indice n.91

Brasile: la polizia uccide
Kenia: ancora vessazioni e torture sui profughi somali
aggiornamenti della lotta dentro e contro i cie
"STATO DI NEW YORK: mai PIù CARCERI"
LETTERE DAL CARCERE DI PESCARA
lettera dal carcere La Dozza (Bologna)
Lettera dal carcere di Monza
teramo: in solidarietà con le mobilitazioni nelle carceri
lettera dal carcere di cremona
Lettera dal carcere di S. Vittore (Mi)
reclamo collettivo dal carcere di alessandria
lettera dal carcere di forlì
Lettera dal carcere di Bergamo
lettere dal carcere di spoleto (pg)
lettera dal carcere di siano (cz)
lettere dal carcere di terni
Lettera dal carcere di Sulmona (Aq)
Lettera dal carcere di Alessandria
lettera dal carcere di Ferrara
Note sul processo in videoconferenza
lettera dal carcere di Winterthur (Svizzera)
nuovo trasferimento per marco camenisch
Lettere dal carcere Pagliarelli (Palermo) e da Caltanissetta
carcere "le vallette: storia di un violento trasferimento
A due anni dal mio arresto
dal processone contro il movimento no tav
torino, 22 maggio: solidarietà agli imputati di terrorismo
lettera dal carcere di ferrara
sui fatti del 3 maggio a Roma
“No Via d’Acqua” a Milano, 25-26 aprilE
Torino: Sassi e lacrimogeni ai Mercati Generali
Milano: sciopero alla Dielle di Cassina de Pecchi
Piacenza: La lotta degli operai IKEA resiste
bergamo: Staccata la corrente alle case occupate di Celadina
Il Job’s Act di Renzi
Massima Sicurezza - Il carcere speciale in Italia


Brasile: la polizia uccide
A Rio esplode la rabbia degli abitanti della favela (quartiere) Pavao alla notizia dell’uccisione da parte della polizia
di un ballerino molto popolare, Douglas Rafael da Silva Pereira. Mentre si recava da sua sorella si è trovato nel mezzo
di una sparatoria fra spacciatori e polizia, che lo ha arrestato, torturato fino a ucciderlo, come mostrano i segni
vistosi rimasti sul suo corpo.
Non appena si è diffusa la notizia della sua morte la favela è stata avvolta dal fumo di barricate incendiate,
sparatorie fra manifestanti e polizia, lancio di bottiglie incendiarie. Le strade della favela sono rimaste bloccate per
diverse ore. Già l’anno scorso nella favela Pavao era esplosa la rivolta popolare contro i miliardi spesi per le
infrastrutture dedicate alla realizzazione della prossima coppa mondiale di calcio (che si tiene in Brasile nel vicino
giugno), mentre gran parte della popolazione tira avanti nella miseria ed è sottoposta alla violenza.
Manifestazioni di protesta contro le spese dedicate alla coppa del mondo a danno della popolazione sono state
organizzate a metà aprile in diverse città, in particolare a S. Paolo - dove il 12 giugno è in programma la partita di
inaugurazione dei mondiali. Qui migliaia di persone erano in strada anche con striscioni sui quali era scritto "Non ci
sarà alcuna coppa"; i manifestanti hanno occupato gran parte del centro urbano, stazioni della metropolitana, spezzati i
vetri di alcune banche… 54 sono stati arrestati. Il giorno successivo, 17 aprile, anche a Salvador de Bahia la gente è
scesa in strada, ha espropriato supermercati, attaccato banche… dato che la polizia aveva dichiarato sciopero, i
manifestanti sono stati affrontati direttamente dall’esercito, che ne ha uccisi 39.

Aprile 2014, tratto da jungewelt.de


Kenia: ancora vessazioni e torture sui profughi somali
Il governo del Kenia ha riacutizzato le violenze contro profughi e immigrati della vicina Somalia. Nei giorni scorsi il
ministro dell’Interno Joseph Ole Lenku ha annunciato l’arresto di 657 “sospetti”: la causa della retata sarebbero stati
tre attacchi con granate a mano, o con bombe autofabbricate, compiuto da sconosciuti in un quartiere di Nairobi abitato
da popolazione somala. A quanto pare obbiettivo delle esplosioni, che hanno causato sei morti e il ferimento di 25
persone, sono stati due piccoli ristoranti. Non è comparsa nessuna rivendicazione. Il governo ne attribuisce la
paternità, ma senza indizi, all’organizzazione islamica somala Al Schabab.
Arresti di massa arbitrari fra i giovani somali sono un fatto proprio al modo di procedere usuale della polizia keniota.
Regolarmente i presunti “sospetti” vengono sottoposti a maltrattamenti brutali e rilasciati. Le più recenti misure di
polizia sono connesse all’ordine di internamento dei profughi emanato dal ministero degli Interni il 25 marzo, secondo
il quale “tutti i profughi somali, che attualmente vivono in strutture cittadine, devono immediatamente far ritorno nei
loro campi di raccolta” (lager). Nei quali, oltre al sovraffollamento, è ben presente l’affamamento e il contagio di
malattie micidiali, in particolare fra l’infanzia.
“Profughi somali” non esprime quale sia realmente la situazione. Ad esempio il campo di Kakuma è abitato da 120mila
profughi fuggiti da Sudan e Somalia; in quello di Dadaab le persone rinchiuse sono 400mila e oltre, in gran parte
somale. Altra realtà sono le persone somale immigrate nel secolo scorso in Kenia, in particolare nelle città del nord
dove costituiscono la maggioranza della popolazione; altra realtà è quella dell’emigrazione iniziata nei primi anni 90,
con lo scoppio della guerra civile, delle carestie, delle guerre fra clan.
Un decreto dello stesso contenuto venne emesso già nel dicembre 2012, dichiarato incostituzionale nel luglio 2013 dalla
corte suprema, poiché “viola il diritto alla libertà di movimento, la dignità umana e l’obbligo dello stato a prendersi
cura delle persone ridotte in condizione vulnerabile”.
Il vero scopo della sempre più forte pressione del governo keniano sull’immigrazione somala è di renderle insopportabile
la vita per costringerla al “ritorno in patria”, che la maggioranza non ha mai nemmeno vista.

aprile 2014, tratto da jungenwelt.de


aggiornamenti della lotta dentro e contro i cie
CIE di C.So Brunelleschi, Torino
14 aprile. Un recluso del CIE di Torino viene prelevato dalle celle di isolamento e portato in aeroporto per la
deportazione. Salendo in aereo, approfitta della distrazione delle guardie per dare una bella testata a uno spigolo,
provocandosi una ferita superficiale ma che inizia a sanguinare copiosamente. I poliziotti vorrebbero caricarlo comunque
in aereo, ma a causa del rifiuto del pilota il recluso viene riportato al Centro.
22 aprile. Un recluso di ritorno da una visita medica viene messo all’ospedaletto, una sorta di anticamera
dell’isolamento. Iniziano subito le proteste sia da parte del recluso che da quelli della sua sezione con urla e
battiture. Il recluso dopo un lungo tira e molla con il direttore, decide di sbattere la testa contro il muro
provocandosi una vistosa ferita. Per evitare ulteriori casini, la polizia accetta di farlo medicare e di rimandarlo in
sezione, dove intanto tutti i reclusi dell’area, una quindicina in tutto, hanno deciso di iniziare uno sciopero della
fame. In serata una ventina di solidali si raduna davanti alle mura del CIE animando per dieci minuti cori, battiture e
petardoni, per ricordare ai reclusi in lotta che non sono soli.
14 maggio. 30 reclusi arrivati da poco nel CIE, per la Maggior parte nigeriani sbarcati nelle scorse settimane sulle
coste siciliane, vengono deportati con nuovo volo Frontex per Lagos. Ora nel CIE torinese rimangono 10 reclusi.
17 maggio. Un gruppo di solidali con i reclusi si ritrova davanti al CIE per un rumoroso saluto. I reclusi rispondono
tentando di dar fuoco a qualche masserizia, nell’unica area rimasta attiva, ma le forze del disordine bloccano tutto
anche malmenando un prigioniero e portandolo via. Fuori i solidali vengono accerchiati dalla celere, distribuiscono
qualche schiaffo e iniziano una lunghissima procedura d’identificazione in strada. Dopo un paio d’ore rilasciano tutti
tranne una compagna straniera che sarà rilasciata il giorno dopo. In serata il recluso malmenato viene riportato in
sezione dopo qualche ora d’isolamento.

CIE di Trapani
22 maggio. Alcuni reclusi danno fuoco per protesta ad alcuni sacchetti dei rifiuti.
Attualmente il CIE di Trapani è gestito provvisoriamente dalla Croce Rossa, in attesa degli esiti della gara d’appalto.
Sono in atto lavori di ristrutturazione ed i nomi dei titolari dell’azienda che svolge i lavori compaiono in alcune
inchieste sulla mafia.

CIE di Pian Del Lago (CL)
22 maggio. Una ventina di reclusi, in attesa di espulsione, tenta di evadere ma la prontezza dell’intervento delle forze
del disordine ha impedito che si allontanassero. C’è stato un lancio di bottiglie, sedie e altri oggetti contro
poliziotti e militari, ma non ci sono stati feriti. Al termine della sommossa, i rivoltosi sono rientrati nei
padiglioni.

Gradisca D’Isonzo
13 maggio. Dopo nove mesi di agonia a seguito di una caduta dal tetto, avvenuta durante una rivolta nel CIE, un 35enne
marocchino Majid è morto. La protesta di agosto sarebbe nata a seguito di cariche della polizia con uso di lacrimogeni,
dopo che i reclusi si erano rifiutati di rientrare nelle camerate, per festeggiare la festività religiosa del Ramadan.
Majid tentando di scappare, cade dal tetto ed entra in coma farmacologico fino alla sua morte. Durante l’agonia non è
stato concesso nessun permesso alla famiglia nel poter visitare Majid. Anche la decisione di procedere con l’autopsia
sarebbe stata presa senza interpellare prima la famiglia, che ha saputo della sua morte con una settimana di ritardo.
L’associazione Tenda per la pace e i diritti ha presentato un esposto alla magistratura per fare luce sui fatti avvenuti
al CIE di Gradisca ad agosto 2013. Intanto Majid dalla persecuzione alla tortura, ha perso anche la vita.
Il CIE di Gradisca ha chiuso a Novembre, dopo l’ennesima ondata di rivolte e incendi. I responsabili del consorzio
Connecting People sono ancora lì, un po’ malridotti ma sempre in pista nella gestione del business della prigionia e
delle espulsioni.

Cara di Castelnuovo di Porto
16 maggio. Più di 200 migranti si barricano nella struttura, protestano per il mancato pagamento mensile che spetta a
ciascuno di loro per le spese minime (euro 2.5 al giorno che se non utilizzato entro due giorni, l’importo complessivo
viene cancellato; ma dove va a finire il denaro residuo che i migranti non spendono e che l’ente gestore requisisce?),
per la pessima qualità dei pasti, per l’eliminazione dell’autobus, che permetteva di spostarsi dalla struttura, e
dell’ambulanza. Tutto questo è avvenuto dopo che dal 7 aprile il centro è stato affidato all’Auxilium, la stessa che
gestisce il CIE di Ponte Galeria. Durante la protesta le forze del manganello caricano utilizzando anche idranti. I
migranti rispondono con sassi e altri oggetti contro la polizia ed una vettura dei carabinieri viene danneggiata.

CIE di Ponte Galeria
14 maggio. In concomitanza con le deportazioni dal CIE di Torino, anche nel CIE romano avviene una deportazione di 40
recluse nigeriane, tutte portate via con la forza, ma una di loro è riuscita a non farsi caricare sul furgone diretto a
Fiumicino. Oltre le deportazioni anche le incarcerazioni, tre recluse son state arrestate.
16 maggio. Un marocchino di 35 anni si cuce la bocca per protesta. L’uomo è stato poi convinto a farsi rimuovere il filo
dagli infermieri. Un altro recluso è in sciopero della fame e della sete da otto giorni e viene portato in ospedale solo
dopo le proteste dei suoi compagni di sezione.

CIE di Bologna
18 maggio. Il CIE bolognese al momento è chiuso. Le autorità locali e nazionali stanno studiando un modo per
trasformarlo in un centro di smistamento per migranti. A seguito di questa notizia un centinaio di persone tra migranti
e rifugiati, centri sociali, associazione e collettivi hanno manifestato contro la riapertura del CIE e contro il
razzismo istituzionale, ovvero alla Bossi-Fini e alle lunghe e costose procedure di rilascio e rinnovo del permesso di
soggiorno che subordinano il diritto di restare al reddito e al contratto di lavoro.

Frontiera di Melilla
1 maggio. Nella mattinata arriva alla frontiera una prima ondata di migranti, 400 persone. Un centinaio sarebbero
riusciti a passare, mentre gli altri sono rimasti bloccati per sei ore tra due recinzioni dando vita ad una protesta e
dopo scontri sono stati arrestati. In tarda mattinata arriva una seconda ondata, 200 migranti, tutti bloccati dalle
autorità marocchine.

Sicilia, sbarchi e rimpatri
2 maggio. 946 migranti, 488 vengono fatti sbarcare ad Augusta, gli altri 458 a Pozzallo. Anche navi mercantili sono
state coinvolte nelle operazioni di soccorso.
12 maggio. 423 migranti somali, eritrei e siriani arrivano sulle coste siciliane. Prontamente accalappiati dalle navi
della Marina Militare Italiana, vengono poi smistati tra le strutture di “accoglienza” di Trapani, Marsala,
Castelvetrano, Castellammare del Golfo e Salemi. Tra i profughi ci sono 65 minorenni e 45 donne, di cui sei incinte.
26 maggio. Tra gli sbarchi 120 ragazzi non accompagnati sono stati soccorsi nel Mediterraneo nell’ambito dell’operazione
Mare Nostrum. Tutti i 450 profughi, son stati smistati nel centro di prima “accoglienza” di Pozzallo e l’azienda
agricola Don Pietro di Cosimo, che è stata adattata a centro di “accoglienza” a marzo di quest’anno gestita dalla
Protezione Civile.

Milano
Il 6 Maggio c’è stato un presidio davanti alla Prefettura per dire no alla riapertura del CIE di Via Corelli, e no
all’apertura del CARA, al momento in costruzione nelle vicinanze. Il presidio è stato indetto da Naga,
LasciateCIEntrare, Antigone, Rifondazione Comunista, Emergency, No Muos e altre solite associazioni che chiedono e
dialogano con la prefettura con chissà quali speranze inutili.

Umbria, Città di Castello
26 aprile. Un tunisino si chiude dentro casa per evitare l’espulsione, ma dopo l’intervento di un fabbro viene potato in
un CIE della Sicilia. L’ Umbria pur non avendo un CIE, perpetra con forza una caccia all’uomo da identificare, e
individuato, trasportato fino in Sicilia. Quest’anno le espulsioni in Umbria sono state già 124, più di una al giorno.

Roma
18 maggio. Un consigliere di amministrazione della Cooperativa Auxilium (ente gestore del CARA di Bari e di Castelnuovo
di Porto, CIE di Ponte Galeria e Caltanisetta) ha trovato i vetri della propria auto in frantumi. Può anche essere che
se li sia rotti da solo, magari per incassare i soldi dell’assicurazione.

Cara di Bari
18 maggio. Scoppia un incendio nel magazzino del Cara.

Il mare dei morti
Italia, 10 aprile. Un morto a bordo di una imbarcazione soccorsa al largo di Pozzallo. Un secondo passeggero muore la
notte dopo l’arrivo nonostante il ricovero d’urgenza in ospedale.
Grecia, 12 aprile. Naufragio davanti all’isola di Gera, sull’isola di Lesvos. Dispersi 5 passeggeri.
Grecia, 15 aprile. Dopo aver sbarcato sette persone a Psalidi, un’imbarcazione del contrabbando turco riprende il largo
ma viene intercettata e inseguita da una motovedetta della Guardia costiera greca. Al largo dell’isola di Kos, gli
ufficiali aprono il fuoco e uccidono il comandante dell’imbarcazione.
Grecia, 5 maggio. Naufragio davanti all’isola di Samos: 22 morti e 7 dispersi. Tra le vittime anche 4 bambini e 12
donne.
Italia, 7 maggio. Un cadavere ritrovato a brodo di una imbarcazione soccorsa nel Canale di Sicilia. L’uomo sarebbe morto
di stenti durante la traversata.
Francia, 8 maggio. Sedicenne muore cadendo da un camion sotto il quale si era nascosto per tentare di passare la
frontiera con l’Inghilterra, a Calais.
Libia, 11 maggio. Naufragio al largo delle coste di Tripoli, morte almeno 40 persone.
Italia, 12 maggio. Naufragio a sud di Lampedusa: recuperati 17 cadaveri, ma i dispersi in mare sarebbero almeno un
centinaio.
Milano, maggio 2014


"STATO DI NEW YORK: mai PIù CARCERI"
Più di 600 persone hanno partecipato alla manifestazione -statale- il 5 maggio contro l'incarcezaione di massa. La
manifestazione è stata indetta dalla Capital Area Against Mass Incarceration e dal New York Prisoner Justice Network con
il supporto di 40 organizzazioni anticarecrarie e principalmente con il supporto della New York Free Mumia Coalition.
Studenti, leaders religiosi e famigliari dei prigionieri insieme agli attivisti si sono dati appuntamento davanti al
Campidoglio per ribadire la loro opposizione all'isolamento, per chiedere la riforma statale della libertà condizionale,
il rilascio dei prigionieri più anziani e chiedre ifnine la creazioen i una Commissioen di Giustizia.
L'intellettuale ed attivista Dr Cornel West è intervenuto alla manifestazione denunciando la connessione tra povertà,
razzismo e incarcerazione: "L'incarcerazione di massa è un crimine contro l'umantà, è l'eredità della supremazia bianca.
Le carceri sono la nuova schiavitù". Altri sono intervenuti richiamando l'attenzione sulle 86.000 persone che versano in
carcere in condizioni dure e disumane nelle carceri dello stato di New York.
Dal Campidoglio il corteo è passato sotto ai palazzi governativi urlando slogan contro il sistema carcerario e
intonando slogan come "Resist! Stand up! Prisons will close when the people stand up!"
Il corteo ha poi proseguito entrando ed occupando parte del Campidoglio. Lì i manifestanti hanno appeso diverse lettere
di prigionieri ed amici e famigliari hanno preso parola descrivendo le diverse esperienze dolorose che i carcerati
quotidianamente devono subire, testimoniando dunque come il complesso industriale carcerario sia fortemente ingiusto e
razzista. La giornata di protesta si è conclusa positivamente asciando terreno fertile per le prossime azioni. “Brick by
brick, wall by wall, free our people! Free them all!”

