stati rinvenuti in diversi locali del carcere, compresi quelli adiacenti alle cucine.
Una protesta tutt’altro che immotivata, a cui alcuni nemici del carcere hanno scelto di rispondere con un presidio solidale indetto per sabato primo novembre.

29 ottobre 2014
Da “Bello come una prigione che brucia” (trasmissione di Radio Black Out di Torino)

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Dal presidio del 1 novembre sotto il carcere di Modena
Dalle dirette parole di alcuni rinchiusi nella sezione dei nuovi giunti - a cui abbiamo comunicato quanto successo pochi giorni prima, dato che ne erano completamente all’oscuro, probabilmente anche per la collocazione dell’area in cui è avvenuta la rivolta - abbiamo appreso che sono sottoposti a continui pestaggi e isolamenti punitivi e rapporti, ogni volta che provano anche solo a protestare a viva voce. Ci hanno inoltre raccontato che non hanno il riscaldamento, e anche le altre condizioni in cui sono rinchiusi sono pessime, che non vengono trattati “nemmeno come esseri umani”.
I detenuti ci hanno comunicato, mentre eravamo lì, che i secondini stavano passando di cella in cella minacciando rapporti a chi continuava a parlare con noi, ed è successo almeno due volte. Sono stati proprio loro ad avvertirci, inizialmente, che se stavamo così vicini rischiavamo problemi con gli sbirri. Ma... “fa lo stesso”.
Oltre alla chiacchierata, abbiamo fatto sentire un po’ di musica, “che fa bene all’anima” diceva uno di loro, e alcune letture di scritti nostri rivolti a loro. Alla lettura di condizioni che ci sono in varie carceri, e sul sistema di tortura e reclusione che il carcere è, rappresenta ed esercita quotidianamente, dicevano che, chiaramente, “loro lo sanno bene”.
Intanto dal SAPPE emerge la volontà di istituire nel carcere modenese un reparto detentivo a regime chiuso per i “soggetti più facinorosi e difficilmente gestibili” per risolvere questioni che di giorno in giorno diventano ordinarie. In altre parole, maggiore repressione interna, laddove la rabbia e l’intolleranza per la tortura, gli abusi e l’umiliazione quotidiane sfocia oltre il ricatto carota (misure alternative) o bastone (rapporto disciplinare). Qualcosa che qui all’esterno anche tutt* noi possiamo capire bene, nelle sue diverse declinazioni istituzionali, penali e psicologiche quotidiane.
Non sappiamo se sarà possibile capire meglio cosa è successo davvero nei giorni scorsi dentro quelle mura; le sezioni “più pericolose” (ovvero chi non viene sempre e completamente distrutto e annichilito da ciò che gli fanno subire ma ancora riesce a restituire al mittente almeno una voce che si alza contro), sono localizzate molto all’interno nella fortezza di tortura e prigionia del carcere, in specifico del S. Anna di Modena.
In ogni caso, non possiamo che sentirci complici con chi alza la testa.
Sempre a fianco di chi si ribella! Fuoco a ogni gabbia!

4 novembre 2014, da informa-azione.info


lettera dal carcere di velletri (rm)
Amici e compagni di Olga, dall’ultimo opuscolo arrivatomi apprendo dell’ennesimo suicidio-omicidio di stato nel carcere di spini di Gardolo... Illuminante, per chi di galera e relativi meccanismi economici poco ne sa, era stato tempo fa il dossier su quel fottuto carcere importante e utile sarebbe a mio avviso stilarne uno per ogni carcere. E allo stesso modo sarebbe più che giusto preparare delle schede su tribunali di sorveglianza con relativi magistrati in modo da puntare i riflettori su ‘ste figure istituzionali che spesso, incaricate di un potere sproporzionato, hanno in mano destini di migliaia e migliaia di persone.
E se a Spini c’è Rubini, qui a Velletri c’è Selafani e vi assicuro che è un fastidioso dito su per il culo pure lui. Famoso per i tempi biblici e per i quasi scontati “no”, capita che ultimamente sia pure cascato malato così che per il mio ex compagno di cella, ad esempio sono 5 mesi che aspettiamo un risposta per la “199”!
Aggiungiamo a tutto questo che i magistrati di sorveglianza collaborano con gli educatori interni che devono compilare le loro adorate relazioni comportamentali su noi detenuti e si ottiene una bella zuppa di cazzi amari.
Per restare a Velletri, qui abbiamo per educatore un tal “Martino” che è la brutta copia antipatica di Gianfranco Funari, che adora rispondere (nei pochissimi casi in cui sale a parlare con qualcuno) ad ogni domanda nostra: “ce l’hai un avvocato buono? No? Allora fatte la galera!” che lavoro faceva il sig. Martino prima dell’educatore? Il carabiniere!
Non cerco i sorrisi di nessuno scrivendovi questo, perché è un problema di fondamentale importanza quello degli educatori e ancor di più quello dello dei magistrati di sorveglianza.
Così ripropongo a tutti, compagni, di contribuire con le vostre conoscenze, a far anche noi a tutti costoro una relazione comportamentale ed un resoconto del loro merdoso lavoro.
Poi il problema resta sempre lo stesso: amplificare il possibile ciò che il carcere è e ciò che noi carcerati facciamo, fuori, alla “libertà”; il fine ultimo, ma principale, è sempre quello di tessere una trama solidale da curare meglio di come è stato fatto in passato.
Che sia finalmente di nuovo chiaro che c’è un’appartenenza che da fuori rispecchiamo dentro complice e solidale. Un abbraccio ed un saluto ai compagni No Tav ed ai fratelli dietro ‘ste sbarre infami. Enko, salentino resistente.