maggio 2014, da workers.org



LETTERE DAL CARCERE DI PESCARA
Cari compagni, [...] maggiore forza alla nostra protesta è arrivata quando siamo riusciti a far pubblicare sul giornale
locale, quello che stavamo facendo. Considerando il tipo di lager e i suoi “componenti” è andata benino! Vi invio copia
originale (riportata di seguito):
“Un clangore, ogni 2-3 ore, per cinque, sei volte al giorno… Dal 5 aprile scorso infatti gli ospiti del carcere hanno
indetta una protesta, che è partita a livello nazionale… con pause che arrivano a circa tre ore, si mettono a battere,
con degli oggetti metallici, come bombolette del gas, sulle inferriate delle celle. Un frastuono ritmato, che dura, a
volte anche un quarto d’ora, messo in atto per richiamare l’attenzione sulla discussione relativa al condono”…

Pescara 1° maggio 2014

***
[…] Fra mezzo secolo, o forse più, si parlerà del carcere come di una gramigna, come noi oggi parliamo dei patiboli di
una volta, del bagno penale e dei braccetti della morte.
Questa predizione la possiamo formulare con tanta sicurezza in quanto si è già evidentemente posizionati su quella linea
di rottura che, per molti, pone il carcere dal lato “dell’intollerabile”; la prigione oggi è abominevole, come ieri lo
era la “catena”.
In questa prospettiva la questione non è sapere cosa fare del carcere, come migliorarlo, oppure come adeguare l’ordine
penitenziario alle norme generali dello stato di diritto, si tratta invece di domandarsi come SBARAZZARSENE.
Non si tratta di sciocchezze, cari compagni/e, ricordando il grande e irriducibile Alexandre Jakob “Abbasso le prigioni,
tutte le prigioni!”
Quando prendiamo posizione sulle carceri rimettiamo in gioco le scelte etiche che lo Stato (il sovrano moderno) ha fatto
per noi, per non parlare del trattamento psichiatrico a base di psicofarmaci, a cui ho visto sottoporre molti bravi
ragazzi, raddoppiando così la loro carcerazione.
Lo sciopero a cui noi abbiamo aderito deve essere solo la punta dell’iceberg, possiamo fare di più… la lotta è la nostra
unica salvezza; non lasciarsi imbambolare da false promesse dei nostri schifosissimi politici (che tra l’altro rubano
più di noi) ma “loro” non pagano mai!
Mentre un padre di famiglia che “evade” la legge per sfamare i propri piccoli, resta in un lager a marcire per anni !!!
Chi non ha il necessario per vivere non deve riconoscere né rispettare la proprietà degli altri: i principi del
contratto sociale sono violati a suo sfavore (come scrive Johan Gottlieb Fiche).
Se sul cammino dobbiamo correre, non possiamo farlo sorretti e intralciati da un falso sentimentalismo improduttivo
senza ostacolare ciò che si vuole condurre a termine dell’energica RIVOLTA!
Le prigioni una protezione sociale? Quale mente MOSTRUOSA potrebbe anche solo concepire un’idea così assurda? Come dire
che la salute possa essere promossa dal contagio!!!
Certo! non tutti possono capire ed accettare questi concetti, anche perché noi tutti sappiamo che negli ultimi anni, i
lager dove ci rinchiudono spesso sono pieni di “individui” che tutto sono tranne che carcerati, uno tra tutti dove sono
rinchiuso io…
Questi “elementi” sicuramente riferiranno agli “omini blu” le nostre intenzioni di rivolta e ribellione, ma non dobbiamo
lasciarci fermare né avere paura, già lo stato “padrone” ci sottopone ad un ricatto morale ultraperfido – i famosi 45/75
giorni…
Noi dobbiamo essere uniti e pronti per la prossima lotta!!!
Ricordate che prima di essere rinchiusi in questi lager, noi tutti siamo passati in una stanza dove c’è scritto: “La
legge è uguale per tutti” ed “è amministrata nel nome del POPOLO”, ma quale elezione popolare ha messo quei giudici, lì
pronti a giudicarci? Non ricordo di aver mai votati questa cosa!!!
Ora vi lascio augurando una presta libertà a tutti. Un saluto a pugno chiuso, Ivano.

Pescara 4 maggio 2014
Ivano Matticoli, via S. Donato, 2 - 65129 Pescara


lettera dal carcere La Dozza (Bologna)
Ciao a tutti!! …vi dò qualche aggiornamento su come procede qua alla Dozza.
Ora in totale siamo 60, ma al momento della raccolta firme eravamo 57.
Quando ho iniziato a spargere la voce c’era molta diffidenza, ma dopo averne parlato a lungo, ci siamo radunate tutte in
saletta. Le firme raccolte sono state 41!! Ottimo risultato, oltre le mie aspettative indubbiamente. Purtroppo la
maggior parte delle mie compagne assume la terapia, di conseguenza non ha potuto aderire allo sciopero della fame (di 2
giorni). Abbiamo fatto 2 settimane di sciopero della spesa nelle giornate del 7 e 14 (aprile)… 6 giorni di battiture,
dal 9 al 14, della durata di 15 min. ogni sera, dalle 20.30 alle 20.45; e 2 giorni di sciopero della fame nelle giornate
di ieri e di oggi (17 e 18).
Sono in contatto con i solidali di Bologna che la sera del 12 sono venuti alle 20 in presidio sotto le mura del carcere
muniti di megafono e pentole e hanno iniziato la battitura 10 minuti prima di noi che ci siamo unite a loro nell’ora
prestabilita!!!
Un momento emozionante, la loro presenza e il loro supporto sono stati la carica perfetta per tirarci fuori ancora più
grinta. Fischi, urla e il suono del ferro che si fondevano tra dentro e fuori per dar vita ad un unico desiderio… la
libertà della vita! E un grazie va a loro, ai ragazzi che erano là fuori per tutte/i noi!!! Grazie!
Anche oggi ci hanno fatto sentire il loro calore all’ora di pranzo… sempre proveniente dal di là del muro… in
solidarietà con chi di noi era in sciopero della fame… mitici!!! E arricchite da queste sensazioni forti, da domani le
nostre proteste saranno finite.
Non è mancata la conferma dell’infamità fatta persona… pensate la pezzente che lavora (che oltretutto ha firmato
l’istanza, ma alla fine ha fatto la spesa, non ha fatto la battitura e nemmeno lo sciopero della fame), sapendo che
alcune di noi erano in sciopero, ha avuto la brillante idea di fare la pizza e di cucinare cose che mai si sbatte di
fare…
Pensate a che livelli sono ridotte alcune detenute! E altre scene patetiche che non sto a raccontare… la dignità è un
optional.
Delle 12 che avevamo firmato siamo rimaste in 9… E vabbé… personalmente sono soddisfatta di me e di tante altre… penso
che tutto ciò che abbiamo fatto insieme in questi giorni, ci abbia unite più di prima… Un “in bocca al lupo” e un
abbraccio a tutti i/le compagne/i di Olga e a tutti/e i/le detenuti/e!!!

Carcere di Bologna 18 aprile 2014
Vanessa Bevitori, via del Gomito 2 - 40127 Bologna


Lettera dal carcere di Monza
Ciao compagni/e, i libri… mi serviva da leggere anche perché non avevo più niente da leggere e la biblioteca qui è mal
fornita e come sapete qui leggere è importantissimo; è l’unico istante della giornata in cui ti senti realmente libero e
per qualche ora stacchi un po’ dalle situazioni di merda che si creano in sezione e dalle continue provocazioni delle
guardie le quali non aspettano altro per punirti.
Io diciamo che sto bene anche se dopo un anno e mezzo qui… poi penso a tutti i compagni/e, a voi e amici che mi
sostengono in questo mio viaggio e mi do la forza per andare avanti e soprattutto resistere; ed è quello che noi
compagni sappiamo far bene e grazie a questo non potranno mai schiacciarci, o, come dicono loro, rieducarci e
reinserirci nella società: no grazie noi la vogliamo cambiare la vostra società non essere inseriti…
Purtroppo qui lo sciopero non è andato come mi aspettavo. Io fino al 20 ho fatto lo sciopero della fame, ma la battitura
non è andata bene, l’abbiamo fatta il primo giorno, ma le guardie ci hanno rotto il cazzo, minacciandoci di chiudere la
sezione e si è smesso. Poi nei giorni seguenti ho provato a farne partire un’altra, ma niente da fare, si cacavano tutti
sotto. Pazienza, è andata così.
Io invece ho avuto problemi con loro, le guardie, perché hanno collegato il mio sciopero, gli ho dovuto dare le
motivazioni del mio sciopero con la battitura e mi hanno rotto abbastanza il cazzo con varie provocazioni: dalla posta
datami in ritardo alle minacce di portarmi in isolamento, se non incominciavo a mangiare. Mi sono rifiutato e ho
continuato la mia lotta.
Vi lascio carissimi compagni/e, spero di sentirvi presto, vi ringrazio nuovamente con tutto il cuore per il vostro
sostegno perché questo ci dà la forza per andare avanti, resistere e lottare. Continuate sempre così, sosteneteci fino
al giorno che voi da fuori e noi da dentro potremo distruggere ’sti posti infami.
Grazie di tutto, un grosso abbraccio, a presto, Luca
Fuoco ai carceri… Sabotare per sovvertire…

Carcere di Monza, 29 aprile 2014
Luca Russo, v. S. Quirico 9 - 20900 Monza Brianza


teramo: in solidarietà con le mobilitazioni nelle carceri
Domenica 20 aprile, nel pomeriggio, una trentina di compagni e solidali sono andati fuori le mura del carcere teramano
per portare solidarietà ai detenuti anche in relazione alla mobilitazione anticarceraria dal 5 al 20 aprile. Durante il
pomeriggio si sono succeduti momenti musicali, letture delle lettere di alcuni compagni reclusi e vari interventi al
microfono che hanno ricordato le responsabilità della struttura penitenziaria e della sua amministrazione, nella
gestione disumana del carcere e nell’esistenza del carcere stesso, che è esso stesso, per sua natura, disumano. I
detenuti, come sempre, hanno risposto ai compagni ed imprecato contro i loro aguzzini. Hanno anche chiamato per nome
alcuni compagni, gridando i nomi di chi c’era al presidio e di chi non poteva esserci. Chi non poteva esserci, gli è
stato spiegato, era per le misure repressive che gli sbirri impongono, tipo fogli di via, a chi lotta. E tale notizia è
stata accolta dai detenuti con alcuni insulti contro le guardie. A fine pomeriggio i compagni sono andati via, salutando
i reclusi, dicendo loro, ancora una volta, che qui fuori hanno dei complici. Una piccola nota curiosa per finire: se è
passato sotto silenzio (fatto ovviamente scontato) sui giornali locali, sia la mobilitazione dei detenuti che il
presidio solidale, lo stesso non può dirsi per la bella visita elettorale che il sindaco di Teramo ha fatto due giorni
dopo, accompagnato dal rappresentante dei radicali, nel carcere cittadino. Non ve la stiamo a raccontare perché ve la
potete immaginare e perché l’hanno fatto abbondantemente tutti i servi della carta stampata e televisioni locali. Quel
che siamo certi però, è che i carcerati non avranno gridato, con forza e gioia, i nomi di quello sciacallo e di
quell’arrivista, così come hanno fatto nei confronti dei compagni e di tutti i solidali che erano al presidio.
24 aprile 2014, da freccia.noblogs.org


lettera dal carcere di cremona
Innanzitutto, ciao a tutti… Qui il 1° ottobre 2013 hanno aperto un nuovo padiglione composto di 4 piani (proprio come
quelli già in funzione a Cuneo, Spini di Gardolo…) e hanno cominciato a riempirlo, 50 prigionieri per piano, con
numerosi trasferimenti, in particolare, da S. Vittore, Piacenza e Mantova.
Al primo e al secondo piano, grazie al decreto europeo, le celle rimangono aperte dalle 9 alle 15.30 e, dopo la conta,
dalle 16.30 fino alle 19.30.
Il mangiare non fa schifo. Negli altri piani non vengono aperte che per andare all’aria, i cui cortili non vanno oltre
qualche decina di metri quadri.
Qui tutto è automatizzato, mosso dall’agente chiuso in un gabbiotto apre e chiude porte e cancelli, dai monitor osserva
le immagini che gli mandano telecamere impiantate ovunque, guardano tutto.
Non ci sono attività né volontari, a parte quello della Caritas, diacono della chiesa che, a chi va a messa, porta
vestiti, scarpe, ti versa qualche euro sul conto (se glielo chiedi tramite “domandina”).
Anche in questo padiglione nuovo prima che passi qualche educatrice, pure se la chiami via “domandina”, passano mesi, si
fa vedere a natale e poco più. In biblioteca ci sono quattro libri in croce e nemmeno catalogati.
Di recente i prigionieri, prima hanno raccolto firme in segno di protesta contro il fatto che da oltre un mese e mezzo
non viene consegnata la posta… allora, siccome non è servito a nulla, un pomeriggio alle 15,30 non sono rientrati in
cella, chiedendo di parlare con l’ispettore delle guardie, il quale ha rimandato ogni responsabilità all’educatrice. Che
balla idiota. Nello stesso momento gli è stato chiesto di aprire una saletta con tavoli e sedie dove poter giocare a
carte, scrivere… la risposta è stata: “te li devi comperare”. Comunque qualche giorno dopo in una saletta hanno portato
un biliardino… e cominciato a portare i prigionieri, a turno nelle ore d’aria, al campo da calcio…
Le celle nel padiglione nuovo sono un poco più spaziose che in altre carceri; c’è l’angolo cucina, il bagno, lavandino,
doccia (acqua calda a orari) e cesso.

Aprile 2014


Lettera dal carcere di S. Vittore (Mi)
[...] Qua le cose sembrano non cambiare, e più di spostarci da un raggio all’altro ed impacchettarci, da un carcere ad
un altro, non fanno. Così da poter passar meglio i controlli che gli fanno quelli di Strasburgo, e cosicché, da
risultare in ordine…
Questo è quanto, con una scadenza ormai imminente, che a giorni sarà ufficiale... dunque prima di farci vedere con la
bella faccia… puliamoci il culo!!!
Vi salutiamo dalla cella a tutti voi cari compagni… A presto, Alessandro.

S. Vittore, 7 maggio 2014

reclamo collettivo dal carcere di alessandria
Ill.mo Magistrato di Sorveglianza Dr. GiuseppeVignera
Noi sottoscritti detenuti della SEZ 1a B, Casa di Reclusione di Alessandria, le facciamo debitamente presente un nostro
accorato reclamo sensi dell’art. 35 O.P.
Più volte abbiamo chiesto alla direzione di questo istituto, con istanze sottoscritte da tutti i detenuti di codesta
sezione, che ci venisse distribuito il vitto-colazione, ogni mattina come del resto avviene in tutti gli istituti
italiani. Ebbene, non abbiamo mai avuto una risposta nel merito.
In questo istituto viene programmato che il latte (di marca Granarolo) viene distribuito nella dose di un litro, ogni 10
gg come anche il caffè (35 gr.) e 5 bustine di the.
In altri istituti, presso le cucine viene fornito dall’impresa, un latte più economico in modo che possa garantire il
fabbisogno giornaliero, il latte di marca superiore viene venduto nella spesa per i detenuti Mod. 72. Accade che in
questo istituto al Mod. 72 viene venduto la marca Granarolo, identico a quello che ci viene distribuito ogni 10 gg.
Evidenziamo che, ritenuta la grave situazione economica del nostro paese che grava sulle famiglie, molti detenuti vivono
in condizioni economiche tali da non potersi acquistare il latte, per l’eccessivo prezzo.
Le chiediamo sig. magistrato, affinché la SV voglia intervenire a regolarizzare quella regola generale che viene
esercitata da tutti gli istituti.
Fiduciosi di un vostro intervento porgiamo deferenti ossequi.

Alessandria, aprile 2014
(Seguono 29 firme)


lettera dal carcere di forlì
Ragazzi/e, amici/e, compagni/e detenuti/e, dobbiamo renderci conto dell'importanza che il movimento ci mette a
disposizione, perchè ci da la possibilità inanzitutto di poterci tenere in contatto fra molti istituti di pena e in
secondo luogo per l'organizzazione di varie mobilitazioni. Dico questo perchè fra tutte le carceri italiane si è notato
un calo di solidarietà tra detenuti e questo non va bene, perchè abbassando la testa davanti a questo sistema corrotto e
malato non si fa altro che fare il loro gioco chiamato sottomissione.
Ci tengo a ricordare che se oggi abbiamo nelle nostre celle la tv, la radio, il termosifone, la tazza del bagno (anziché
la misera turca) e nelle carceri di recente costruzione il frigorifero, è perchè ci sono state persone che hanno
lottato a testa alta, prendendo anche botte e non solo, pur di ottenere questi piccoli privilegi, e davanti a questi
grandi sacrifici non solo fisici, dobbiamo avere il massimo rispetto dimostrandoci uniti e compatti nelle mobilitazioni,
con scioperi, battiture e anche altro se occorre. Il sistema ci vuole morti, perchè per loro siamo un peso, un problema
che non vogliono affrontare e risolvere. 64.000 detenuti reclusi a fronte di 43.000 posti disponibili, con un esubero di
oltre 20.000 detenuti; più di 50.000 detenuti agli arresti domiciliari e più di nove milioni di processi in arretrato.
Per tutto questo e per i nostri diritti umanitari, il diritto di vivere con dignità, lottiamo tutti insieme per ottenere
un'amnistia generalizzata il più presto possibile.
Per ottenere ciò, c'è bisogno di tutti uniti e compatti. E alzare la voce, la voce del nostro popolo, il popolo dei
detenuti. Una voce che pochi vogliono ascoltare o ancora peggio fanno finta di ascoltare, soprattutto nei periodi di
elezioni come questo, facendoci false promesse o decreti che non andranno mai in vigore e anche se fosse non
servirebbero a nulla per la loro inefficacia. Dobbiamo farci sentire, dobbiamo fargli capire che ci siamo anche noi, che
siamo stanchi di essere messi nel dimenticatoio. Anche con l'aiuto dei nostri compagni all'esterno delle carceri.
Ma la voce grossa dobbiamo farla noi dall'interno delle carceri! Sarà dura, sarà difficile e comporterà molti sacrifici,
ma se saremo tutti quanti 64.000 uniti e compatti il risultato arriverà.
Chi scrive è un detenuto del carcere di Forlì, il quale ha aderito alla mobilitazione indetta per aprile facendo lo
sciopero della fame e se necessario arriverà anche a quello della sete ad oltranza.
In passato ho partecipato a numerose mobilitazioni sia all'esterno che all'interno delle carceri cercando di ottenere
qualcosa di più per tutti. Combattere sempre. ICE

Ice c/o GMGB MBE 222, c.so Diaz 51 - 47121 Forlì


Lettera dal carcere di Bergamo
Un caro saluto a tutti voi. Sono ancora a Bergamo. Mi hanno di nuovo rigettato la richiesta di trasferimento in un altro
carcere. Il “DAP” dice che gli altri carceri sono “pieni”, io dipendo dal “DAP”, visto che sono in sezione “EIV”. In
precedenza ho scritto un paio di lettere a loro e gli ho detto quello che penso di loro. E puntuali loro si vendicano
con me.
Qui in isolamento hanno mandato via tutti, siamo rimasti solo 2. Dicono che si deve tutto imbiancare. Ma hanno promesso
di farmi lavorare; imbiancare tutta la sezione. Ma io non credo mai ai coccodrilli. In questo carcere tutto funziona
così.
Per altre cose è sempre uguale. Vivo giorno per giorno, ma non perdo mai la mia dignità. I tempi sono brutti. E qui
dentro c’è ogni tipo di porcherie. Quei vermi che sono al potere hanno costruito questo sistema merdoso perché gli fa
comodo così. […]
Mando cari saluti da questo albergo malandato a tutti voi, compagne e compagni.