Velletri, 1 novembre 2014
Enrico Cortese, via Campoleone 97 – 00049 Velletri (RM)
Lettera dal carcere di Rossano (CS)
Ciao compagni e compagne, Assalamu Alaykum. Oggi ho ricevuto la vostra busta, mi è stato consegnato tutto tranne l'opuscolo “fai da te” (non era dentro la busta), credo lo abbiano tolto prima di consegnarmi la busta, ho notato che il catalogo dei libri è stato “smontato” per essere fotocopiato, non mi stupisco perché in fondo questo era stato l'accordo tra me e loro, e mi fa piacere che hanno mantenuto la parola. Cercherò di avere qualcosa per iscritto riguardo il trattenimento dell'opuscolo, ma non credo otterrò risultati... Vi informo che l'intervista non è arrivata [si riferisce ad un articolo che racconta della recente ispezione nel carcere di una parlamentare, ndr], però devo dire che quella parlamentare ha fatto la differenza e sicuramente anche grazie al vostro sostegno e interessamento alla nostra situazione, il commissario donna che c'era prima è stata mandata via, ora c'è un altro, con lui abbiamo fatto colloquio e presentato varie richieste, ci eravamo accordati per 1 mese di tempo per vedere i risultati, qualcosa abbiamo già ottenuto (scuola elementare, 2 bigliardini, asciugacapelli in cella, il campo sportivo è in via di concessione) manca l'ampliamento del passeggio e l'autorizzazione della radio a banda larga per sentire notizie dei nostri paesi, il 24 novembre 2014 scade il tempo stabilito, vediamo come andrà. […]

11 novembre 2014
Jarmoune Mohamed, via Contrada Ciminata Greco, 1 – 87067 Rossano Scalo (CS)


dai processi contro il movimento no tav
Il 14 novembre sempre presso l’aula bunker del carcere Le Vallette di Torino si è tenuta l’udienza del processo che vede imputati 3 compagni e una compagna di terrorismo e nella quale i pm Padalino e Rinaudo hanno potuto, attraverso la loro requisitoria, esibirsi in una ricostruzione inverosimile di quella notte del 13 maggio 2013, arrivando a parlare di “organizzazione paramilitare”, di attentato, di volontà di far male.
Chiesta l’assoluzione per il reato di attentato alla vita che rimane un attentato all’incolumità delle persone, ma definendo il danneggiamento di un compressore “un atto di guerra” nonché “un attacco alla personalità dello Stato”, chiedono una condanna di 9 anni e 6 mesi… tanto vale la “vita” di un compressore.
L’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del Consiglio, parla di grave nocumento all’immagine e alla reputazione internazionale dell’Italia.
L’avvocato della Lft, invece, chiedendo che il danno patrimoniale venga stabilito da un giudice civile, chiede per intanto una provvisionale di 50.000 euro per i danni non patrimoniali che la Ltf donerà alla Onlus Vittime dei doveri d’Italia.
L’avvocato del Sap (il sindacato degli applausi ai poliziotti assassini di Aldrovandi) chiede un risarcimento, da quantificare, per un possibile calo di iscritti a seguito della brutta figura fatta dalla polizia.
La prossima udienza del 26 novembre sarà dedicata alle difese, mentre la sentenza è prevista per il 17 dicembre.

Ancora in clarea
Appena a qualche ora dalla richiesta di 9 anni e 6 mesi di reclusione per Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò, almeno 200 No Tav si sono trovati nei pressi della centrale elettrica di Chiomonte. Battiture e fuochi d’artificio per ribadire che “quella notte c’eravamo tutti”.

Mobilitazione dal 14 al 22 novembre
Su appello del Movimento No Tav in tutta Italia sono stati organizzati momenti di approfondimento e di lotta in solidarietà agli imputati/e del processo per terrorismo e del processone contro i No Tav. Presidi e cortei a Torino, Milano, Pontedecimo, Lonato, Trasta, Venezia. Anonymous ha reso inservivibile per un po’ il sito della Procura di Torino.
A Trento è stato bloccato il Frecciargento, a Torino qualche semaforo ha smesso di funzionare ed a Milano qualche bancomat si è autodistrutto in solidarietà dei No Tav.

***
Dal “processone” contro NoTav, aula bunker al carcere di Torino
Dopo la requisitoria dell'accusa, la parola passa alle difese per qualche udienza.
L'atteggiamento parla da solo: in aula dopo l'esibizione delle parti civili (avvocati di aziende truffaldine per il Tav, avvocature di Stato varie, avvocati dei sindacati degli agenti delle forze del “dis”ordine- ecc) che si sono esibite “in massa” assieme ai loro amici giornalisti ora nelle file dell' accusa sono presenti solo le pm. Come a dire “parlate pure quanto volete ma neanche vi ascoltiamo”!.
Nonostante queste enormi difficoltà per il “campo palesemente nemico”, comincia il “turno” degli avvocati della difesa con arringhe battagliere, certosine e tese non all'innocentismo bensì a ribadire le ragioni della lotta NoTav, a contestualizzare i fatti, ad evidenziare le debolezze dell'accusa, palesare le falsità e a scardinare le accuse, per primo quelle inverosimili. Udienze molto accurate e dettagliate, risulta così quasi riduttivo riassumerle in poche righe per la straordinaria capacità e l'enorme lavoro degli avvocati della difesa.