Carcere di Pergamo 11 maggio 2014
Jasmir Sabanovic, via Gleno 61 - 24125 Bergamo


lettere dal carcere di spoleto (pg)
Carissimi/e compagni/e, sono appena tornato da Viterbo per la videoconferenza sul processo di Trieste dove io e Valerio
siamo stati accusati da un collaboratore di giustizia che davanti ai giudici faceva la vittima (quell’ignobile verme).
Quando però ha dovuto picchiare per sottrargli le loro ditte, faceva il camorrista… Poi ha fatto arrestare tutti i suoi
complici ed ora dice che a Tolmezzo ha avuto paura per sua moglie e i suoi figli… non ci sono schifosi peggio di questo
verme.
Appena ho potuto fare dichiarazioni spontanee, ho letto questo comunicato:
“Sig. Presidente io non ho niente da difendermi in questo processo perché è stato costruito su false accuse dalla
direzione di Tolmezzo per dare lavoro al tribunale altrimenti non avrebbero nessuno per cui processare, dato che oggi
in quest’aula state difendendo uno (pseudo camorrista) che, con la complicità di molte banche, ha distrutto intere
famiglie, costringendo piccoli imprenditori e artigiani a cedere le loro imprese attraverso minacce, atti intimidatori e
pestaggi anche nei confronti dei loro bambini, e voi avete scritto che io e Crivello abbiamo offeso l’onore e il decoro
del Crisci Mario.
Questo processo è una vergogna e non avete più bisogno di indossare una maschera per coprire i crimini che avete sempre
coperto dentro le carceri, soprattutto a Tolmezzo.
Libertà per i miei compagni No Tav, Chiara, Claudio, Mattia e Niccolò arrestati per terrorismo, perché terrorista è lo
stato che espropria, devasta, inquina e militarizza il territorio. W l’anarchia ora e sempre No Tav”.
Avevo il foulard No Tav e l’ho mostrato al giudice… ahahah
Questo è il comunicato che sono riuscito a leggere prima che il giudice mi togliesse la parola… poi il mio coimputato ha
detto che a noi ci stanno processando perché abbiamo scoperchiato tutti i pestaggi e gli abusi che facevano a Tolmezzo,
per cui non c’è bisogno di aggiungere altro di questa mattinata all’insegna (dell’attacco) da chi come noi non abbasserà
mai la testa contro le infamie di un sistema fascista sporco e colluso.
Un abbraccio fraterno a Valerio, a Davide Delogu che gli sono sempre vicino, e a tutti/e i detenuti/e come noi che
lottano guardando negli occhi i nostri nemici.
A testa alta combattivo e ribelle, Libertà per Chiara, Claudio, Niccolò e Mattia .
Maurizio

Carcere di Spoleto, 9 maggio 2014 (timbro del visto di censura il 21 maggio 2014)
Maurizio Alfieri, via Maiano, 10 - 06049 Spoleto (Perugia)

***
Cari compagni/e di Ampi Orizzonti, vi comunico che il mio nuovo indirizzo è il carcere di Spoleto. Scusate se non mi
sono fatto vivo prima, come dire…, tempi tecnici di sistemazione. Mi auguro di trovarvi tutti bene come posso dire di
me. Comunque sempre in Umbria sono rimasto, per il momento. A presto sentirci. Ah, l’ultimo opuscolo, cioè il n° di
dicembre, mi è arrivato.
Un saluto con stima e comunista a voi tutti, ciao Roberto.

Carcere di Spoleto, 27 aprile 2014
Roberto Morandi, via Maiano 10 - 06049 Spoleto (Perugia)


lettera dal carcere di siano (cz)
[...] Arrivato qui nel 2007 da Secondigliano, non c’è voluto molto a capire che questa era una sezione d’isolamento e
non un buen retiro a fine pensionistici.
Poi con il tempo, come segnalato in precedenti comunicazioni: per i processi, le modalità sono virate verso un ulteriore
isolamento, in sezioni dette “celle”.
Riguardo ad attuali processi, in questo momento credo d’essere l’unico che ne ha d’aperti, ma non in corso, tutti per
“resistenza”. Fin ora niente video-conferenze, anche perché non sono certo di grande allarme sociale.
Condivido le considerazioni del documento che mi hai inviato; del resto un regime marcio fino al midollo, teme che anche
i refoli di vento possano farlo crollare; la risposta scontata è a partire dal “41bis”. Che ricordiamo, riguarda anche
tre compagni, per ora.
Allo stato nell’AS2 con la video-conferenza, mancano solo i vetri ai colloquio e poi siamo lì. Se qualcuno pensava che
ciò potesse riguardare solo i mafiosi cattivi, è bello che servito.
L’opuscolo qui giunge regolarmente. Un caro saluto a tutti, stammi bene. Bruno

Siano 1° maggio 2014
Bruno Ghirardi v. Tre Fontane 28 - 88100 Catanzaro

lettere dal carcere di terni
Vi scrivo dal carcere di Terni per ringraziarvi della vostra corrispondenza e per farvi sapere che qua “noi ci siamo”.
Ho fatto girare la lettera del “Coordinamento detenuti” che dice dello sciopero e tanti fratelli hanno aderito. Inoltre,
visto che da sempre i Giuda stanno in mezzo a noi, hanno pensato bene di far sapere alle guardie chi ha messo in giro la
lettera. Anche a me hanno già fatto rapporto (con una scusa banale) e quindi non so se mi trasferiranno pire. Se mi
trasferiscono vi farò avere mie notizie.
Non so se voi avete con gente di Terni, però se fosse di sì fate in modo che qualcuno di loro passi vicino al carcere di
Terni. Sarebbe utile un appoggio da fuori.
Vi saluto ragazzi-ragazze e lotterò fino alla fine contro questi boia.
Con stima e rispetto.

metà aprile 2014

***
Cari compagni un amico mi ha scritto una lettera dal carcere di Sulmona reparto AS1, dicendomi di un prigioniero lì
ristretto deceduto per infarto e nello stesso momento si era verificato nello stesso carcere che un altro detenuto si
era impiccato che però sarebbe stato salvato dalle guardie.
Sono anni che sento parlare del carcere di Sulmona, anni che detenuti muoiono, che si sono uccisi impiccandosi e
tentativi di suicidi.
Sembra che in quel carcere non debba esserci pace, che è diventato un luogo di morte dove ormai da anni non sembra farci
caso più nessuno. Da quello che intuisco dalle notizie, dopo tante morti e tanti tentativi di suicidio, non è cambiato
niente. Il clima da quanto mi dicono è sempre lo stesso. E allora ci sarebbe da domandarsi se tutto questo è dovuto per
la mala gestione di chi dirige il carcere.
Gli spazi della socializzazione vengono arbitrariamente limitati.
Faccio appello a tutti/e compagni/e di varie associazioni antagoniste, anarchiche, comuniste affinché organizzino un
sit-in sotto il carcere di Sulmona, facendo sentire la loro presenza. Porgo le mie più sincere condoglianze alle
famiglie del prigioniero deceduto e vicinanza solidale ai detenuti in regime AS1 ed all’amico Antonino Faro che è
sottoposto all’isolamento diurno, e a tutti i detenuti del carcere di Sulmona. Saluto l’amico che è nel carcere
Pagliarelli Davide Delogu (ora trasferito a Caltanissetta ndc).
Abbraccio e saluto tutti. Mauro.

Carcere di Terni 12 Maggio 2014
Mauro Rossetti Busa, via delle Campore, 32 – 05100 Terni


Lettera dal carcere di Sulmona (aq)
Carissimi compagni, prima di tutto vi informo che ho ricevuto l’opuscolo nr. 90 e la vostra lettera [relativa a maggiori
informazioni sull’applicazione della videoconferenza, ndr].
Non è facile parlare di certe problematiche che riguardano il carcere, perché i regimi e le categorie sono diverse e
quindi possiamo argomentare solo del regime dove siamo obbligati a vivere. Con la presente cercherò di illustrarvi la
problematica del 41bis e della videoconferenza.
Qui dove “vivo” attualmente la sezione , e quasi tutti i reparti sono composte da carcerati ergastolani o con lunghe
pene. Oltre il 40% ha vissuto per più di un decennio al regime del 41bis, per cui hanno e abbiamo titolo a parlare del
41bis e videoconferenza.
Oggi il 41bis è più restrittivo, lo spazio dove muoversi è così limitato che ogni singolo animale – per legge – ha più
metri dove muoversi; la libertà di dialogo è limitata all’ora d’aria tra i quattro reclusi che possono stare assieme,
mentre tra detenuti dirimpettai è vietato anche il saluto verbale.
A questo possiamo aggiungere la forte limitazione del diritto alla difesa: dal 1997-’98 tutti i detenuti sottoposti al
regime del 41bis non potevano partecipare ai processi se non tramite videoconferenza. I limiti sono così ridotti che la
difesa processuale è una farsa. Difatti molte condanne sono avvenute senza una minima difesa reale.
Da quest’anno, 2014, la videoconferenza è stata estesa anche a tutti i detenuti sottoposti al regime del 416 bis AS3
(Alta Sorveglianza 3), per cui il problema di difesa giudiziario si esteso ad oltre 10.000 detenuti. La scusante è che
bisogna prevenire le fughe dei detenuti; ma noi tutti sappiamo che è una balla colossale, in quanto le fughe avvenute
negli ultimi anni sono zero assoluto.
Il vero motivo è quello economico, cioè, favorire i finanziatori della “politica” con l’assegnazione dell’appalto delle
videoconferenze, per cui le motivazioni possono essere tante, quelle dette dai politici, ma il fulcro è solo
affaristico.
Tutte le battaglie che riguardano certe argomentazioni come quelle per la vivibilità dei detenuti non devono essere
settoriali, ma più ampie e per tutti i carcerati. L’attenzione deve essere per tutti senza particolarità verso una
categoria di detenuti, perché quando ci si pone degli obiettivi lo si fa per tutti i prigionieri.
E’ sempre bene stare attenti a non fare battaglie troppo personalistiche e a tener conto come una rivendicazione propria
di un gruppo di persone o di una categoria possa saldarsi con le rivendicazioni e i bisogni di tutti; perché tutte le
lotte sono validissime e vanno sostenute da ognuno secondo le proprie convinzioni e con le modalità che ognuno ritiene
opportune.
Certamente è importante, valido e sacrosanto portare avanti la lotta per l’abolizione dell’ergastolo, e in merito si
devono raccogliere le idee e l’esperienza di tutti per fare dei passi avanti che portano alla libertà. Nel carcere non
c’è futuro, così come non c’è quasi memoria del passato. Gli individui detenuti sono condannati ad un eterno presente
immutabile, disumano, in un luogo indefinito. Manca tutto, non c’è un servizio sanitario idoneo, manca un’area
trattamentale con educatori attenti; non c’è possibilità di lavoro, a parte quella di spesino e scopino. Il circuito di
alta sicurezza è un girone dantesco infernale.
Ci dicono che il carcere aiuta riscattarci e a reinserirci nella società. Ma la maggior parte dei detenuti è composta da
recidivi, dal momento che uscendo trovano le stesse condizioni, o peggio, di quando erano entrati: ci dicono che, se non
riscatta, il carcere almeno spaventa. E allora perché i detenuti sono sempre di più? Perché anche qui si fa largo da
anni la tendenza a criminalizzare sempre più comportamenti?
Chiediamoci: questa società è così virtuosa, dispensatrice di valori così elevati e di relazioni così egualitarie da
raccomandare di integrarsi al suo interno?
Purtroppo mi devo fermare a scrivere perché in sezione è successa una cosa grave e di dolore per tutti noi prigionieri
dell’AS1 reparto B. Un compagno di sezione ha avuto un infarto ed è morto. E’ stato un dolore per tutti, dopo 23 anni di
carcere vi lascio immaginare il dolore sia dei compagni che, soprattutto, della famiglia. Quello che ci rattrista di più
è che non abbiamo potuto dargli aiuto. Uno che si trova in questi posti di sofferenza non può avere un po’ di conforto,
una mano affettuosa dei propri cari, qualcuno che gli sia vicino. Il compagno si chiama Giovanni Pollari.
Nello stesso giorno purtroppo si è verificato anche un tentato suicidio; è stato salvato dalle guardie, qui non hanno
fatto uscire nessuna notizia.
Certo che voi fate pubblicare la notizia, saluti a tutti Antonino.

Carcere di Sulmona 2 maggio 2014
Antonino Faro, via Lamaccio, 2 - 67039 Sulmona (L’Aquila)


Lettera dal carcere di Alessandria
Car* compagn*, …In queste ultime due settimane sono capitate due perquisizioni, mi viene da pensare che questi
personaggi sono veramente tristi e con gravi “disagi” in quel poco di cervello che utilizzano per le funzioni di stato.
Nell’ultima c’erano i cadetti della penitenziaria che avranno avuto 22-23 anni al massimo, e hanno potuto imparare come
si fa una “buona perquisa”, sotto lo sguardo attento dei propri superiori.
Ora comincia a farsi sentire il caldo e in cella – da quello che mi racconta Ivano – l’estate si arroventa tutto,
d’altra parte ferro e cemento non sono proprio dei buoni elementi refrigeranti, queste bocche di lupo in plexiglass
appesantiscono ancor di più la situazione. A parte il caldo, questo schifo di pannelli ti esclude gli orizzonti e questo
non mi va proprio giù e credo che certe cose devono avere vita breve almeno per quel che mi riguarda (vedremo).
Ho visto che quando arriva io turno di “lavorante” ti fanno firmare un foglio in cui ti si dice che se ti rifiuti di
operare il lavoro ci saranno provvedimenti tipo la questione sui “giorni” e altri ricatti veri. Per ora – visto che
ancora non sono definitivo – non me lo hanno mai chiesto, comunque se lo possono scordare che mi metta a pulire il
carcere e soprattutto l’ufficio e il cesso del capo-posto… ma siamo matti? io sì!!
Potranno pur buttarmi in un tugurio ma ramazzare questo posto non mi ci metto di certo, ribadendo che è una mia
posizione personale comunque.
Domani farò colloquio con un’amica – che è una seconda mamma per me – alla quale hanno concesso un permesso temporaneo
di 4 ore, non me lo aspettavo visto che la giudice da quanto mi hanno riferito mesi fa, era assolutamente contraria a
concedermi colloqui con terze persone ed ero quasi lusingato di questo suo “affettuoso” rancore nei miei confronti.
Comunque rivedrò una persona nuova, oltre a mia madre e mio padre, dopo sette mesi.
A pensarci e ripensarci a questi mesi sono passati mi fa impressione, chissà quante cose sono cambiate fuori chi cresce,
chi si invecchia e chi no.
Alla fine mi rendo conto che i mesi li senti certamente comunque, le settimane in po’ di più ma quelli da ammazzare sono
i giorni, e a farlo sono le letture, lo scrivere contributi a compagn* per le lotte, la posta, un po’ di attività fisica
e qualche svago ammazzatempo. Voglio cercare – come ho fatto fino ad ora – di non stare con l’apprensione pre-
processulae in attesa della lotteria del tribunale sugli anni-mesi-giorni, non è da me e non voglio starre nel ruolo
della vittima sacrificale. Vi saluto ora e vi ringrazio sempre per tutto. Perciò sempre a testa alta, per l’anarchia.
Liber* tutt* da ogni gabbia, Gianluca.