Udienza del 28 ottobre
Parla l'avv Novaro che difende molti-e imputati-e. Inizia criticando la decontestualizzazione dei fatti dall'accusa dicendo che in nessun processo tra parte lesa e parte offesa (anche solo tra 2 soggetti) non si possono esimere i motivi, figurarsi in un processo come questo, con fatti di rilevanza enorme e un così alto numero di imputati-e. Ricorda quelle giornate dicendo che più di 60 mila manifestanti in una Valle in cui vivono 80 mila persone vuol dire consenso al movimento NoTav pressochè completo, elemento questo che non può essere tralasciato.
Ribadisce che non si può considerare solo la questione di ordine pubblico, ricordando per esempio lo Statuto dei lavoratori (e le garanzie conquistate negli anni '70 dal conflitto sociale) e il “prezzo da pagare” per ottenerlo. Finisce il discorso ribadendo che “dietro i sassi lanciati agli agenti c'è tutto questo”.
Parla della temporalità. Le accuse ribaltano il concetto quando dicono che gli agenti delle forze del “dis”ordine hanno reagito alle violenze, affermando (con filmati inequivocabili) che è successo il contrario: i manifestanti hanno reagito con varie forme di resistenza. Ribadisce della “non obiettività” dell'operatore quando nei filmati di agenti e loro amici (relativi agli arresti nell'immediato) a un certo punto si inquadrano uccelli e splendidi paesaggi valsusini: questo per non fare vedere i pestaggi vigliacchi degli agenti... tra l’altro, operazione inutile grazie alle altre riprese di manifestanti che hanno filmato tutto.
Sul 27 giugno e la barriera di Stalingrado. Sempre con i filmati ribalta le tesi della pm che affermava che i manifestanti davanti alla pinza meccanica non potevano essere messi a rischio e infatti sono rimasti a protestare. Lui al contrario afferma, e dal video si vede palesemente, che c'era un grande rischio di far male ai NoTav, ma che per dignità e volontà a non desistere sono rimasti li lo stesso.
Vengono ribaditi altri punti importantissimi fra i quali: un altro FALSO dei pm sulle tempistiche ribadisce l'importanza e l'ordine degli eventi; sul lancio dei gas CS indiscriminati, addirittura anche verso manifestanti con mani alzate, sostiene che sono “fuori protocollo” in quanto lanciati a caso, ad altezza uomo ecc e sottolinea giustamente l’ovvio, cioè, che i “protocolli” non dicono di massacrare manifestanti inermi e in stato di arresto colpendoli alla faccia, alla spina dorsale con calci, manganelli alla rovescia, bastoni ecc; fa vedere, nel caso della pinza meccanica (escavatrice), che alcuni hanno lanciato i sassi non sulla polizia ma sul macchinario pericoloso che veniva fatto “ondeggiare” a pochi metri dalle persone; mostra come non si può escludere che negli scontri più duri a metà giornata vi siano persone che sono state gasate più volte dai CS senza apparente motivo, e che pertanto i sassi lanciati rappresentano reazione molto comprensibile rispetto a quanto è stato descritto dall'accusa (si ricorda che dall'audio dei filmati si sentono agenti dire “sparagli in faccia”, “ammazziamoli tutti”); sul FALSO dell'ispettore capo della digos di Torino che ha affermato che non è vero che gli agenti inseguivano anche nei boschi e nelle stradine in maniera accanita le persone, inchiodato davanti ai filmati in sede di “controesame” si limita a dire “non lo escludo...”; sui testi della difesa definiti inutili e irrilevanti dall'accusa ricordanda la rilevanza, ne ribadisce la serietà e attendibilità ed evidenzia al contrario la falsità dei testi dell'accusa; continua con un discorso articolato sul TAV chiamandola TRUFFA AD ALTA VELOCITA' dicendo che diversamente non si può chiamare perchè è devastante per i danni che comporta (amianto compreso) e dispendiosa - le previsioni sono sballate e prima si deve saturare la linea esistente poi si potrebbe pensare a cosa fare - sul fatto che l'Europa lo chiede è un'altro falso e lo motiva con documentazione - sui costi enormi e dove ricadono, cosa che ha fatto fare un passo indietro alla Francia e sollevare diverse questioni dalla Corte dei Conti.
Esaurite queste argomentazioni entra nel merito delle varie difese dei suoi assistiti-e concentrandosi in particolare su un'imputata che palesemente non è lei nelle foto. Questa compagna ha subito carcerazione preventiva e i domiciliai per vari mesi.
Nonostante ciò, non si è tirata indietro ma non solo. Ha aspettato la fine del processo ribadendo sempre l'importanza di quelle giornate, rivendicandone la presenza e il portato politico della lotta NoTav. Poche udienze prima ha letto una dichiarazione dicendo che non è lei la donna ritratta nella foto ma rivendica tutte le pratiche di lotta di quei giorni. Infine ha specificato che non è sua intenzione parlare dei motivi della lotta NoTav in Tribunale perchè come ha detto “è evidente che tra noi e il Tribunale si parla un altro linguaggio”. L'avvocato ha dimostrato in ogni modo che comunque è chiaro che la sua assistita non è quella delle foto (addirittura anche per lei la richiesta è di 6 anni di carcere) arrivando a fine di un lungo discorso concludendo così “dunque se la mia assistita è quella nelle foto finisco di fare l'avvocato”!
Circa le parti civili sottolinea i giorni di prognosi degli agenti gonfiati notevolmente rispetto ai certificati originali. Parlando dei risarcimenti richiesti fa una domanda provocatoria: “perchè non chiedete 10 miliardi di euro?”, confermando che le cifre sono “sparate a casaccio” e che è un modo punitivo in assenza di prove sui ferimenti e senza alcun parametro. Cita le richieste dei vari sindacati di polizia che in blocco chiedono 50 mila euro mentre il famigerato SAP “solo” 10 mila affermando che forse chiedono di meno perchè consapevoli loro stessi di quanto siano già sviliti per aver applaudito agli assassini di Aldovrandi e in altri casi affermato frasi razziste nei confronti dei migranti.
Smonta per intero il principio del “concorso morale” dicendo che allora per paradosso tutte le decine di migliaia di persone presenti quei giorni sarebbero potenziali imputati-e.
A fine di questa lunga difesa decide di terminare citando un poeta palestinese (Mourid AL Barghouti) : “Basta tacere su tutto quello che è avvenuto prima per fare sembrare la reazione degli insorti come una barbarie”.

Udienza del 4 novembre
Alcuni avvocati ribadiscono che ormai le adesioni al movimento sono molteplici. Circa le intimidazioni dell'accusa (fatte ai testimoni della difesa ed avvocati) viene detto “la mia professione è avvocato ma questo non significa che io non possa esprimere un parere, una posizione”.
Si argomenta che dopo il 2010 non vi è stato più uno spiraglio di confronto né istituzionale nè altrove dunque vi è l'imposizione totale di fare l'opera.
Viene attaccata una delle tesi d'accusa dicendo che “chi parla di eversione è una persona ignorante, che IGNORA come sono andate le cose, le motivazioni di fondo, parla di eversione basandosi su rapporti investigativi accresciuti e cronache di stampa gonfiate”.
A proposito dell'abuso dei lacrimogeni viene sostenuto che “dopo averne riconosciuto l'uso imponente si dice che hanno agito solo dopo ore di scontro… Io mi chiedo che film abbia visto la procura, forse ha visto il video di un altro processo, i lacrimogeni non sono stati sparati dopo ore, ma in tutte le circostanze sono stati sparati PRIMA di qualsiasi aggressione da parte dei manifestanti nei confronti delle forze dell'ordine”...