“zoo per umani, S. Michele” 4° maggio 2014
Gianluca Iacovacci, via Casale S. Michele, 50 - 15122 Alessandria


lettera dal carcere di Ferrara
Spendo solo poche parole a sostegno della scelta di non presenziare all’udienza del 26 maggio, ed eventualmente alle
prossime, essendo stata disposta la videoconferenza.
L’applicazione di tale dispositivo rientra, per ora, nell’infame logica della differenziazione dei circuiti detentivi,
dove l’individuo recluso e imputato viene demonizzato e disumanizzato data la notevole “pericolosità sociale”.
Sperimentato nel 41 bis vuole ora estendersi ai prigionieri classificati A.S. e in ogni processo dove la solidarietà e
conflittualità sono o potrebbero essere caratterizzanti e quindi elementi di disturbo e opposizione per chi, applicando
codici in vestaglia e bavaglino, svolge il proprio lavoro, decidendo sulla libertà fisica altrui. Non possedendo
peraltro alcuna virtù, ma avendone facoltà. Dato il diritto. Data la legge.
La videoconferenza pone limiti ben precisi a discapito di chi è sotto processo, favorendo da ogni punto di vista
accusatori e giudicanti. Ragionando poi ad ampio raggio, le limitazioni potrebbero non riguardare solo l’ambito
processuale…
Considerate le magnifiche sorti del progresso, tale strumento di contenzione, anche per ragioni economiche, vorrà un
domani estendersi ulteriormente e dilagare in molti se non in tutti i processi. Non ci vuole poi molto ad allestire
stanzette con schermi, microfoni e telefoni. Lor signori sempre troveranno una “valida” motivazione per giustificarne
l’impiego. Come ovvio che sia, la non neutralità dell’avanzata tecnologica si mostra in ogni ambito e sempre rivela
l’essere asservita al Potere.
La virtualizzazione di un processo, per quanto significativa, è in fondo poca cosa comparata alle nefandezze
dell’autorità (in questo caso giudiziaria) ma è comunque indicativa in relazione a quella che è la virtualizzazione
della vita, volta a controllare e annichilire, dove vengono meno emozioni, espressività e sensorialità… dove viene meno
la bellezza stessa della vita e la libertà di viverla realmente.
Mi risparmierò quindi di sentirmi uno scemo, ritrovandomi seduto davanti a uno schermo per assistere inerme al teatrino
che vedrà come coprotagonisti assenti me e mio fratello Gianluca.
Sarà quindi un giorno di galera come un altro, dove la rabbia è una costante, ma si cerca, per quanto possibile,
stabilità e un po’ di serenità. Non nascondo la tristezza di non potere rivedere e magari riuscire ad abbracciare le
persone a cui tengo e sentire il calore di compagnx solidali. Solo nella lotta la liberazione! Solo nell’anarchia la
libertà!
Adriano

Ferrara, 17 maggio 2014
Adriano Antonacci, CC di Ferrara, Via Arginone 327 - 44122 Ferrara

***
solidarieTà a Gianluca e adriano
Le vite di chi lotta, nella molteplicità dei percorsi di liberazione da ogni forma di dominio e sfruttamento, spesse
volte tendono ad incontrarsi tra loro.
Accade nelle strade di una città, nei sentieri di una montagna, in ogni spazio che viene autogestito, in ogni luogo dove
"quella spinta" porta ad esserci.
Accade anche, purtroppo, all'interno di un carcere o nelle aule di un tribunale.
Il 26 Maggio, presso la Corte d'Assise di Roma, si svolgerà la prima udienza del processo che riguarda Gianluca ed
Adriano, anarchici dei Castelli Romani, prigionieri dal passato 19 Settembre: su di loro c'è l'accusa di associazione
con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, oltre quelle di incendio, furto aggravato in
concorso, deturpamento ed imbrattamento di cose altrui.
Il processo che riguarda Gianluca ed Adriano segue soltanto di pochi giorni quello che vede coinvolti Mattia, Claudio,
Chiara e Niccolò, prigionieri NO TAV: in entrambi i casi il capo di imputazione più "pesante" parla di terrorismo.
Gianluca, Mattia e Niccolò sono stati tutti detenuti nel carcere di Alessandria.
Adriano e Claudio in quello di Ferrara.
Come nel caso di Chiara, trasferita a Roma, sono stati tutti segregati in quelle sezioni speciali riservate a uomini e
donne la cui prima colpa loro imputata è il pensiero di cui sono portatori.
Tanto nei momenti di lotta, di iniziativa e di socialità, quanto in quelli più duri come quando si è prigionieri e
prigioniere, l'incontrarsi e l'avere a fianco dei compagni e delle compagne ci fa sentire "dalla stessa parte", non fa
sentire soli.
La solidarietà è un'arma forgiata sulla compartecipazione, sia ideale, che pratica: nei momenti più difficili si fa
sentire ancora più forte. In Val di Susa come ovunque, in ogni caso, terrorista è chi devasta e saccheggia. Terrorista è
lo Stato.
Per Gianluca ed Adriano, in occasione dell'udienza del 26 Maggio, il Pm si è assunto la responsabilità di disporre che
il processo si svolga in videoconferenza, come già successo per Claudio nell'udienza dell'1 Aprile. Il fatto che si
cominci ad applicare una misura di questo tipo segna una passaggio netto nei modi con cui gli inquirenti vogliono
affrontare processi in cui sono coinvolti i compagni e le compagne.
Alla base di questa tendenza, c'è chiara l'intenzione di rendere impossibile l'incontro tra solidali: si vuole isolare
ancora di più i prigionieri, per farli sentire soli, innanzitutto su un piano emotivo.
I sabotaggi imputati a Gianluca ed Adriano, conditi dall'accusa di associazione finalizzata al terrorismo, sono stati
rivolti ad obiettivi diversi tra loro: le tredici azioni realizzate nei confronti di alcune banche, di una pellicceria,
di sedi distaccate di Eni ed Enel e della discarica di Roncigliano esprimono l'idea che la supremazia del potere su ogni
forma di vita estende i suoi tentacoli su una molteplicità di aspetti del quotidiano, che, seppur variegati, sono tutti
collegati tra loro.
Non si può rimanere indifferenti a nulla.
In solidarietà con Gianluca ed Adriano, compartecipi dei gesti che mettono in discussione ogni forma di sfruttamento ed
oppressione sulla vita e sulla terra, per rompere l'isolamento che si vorrebbero imporre attraverso gli strumenti
giudiziari: Lunedì 26 Maggio, dalle ore 10, Presidio presso la Corte d'Assise di Roma a piazzale Clodio.

Compagni e compagne solidali con Gianluca ed Adriano
22 maggio 2014, da informa-azione.info

Lunedì 26 maggio 2014 al palazzo di giustizia di Roma è iniziato il processo in videoconferenza a Adriano e Gianluca.
Davanti all’aula dove ha inizio il processo ci incontriamo in una trentina e più di solidali: si vuole contestare-
contrastare la supremazia assoluta che lo stato cerca di imporre attraverso il processo in videoconferenza.
Questo processo inoltre si svolge nella forma “rito abbreviato”, si tiene, fra l’altro, a porte chiuse; insomma a noi è
vietato l’ingresso. Naturalmente i due compagni non sono presenti, li hanno lasciati nei rispettivi carceri (Ferrara e
Alessandria) dove, da una cella attrezzata, se vogliono, possono seguire il processo. Come sappiamo tuttavia entrambi
hanno rifiutato di presenziare. L’udienza dura proprio qualche minuto dato che, questa la versione raccolta dalla voce
degli avvocati, nei giorni precedenti un compagno ha nominato un nuovo avvocato, che ha chiesto e ottenuto i termini a
difesa per riuscire a studiare gli atti processuali. Così il processo è stato aggiornato a venerdì 4 luglio 2014.


La prigione degli sguardi: Note sul processo in videoconferenza
Dal carcere di Alessandria
La catena dei forzati e lo sguardo pubblico
Fino al 1836 in Francia sopravviveva la tradizione di far marciare in catene i condannati alla prigione. I futuri
galeotti venivano incatenati tra loro con collari di ferro e costretti a marciare sulla pubblica via trascinando i segni
della propria condanna e mostrando al popolo, che accorreva numeroso, le conseguenze pronte ad abbattersi su chi violava
la legge.
Il cammino verso la reclusione, l’ultimo viaggio prima di sparire dietro l’opacità segreta delle prigioni, avveniva
dunque sotto gli occhi di tutti, in un cerimoniale pubblico di forte impatto visivo in grado di sprigionare sentimenti
contrastanti. La partenza di queste catene umane richiamava il popolo in massa, esibiva il condannato alla folla, alle
ingiurie, agli sputi, ma anche alla commozione, alla simpatia, alla complicità; lo esponeva allo sguardo pubblico e
mostrava il suo sguardo al pubblico, in un rituale complesso il cui esito non era scontato.
“In tutte le città dove passava, la catena portava con sé la sua festa”. Non solo collari di ferro e catene, segni
obbligati della punizione, adornavano i forzati in marcia, ma anche nastri di paglia e di fiori intrecciati, stracci di
tessuti colorati, rammendati dagli stessi forzati su strambi copricapo e berretti sfoggiati per l’occasione. Un tocco
colorato e irriverente di follia gioiosa, di scherno arlecchino e cenciaiolo, poteva trasformare questa marcia lugubre
in una “fiera ambulante del crimine”, una sorta di tribù nomade e galeotta che irrideva i ferri a cui era stata ridotta,
malediceva i giudici e ne ingiuriava i tormenti.
E poi quei canti, i canti dei forzati. Canti di marcia intonati collettivamente che tanto impressionavano la plebe e
presto diventavano celebri passando di bocca in bocca. Canti che spesso “eccitavano più la fierezza di fronte al
castigo” di quanto “non lamentassero il rimorso di fronte al crimine commesso”.
Tutto questo concorreva a incrinare un cerimoniale di giustizia inscenato dal potere come rituale della colpa e del
pentimento, lo rendeva socialmente pericoloso perché capace di rovesciare i segni del potere, di mutarne l’ordine del
discorso, di soverchiarne il codice morale.
Così scrive la «Gazette des tribunaux» il 19 luglio 1836: “non fa parte del nostro costume il condurre così degli
uomini; bisogna evitare di dare, nelle città che il convoglio attraversa, uno spettacolo così orrendo, che d’altronde
non è di alcun insegnamento per le popolazioni”. Di lì a poco il trasporto dei condannati verso le prigioni non sarebbe
più avvenuto attraverso riti pubblici. Una mutazione tecnica interverrà a ripulire le pubbliche vie di un tale
contraddittorio spettacolo: la vettura cellulare.

La vettura cellulare e lo sguardo panoptico
Michel Foucault, attento studioso della nascita della prigione e dei suoi dispositivi accessori, scrive che
“l’imprigionare, che assicura la privazione, ha sempre comportato un progetto tecnico” e che “la sostituzione nel 1837
della catena dei forzati con la vettura cellulare” è “sintomo e riassunto” di una mutazione tecnica, di un “passaggio da
un’arte di punire a un’altra”.
La vettura cellulare non è da intendersi nei fatti semplicemente come un carro coperto adibito al trasporto dei
condannati che prima venivano sottoposti al castigo supplementare della ferratura pubblica; è piuttosto da considerarsi
come un’innovazione tecnica che segna un cambio di paradigma. Questa vettura era concepita come una prigione su ruote
foderata di latta.
Impenetrabile allo sguardo esterno, sfila triste per le vie senza rivelare nulla di quanto contiene. Gli sventurati che
vi montano, siano essi già condannati o in attesa di giudizio, viaggiano sempre in catene, ma ora in piccole celle
singole che impediscono non solo di guardare verso l’esterno, ma anche di incontrare lo sguardo degli altri
“passeggeri”. Un corridoio centrale permette invece alle guardie di controllare a vista tutti i trasportati attraverso
uno sportello.
Così la «Gazette des tribunaux» descrive questo meccanismo di controllo interno: “l’apertura e la direzione obliqua
degli sportelli sono combinate in modo che i guardiani tengano incessantemente gli occhi sui prigionieri, ascoltano le
minime parole, senza che quelli possano riuscire a vedersi o a sentirsi tra loro”.
Non un semplice carro coperto, dunque, ma un dispositivo tecnico elaborato con obiettivi precisi: nascondere il
condannato allo sguardo pubblico, impedire al condannato lo sguardo verso il mondo di fuori, negare lo sguardo complice
tra forzati, perfezionare lo sguardo sorvegliante. Non una semplice scatola mobile di latta, ma una “vettura panoptica”,
una prigione degli sguardi che annulla i fasti sbeffeggianti delle catene dei forzati e li rende ciechi, silenziosi,
invisibili e controllabili.
L’opacità segreta delle prigioni si estende e anticipa il suo arrivo; la sua ombra ingloba il condannato e lo sottrae
alla vista prima ancora che lui metta piede nella prigione stessa. Il pudore borghese delle riforme trasporta senza più
mostrare come castiga, senza più dare spettacolo. Niente più gioco di sguardi tra popolo e criminale, l’unico sguardo
tollerato è quello del guardiano sul penitente recluso.

La videoconferenza e lo sguardo disincarnato
Veniamo all’oggi e all’Italia. L’ultima frontiera nel campo dei “trasporti per motivi di giustizia” è il processo per
videoconferenza, dove il trasporto semplicemente non avviene, se non in forma immateriale.
L’imputato di un processo che si trovi già in carcere per precedenti condanne, o che sia sottoposto a carcerazione
preventiva, può essere processato a distanza, senza che debba abbandonare il carcere in cui è ristretto. Accompagnato in
una sala attrezzata all’interno del carcere, segue il dibattimento su un apposito schermo, sotto l’occhio vigile delle
guardie penitenziarie e quello tecnologico di una telecamera disposta a catturare la sua immagine e a ritrasmetterla
nell’aula dove si celebra il processo che lo vede imputato.
Come il passaggio dalle “catene” alla “vettura cellulare”, l’introduzione della videoconferenza segna un passaggio che
riassume in sé un cambio di paradigma. La videoconferenza è infatti un dispositivo tecnologico e come tale non è
neutrale, ma al contrario la sua mediazione comporta mutazioni profonde che affondano nella viva carne di chi ha sfidato
la legge.
Ne I miserabili, Victor Hugo descrive così il dispositivo punitivo per eccellenza, il patibolo: “il patibolo è visione.
Il patibolo non è una struttura, il congegno inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra una specie di essere
dotato di non so quale tetra iniziativa; sembra che quella struttura veda, che quella macchina oda, che quel meccanismo
comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria che la sua presenza
suscita nell’anima, il patibolo appare terribile a partecipe di ciò che fa. Il patibolo è complice del carnefice;
divora, mangia la carne, beve il sangue. Il patibolo è una specie di mostro fabbricato dal giudice e dal falegname, uno
spettro che sembra vivere una sorta di spaventevole vita fatta di tutta la morte che ha dato”.
La videoconferenza, a differenza del patibolo, non è un dispositivo che esegue una pena già comminata, tanto meno quella
di morte che non è più prevista nel codice penale, ma ancor più del patibolo, articolata com’è di microfoni e
telecamere, è una “struttura” che “vede”, una “macchina” che “ode”. Certo, non “mangia” la “carne”, ma a suo modo
“disincarna” l’imputato, smaterializza il suo corpo, lo riduce a un insieme di bit producendo un impatto visivo e di
senso all’interno di un processo che non è da sottovalutare: per suo tramite la presenza dell’imputato, ancorché
lontana, diviene spettrale, il suo corpo viene trattato come una interferenza video cui la parola può essere concessa o
sottratta con semplice “clic”. Trionfo del pudore riformatore che già ripulì le strade dalle catene umane dei forzati e
che ora, attraverso le nuove tecnologie, “libera” le aule di giustizia da quella presenza incomoda e stridente perché vi
appaia indisturbata l’astrazione del diritto. Negato è anche l’abbraccio tra coimputati che neppure in quella
circostanza possono rivedersi. Nessuno scambio affettivo neppure con il pubblico, che neanche appare sullo schermo.
Nessuno sguardo complice, nessun saluto ai propri familiari e amici. Una volta entrati in carcere, seppure in via
preventiva, non se ne esce più, neppure per il processo. Intombati, cementati. La giuria stessa è portata a considerarti
così pericoloso da non poter essere tradotto al suo cospetto. In qualche modo la tua colpevolezza è già implicitamente
designata nei modi di quella tua “presenza”.
In tutto questo, l’imputato ridotto a spettatore passivo. Osserva il suo processo su uno schermo come fosse una puntata
di “Forum” o di “Quarto grado”. Unico suo diritto, come da tradizione televisiva, telefonare al suo avvocato durante
l’udienza. Eppure è della sua vita che si sta parlando. Suo il corpo eventualmente destinato alla reclusione. Sua la
vista amputata dell’orizzonte. Suo il tatto privato della stretta dei suoi cari. Suo l’olfatto orfano della primavera.
Suo, infine, lo sguardo, abbattuto o fiero, che affronta il “castigo”, preventivo o definitivo, giorno dopo giorno. La
videoconferenza è l’alleata tecnologica che perfeziona la prigione degli sguardi. Codarda, moltiplica gli occhi che
scrutano chi ha offeso il confine della legge, ma non trova più il coraggio di guardarlo dritto negli occhi. Metafora
cibernetica di una giustizia bendata che si dota di protesi oculari meccaniche, ma rimane sempre cieca.