Udienza dell’11 novembre
Il primo a parlare è un avvocato nominato d’ufficio dopo la revoca del mandato da parte di alcuni imputati-e. Inizia dicendo che quando è stato nominato d’ufficio non l’aveva presa bene anche perchè rispetto alla lotta NoTav, pur condividendone alcune ragioni, era scettico, e in più si considera facente parte della cosiddetta “zona grigia”, che pur non credendo ai giornali tutto sommato non si interessava più di tanto. Catapultato in Tribunale segue le varie udienze. Acquisisce, con fatica, una serie di documenti, vede i filmati, segue con attenzione le dichiarazioni degli imputati-e e dei testi della difesa. Sostiene che le testimonianze di difesa erano e sono attendibili, sebbene questa sia una cosa soggettiva; non si capisce perchè pm e la procura parlano di testimonianze inutili. Continua affermando che anche l’inutilità non è grave, mentre i testi d’accusa sono inverosimili e questo dovrebbe essere gravissimo. Dice a chiare lettere che il suo assistito deve essere assolto e lo ribadisce poichè non crede sia una richiesta formale ma è nel pieno convincimento. Nel discorso dice anche che “è inutile negarlo, i lacrimogeni ad altezza uomo sono stati tirati e tantissimi”. Dice: parliamo dei fatti. Sull’imputato in questione, sia negli atti del mandato di arresto che ribadito più volte in questo processo dalla procura, si legge “G.R. era alla Ramat e non può dire che non ha visto altre persone lanciare sassi, oggetti e altro verso gli agenti…” (si riferisce alle dichiarazioni dell’imputato che non ha tirato in mezzo nessuno-a, e questo gli viene fatto pesare dall’accusa).
Parla del grave problema dei risconoscimenti. Per esempio di un ispettore che in Tribunale è venuto a dire che l’imputato è un soggetto monitorato, conosciuto ecc; sottolinea l’avvocato che l’ispettore conosce addirittura il compleanno, la storia politica e vita privata del suo assistito. Dice per me è importante la serietà dei testi (che siano di difesa o accusa) e si domanda se è attendibile l’ispettore. È palesemente troppo coinvolto dunque non in grado di fare un racconto oggettivo anche qualora in buona fede. Fornisce un esempio storico di un riconoscimento sbagliato citando il processo di Piazza Fontana: “La madre di tutti i riconoscimenti sbagliati”… La pm, a questo punto, si risveglia e interrompe stizzita dicendo che non è agli atti. Risponde l’avvocato pretendendo di finire il suo discorso “verranno introdotte dal sottoscritto, per storia comune e bagaglio comune come notorietà acclarata”. Esiste chi ha fatto 11 anni per riconoscimenti sbagliati. Valpreda in quel caso fu messo assieme ad altri soggetti, lui, malconcio in stato di arresto fu messo assieme ad agenti arrivati curati, tutti con la camicia e la cravatta. Furono indotti i testi a puntare il dito su di lui e gridare al “colpevole”, afferma l’avvocato, “anche la memoria costruita sulla persona sbagliata era tale che hanno finito per continuare a crederci”. Conclude dicendo che i testi d’accusa si smentiscono da soli e non solo per la mancanza di immagini. Si precostituisce un personaggio a cui si possono imputare molti reati ma se mancano gli elementi oggettivi non si può condannare. Dice “se G.R. non vi piace siete liberissimi ma non si può per questo condannare una persona”. Richiede per il suo assistito l’assoluzione totale e, ribadisce che per scrupolo noioso difensivo, in subordine richiede tutte le attenuanti generiche per i capi d’accusa. (Ricordiamo che si tratta di un compagno per cui l’accusa ha richiesto 6 anni di carcere e la procura torinese ha mostrato palese accanimento).

Udienza del 18 novembre
Inizia un avvocato parlando del suo assistito: un valsusino che ha preso “tanto per cambiare” una richiesta spropositata ovvero 3 anni e 2 mesi. Ne analizza le tempistiche dicendo che i tre sassi lanciati gli vengono addebitati nel pomeriggio. Inoltre 3 sassi non possono colpire 17 agenti (i risarcimenti che ne conseguirebbero, oltre a quelli in solido, se passasse la logica del concorso morale, sarebbero immotivati e solo punitivi). Afferma che è una minima reazione rispetto alla valanga di lacrimogeni tirati. Dice che per altro si tratta di un cittadino valsusino che per di più deve affrontare lo stupro, l’inquinamento, la prepotenza, la militarizzazione della sua terra: lui come altre migliaia di persone. Il suo gesto, dice giustamente l’avvocato, “è di rabbia e indignazione rispetto ad un attacco generalizzato delle forze dell’ordine”.
Si dilungano vari avvocati sulle stranezze delle ordinanze di arresto per gli imputati-e.
Parlano delle parti civili che nell’accanimento generale hanno offeso e preso in giro anche la Corte.
Un altro avvocato riporta alla luce la campagna mediatica del 26 gennaio 2012 (giorno della retata in grande stile) e la criminalizzazione degli arrestati-e e indagati. Continua dicendo che le tesi della procura che parlava di “black block”, ”professionisti della violenza”, ”attacchi militari”, “ balordi venuti da fuori” ecc. sono riportate anni dopo pari pari dai pm nella requisitoria d’accusa. Continua dicendo che la procura è mossa da una caratteristica ideologica più che penale (argomentando punto per punto).
Proprio su questa questione un altro avvocato esordisce dicendo: “se l’unico strumento che possediamo è un martello tutta la realtà ci apparirà come un chiodo”.
Infine un altro avvocato d’ufficio (che ha assunto la “difesa” di altri-e imputati che hanno revocato i precedenti mandati) afferma che quando è stato nominato per legge andando all’aula bunker del carcere e guardando i filmati il primo pensiero è stato “mamma mia che danni hanno fatto con l’escavatrice, ci credo che siamo qui per quello”, per poi rendermi conto che le parti erano rovesciate (escavatrice usata dagli agenti per radere al suolo le barriere di protezione dei NoTav). Le imputazioni “non sembravano così gravi da giustificare ad esempio l’utilizzo dell’aula bunker, qui si parlava di resistenza, lesioni, qualche danneggiamento ma reati non così rilevanti”. Ribadisce la non verosimiglianza dei testimoni d’accusa. Continua denotando anche quel tipo di rapporto che assolutamente dovrebbe esserci nell’azione e nella reazione... mi sparano addosso i lacrimogeni, mi stanno gasando, quello che trovo lo tiro e poi scappo… nell’ottica di una “legittima difesa, assolutamente minore rispetto alla portata dell’attacco”.
Continueranno ancora per qualche udienza le difese: la prima martedì 25 novembre.

Milano, novembre 2014


milano: non di sgomberi ma della lotta contro gli sgomberi
Comune di Milano, Regione Lombardia, Prefettura e Aler (ente gestore delle case popolari) alla crisi ed all’immiserimento della popolazione decidono di rispondere con una task-force anti-abusivi annunciando una campagna di 200 sgomberi alla settimana.
La campagna è anticipata da mesi di articoli allarmistici sui quotidiani nazionali e locali nei quali si parla di residenti “regolari” terrorizzati ed intimiditi dagli “abusivi”, dei “soliti violenti” che sfruttano i bisognosi, del pericolo eversivo… la solita strategia della tensione volta a dividere la popolazione ed a intimorire le lotte. Una strategia che evidentemente non funziona più perché le persone, nonostante il continuo martellamento mediatico, vedono con i loro occhi gli allagamenti creati dalla cementificazione selvaggia, i continui attacca alla dignità dei lavoratori, le grandi opere buone solo ad arricchire i soliti noti…

Il 10 novembre, nel quartiere Giambellino, Aler e polizia cercano di sgomberare una famiglia con quattro bambini. Si riuniscono davanti alla scala molti abitanti e solidali. Si riesce a evitare lo sgombero e i funzionari di Aler e polizia sono accompagnati fuori dal cortile al grido “Il Giambellino non vi vuole, andetevene via!”.
L’indomani, alcune persone travisate irrompono nella sede del PD di Corvetto, dove si stava svolgendo una riunione fra il Sunia (Sindacato Nazionale Unitario Inquilini ed Assegnatari), l’Aler ed alcuni residenti della zona. Fumogeni e vernice destinati non certo ai residenti presenti, ma al dirigente Aler ed al PD. Dal PD arriva la dichiarazione (minaccia?) “Le intimidazioni non ci fermeranno”, ovvero continueremo a sfrattare, distruggere, immiserire?
Il 13-14 novembre in via Salomone, case popolari del quartiere Trecca, due camionette di celere, sbirri in borghese, funzionari ALER e annessi furgoni di traslochi si presentano nel cortile per sgomberare due appartamenti occupati. Gente del cortile, insieme ad alcuni compagni, provano ad impedire gli sgomberi, cercando di sfondare il cordone di celerini davanti al portone degli occupanti. Dopo essersi presi immondizia, uova e legni gli sbirri riescono a riprendere il controllo del porticato; altri due blindati giungono sul posto e, tutti insieme, ci si sposta in piazzale Ovidio, bloccando la circolazione di auto e tram per un’ora. Parte un corteo spontaneo che arriva all’altezza di viale Forlanini e viene bloccato per altri cinque minuti, finché si torna verso i palazzi. Per le sei del pomeriggio gli abitanti chiamano un presidio in via Salomone, che presto si muove per le vie del quartiere.
La sera stessa, nel quartiere Corvetto, un’assemblea di cortile contro gli sgomberi si trasforma in un corteo spontaneo di circa cinquanta persone che si ingrossa via dopo via con l’arrivo di altri occupanti richiamati dal chiasso.
Svariate volanti della polizia locale vengono allontanate mentre provano ad incanalare il flusso di persone che continua a gonfiarsi. Dopo circa un’ora e mezza per le vie del quartiere, alle undici di sera, ci si scioglie dandosi appuntamento al giorno seguente, venerdì 14 Novembre, per essere ancora presenti in strada.
Nella mattina, in circa cento, tra occupanti e studenti dell’istituto tecnico di zona, si è di nuovo attraversato le vie del quartiere, facendolo rivivere con cori come “La casa si prende, l’affitto non si paga” e “Il corvetto paura non ne ha”; bloccato piazzale Corvetto per qualche minuto, si è percorso corso Lodi arrivando a bloccare la circonvallazione.
A quel punto i presenti hanno deciso di raggiungere il centro città e le manifestazioni in corso per lo sciopero generale.
In vista degli annunciati sgomberi il 17 novembre in molti quartieri milanesi si sono organizzate delle “colazioni anti-sgombero”, ovvero ci si trova in strada la mattina presto per fare colazione insieme e vigilare il quartiere pronti a reagire in caso di sgomberi.