Conclusioni decantanti
Introdotta in Italia per i detenuti sottoposti a regime di 41bis, la videoconferenza applicata ai processi sta ora
rapidamente prendendo piede per tutti i detenuti meritevoli, dal punto di vista della giustizia, di un “occhio” di
riguardo. È il caso di Maurizio Alfieri, rapinatore riottoso non incline alla domesticazione carceraria; è il caso di
Gianluca e Adriano, anarchici accusati di diverse azioni dirette contro l’Eni, magnati dei rifiuti e altri consorzi
veleniferi; potrebbe essere, quantomeno già lo è nella volontà della procura di Torino, il caso di Claudio, Chiara,
Niccolò e dello scrivente, accusati di un atto di sabotaggio contro il cantiere dell’Alta velocità di Chiomonte. Una
deroga speciale al “diritto di difesa”, che prevede la presenza fisica dell’imputato accanto al difensore durante il
processo, giustificata con il solito pretesto della “sicurezza” e dell’“ordine pubblico”. Una novità pericolosa, quella
della videoconferenza destinata ad attecchire e a estendersi rapidamente se non subitamente estirpata, dacché, si sa, è
l’eccezione di oggi a forgiare la norma di domani. Il paradigma che sottende a questa nuova “mutazione tecnica” è
complesso, ed è difficile qui e ora computarne e sviscerarne tutte le declinazioni. Sicuramente il tipo di dibattimento
processuale che va delineandosi vede una progressiva scomparsa dell’imputato, un crescente condizionamento a priori
della giuria e lo strapotere inquisitorio dei pubblici ministeri. Quella che ho cercato di fare qui è di evidenziare
alcune ricadute di questa mutazione tecnica concentrandomi sulla questione dello “sguardo”, cioè sullo scambio visivo
tra occhio galeotto, occhio giudicante e occhio pubblico. Molte altre considerazioni altrettanto e anche più pregnanti
potrebbero essere fatte. Ad esempio su come la videoconferenza impedisca al difensore di confrontarsi con il proprio
assistito durante l’udienza; o ancora come nella spettacolarizzazione dei processi gli effetti speciali e le illusioni
ottiche siano spesso più determinanti dei fatti concreti di cui si discute. Ma la mia fede nel diritto è talmente scarsa
che non sto a entrare nel merito di certi particolari. Preferisco concludere queste note approssimative attorno al
processo in videoconferenza citando alcune vecchie canzoni galeotte, di quelle cantate nelle strade dalle catene dei
forzati. Parole schiette che da sole dicono quasi tutto.
“Avidi di infelicità, i vostri sguardi cercano di incontrare tra noi una razza infame che piange e si umilia. Ma i
nostri sguardi sono fieri.” “Addio, perché noi sfidiamo e i vostri ferri e le vostre leggi”.

dalla sezione di Alta Sorveglianza del carcere di Alessandria, fine aprile 2014
Mattia Zanotti, via Casale S. Michele, 50 - 15122 Alessandria


lettera dal carcere di Winterthur (Svizzera)
La solidarietà è la nostra arma! Se ti condannano per quel che sei, allora, dopo il tempo passato in galera, sai ancora
molto meglio, più intensamente, perché e contro che cosa lotti, e con ciò, chi sei.
La liberazione anticipata, ormai è prevista per il 21/4/’14, con condizionale di un anno. Rinunciano a ogni condizione,
dato che in ogni caso “non sarebbe controllabile, se fosse occultato dell’esplosivo”. Sembra che nulla è cambiato
rispetto alla prognosi legale negativa, ed anche il permesso straordinario pasquale non è previsto, vista l’imminenza
della liberazione. Qui, in esecuzione pena rimaniamo un detenuto sans papier e senza fissa dimora.
La grande e persistente solidarietà durante questa detenzione ha reso effettivamente possibile di passare al
contrattacco: di essere presente all’esterno, per quanto possibile, con degli interventi orali ed altri contributi, fare
degli scioperi della fame e del lavoro e costruire/sviluppare una ricca comunicazione internazionale con i/le più
svariat* prigionier* politici e compas solidali e strutture.
Dal primo giorno fino ad oggi, non è stata l’intimidazione, bensì una presenza forte, ribelle, cara e solidale, a far
parte di questo periodo.
Passeggiate/presidi davanti alle galere, con o senza concerti, come anche la grande mole di corrispondenza
internazionale e nazionale… tutto questo ha creato un contesto forte, ribelle, intimo e solidale.
A tutt* voi che avete partecipato a questo ‘passare al contrattacco’, la mia più sentita gratitudine – ci rivediamo, al
più tardi ilo 1° Maggio.
Passare al contrattacco – processare il capitalismo – fare della solidarietà un’arma.

Carcere di Winterthur, 7 aprile 2014
Andi Stauffacher (La compagna non si trova più in carcere)


nuovo trasferimento per marco camenisch
Marco Camenisch nei giorni scorsi (dal 15 al 20 maggio) è stato portato in isolamento punitivo nella cella bunker del
carcere di Lenzburg (Svizzera) dopo che ha rifiutato l’ennesimo test delle urine, l’ennesima provocazione.
Fra il 22 e il 23 maggio è stato inoltre trasferito in un nuovo carcere nel Canton Zugo. Ancora non è chiaro se questo
trasferimento sia una ritorsione contro il rifiuto di Marco dell’ennesimo test delle urine o se fosse già nei piani
dell’Amt fur Justizvollzug (Ufficio Esecuzione Pene e Misure) di Zurigo.
Il fine pena di Marco è previsto per l’8.5.2018. La liberazione anticipata continua ad essergli rifiutata usando come
motivi una sua “violenza cronica” associata ad una visione delinquenziale che avrebbe del mondo.

Per scrivere a Marco:
Marco Camenisch, Strafanstalt Bostadel - Postfach 38, CH-6313 Menzingen, Schweiz


Lettere dal carcere Pagliarelli (Palermo) e da Caltanissetta
In adesione alla seconda mobilitazione indetta dal “coordinamento dei detenuti” ho iniziato lo sciopero della fame (e
ancora prima quello del carrello) dal giorno 13/4 e lo terminerò il giorno 28/4.
Abbiamo così tenacemente avuto la volontà, sia dentro che fuori, di continuare il percorso di lotta iniziato a settembre
(che a sua volta vide i primordi mesi prima) con l'intento di estenderla il più possibile e dotarla di efficacia per
riuscire a strappare al potere l'ottenimento di tutte le nostre rivendicazioni (anche se fosse solo una, sarebbe già una
conquista che ci permetterebbe di avanzare con più risolutezza).
I politici-fantocci cercheranno di screditare i nostri propositi infilandoci qualche provvedimento di ulteriore
differenziazione che gli permetterebbe anche di non pagare tutte quelle richieste di risarcimento che i detenuti di
tutta Italia stanno portando a compimento per “trattamenti inumani e degradanti”.
E la morte di ogni detenuto ammazzato dallo Stato torturatore nelle patrie galere? Se dovesse accadere, a questo punto
(ma in ogni caso!) sarebbe importante se la mobilitazione si spingesse al di là delle quindici giornate di lotta
proposte, per creare le condizioni d'intervenire nel tempo e nello spazio in ogni luogo e in ogni carcere, non cedendo
ai compromessi imposti dal sistema e cercando di affondare il coltello nelle viscere del problema! Anche qui al
Pagliarelli dal giorno 4/4 sono iniziati degli scioperi (vitto, spesa) in riferimento all' indulto/amnistia come
strumento differenziante, proprio quello che noi vorremo escludere con la nostra lotta, affermandola generalizzata! La
difficoltà di comunicare da entrambi i lati del muro è sempre forte, e se solo tutti quanti insieme decidessimo
d'impegnarci a tempo pieno, riusciremo a superare anche quest'ostacolo che si sta prendendo parecchie forze. Da parte
mia, anche dal regime di 14bis, darò sempre il mio contributo alla mobilitazione. Saluto tutt# quell# che stanno
lottando con immensa gioia e forza e tutte le azioni che seguiranno (e quelle avvenute). Forza e buona lotta.

18 aprile, dal carcere Pagliarelli, sezione d' isolamento AS in 14bis
Davide Delogu, via Bachelet 32 - 90129 Palermo

***
Sono tre mesi che non ricevo l'opuscolo di Olga e di conseguenza mi mancano gli aggiornamenti, soprattutto inerenti alla
mobilitazione dei detenuti del mese di aprile.
Nel mese di febbraio, lo psichiatra fece una relazione durante il mio sciopero della fame (in relazione al prolungamento
del 14 bis) io rifiutai il colloquio con lui, però ha voluto ugualmente avvicinarsi nella cella liscia in cui stavo
(modalità che non poteva fare) cosa che ha ufficializzato il colloquio in quei secondi di scontro! Una delle tante
“scorrettezze” di questo infame apparato torturocentrico.
Quando mi tolsero il 14 bis mi trovavo ancora al Pagliarelli di Palermo, ciò che cambiò fu nell'avermi munito di
televisore, ma percepisco la sua funzione in maniera insopportabile e stressante, l'avermi aperto il blindo della cella
(finalmente passa un po' d'aria) e consegnato il fornellino, però mi fu mantenuta la censura sulla posta.
Inoltre la direzione per ben due volte chiese il mio trasferimento, ma non furono accolte dal dap positivamente, nel
frattempo anch'io chiesi il trasferimento, ma in Sardegna per motivi familiari, invece mi sono ritrovato a Caltanissetta
nel cuore della Sicilia e lontano dai miei affetti. Davide.

maggio 2014
***
Salute a tutte/i! Come ci ha dimostrato Valentin, la spinta di combattere la si può determinare solo combattendo!
Valentin, l’ergastolano albanese che si trovava nella stessa sezione d’isolamento AS dove stavo io (Pagliarelli) è
riuscito a evadere durante l’ora d’aria, dopo aver individuato il punto debole del sistema di controllo su cui agire.
(L’assenza della sentinella sul muro di cinta! Questo è stato dovuto dal fatto che l’autorità carceraria si sentiva
troppo sicura dall’impossibilità di scavalcare quel muro di cinta senza essere visti. Perchè di fronte è collocata la
caserma delle guardie e anche l’aula bunker, impegnata in questo periodo nel processo/farsa “trattativa stato-mafia”).
Succesivamente aver fatto sei mesi di 14bis per l’evasione dal carcere di Parma (dove era reduce da un altro 14bis di
nove mesi!) Valentin aveva iniziato a fare l’isolamento diurno. In quel bel giorno di sole, nell’ora pomeridiana dalle
13.00 alle 14.00, siamo stati in due a scendere all’aria, io e Valentin (chiaramente in passaggi/loculi separati e
distanti) dopo la scoperte della sua meravigliosa autoliberazione (scavalcando l’alto muro dei passeggi, il muro di
cinta e le successive alte ringhiere con l’aiuto di una corda e alla luce del sole!) è iniziato il putiferio per avviare
l’inutile ricerca.
Non è una novità che i carcerieri se la presero con noi detenuti che ci troviamo in sezione (eravamo in quattro),
blindi chiusi, sospensione dell’ora d’aria, perquisizioni alla ricerca di lenzuola “mancanti” che avrebbe utilizzato
Valentin per la sua fuga (cosa per altro impossibile, dato che siamo isolati tra noi e super controllati!) un clima teso
e avvelenato, scaricando su di noi le loro miserie e i loro metodi con la solita procedura dei continui sopralluoghi di
magistrati, scientifica, loschi figuri e autorità di ogni tipo...
Dopo due giorni vengo trasferito in questo lager punitivo risalente al periodo borbonico. Nel frattempo avevo terminato
i nove mesi di 14bis, già dal 2 maggio. “L’accoglienza” non ha lasciato alcun dubbio. Mi hanno tolto le lenzuola di
ricambio e consegnato lo “stretto necessario” di vestiario. Sono stato collocato sempre in isolamento in una sezione AS3
(mi mancava “visitare” l’ AS3 ora ho completato il girone!)
Hanno sbarrato un piccolo spazio vuoto che si trovava tra il muro e la rete arrugginita che sovrasta il passeggio in cui
trascorro solo, le mie due ore d’aria. Perquisizioni quotidiane, battiture più volte al giorno e metal detector quattro
volte al di’ (questo lo fanno con tutti credo). Mi considerano come se volessi spiccare il volo da un momento all’altro!
I commenti di alcune guardie facevano riferimento all’evasione di Valentin. Normale amministrazione dunque! Non è un
caso che quando stavo al Pagliarelli avevano preso le misure per verificare la distanza tra il passeggio dove stavo io,
e quello dove stava lui. Che si facciano tutte le seghe repressive che vogliono, per me non fa alcuna differenza! Questa
continuità vendicativa sta invece a dimostrare la loro vulnerabilità e paura nei confronti di chi ha la determinazione
di scaldarsi attorno al fuoco dei non sottomessi. L’autorità di questo carcere mi fa sapere a “voce”, che hanno una
disposizione interna che impone nei miei confronti la “massima sicurezza” e che non sono tenuti a comunicarmelo
ufficialmente. Non parlano più di situazione provvisoria col mio successivo ritorno ai circuiti di “media sicurezza”.
Dopo una settimana mi hanno notificato, per il momento, l’applicazione di un provvedimento disciplinare con dieci giorni
d’isolamento, preso due giorni prima di aver terminato il 14bis perchè mi sono rifiutato di fare colloquio con la
psicologa, nonostante fosse un mio “diritto” rifiutare! Quindi con le ulteriori restrizioni del caso. Certo è che
continuando in questo modo, la voglia di evadere ti viene veramente, è un’istigazione alla rivolta e all’evasione,
semmai ce ne fosse bisogno! Con gioia e rabbia indomita vi abbraccio tutti/e!

Caltanisssetta, 23 maggio 2014
Davide Delogu, via Messina 94 - 93100 Caltanissetta


carcere “le vallette”: storia di un violento trasferimento
Ultimamente il racconto del trasferimento violento di una ragazza ha oltrepassato le mura del carcere di Torino. Pezzo
dopo pezzo, voce dopo lettera si è riusciti a ricomporre la storia di M.
Dal 7 Aprile nel blocco femminile, ai Nuovi Giunti e in tutte le altre sezioni a pranzo e a cena si fa battitura. Le
donne delle sezioni, dove stanno sperimentando le celle aperte durante il giorno, spaventate da un possibile ricatto
cercano di “tutelarsi” comunicando gli orari delle battiture alla direzione del carcere tramite una domandina. Si
frenano i pettegolezzi in corridoio, tutte insieme giorno dopo giorno fanno risuonare le sbarre e le ante degli
armadietti.
Le guardie rispondono esercitando il potere delle chiavi, ritardano l’apertura delle celle per recarsi in doccia,
arrivano a non aprire e a non permettere la tanto sospirata ora d’aria.
Il 17 Aprile le detenute smettono di battere minacciate di rapporti disciplinari.
M. non ci sta, si incazza contro tutte, guardie e compagne detenute.
Il giorno successivo la squadretta (gruppo di guardie adibito al pestaggio punitivo) fa irruzione nella cella di M. per
spostarla in un’altra isolata, in mezzo alla sezione delle “incolumi”. M. in una lettera scrive: «prima hanno chiuso
tutti i blindi della sezione, poi sono entrati. Non riuscivano a tirarmi fuori per quanto ho fatto resistenza. Quando le
botte si sono fatte più forti ho lasciato che venissi trasportata in mezzo al corridoio in modo che tutte le detenute
potessero vedere oltre che sentire i colpi inflitti, le ragazze urlavano e facevano trambusto vedendo che non riuscivano
a trasportarmi fin dove volevano. Così han fatto aprire una altra cella vuota nelle vicinanze per buttarmici dentro con
un altro aggiungersi di guardie.»
Ancora un lungo tira e molla si sussegue nella nuova cella, finché M. vince. La fanno tornare dove stava prima. Passa
un’ora e M. viene chiamata all’ufficio matricola. Appena mette piede dentro la stanza la ammanettano e le viene
comunicato il trasferimento imminente.
Ritorna così dal carcere dove è arrivata quasi un anno fa, da Vercelli, tra risaie e zanzare. In una cella d’isolamento.
Il 22 viene trasportata d’urgenza in ospedale, un’ecografia rivela un’ernia epigastrica aggravata dalle botte ricevute.
Sotto i ferri chirurgici si scopre anche una lacerazione del muscolo addominale, l’operazione che doveva durare mezz’ora
diventa una faccenda di due ore.
«Beh, dicevano che dalle Vallette non sballavano nessuno, io non so se c’è l’ho messa tutta per far si che mi facessero
sto regalo.»
Che non trasferiscano nessuno dal carcere di Torino non è così sicuro; numerose sono state le voci che si sono levate e
sono state rese fievoli allontanandole.
Chi ha denunciato una morte causata da una somministrazione erronea di terapia, chi si è intestardito nel volersi
organizzare con gli altri prigionieri e cambiare qualcosa è stato caricato su una camionetta e trasferito in un altro
penitenziario.
M. ci fa sapere che sta bene, il suo morale è alto. Non sempre le botte riescono a scoraggiare gli animi.
14 Maggio 2014, da autistici.org/macerie


A due anni dal mio arresto
Riflessioni sul 12 aprile e una proposta agli imputati del processo per i fatti del 15 ottobre 2011.
Compagne/i, la ricorrenza dei miei due anni di detenzione agli arresti domiciliari per i fatti del 15 ottobre coincide
con la violenta repressione avvenuta nei giorni scorsi, durante la manifestazione del 12 aprile e poi con lo sgombero di
200 famiglie avvenuto a Roma nel quartiere Montagnola: la mia solidarietà e complicità con Ugo, Simon, Matteo e Lorenzo
agli arresti per i fatti del 12 aprile.
La repressione di quest’ultima settimana avviene mentre la classe dominante prova a darsi nuovo lustro con il governo
Renzi-Berlusconi e si acuisce lo scontro tra i fautori del partito americano (di cui Renzi e Berlusconi sono fieri
esponenti) e il partito dell’UE ma nulla cambia per le masse popolari. Prosegue l’eliminazione sistematica delle
conquiste così come prosegue la repressione: gli abusi di polizia a cui abbiamo assistito in questi giorni esplicitano
una volta di più che il nemico non è disposto ad accogliere richieste e rivendicazioni e che è responsabilità di tutti
noi non cadere nell’errore di intavolare trattative con quelle istituzioni che ci affamano ogni giorno. Il post-12
aprile ha innescato un dibattito sul bilancio di questa giornata di lotta: leggo le posizioni dei fautori delle
rivendicazioni al governo Renzi e leggo le posizioni di altri che criticando i primi sostengono la via della
rivendicazione all’UE.
Questo dibattito è sano: l’apatia e la scarsità di dibattito all’interno del movimento è quanto di più negativo pertanto
che il dibattito prosegua e si sviluppi. Esso è un segnale positivo così come lo è l’immediata solidarietà per i
compagni arrestati e fermati. Però giungiamo a prendere atto che non è cambiando il referente delle nostre
rivendicazioni che registreremo l’ulteriore sviluppo delle mobilitazioni nel nostro paese. Superiamo la concezione
infantile dei nostri compiti che ci confina al ruolo di ribelli da strada o elemosinatori di trattative e referendum.
Passiamo dalla protesta alla lotta per il potere! A questa condizione potranno ulteriormente svilupparsi le
organizzazioni operaie e popolari scese in strada dall’ottobre 2013. Iniziamo a volare alto: che si estenda il crescente
movimento di lotta per la casa, che si prenda l’iniziativa e si elevi l’organizzazione della classe operaia dai call-
center alle fabbriche, che si lavori verso la prospettiva di far ingoiare al nemico il nostro governo del paese e non ci
si limiti alle petizioni, alle rivendicazioni, alla trattative!
La crescente repressione in corso nel paese ci sarà d’aiuto nel comprendere la situazione e i nostri compiti. Che serva
allo scopo anche la battaglia in corso contro il processo per i fatti del 15 ottobre. Approfitto di questa lettera per
esprimere considerazioni funzionali ad un bilancio e ad un rilancio dell’azione degli imputati e della generosa rete
solidale radunatasi da due anni a questa parte.
A due anni di distanza nonostante l’impegno che molti hanno messo per creare una rete solidale per sostenere noi
imputati, abbiamo raccolto veramente poco. L’errore che continuiamo a fare è quello di non riuscire a coordinare ed
organizzare una lotta concreta ed efficace che consenta di contrastare l’avanzata degli apparati repressivi. Subire
l’accanimento politico e giudiziario rimanendo fermi alle solite strategie di lotta e di solidarietà impone un
cambiamento che porti più concretezza e unità tra le organizzazioni operaie e popolari. Si può e si deve migliorare la
concezione della lotta che stiamo portando avanti per non continuare a subire violente repressioni e per non ripetere
gli errori del passato. Lancio questo appello affinché si possa costruire una rete solidale concreta per non far cadere
nel dimenticatoio processi e processati, e fare un passo in avanti nella concezione che ci guida sul terreno della
resistenza, lotta e solidarietà alla repressione.
Il processo per i fatti del 15 ottobre sta lentamente cadendo nel dimenticatoio, ci troviamo a ripetere cosi l’errore
già commesso nel processo per i fatti di Genova 2001. Questo processo (quello del 15 Ottobre), così come quello per i
fatti di Genova 2001 è un vero e proprio atto intimidatorio. Con esso la classe dominante lancia un chiaro monito a
tutti quelli che oggigiorno non ci stanno ad abbassare la testa e lottano per la costruzione di un mondo migliore: si
accaniscono con noi imputati per i fatti del 15 Ottobre a suon di reati assurdi (tipo “devastazione e saccheggio”) e
pene esemplari, per intimorire quanti da un capo all’altro del paese animano le lotte e i movimenti contro l’attacco ai
diritti e per costruire l’alternativa ai governi dei poteri forti. E’ principalmente per tale motivo che dobbiamo
sviluppare un fronte ampio di lotta e solidarietà con tutti gli inquisiti per i fatti del 15 Ottobre con l’obiettivo di
mettere i bastoni tra le ruote alle Autorità e rispedire al mittente questo attacco repressivo.
Come ribadito nelle giornate del 14 e 15 Marzo a Roma, nelle aule di Tribunale così come nelle piazze, bisogna passare
dalla difesa all’attacco, prendere noi il pallino del gioco in mano, passare da accusati ad accusatori e portare “sul
banco degli imputati” quelle stesse autorità che vorrebbero condannare lo sviluppo della lotta di classe nel nostro
paese. Finora la solidarietà verso gli imputati nel processo 15 ottobre non è mancata e ha avuto modo di esprimersi in
maniera generosa in diverse occasioni ma dobbiamo riconoscere che nel complesso non siamo riusciti a contrapporre alle
arringhe di Minisci&co la nostra difesa politica collettiva, che difendesse la nostra identità di perseguitati politici
e che al contempo utilizzasse il processo in un’ottica di attacco e di rottura.
Di certo non è mai troppo tardi per cominciare soprattutto per gli imputati di questo processo (che sfornerà nuove
condanne se non saremo in grado di mettere i bastoni tra le ruote e inceppare i meccanismi della repressione).
E’ proprio per fare ciò, che oggi sento il dovere di lanciare un appello affinché da subito, partendo da quelli che sono
gli imputati più sensibili, si costruisca un “Coordinamento imputate/i 15 ottobre”. Questa proposta è per consentire a
tutti noi imputati di essere uniti e parte attiva nell’organizzare la difesa legale, per rafforzare un nodo fondamentale
della rete di solidarietà finora sviluppatasi (che ha avuto il suo punto più debole proprio nell’assenza di
coordinamento tra gli imputati), per iniziare a praticare a partire da noi imputati la battaglia contro la persecuzione
politica al livello che oggi occorre ovvero passare da accusati ad accusatori. E’ necessario fare un’assemblea e
discutere di questo progetto e la volontà di portarlo avanti per dare una svolta concreta a questo processo e alla
solidarietà che ne è cresciuta attorno.
A quanti concordano con questa proposta chiedo di attivarsi facendola circolare e arrivare anzitutto presso gli altri
imputati di questo processo. Il primo passo è informare tutti gli imputati dei vari processi del 15 ottobre svolti
finora e chiedere l’adesione a tale progetto affinché partecipino attivamente al processo e allo sviluppo della rete
solidale. Gli imputati firmatari dovranno essere i primi ad impegnarsi e sostenere la crescita del coordinamento, così
come i movimenti aderenti, soprattutto quelli non colpiti da arresti che hanno modo di muoversi e partecipare a
manifestazioni ed assemblee, questi sono anche la voce di noi agli arresti. Impariamo dagli imputati ai processi contro
il movimento NO TAV, disimpariamo da cattivi consiglieri che ci raccomandano di star buoni e tutto si risolverà!
Rompere il silenzio sul 15 ottobre è dar voce a chi sta pagando per aver difeso i diritti di tutti, è mobilitarsi
concretamente, è intraprendere una nuova strada. Organizzare una mobilitazione su scala nazionale indetta dal
coordinamento dovrà essere il passo successivo per richiamare in tutte le città eventi per sostenere le spese legali ed
assemblee pubbliche che mettano al centro la solidarietà incondizionata a chi oggi è colpito dalla repressione.
Per rafforzare ancora di più la mobilitazione e per fare della lotta, della resistenza e della solidarietà alla
repressione un terreno concreto di battaglia per la costruzione di una società migliore, propongo di sviluppare campagne
in comune e in sinergia tra quelli che sono i processati per i fatti del 15 ottobre 2011 con quelli per i processi
relativi ai fatti del 14 dicembre 2010 e del 14 settembre 2011 (in avvio in queste settimane). Unire in una campagna
comune anche la mobilitazione di solidarietà per i processi relativi ai fatti del 31 ottobre e del 12 aprile.
Dalle piazze ai tribunali iniziamo a volare alto: passare dalla protesta alla lotta per il potere! La solidarietà è
un’arma: impariamo ad usarla!
Mettiamo fine alla persecuzione politica per i fatti del 15 ottobre!
Uniamo e coordiniamo le lotte contro la repressione!

Mauro Gentile, militante comunista agli arresti domiciliari
per i fatti di Roma del 15 Ottobre 2011
Aprile 2014, da osservatoriorepressione.info


dal processone contro il movimento no tav
Udienza del 28 aprile 2014, aula-bunker Carcere Le Vallette (Torino)
È continuato l’ascolto dei “testi della difesa”, in gran parte gente della valle che racconta quel che è accaduto alla
Maddalena (Chiomonte), attorno al “sito archeologico”, scelto come luogo di insediamento del cantiere per scavare un
“tunnel geognostico” …e dove insediare le truppe comandate a imporlo.
Il racconto di tutt* inizia dalla fiaccolata della sera del 26 giugno (2011), dalla notte in cui almeno 500 persone si
sono fermate a dormire nel campeggio della “Libera Repubblica della Maddalena”, perché «era nell’aria che ci sarebbe
stato il tentativo di sgombero, l’irruzione delle forze di polizia». Raccontano quel che è accaduto, in particolare, a
cominciare dall’alba del 27 giugno fino alla giornata del 3 luglio.
Il primo teste ascoltato, artigiano ora pensionato abitante a Giaveno, narra dell’arrivo dei blindati di polizia e
carabinieri, preceduti da una pinza meccanica montata su un enorme escavatore, che «ha cominciato a distruggere la
barricata Stalingrado… c’era tanta gente…», costruita ad uno degli ingressi nel campeggio della “Libera repubblica della
Maddalena”. Ricorda di qualche manifestante che con l’estintore spruzzava schiuma sulla cabina della pinza per impedire
al manovratore di adoperarla… poi racconta di un manifestante corso davanti alla pinza per fermarla: «ma è stato
allontanato brutamente». Quando l’abbattimento della barricata era quasi ultimato anche lui come tutt* ha raggiunto il
piazzale della Maddalena: lì si sentiva sicuro, c’erano avvocati, sindaci, «quel terreno lo avevamo pagato non potevano
farci nulla», invece, «sono iniziati ad arrivare gas mutageni altamente cancerogeni erroneamente chiamati lacrimogeni,
arrivavano dall’alto, dal basso, da tutte le parti, cadevano a grappolo… continuavano a sparare… anche nei boschi… ho
sentito questa puzza e hanno cominciato a bruciarmi gli occhi e la gola e ho iniziato a respirare in modo affannoso e
sono andato verso la montagna».
Un’altra teste, Tiziana di Torino, presente alla Maddalena il 27 giugno aggiunge, rispetto all’atteggiamento da tenere
nei confronti delle forze dell’ordine: «avevamo concordato di sederci per terra, ma non c’è stato il tempo, siamo stati
investiti da questi gas lacrimogeni molto tossici… non sono riuscita ad aiutare nessuno, ero traumatizzata, temevo per
la mia vita… avevo una tenda a fianco a altre, l’hanno distrutta.»
Poi è la volta di Luca, coltivatore diretto abitante a Cels, borgata vicina a Chiomonte che precisa: «si stava lì» nel
piazzale della Maddalena «con la legittimazione popolare costruita con un mese di iniziative con abitanti dei paesi
vicini… il presidio era per prevenire tante cose che oggi si stanno avverando, funzionale a creare un ostacolo popolare,
una lotta legittima di tante persone… l’intenzione, diffusa nelle assemblee preparatorie era di difendere la terra con
la resistenza pacifica e passiva, con i propri corpi in modo da essere portati via coattamente e imporre alla
controparte delle forzature, far sì che la polizia dovesse intervenire per dimostrare al mondo intero che quest’opera
era una forzatura e che si portava un carico di violenze e di soprusi…», continua raccontando dello sgombero del 27
giugno «stavamo lì per chiudere il passaggio alle forze dell’ordine… questa fase è durata qualche minuto… con
l’escavatore hanno cominciato a tirare il cancello, poi hanno iniziato a sparare i lacrimogeni ad altezza d’uomo… si
riempivano secchi, catini, bacinelle d’acqua per spegnerli… c’erano alcune barricate, altri ostacoli precedentemente
costruiti perché stavano nello scopo della giornata, quello della resistenza passiva, di rendere difficile il lavoro dei
mazzi di polizia… ma da un certo punto le forze mancavano perché era difficile respirare… ho visto arrivare la polizia
sul piazzale… ha iniziato a caricare… c’era chi vomitava, chi era stanco, c’era panico totale, una disperazione diffusa…
una nebbia di fumo tossico e pesante, persone che scappavano in varie direzioni… una ritirata molto disordinata»
È poi la volta di Emanuele. Ai racconti precedenti aggiunge che l’ingresso dei carabinieri nel piazzale, dopo
l’abbattimento delle barricate, è stato accolto, dal gruppo di manifestanti in cui si trovava, con le mani alzate, alle
quali loro, «per respingerci», hanno risposto con scudate, calci negli stinchi, manganellate «ci hanno identificati e
lasciato prendere le nostre cose… la tenda l’ho lasciata lì perché era danneggiata con escrementi ed altro… altre tende
erano state tagliate…».
Vengono successivamente ascoltate sul 27 giugno Gabriella, Annamaria, Emanuela, Elisabetta, infermiera attiva nel pronto
soccorso sul piazzale e Ilaria invece manganellata alla testa curata proprio lì; Katia colpita da un lacrimogeno sui
piedi, investita dal fumo, caduta a terra, soccorsa, scappata nei boschi con altr* manifestanti, inseguita dai
lacrimogeni…

Udienza del 6 maggio 2014, aula-bunker Carcere Le Vallette (Torino)
Anche in questa udienza filano i No Tav che hanno deciso di testimoniare sui fatti del 27 giugno. Anche in questa
occasione il contro interrogatorio predisposto dai Pm è volto alla ricerca dell'autoaccusa dei testimoni,
all'intimidazione..
Udienza del 13 maggio 2014, aula-bunker Carcere Le Vallette (Torino)
Continua l’ascolto dei testi della difesa, persone della Valle e non, persone in gran parte da sempre No Tav; persone
che hanno vissuto il 27 giugno, l’esperienza della “Libera Repubblica della Maddalena” come una battaglia, uno scontro
con lo Stato che, in ogni caso, le ha profondamente segnate; persone che su quelle basi hanno accettato di venire a
testimoniare in questo processo, ritenendolo, in un modo o nell’altro, momento della lotta del movimento No Tav. Come
spiega Ugo Mattei, professore e redattore dei quesiti referendari per l’acqua pubblica del 2011, presente alla Maddalena
la sera del 26 giugno, per tenere una lezione sull’acqua pubblica, su nucleare e grandi opere… Il professore racconta:
«Fui molto colpito dall’eterogeneità del popolo No Tav, dall’uso libero dei beni tipo formaggio e vino forniti dietro
offerta, dal gran numero delle persone… dalla cura forte per il territorio… sviluppai forte simpatia per quello che
stavo vivendo, che si stava facendo il bene per il nostro paese… e la sera dello sgombero, atteso, partecipai per
solidarietà il 26 sera, c’era un palco sul prato poco sotto la baita su cui io parlai, feci il mio pistolotto e rimasi a
chiacchierare, ma andai via prima dell’arrivo delle forze dell’ordine… la situazione era sempre molto collettiva, si
rimase insieme, già dal palco era come un’assemblea, persone che parlavano, atmosfera di attesa, si stava serenamente
insieme, ma non assemblea con processo direzionale organizzato».
Testimoniano altri No Tav, Alessandra di Oulx racconta che il 3 luglio era partita dal forte di Exilles per poi
proseguire per la Ramat. All’arrivo ha fatto una sosta, intenzionata a scendere alla Maddalena, ma visto il quantitativo
sorprendente di lacrimogeni che arrivavano anche alla Ramat decise di non scendere e di fermarsi. Ma verso le cinque del
pomeriggio arrivarono due cellulari della Guardia di Finanza che volevano passare... all'opposizione verbale dei
manifestanti, è partita immediata e violenta la carica. Alessandra racconta di aver trovato rifugio in una casa di Ramat
e di aver visto dalla finestra la scena di un ragazzo pesantemente malmenato dalla Finanza. Il Pm Rinaudo chiede di
sapere il nome di questo manifestante, Alessandra risponde «il nome non lo so, non so darle indicazioni, perché quando
si ha davanti una persona dolorante non le si chiedono le generalità»
Milano, maggio 2014


torino, 22 maggio: solidarietà agli imputati di terrorismo
Migliaia di persone, provenienti da tutta Italia, scese in piazza a Torino in solidarietà con quattro compagni arrestati
e accusati di terrorismo. Al di là del numero effettivo di partecipanti – cinquemila, diecimila, ventimila, e chi più ne
ha più ne metta – quello di sabato 10 maggio è stato comunque un corteo grande e composito, che con linguaggi diversi ha
rivendicato l’azione per cui i quattro saranno presto processati, senza scadere nell’innocentismo o nel vittimismo da
montatura giudiziaria, rinviando contemporaneamente al mittente, come si suol dire, l’accusa di terrorismo.
Gli striscioni dei vari spezzoni scandivano un discorso chiarissimo: «siamo tutti colpevoli di resistere» quindi
vogliamo «Chiara, Claudio, Mattia, Niccolò liberi» perché «il sabotaggio è compagno di chi lotta» mentre «terrorista è
chi sfrutta, bombarda e opprime». E i cori e gli slogan hanno ripetuto incessantemente «giù le mani dalla Valsusa», «la
Valsusa paura non ne ha», «tutti liberi, tutte libere», «sabotare non è sbagliato, quel cantiere verrà incendiato»,
«magistrati e giornalisti siete voi i terroristi». Non sappiamo se tanta difesa del sabotaggio sia una condivisione di
intenti, un’opzione di lotta che ognuno è pronto a mettere prima o poi in campo, o una presa d’atto di pratiche lontane
e separate cui si guarda con simpatia, oppure ancora il tentativo di non farsi scavalcare. Oppure tutto questo assieme.
Ma ha ragione, per una volta, il segretario piemontese del Partito Democratico, quando parla di «un corteo pacifico nei
fatti ma non nelle parole».
Con un attacco di dialettica, d’altra parte, si potrebbe anche parlare di «un corteo determinato nelle parole, ma non
nei fatti», dal momento che avrebbe di sicuro potuto lasciare qualche traccia in più del suo passaggio. Oltre a
manifesti e adesivi, è rimasta giusto qualche scritta significativa, come quelle sulle vetrine delle banche o sulle
camionette della polizia lungo corso Francia, sulla caserma dei carabinieri di via Cernaia – difesa strenuamente da un
Senatore del Movimento Cinque Stelle e dal suo codazzo – o quelle sul camper del candidato grillino alla presidenza
della Regione Piemonte, lasciato in bella vista lungo il percorso del corteo e difeso… da nessuno.
Non che ci si aspettasse una sommossa, per carità, e poi da piazza Adriano a piazza Castello tutto il percorso è stato
letteralmente blindato dalle forze dell’ordine. Il dispositivo messo in campo – tra cordoni di celerini, betafence
riciclati dallo stadio, barriere mobili un po’ arrugginite, idranti ed elicotteri – più che una provocazione per isolare
il corteo dalla città (dal momento che ogni giorno in centro e Cit Turin è difficile trovare qualcuno che non sia uno
sbirro, un turista o un indaffarato nello shopping), era un’esibizione di efficienza tecnica e muscolare tesa a
proteggere il centro nevralgico della città, sede del potere amministrativo (il Tribunale), logistico (la stazione di
Porta Susa) e finanziario (il grattacielo Intesa-Sanpaolo), permettendo al corteo di entrare nel salotto buono del
centro storico, a patto di non mettere i piedi sul tavolino e le mani sulla porcellana.
Ma va bene, doveva essere un corteo per tutti, e tutti hanno risposto alla chiamata: dai paesani delle vallate ai
cittadini superstiti della società civile, dagli antagonisti dei centri sociali ai protagonisti dello spettacolo,
anarchici, vecchi militanti imbolsiti in salsa tzatziki, qualche reduce dalle giornate dei blocchi di piazza Derna e
tanti No Tav senza altri aggettivi. Ma cosa sarebbe successo se il corteo, con la sua mole, il suo calore e la sua presa
bene avesse tentato di toccare quei quartieri popolari a un passo dal centro, dove si svolgono quelle lotte che, come da
più parti è stato ripetuto, domani potrebbero essere minacciate da inchieste analoghe? Chissà, forse non molto di più,
ma almeno si sarebbe potuta mettere alla prova quella convinzione per cui una lotta come questa possa essere un emblema
di riscossa della vita offesa, per tutti.
Di sicuro, così come l’abbiamo raccontata ora, racconteremo questa giornata importante ai nostri amici e compagni che
stanno rinchiusi in prigione. La racconteremo a Chiara, Nicco, Mattia e Claudio, così come i loro cari hanno raccontato
di loro a tutti noi, a fine corteo in piazza Castello. L’inizio del processo si avvicina, e siamo certi che una giornata
come questa debba disperdere le sue spore, più piccole, più diffuse, più infestanti affinché la lotta non sia solo una
concentrazione in piazza, ma anche e parallelamente una dispersione nelle strade.