Alle 9 del mattino alcune camionette si fermano in Via Vespri Siciliani, Giambellino, per buttare in strada una famiglia con tre bambini. Quando arrivano alcuni solidali, ci sono già gli abitanti del palazzo a fronteggiare il cordone di carabinieri in tenuta antisommossa che vorrebbe bloccare ogni ingresso al palazzo. Una persona che voleva entrare a casa sua viene colpito dai manganelli dei solerti carabinieri. Stessa sorte alla signora che cerca di prestargli soccorso. La situazione si surriscalda, arriva anche la polizia… e partono i lacrimogeni, ad altezza uomo che disperdono i manifestanti nelle vie vicine. Una famiglia si ritrova ancora senza casa, due persone vengono arrestate. Ma arrivano altre persone da altri quartieri di Milano e parte un corteo spontaneo per il quartiere, che blocca un pezzo di città.
All’alba vengono effettuate diverse perquisizioni a carico di alcune compagne relativamente all’assalto della sede del PD dei giorni precedenti.
All’alba del 18 novembre un ingente dispiegamento di forze dell’ordine si presentano in Corvetto per sgomberare i due centri sociali della zona, il “Rosa Nera” e il “Corvaccio” e di un’abitazione, forse già preannunciati dalle perquisizioni del giorno prima a carico di alcune compagne relativamente all’assalto della sede del PD dei giorni precedenti. Si raduna in breve un gran numero di persone del quartiere e di altri quartieri milanesi. Gli studenti dell’ITSOS cercano di uscire dalle aule e unirsi ai solidali ma vengono bloccati dalla celere. Tre compagni salgono sul tetto del Corvaccio. La polizia carica, lancia lacrimogeni sia dentro il Corvaccio che nel mezzo del mercato rionale. Diversi fermi, tre compagni sono tratti in arresto.
Per tutta la giornata è stato tenuto un presidio nelle strade e dal quale in serata è partito un corteo per le strade cittadine in direzione del carcere di San Vittore dove sono rinchiusi i due residenti arrestati il giorno prima e dove si pensa siano i tre compagni arrestati in giornata. Scontri, cariche e lacrimogeni per le vie della città per tutta la durata del corteo che non riesce a raggiungere San Vittore e viene invece disperso.
Nella notte scoppia un incendio alla sede di Aler di Via Inganni. Indaga l’antiterrorismo. Nessuna indagine, invece, pare sia aperta per verificare come mai solo a Milano sono presenti quasi 7mila alloggi pubblici sfitti, solo 563 assegnazioni nel 2013 a fronte di più di 22mila famiglie iscritte nelle liste di attesa…
L’assessore alla casa Paola Bulbarelli in una conferenza stampa dichiara che i 200 sgomberi minacciati erano “solo un annuncio spot”. Una prima vittoria.
L’indomani nei quartieri dove maggiormente si avverte il problema casa si creano presidi permaneti di abitanti e solidali. Nella giornata vergono scarcerati i tre compagni arresti martedì. In serata una fiaccolata per le vie del Giambellino in solidarietà dei due ragazzi arrestati lunedì ed ancora in carcere e contro gli sgomberi.
Il 20 novembre anche Tommy e Beppe vengono scarcerati. In serata un’altra fiaccolata anti-sgomberi attraversa le strade del Giambellino.
Il 21 novembre la signora presa a manganellate dalla polizia durante gli sgomberi in Corvetto, perde il suo bambino. Era al settimo mese di gravidanza, perciò il suo stato era facilmente riconoscibile da chiunque. I medici della Mangiagalli di Milano dichiarano ai giornali che la signora non presentava i segni di percosse… ma si sa che spesso i medici diventano conniventi dei pestaggi delle forze dell’ordine, ne sanno qualcosa i detenuti di tutta Italia nonché i familiari delle vittime di Stato come Marcello Lonzi, Giuseppe Uva, Francesco Frapporti, Stefano Cucchi solo alcuni di coloro che hanno assaggiato la mano della giustizia in Italia. In serata ancora una fiaccolata per le vie della movida milanese, in quartiere ticinese.
Milano, novembre 2014