lettera dal carcere di ferrara
Per non finire per chiamare la guerra pace e la pace guerra
Il 22 maggio prenderà il via il processo a nostro carico, a poco più di un anno dal sabotaggio di cui siamo accusati,
per ribadire che lo Stato c’è ed è efficiente.
Sarà una grande giornata, un grande evento, di quelli in cui si possono esibire le toghe e le divise delle grandi
occasioni. Se fino ad oggi a finire sotto processo erano stati i fatti specifici, non le legittime ragioni di una valle,
ora che queste hanno cozzato con le ragioni di Stato non paiono più così legittime.
Ai magistrati è stato affidato il compito per conto del popolo di amministrare la giustizia, di appioppare a destra e
manca mesi o anni di prigione per porre rimedio ai mali che affliggono la società. A loro tocca rendere la realtà e le
nostre azioni codificabili penalmente.
In alcuni momenti particolari, tuttavia, quando giovani scapestrati od operai organizzati o valligiani testardi smettono
di credere alle narrazioni dei cantastorie di turno e non temono più i moschetti o i randelli dei gendarmi, gli uomini
di di legge devono abbandonare la toga e impugnare la penna dello storico. Tracciare una bella linea ed affermare
risoluti che tutto ciò che è stato è terrorismo, frutto di cattive passioni, causato da persone deviate, poco inclini a
vivere come Dio comanda. Tirare una decisa pedata in faccia a queste canaglie che hanno osato alzare la testa,
ricacciarli tra i rifiuti della storia. Cancellare tutto in modo che non vi sia più testimonianza di chi è caduto nella
tentazione della ribellione. Nei luoghi più significativi della resistenza si è raggrumata è usanza poi che sorga nei
templi del potere.
Nel 1871 dopo aver massacrato i comunardi fino a tingere di rosso le strade di Parigi, l’imperatore Napoleone III fece
costruire sulla collina di Montmartre, luogo simbolo per gli insorti, l’imponente basilica del Sacré Coeur così da
bonificarla. Allo stesso modo la val Clarea, culla della libera repubblica della Maddalena, è stata devastata e
trasformata in un minaccioso fortino militare, tempio del progresso. Poco importa quanto effettivamente procedano i
lavori, se la talpa scavi o se stia rintanata in un capannone, quello che conta è che i frequentatori dei castagneti
valsusini restino stupefatti di fronte a tale magnificenza, si sentano sopraffatti e provino rassegnazione. Le stesse
sensazioni che vorrebbero farci provare quando varchiamo le soglie del Palagiustizia. Un edificio possente, con
un’architettura sicuramente ispirata ad un romanzo di Kafka, posto al centro della città come monito ai rei
dell’inesorabilità della legge. Certo poca cosa da quando accanto sorge la figura slanciata del grattacielo Intesa-
Sanpaolo. Chi avrà l’onore di sedere tanto in alto potrà dalla stessa finestra tener sott’occhio la distribuzione delle
pene e volgendo lo sguardo più a ovest si augurerà di scorgere la devastazione di una valle.
Godendo di parecchio tempo libero offertomi dalla reclusione mi sono spesso interrogato sul motivo di una repressione
tanto feroce e spettacolare. Non credo sia dovuto al grave danno che la lotta avrebbe arrecato, come vorrebbe il codice.
Non penso sia neppure dovuta al fatto che un’assemblea popolare abbia sdoganato il sabotaggio come pratica legittima. La
lotta No Tav fa paura perché è riuscita a dare concretezza a quel “no”. Quando ha trovato la strada sbarrata è riuscita
a scovarne di nuove e quando queste risultavano impraticabili non ha esitato a inerpicarsi sui sentieri. È riuscita ad
evitare gli ostacoli oltre i quali non erano riusciti ad andare i movimenti di protesta da più di 30 anni, come la
sterile diatriba violenta-nonviolenza.
Il problema non è capire se un’azione è violenta oppure no, ma quali parametri la rendono tale e chi determina questi
parametri. I giornali, nelle varie evoluzioni che è in grado di offrirci la tecnica, oltre ad avere la capacità di
descrivere una realtà conforme ai voleri dei propri finanziatori, son sempre di più il mezzo con cui si creano e si
diffondono opinioni, giudizi e indignazioni. L’omicidio di due pescatori disarmati diventa un atto di mirabile eroismo,
sequestrare 60.000 fra donne e uomini nelle patrie galere un atto di amorevole rieducazione, il pestaggio di un migrante
mentre sta distruggendo la sua gabbia in un Cie è l’occasione per denunciare i pesanti turni degli operatori di polizia,
i lacrimogeni e le botte distribuiti su in valle nient’altro che lezioni di democrazia.
Chi distrugge le macchine con cui si vorrebbe devastare un territorio, chi prova a cacciare a sassate i carabinieri e la
polizia che occupano militarmente un luogo liberato compie atti gravissimi, di una violenza inaudita, con evidente
finalità terroristica. Ogni gesto di ribellione sia individuale sia collettivo è stigmatizzato senza alcuna paura di
cadere nel ridicolo. A dar retta a questi novellatori da quattro soldi finiremmo per chiamare la guerra pace e la pace
guerra.
Nell’evolversi della lotta il ruolo dei mezzi d’informazione e la loro complementarietà al sistema Tav si è fatto di
un’evidenza imbarazzante. Se non è stato possibile discutere con loro sull’utilità dell’opera, lo sarà ancor meno su
quali mezzi siano più idonei per bloccarla.
Abbandonare la dialettica violenza-nonviolenza poiché qualsiasi azione che rechi con sé una critica radicale verrà
osteggiata o peggio ancora derisa e snaturata. Discutere invece di mezzi e fini. Da una parte la costruzione di una
ferrovia come vettore di una civiltà fondata sullo sfruttamento del capitale umano, sul saccheggio delle risorse,
sull’estrazione di profitto ad ogni costo, dall’altra parte noi consapevoli da tempo che la testimonianza non è più
sufficiente, ma con un bagaglio enorme di idee e pratiche alcune vecchie di decenni altre inventate ex novo alle pendici
del Rocciamelone, alcune più efficaci altre strampalate. Non frutto di gruppi paramilitari o neo-guerriglieri come
vorrebbe la letteratura questurina, ma espressione di una comunità che si scopre nella lotta. Una comunità in marcia e
in lotta, perché solo quando il conflitto sociale esplode, quando cadono i veli e le contraddizioni della società non
possono più essere tollerate che gli individui possono costruire rapporti non mediati dalla merce ma costruiti dalla
complicità e dalla condivisione. Per questo motivo oggi siamo accusati di terrorismo e per lo stesso motivo non temo
questo processo né le mura e le sbarre della prigione asettica in cui mi hanno sbattuto.
Approfitto per mandare un abbraccio furioso ai miei tre compari di sventura e a tutti gli amici che in ogni modo mi
hanno scaldato il cuore in questi mesi.

Claudio Alberto, via Arginone 327 - 44100 Ferrara

***
22 maggio: inizia il processo contro i No Tav
Belli, sorridenti, in forma e felici di essere finalmente insieme. Così sono apparsi questa mattina Claudio, Niccolò,
Chiara e Mattia all’apertura del processo che li vede imputati per l’attacco al cantiere del Tav di Chiomonte del maggio
passato. Fuori dall’aula bunker delle Vallette un grosso e rumoroso presidio a sostenerli, nonostante i nuvoloni che
promettono pioggia e la pioggia che arriva davvero scrosciante a metà mattinata.
La celere schierata fa filtro, e lascia entrare nell’aula solo una trentina di persone alla volta, così il tempo passa a
fare i turni per salutare i quattro, in piedi sulle sedie del pubblico. A fine mattinata i contabili della Questura
registreranno circa duecentocinquanta ingressi: chi sceso dalla Valsusa, chi arrivato da altre città, chi dall’estero, è
da tanto tempo che non si vede una solidarietà così forte per un processo. Tutto sommato l’atmosfera è abbastanza
rilassata e l’udienza è dedicata alle costituzioni delle parti civili e a contestazioni tecniche e di forma. Fuori va in
onda l’intervista al compressore e ogni tanto parte qualche slogan. A fine udienza, l’unica sorpresa: alcuni compagni
del pubblico restituiscono a Rinaudo e Padalino, con un ben studiato lancio parabolico, i residui delle microspie
ritrovate recentemente malnascoste dentro ai locali dell’Asilo occupato di via Alessandria. Proprio come nel caso delle
telecamere di qualche mese fa, il lavoro degli agenti speciali in forza alla Procura è stato fatto in maniera sommaria e
i marchingegni spioni sono stati allegramente distrutti: dopo TelePadalino, dunque, ora chiude RadioRinaudo.

Maggio 2014, tratto da autistici.org/macerie/
sui fatti del 3 maggio a Roma
Il 3 maggio rimane ferito gravemente da un colpo di arma da fuoco un tifoso napoletano negli scontri tra ultras del
Napoli e della Roma. Per più di un’ora e mezza viene ripreso dalle telecamere della Rai la figura di “Genny ‘a carogna”,
capo ultrà della tifoseria partenopea in trasferta a Roma. L’immagine della sua figura appollaiata sulle transenne
dell’Olimpico e della scritta stampata sulla sua maglietta, “libertà per gli ultras” e “Speziale libero”, rimane fissa
su milioni di teleschermi in tutto il mondo, ripetitiva, ipnotica. Va in scena in tv uno dei classici della Società
dello spettacolo: “Sbatti il mostro in prima pagina”. Se poi questo è anche camorrista ed ultras, allora il film sarà
sicuramente da oscar. Lo stadio ritorna un’occasione per criminalizzare e/o inventare il prototipo perfetto del male
sociale. L’icona del capo popolo, brutto, sporco e cattivo e se poi meridionale, meglio ancora, è un cliché che si
ripete nel tempo, stanco e monotono.
La memoria va al “bandito” Salvatore Giuliano che forse fu il primo 70 anni fa ad incarnare, uno per uno, tutti gli
stereotipi sopra elencati e che, come “Genny ‘a carogna”, a mo’ di trofeo mediatico, veniva additato come contraltare
del cittadino perfetto.
A quanto pare, il modello è vincente e non potrebbe essere altrimenti in una società mediaticamente drogata. Ed infatti,
il giorno dopo, spenti i riflettori della diretta tv, si scatenano gli abituali protagonisti del circo mediatico.
Politici, giornalisti, opinionisti, sociologi e tuttologi di ogni tipologia si fiondano, come avvoltoi, sull’ultima
preda mediatica disponibile sulla piazza. Viene fortemente attaccata la solidarietà degli ultras ad Antonino Speziale.
Quest'ultimo fu accusato ingiustamente di aver ucciso l’ispettore Raciti il 2 febbraio 2007 durante gli scontri tra
polizia e tifosi del Catania; ricordiamo che l’ispettore morì per un colpo al fegato, ricevuto da una jeep della
polizia, dopo una retromarcia sbagliata. La stampa sulla maglietta “Speziale libero” viene bollata come grave azione
violenta e atto moralmente degradante la memoria di un solerte servitore dello stato. Si fa a gara a chi la spara più
grossa. Per vincere il gran premio del giudice più implacabile, vengono rabbiosamente richiesti per “Genny ‘a carogna”,
misure repressive come Daspo a vita, associazione a delinquere, partecipazione a fatti violenti. La vedova Raciti ne
invoca istericamente l’arresto immediato, risultando pure tragicomica, anche perché i suoi deliri forcaioli portano a
rancore e capricci che alimentano la macchina della (in)giustizia capitalista e “carcero centrica”: noi ci stringiamo ad
Antonino Speziale, che sta facendo nel silenzio dei media e “a gratis” 8 anni effettivi di galera!
Andando indietro di qualche anno, molte tifoserie avevano iniziato a contestare la logica del “calcio moderno” basato
sul business milionario, caro-biglietti, merchandising ad appannaggio delle più grandi multinazionali e schedatura
poliziesca chiamata “tessera del tifoso” (le tifoserie non a caso furono represse). Proprio in quel periodo gli ultras
venivano criminalizzati. Poco dopo, legislazioni emergenziali e liberticide venivano applicate al mondo delle curve, con
il solo pretesto di estendere le stesse leggi a tutti gli antagonisti sociali. Il passaggio della repressione, dallo
stadio alle piazze e alle lotte, è presto fatto. Gli ultras di tutto questo furono profeti: ricordiamo gli striscioni:
“LEGGI SPECIALI… OGGI PER GLI ULTRAS, DOMANI PER TUTTA LA CITTÀ”.
Contro l'ipocrisia della giustizia a due binari “PASSAPORTI TRUCCATI, ROLEX REGALATI, FALSE FIDEIUSSIONI… MA IL MALE DEL
CALCIO SONO GLI ULTRAS”.
La risposta più bella, a chi ci vorrebbe morti, sono le scritte che riempivano tutta la curva sul caso Aldrovandi, due
domeniche fa “SAP: sindacato assassini protetti. Un applauso alle mamme vittime umiliate dal sindacato di polizia.
VERGOGNA!”

Milano, maggio 2014
“No Via d’Acqua” a Milano 25-26 aprilE: via le transenne dai parchi
Chi dirige a Milano Expo 2015 dopo oltre due mesi di silenzio (pubblico), dovuto probabilmente anche agli otto arresti,
di cui due conclusi in carcere, di persone interne alle alte cerchie di Expo 2015 coinvolte in traffico di appalti ecc.
ecc., la mattina del 23 aprile ha deciso di farsi sentire. Ad attendere le decisioni del gruppo dirigente di Expo, del
Comune erano soprattutto gli abitanti dei quartieri nord-ovest interessati dal progetto delle “vie d’acqua”, che, nelle
prime stesure, prevedevano l’attraversamento dei parchi situati in quei territori. I gruppi dirigenti, di fronte ai
presidi dei cantieri, alle manifestazioni in città come nei parchi presi di mira, a fine febbraio avevano dichiarato un
ripensamento e la presentazione di un “Piano B”.
Questo “Piano B” è apparso non attraverso i media, ma ben più concretamente. Ecco come lo descrive un volantino del
movimento No Canal:
“Piano B? Polizia e vigili! Due mesi di inutile attesa, la mattina del 23 aprile ecco materializzarsi il Piano B
promesso dall’amministratore delegato di Expo spa Sala: Forze dell’ordine e polizia locale ad accompagnare i lavoratori
incaricati di rimettere le cesate (transenne) riposte con ordine dai cittadini per essere portate via…
Per portare acqua nei parchi si usino fossi, fontanili e canali esistenti, nessun nuovo canale a cielo aperto o
interrato potrà attraversare e sfregiare i parchi: Pertini, Trenno, Cave, Cividale…
In attesa di sapere quale sarà la soluzione proposta da Expo spa e dalle istituzioni, la nostra vigilanza continuerà ed
ogni tentativo di portare le ruspe nei parchi troverà i cittadini pronti ad opporsi con nuovi presidi… Ogni tentativo di
portare le ruspe nei parchi troverà i cittadini pronti ad opporsi con nuovi presidi”…
Per concludersi con la chiamata al parco di Trenno per la mattina del 25 aprile diretta a liberarlo dalle transenne. Ad
essa hanno risposto una ventina di attivist* No Canal, che hanno esposto striscioni, diffuso volantini mentre il parco
veniva riconsegnato alle sue ampiezze. A loro nel corso della mattinata si sono uniti giovani e meno giovani,
casualmente di passaggio. Sono state chiamate le reti tv, in particolare tg3 Regione, che hanno filmato quel che
accadeva e registrato le ragioni della protesta dalla voce di chi la stava realizzando. Lo stesso è avvenuto (stavolta
senza televisioni) nel pomeriggio successivo al parco Pertini situato nel quartiere Bonola adiacente al parco di Trenno.
In un comunicato stampa No Canal - No Via d' Acqua - Cambia Canale, del 29 Aprile 2014, trasformato in volantino,
diffuso nel corso della manifestazione del 1° maggio al parco delle Cave domenica 4 maggio, riportano che il commissario
unico di Expo, Sala, annuncia che sarà approvato durante il Consiglio di Amministrazione di Expo nella giornata del 6
maggio. E precisa: “Il progetto è l’unico possibile, non credo ce ne possano essere altri.” Il volantino si conclude con
l’esortazione:
“La società Expo, che alla fine dell'evento non esisterà più, deciderà quindi il destino dei parchi della città. Noi non
ci stiamo. Dove è finita la democrazia partecipata? Come si può realizzare un'opera del genere senza ascoltare i
Cittadini? Dopo aver dichiarato il 25 febbraio che l'opera non avrebbe interessato i parchi ora si torna indietro e si
decide sopra le nostre teste. I comitati invitano tutti i Cittadini a partecipare alle iniziative in difesa dei parchi
della città.”
L’esortazione è accolta con la partecipazione all’assemblea nel parco delle Cave, proseguita con la rimozione delle
cesate ancora in piedi nel parco; allo smantellamento si sono unite diverse persone, che si godevano nei prati la
splendida giornata solare. Quasi al termine della rimozione l'“Associazione Arcieri” (che nel parco ha uno spazio, che
da accordi con Expo per il passaggio del canale godrà di fondi) chiama i carabinieri! Tre attivisti NoCanal vengono
fermati e identificati!
La conferenza stampa di Sala sulla conferma della realizzazione della “via d’acqua” prevista per martedì 6 maggio… è
stata evidentemente travolta ancora una volta da arresti, come riportato dai media, nei giorni immediatamente
successivi:
“Il direttore Pianificazione e Acquisti di Expo 2015 spa e general manager Constructions del grande progetto milanese,
Angelo Paris, secondo gli investigatori, era «totalmente sottomesso ai voleri dell’associazione». «Io vi dò tutti gli
appalti che volete se favorite la mia carriera», dice in una intercettazione, parlando con alcuni componenti
dell’associazione a delinquere. In questo modo l’associazione criminale veniva a conoscenza in anticipo delle decisioni
riguardanti Expo 2015, per esempio i progetti dei padiglioni dei diversi Paesi o gli interventi ai fini di risolvere
aspetti problematici nel progetto delle Vie d’Acqua. L’associazione per delinquere, «operativa da un anno e mezzo o due»
avrebbe condizionato o tentato di condizionare almeno da metà del 2013 alcuni appalti dell’Expo, tra cui la gara per
«l’affidamento per le architetture di servizi», che sarebbe stata pilotata a favore dell’imprenditore vicentino Enrico
Maltauro, finito in carcere”… (Corriere della Sera 8 maggio 2014)
Nei giorni immediatamente successivi Renzi, capo del governo, vola a Milano per assicurare la realizzazione di Expo 2015
con lo slogan “Lo Stato è più forte dei ladri”. Chiama subito Raffaele Cantone, magistrato del tribunale di Napoli di
recente nominato presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, affinché quest’ultima sia coinvolta nel rilancio di
Expo 2015.
Insomma, si capisce da sé che Expo 2015 ha ora da riconfermare la propria identità-esistenza, prima ancora di alcune sue
realizzazioni, quali “la via d’acqua sud di Milano”.