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«Il nostro nemico oggi è lo Stato»
Pubblichiamo, un articolo apparso sul portale vita.it che pubblica un mensile dal mondo nel no profit. Normalmente il mondo del no profit è più vicino alle istituzioni che ai “movimenti”, in questo caso però con l’onestà di chi vive la strada e l’emarginazione, viene finalmente data voce ai residenti di Corvetto che raccontano dei legami che si sono stretti tra gli abitanti della zona e i movimenti sociali: uniche realtà in grado di costruire con la solidarietà e il mutualismo tra sfruttati e sfruttate un welfare dal basso che si opponga al racket mafioso e all’abbandono delle istituzioni.

Mentre la città riprende fiato dopo le esondazioni, l’altro fronte caldo cittadino torna al centro dell’attenzione. Oggi in zona Corvetto c’è stato l’ennesimo sgombero. L’ennesima irruzione delle forze dell’ordine in una delle tante periferie italiane, sempre più allo stremo, tra crisi, emergenza casa e violenza. Questa mattina alle 6.30 la polizia e i carabinieri si sono presentati in tenuta antisommossa per sgomberare due “centri sociali dell’area anarchica” come vengono definiti dai media: il Rosa Nera e il Corvaccio. Nel giro di poco in strada, a fianco degli antagonisti, arrivano gli abitanti del quartiere. Occupanti abusivi Aler, ma anche regolari. Italiani e immigrati. Tutti insieme per difendere i centri sociali. Una scena inedita e molto lontana dalla narrazione televisiva che forza sempre sulle divisioni e gli scontri tra italiani e stranieri, regolari e abusivi, abitanti e antagonisti. Per lo più in strada ci sono donne, giovani. Tutte madri di famiglia. Che sono madri lo si capisce perché intimano ai figlioletti dalla strada di non affacciarsi alle finestre e rimanere chiusi. Corvetto è solo l’ultimo di una lunga serie di eventi che si susseguono senza soluzione di continuità. Quello cui si sta assistendo a Milano è un’accelerazione degli sgomberi che chi vive nei quartieri fa risalire a un mese fa.
«Da quando è partito il tam-tam mediatico che si è visto sui media è iniziata l’offensiva. La tv, in modo partigiano e a fini elettorali, ha raccontato i quartieri popolari come in ostaggio di immigrati e occupazioni. Una lunga litania che parlava di legalità. Una strana legalità che dimentica il diritto alla casa sancito dalla Costituzione e brandita come un’arma da parte di chi ha sulla coscienza i tanti morti dovuti all’incuria del territorio, come in questi giorni è stato evidente», spiega uno dei pochi uomini in strada. A parlare sono le persone che nelle case popolari della periferia milanese ci vivono. Nessuno vuole comparire con nome e cognome. «Abbiamo paura delle ritorsioni», raccontano.
«Il primo episodio della serie degli sgomberi è stato una settimana fa, lunedì 10 novembre, in via Lorenteggio. Sono state portate via due famiglie di italiani. Una anche con tre figli piccoli. Poi c’è stato due giorni dopo uno sgombero in zona Corvetto. Una cosa piccola. A quel punto c’è stata una breve pausa. Molto probabilmente per non accavallarsi con la manifestazione dei sindacati. Passata quella si è ripreso. Ieri sono tornati in Giambellino. «Si tratta di un quartiere che conta 150 mila famiglie, che raccolgono tutti gli stereotipi e i cliché delle periferie. C’è lo spaccio, c’è la violenza, c’è degrado… ma c’è anche solidarietà, mutuo aiuto, forme di volontariato. È stata sgomberata un’altra famiglia italiana con tre bimbi piccoli. Una scelta strana. È brutto da dire ma avessero allontanato un nucleo famigliare di zingari non sarebbe successo niente. Invece è stata una scelta che ha infiammato gli animi. Una reazione compatta, da parte di tutti, italiani e stranieri. Poi è arrivata l’azione di oggi», racconta una giovane ragazza.
«Forse l’obbiettivo della questura è alzare la tensione e provocare scontri. Probabilmente l’ordine arriva da Roma». È questa l’idea che serpeggia tra le vie periferiche e nei cortili dei palazzoni di abitativo sociale. «Da un punto di vista locale queste azioni di polizia non hanno alcun senso. In primo luogo perché non servono. Ci sono talmente tanti appartamenti abbandonati e vuoti che appena sgomberati è immediata l’occupazione di un altro appartamento. Senza contare che il costo di uno sgombero è di 10 mila euro per ogni appartamento. Questo quando non ci sono scontri, come oggi, che prevedono l’uso di mezzi, elicotteri e le cure per gli agenti eventualmente feriti. Per chi vive queste zone è abbastanza evidente che si sta costruendo una guerra diretta ai poveri sul tema degli abitare perché rimane uno dei business più redditizi. Ecco perché non si tratta di scelte della Questura di Milano o della Prefettura. Ma sono i ministeri a dare l’ordine. Basta guardare il Piano Casa 2 di Lupi o il Jobs Act di Renzi».
Lia, ex dipendente comunale e attivista di uno dei comitati della zona Giambellino ha le idee chiare. «Il Piano Casa è una dichiarazione di guerra contro i poveri. Il governo Renzi-Alfano, con il ministro delle Infrastrutture Lupi, ha sfornato il decreto legge 47/2014 del 28 marzo. Oggi è legge e il suo contenuto non fa altro che da una parte sostenere la proprietà e le rendite immobiliari dall’altra attaccare frontalmente non solo occupanti e irregolari, ma anche morosi incolpevoli e persone in difficoltà per la crisi».
Anche Aler, l’azienda regionale che gestisce le case popolari di Milano è nel mirino degli abitanti. «Si parla, dati Aler, di 5/8mila locali vuoti a Milano. Secondo noi sono di più, anche perché in Giambellino, dove siamo presenti, le case vuote sono 800 contro le 500 dichiarate dalla azienda. Una parte di queste, sottoposta a sgombero e inagibile. Questo perché quando sgomberano entrano, distruggono con le mazzette bagni e cucina e poi sigillano tutto con lastre di metallo. Lasciano solo il riscaldamento funzionante, visto che è centralizzato. Ricordiamocelo quando ci sarà l’emergenza freddo. Un’altra quota di appartamenti invece è in ottime condizioni, con porta blindata e imbiancatura fresca. In alcuni casi addirittura c’è anche l’aria condizionata. Il motivo si chiama cartolarizzazione. Aler è un soggetto che opera sul mercato. Il loro interesse non è dare casa alla gente ma fare affari. Si chiama finanza. Tutto questo accade in nome del guadagno di alcuni».
In tv spesso si sente dire che gli abitanti non ne vogliono sapere dei centri sociali e degli autonomi organizzati. Una ragazza seduta sul marciapiede mi guarda e sorride quando le chiedo che ne pensa dei ragazzi autonomi. «Il mio nemico è la polizia. Nessun odio ideologico, sia chiaro. Ma la polizia è la faccia dello Stato cui siamo abituati. Per noi l’istituzione è un muro di poliziotti in assetto anti sommossa che ci invade il quartiere. È l’unico frangente in cui ci rendiamo conto che esiste un Comune. Per questo oggi abbiamo difeso gli autonomi. Sono gli unici che qui ci danno una mano, ci sostengono quando manifestiamo e provano a difenderci dalla celere».

18 novembre 2014, da vita.it


TUTELE E DIRITTI: JOBS ACT, FINE PENA MAI?
Il Governo Renzi/Ue si appresta a presentare in Parlamento il testo definitivo del JOBS ACT. Spending Review, il Fiscal Compact ora il JOBS ACT: un ulteriore passaggio nel peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita di milioni di lavoratori, che vanno ad aggiungersi alle varie riforme che si sono succedute dal '92 ad oggi in nome dell'entrata nell'euro prima, della stabilità finanziaria e del rilancio dell'economia oggi. [...]
Ma se il dibattito sarà solo di facciata gli effetti del JOBS ACT saranno più che concreti.
“L'abolizione dell'articolo 18 non influenzerà in nessun modo le assunzioni”: non lo diciamo noi ma lo hanno espressamente affermato alti esponenti del mondo industriale, come dallo stesso mondo di avvoltoi nasce l'affermazione che “l'art 18 rappresenta il simbolo della rigidità del mondo novecentesco, e la sua eliminazione è un attacco a quella ideologia frutto del secolo scorso”: per riportarci alle condizioni ottocentesche di sfruttamento? Il JOB ACT non attacca solo l'articolo 18, ma va in realtà a colpire alcuni dei principi fondanti dello Statuto dei Lavoratori.
E' previsto la modifica dell'articolo 4 concedendo la possibilità di controllare i lavoratori attraverso dispositivi audiovisivi, informatici e attraverso dispositivi di telefonia mobile; la modifica dell'articolo 13 concedendo la possibilità di adibire il lavoratore anche a mansioni inferiori a quelle per cui è stato assunto con la conseguente diminuzione della retribuzione.
Viene inserito il Contratto a Tutele Crescenti, ovvero i lavoratori neoassunti non godranno degli stessi diritti di quelli assunti da più tempo, per un periodo finora stabilito in tre anni, di cui però ad oggi si conosce solo la deroga all'articolo 18. E' chiaro che questo non sarà l'unica “tutela” a cui dovranno rinunciare i neoassunti, per cui si presume che riguarderà anche quelle migliorie previste dai contratti nazionali e aziendali, in termini di salario, magari utilizzando l'introduzione di un salario minimo o di ingresso, oltre alle eventuali migliorie nell'ambito dei diritti (già visto nei trasporti).
Non dimentichiamo che con la Riforma Fornero del governo Monti/Ue è stato riformato il contratto a tempo determinato concedendo la possibilità di stipulare contratti senza nessuna motivazione particolare prevista in passato (picchi di produzione, sostituzioni, ecc..). La riforma è stata peggiorata ulteriormente dal governo Renzi/Ue concedendo fino a 5 rinnovi del contratto stesso, senza nessuna garanzia di stabilizzazione, per una durata complessiva massima di tre anni. Tutt* conosciamo bene il peso del ricatto del rinnovo del contratto di lavoro. Proviamo a vedere, al di là della descrizione, quale panorama si può prospettare per noi lavoratori e lavoratrici.
Prima di tutto sgomberiamo il campo dalle frasi fatte dal “premier”: il contratto a tutele crescenti non riguarda la generica categoria dei “giovani” da mettere in contrapposizione ai lavoratori più anziani i cui diritti impediscono ai primi il diritto al lavoro, ma in realtà riguarderà qualsiasi nuova assunzione al di là dell'età anagrafica e lavorativa. Come diciamo da tempo non esistono precari o garantiti ma il lavoro è oramai precario per tutt*, declinando la divisione precari e non precari ad una strategia che mira a dividere e a contrapporre tra loro spezzoni di classe. Gli unici garantiti sono i padroni, anche se ancora oggi qualcuno ci casca portando ulteriori divisioni di cui certo non abbiamo bisogno. Sono anni che i vari governi usano questa novella che si parli di pensioni o di riforme del lavoro. Il contratto a tutele crescenti sarà la forma di contratto che sarà applicata a qualsiasi lavoratore che, perchè la sua fabbrica o azienda chiude, scade l'appalto, o per qualsiasi altro motivo, è costretto ad iniziare un nuovo rapporto. Se guardiamo la realtà e prendiamo per buone le parole di tutta la classe politica e padronale “che non esiste più l'idea di un posto di lavoro per tutta la vita” possiamo allora dire che la vita lavorativa sarà sempre di più senza tutele, perchè a crescere sarà sempre il ricatto: per tutti e tutte.
Ma essere senza tutele davanti ad una “richiesta” di demansionamento quali possibilità di opporsi può avere un lavoratore? Come può opporsi ai continui soprusi di un padrone? O vogliamo arrivare al punto in cui, come succede nelle campagne del sud, e non solo, dove anche il corpo della donna o dell'uomo deve essere ritenuto a disposizione del padrone? Dove il salario è sufficiente al massimo per arrivare al giorno successivo, dove la casa è una baracca di legno e cartoni o un edificio abbandonato?
Da tempo diciamo che la concertazione avrebbe portato ad erodere i diritti fino ad un punto di non ritorno, quel punto in cui gli stessi sindacati collaborativi e confederali, che tanto hanno fatto per continuare ad essere accettati ai tavoli dei signori, sarebbero stati travolti dal disastro di cui sono stati complici e con loro il futuro di milioni proletari e “nuovi” proletari .Tempo determinato per tre anni, tre anni senza diritti, e siamo a sei se tutto va bene!Come potrà opporsi un lavoratore alle angherie, ai soprusi, quando dall'altra parte ha come prospettiva la perdita del proprio posto di lavoro (l'indennizzo potrà farti mangiare ma per ben poco tempo) o magari un demansionamento “punitivo”? Come potrà opporsi ad una stretta sorveglianza magari utilizzata proprio per cogliere in fallo il lavoratore? Non sappiamo cosa riserverà la riforma degli ammortizzatori sociali, cassa integrazione, disoccupazione e via dicendo, ma è sicuro che il lavoratore inattivo dovrà accettare le proposte, o meglio l'obbligo del lavoro che gli viene offerto, più o meno sfruttato, pena la perdita del sostegno al reddito, aumentando così quella fascia di sfruttamento di cui certo ad oggi non c'è proprio bisogno. Ancora peggiore sarebbe se al rifiuto di un lavoro mal pagato, sfruttato, come peraltro succede già in altri paesi europei, si determinasse anche la perdita di altri sostegni come quelli per i figli, casa, scuola, ecc..
Sarà ben difficile, all'interno della tanto cara loro legalità, opporsi agli accordi, alle ristrutturazioni, alle angherie e ai soprusi senza avere tutele di legge. Ma non basteranno le manganellate, gli idranti o gli spray al peperoncino, non basterà militarizzare le città. Sia chiaro: se ne dovranno assumere tutta la responsabilità storica, del presente e del futuro, e non gridino all'ennesima emergenza quando qualcuno capirà, e altri con lui, che non esistono possibilità di mediazioni. Incolmabile la distanza tra chi è costretto a lavorare per vivere, a vendersi come merce a basso prezzo, messa in svendita su uno scaffale di un centro commerciale, e chi invece ogni giorni continua ad arricchirsi; tra chi vive nei salotti buoni delle metropoli e chi, come servi della gleba di antica memoria, è costretto a viversi in pieno tutte le contraddizioni che il loro benessere ci fa pagare, non ultima la guerra tra poveri in cui rischiamo pericolosamente di scivolare. Loro non pagano il prezzo della Crisi? Pagheranno, speriamo, il prezzo della nostra rabbia.

novembre 2014, Centro Popolare Autogestito fi-sud