Milano, aprile 2014


Torino: Sassi e lacrimogeni ai Mercati Generali
Cariche, lacrimogeni e sassaiole, prima ancora dell’alba, davanti ai cancelli del Centro Agro Alimentare di Torino.
Dalle dieci di ieri sera, infatti, un bel gruppo di facchini e di solidali blocca i cancelli per denunciare le
condizioni di sfruttamento e il caporalato abituali nella struttura e per chiedere il reintegro al lavoro di cinque
dipendenti della Cooperativa 2008, cacciati nei giorni scorsi per aver protestato un po’ troppo decisamente. Il
picchetto, inizialmente, non è molto grosso, ma con il passare delle ore si infoltisce grazie all’afflusso continuo dei
lavoratori che, invece di provare ad entrare o di tornarsene a casa, decidono di rimanere fuori a bloccare gli ingressi
insieme agli altri. Dentro i cancelli, la celere, pronta ad intervenire.
Già intorno alle due di notte, mentre fuori si allunga la fila dei camion di frutta e verdura bloccati, i rappresentanti
delle Cooperative fissano un incontro e ventilano promesse ma, dopo qualche discussione, si decide di continuare il
picchetto ad oltranza. I manifestanti sono molto decisi, la valvola della rabbia accumulata in anni di sfruttamento si
apre e la tensione si sfoga contro i capi e i caporali, presi a schiaffoni, e i pochi crumiri, bloccati e portati di
peso fuori dalla struttura. Solo poco prima delle cinque la polizia tenta una sortita per spezzare il blocco e far
entrare i Tir a scaricare: escono dai cancelli e caricano, ma visto che la gente non si muove e resiste cominciano a
sparar lacrimogeni. L’aria si riempie di gas, ma il vento tira verso i Mercati Generali, parte una sassaiola e la gente
si ricompatta velocemente davanti ai cancelli. Il blocco ha tenuto e la circolazione è ancora completamente ferma.
Ora che scriviamo, e sono le sette meno un quarto del mattino, la celere si sta riposizionando e sembra voler riprovare
a forzare. A presto aggiornamenti.
Ore 7.10. La situazione è di nuovo tranquilla, dopo che la celere ha provato senza risultati a scortare un camion: gli
scioperanti si sono seduti per terra e la polizia, dopo la magra figura della notte, ha rinunciato a forzare.
Ore 8.30. Un camioncino viene fatto uscire a tutta velocità dai cancelli e investe tre persone che si trovano lì vicino.
Una ragazza sembra essere la più grave, pare che il camion le sia passato sulla gamba. A questo punto nessuno è più in
grado di contenere le persone presenti al blocco non si tengono più, e iniziano urla e spintoni contro polizia e
carabinieri. Quando la celere carica, il blocco reagisce lanciando di tutto sulle teste dei celerini, che cominciano a
sparare numerosi lacrimogeni: qualcuno improvvisa delle frombole strappando le bandiere di stoffa e tra il fumo dei gas
iniziano a volare tantissime pietre. A questo punto la polizia preferisce sparire dalla vista dei manifestati, e si
ritira dietro ai cancelli inoltrandosi verso i capannoni.
Ore 11.30. La situazione sembra bloccata. I padroni e padroncini sono scomparsi e non pare esserci nessun contatto, per
terra è pieno di pietre e frammenti di lacrimogeni. La gente del picchetto fa uscire solo i camion dopo essersi
assicurata che sono vuoti. Le macchine dei padroni invece vengono fatte uscire molto lentamente. La polizia per ora
guarda a distanza. Qualcuno del presidio - saputo degli articoli in rete che, imbeccati dalla Questura, parlavano di
soli quattro lacrimogeni sparati durante la mattinata - si mette a raccogliere i bossoli per terra e si scopre che di
lacrimogeni la polizia ne ha sparati decine; qualcuno procura e distribuisce del Maalox, che non si sa mai.
Ore 13.00. Oramai quasi tutti i mezzi che erano ancora presenti dentro la struttura sono usciti, vuoti; gli ultimi
vengono scortati fino al cancello dalla polizia, che si schiera ogni volta che ne deve passare uno. Dopo una nottata di
blocco e di battaglia la gente comincia a scemare, mentre il piazzale si riempie di giornalisti. Finora, i lavoratori
hanno ottenuto il reintegro dei cinque licenziati e un appuntamento con i vertici delle Cooperative per lunedì. Iniziano
una serie di assemblee per decidere come continuare la giornata.
Ora 14,30. Dopo una nottata e una mattinata tanto intensa, non ci sono più i numeri per tenere il blocco. L’appuntamento
per è per lunedì sera. Ci si vede alle 23 davanti ai cancelli per discutere insieme di come sono andate le trattative
pomeridiane e di come proseguire nel caso lo sciopero.
Intanto già nel pomeriggio cominciano a uscire i primi commenti sui blocchi. Ascom, Confesercenti e Confagricoltura
fanno muro, ignorano completamente i motivi della protesta e le rivendicazioni dei facchini e puntano tutto sulla lesa
maestà dei commercianti e dei loro portafogli. Si indignano per i sassi sulla polizia e i vetri rotti e se ne fregano
bellamente delle condizioni di sfruttamento che subiscono i lavoratori all’interno dei mercati generali. “Chiediamo una
maggiore attenzione da parte delle forze dell’ordine, a garanzia dei basilari diritti degli operatori e dei cittadini”
tuonano Coppa e Papini lasciando ben intendere che gli unici diritti che riconoscono sono quelli dei propri associati.

23 maggio 2014, da autistici.org/macerie/


Milano: sciopero alla Dielle di Cassina de Pecchi
Dopo anni di sfruttamento intensivo, 60 operai (su 63) si bloccano davanti ai cancelli dell'impianto di smaltimento
della plastica di Cassina de Pecchi. La paga è di 3.50 euro all'ora per 8 ore lavorative al giorno 7 giorni su 7. Paga
finale mensile circa 750 euro per più di 200 ore al mese, trattamento schiavistico e continui infortuni nascosti...
Questo, ed altro ancora, sono gli ingredienti base della miscela che ha fatto esplodere gli operai africani
dell'impianto. Segue un comunicato del S.I. Cobas di MIlano.

Dopo la giornata di sabato 24 maggio passata a sostenere le campagne di boicottaggio di Ikea e Carrefour e una domenica
di festa davanti ai cancelli, con amici e famiglie degli operai in sciopero, alle 3,30 di notte cominciano ad arrivare i
blindati di polizia e carabinieri. Dopo 2 ore se ne conteranno ben nove. Alle 8 saranno 13: 150 uomini armati a
circondare 60 operai del SI.Cobas in sciopero.
Le poche parole scambiate coi funzionari di polizia lasciano intendere il senso di un’operazione militare spropositata:
la ripresa dell’attività dell’azienda. Oltre ai camion che trasportano i rifiuti plastico, l’intenzione pare evidente
che sia quella di far entrare i crumiri di una presunta nuova cooperativa entrante, deputata a sostituire la
dimissionaria “Fast Service”.
Col passare del tempo, l’inevitabile effetto schiacciante di un tale dispiegamento che dà la sveglia al picchetto,
lascia il posto alla consapevolezza che l’azienda non può sostituire in blocco i 60 scioperanti, non solo perché non è
facile trovare gente disposta a lavorare in quelle condizioni, ma anche per la professionalità e le competenze tecniche
(assolutamente disconosciuta dal contratto capestro e dequalificante imposto agli operai) che si acquisiscono solo con
il tempo; un tempo che la Dielle, dopo 8 giorni di blocco, non ha più. Il nocciolo della lotta emerge in decine di
capannelli: è la forza dello sciopero che non possono travolgere!
La convinzione cresce ancor di più di fronte al bilancio concreto del bottino portato a casa dai padroni e dalle loro
guardie private (quelle dello stato) che consiste in 6 camion di plastica in ingresso, 14 persone al lavoro: 4 familiari
dei proprietari e 10 ignavi crumiri (di cui 8 esterni alla fabbrica) entrati sotto la protezione della polizia, mentre
l’impianto che trasforma i rifiuti plastici in materia prima (venduta in Slovenia e in Cina, oltre che in tutta Italia)
resta fermo per l’ottavo giorno consecutivo.
Mentre il picchetto incassa la solidarietà di alcune RSU della zona, la polizia, forse cosciente che un tale
dispiegamento non è riproponibile ogni giorno, si prodiga nel tentare di ricucire le condizioni per la ripresa della
trattativa coi padroni. Alla fine, le forze dell’ordine abbandonano il terreno di una battaglia che non si è ancora
consumata, e viene fissato un incontro per domani alle ore 11 che potrebbe segnare la ripresa della trattativa.
Resistere un minuto in più del padrone resta slogan e contenuto della lotta. L’unità dello sciopero fa il resto. E con
domani siamo a 9 giorni, mentre nuove idee si fanno strada per andare oltre i confini della “fabbrica degli orrori”.


Piacenza: La lotta degli operai IKEA resiste
A protestare davanti ai cancelli del deposito dell’IKEA di Piacenza contro la politica ed i provvedimenti antisindacali
della San Martino/Confcooperative oggi non c’era un “numero limitato di soci lavoratori”, come recitava ieri il
comunicato della cooperativa, ma la maggioranza di quelli operanti presso l’appalto.
La tesi della minoranza facinorosa, esposta dai “signori delle cooperative” cade miseramente dopo 24 ore. Si rafforza,
invece, la nostra convinzione che ci fa ritenere che questa iniziativa repressiva sia deliberata ed orchestrata
scientificamente per arrivare ad un licenziamento di massa per far fuori il Sindacato SI.COBAS.
Da qualche mese la San Martino, per mano del suo Direttore Alessandro Maffi, che nel frattempo ha assunto anche la
carica di Direttore Generale della CONSICOPRA, ha intensificato le azioni disciplinari ai suoi soci più poveri ed ha
contrattualizzato a tempo determinato decine di nuovi lavoratori, molti con contratto part-time nonostante lavorino 8 e
più ore al giorno, addestrandoli alle varie mansione in previsione di rimpiazzare i potenziali scioperanti.
Il massiccio intervento di oggi delle forze di polizia in tenuta antisommossa e le botte elargite stamattina (con un
lavoratore portato via in ambulanza) per salvaguardare “il diritto e la libertà di lavorare” di una minoranza, di cui
fanno parte anche lavoratori della cooperativa operanti in altri appalti e spostati per sostituire quelli in sciopero,
ce lo rafforza.
Domani si prosegue, stesso copione, e così sarà nei prossimi giorni, perché siamo pronti ad una lunga battaglia. La
notizia intanto ha fatto il giro del paese e la solidarietà ci è giunta da molte città e situazioni che chiedono come
poterci sostenere.
Domani, l’assemblea operaia prenderà le sue decisioni e lancerà un appello ed una campagna di mobilitazione e lotta per
rilanciare ed estendere la solidarietà attiva alla nostra lotta. Una lotta che è parte integrante della battaglia di
dignità e giustizia che il movimento degli operai della logistica ha saputo costruire in questi anni e patrimonio di
tutto il movimento dei lavoratori stanchi di ricatti e soprusi.
Oggi ci hanno chiesto di fare un incontro con personale che non poteva decidere nulla, ci ha chiesto cosa volevamo e per
dovere di cronaca lo riportiamo per farlo conoscere a chi legge:
1. Ritiro di tutti i provvedimenti disciplinari.
2. Riconoscimento formale del SI.COBAS, delle RSA – Rappresentanze Sindacali Aziendali - ed un accordo sindacale sui
seguenti punti:
- Applicazione delle tariffe del CCNL del 1 agosto 2013. Le cooperative stanno applicando le tariffe del 26.01.2011.
Nelle nostre buste paga compare una voce “anticipo futuri aumenti/AFA” erogato in base al raggiungimento di un indice di
produttività. Quei soldi non devono essere legati ad indici di produttività, al pari dei lavoratori IKEA che hanno il
nostro stesso CCNL (contratto nazionale). Si deve porre fine al dumping contrattuale nel Deposito Ikea. A titolo
esemplificativo la paga base di un 5° livello è attualmente di 1385.91 mensile e di 8,2494 oraria, mentre le cooperative
continuano ad applicare 1355.15 mensile e 8,06637 oraria.
- Istituti contrattuali di 13^, 14^ , TFR, FERIE, PERMESSI, ROL/EX-FESTIVITA’ non devono essere calcolati sulla base
delle ore lavorate ma sulla base delle 168 ore mensili previste dal Contratto nazionale che specifica che per i mesi in
cui il lavoratore lavora frazioni di mese superiori a 15 giorni gli istituti devono essere conferiti al 100%
- La copertura integrale di malattia ed infortunio, senza nessuna deroga a pretestuosi cavilli, al pari dei nostri
colleghi assunti da IKEA. Le cooperative non possono parlare di mutualità quando lasciano il socio-lavoratore ammalato
od infortunato senza adeguata copertura economica. Questa, per noi, è una questione di civiltà, inderogabile!
Domani è un nuovo giorno … la lotta continua!

6 maggio 2014
Sindacato Intercategoriale Cobas Coordinamento provinciale - Piacenza


bergamo: Staccata la corrente alle case occupate di Celadina
Oggi mercoledì 24 Maggio 2014, meno di ventiquattr'ore dopo l'approvazione del "Piano Casa", nelle case occupate di via
Monte Grigna 11 è stata staccata la corrente come previsto dall'art. 5 della nuova legge. Una rapidità e uno zelo rari.
Da qualche anno in Italia, con l'emergere della crisi economica e la crescente precarizzazione del lavoro, il tema della
casa è diventato centrale. Oggi avere un tetto sotto cui vivere non è cosa per tutti, centinaia di migliaia di famiglie
perdono il lavoro e vengono sfrattate, non trovando poi risposte da parte delle istituzioni. In questo vuoto, non avendo
alternative, la gente ha iniziato a organizzarsi dando una risposta diretta al proprio bisogno: piuttosto che vivere
sotto un ponte occupare le case tenute vuote.
L'articolo 5 del Piano Casa, quindi, rappresenta un attacco diretto, mirato a colpire chi persegue questa scelta invece
di rassegnarsi. I movimenti di lotta per la casa, insomma, al governo fanno paura, tanto da aver bisogno di sfornare una
legge apposta per arginarli, una legge che puzza anche un po' di incostituzionalità, negando necessità primarie delle
persone. Anche gli arresti a Roma di questi giorni non sono da meno: una chiara provocazione contro chi da anni si batte
per il diritto all'abitare e a cui esprimiamo tutta la nostra solidarietà. Quali sono le risposte di questo Governo
illegittimo all'emergenza abitativa? Repressione, sgomberi, sfratti, utenze staccate e residenze negate.
A Bergamo la gestione dell'emergenza abitativa e delle case popolari, in linea con la politica nazionale, è sempre stata
il disconoscimento del problema - gli sfratti non sono un'emergenza - e lo spreco del patrimonio residenziale pubblico -
250 case popolari abbandonate a sè stesse da anni e un piano delle alienazioni che prevede la svendita di una grossa
fetta del patrimonio immobiliare pubblico tra cui circa il 20% degli alloggi comunali.
Il sindaco Tentorio ci tiene in questo caso a essere ligio alle regole applicando a tempo di record questa legge, ma la
vera essenza di questa amministrazione è ben altra: dallo scandalo affittopoli, al ritardo nell'indire i bandi ERP
superando i limiti di legge; dall'abbandono delle case popolari, alla svendita dei 12 appartamenti nell'area dell'ex
Cesalpinia; dalle promesse mai mantenute di recupero delle case sfitte, alle menzogne sugli accordi mai intercorsi fra
la giunta e i sindacati inquilini.
Nelle case di via Monte Grigna abitano giovani precari e famiglie con bambini. A questi Tentorio e D'Aloia – assessore
all'edilizia - hanno scelto di negare le residenze, impedendo così l'accesso a tutti i servizi di cui chiunque ha
diritto come la sanità, l'istruzione e il diritto di voto. La scelta di oggi di staccare la corrente elettrica aggiunge
gli ovvi disagi agli abitanti delle case, e mette definitivamente in chiaro, a tre giorni dal voto, quali siano le
politiche sulla casa di questa giunta.
Di queste scelte il sindaco e l'assessore devono assumersi la responsabilità.

As.I.A. Bergamo, Comitato di Lotta per la Casa-Bergamo
maggio 2014, da asiabergamo.org


Il Job’s Act di Renzi
[...] Cerchiamo di capire cosa c’è nel Job act e cosa invece manca. Di sicuro c’è che il decreto sul lavoro promosso da
Renzi è sprovvisto di strumenti utili ad aumentare il numero dei posti di lavoro: qual’ora dal tam tam mediatico questa
fosse l’impressione che ne avremmo potuto trarre, è bene sfatarla subito.
L’argomento centrale pare essere l’unificazione delle varie tipologie di contratti a tempo determinato: invece che una
moltitudine di tipologie contrattuali volte a giustificare, caso per caso, la necessità di temporizzare il rapporto di
lavoro, la proposta prevede un unico calderone dove tutti possono finalmente essere precari, al di là delle differenze
di genere. Una sola tipologia di contratto precario di massimo tre anni con 8 possibilità di proroghe anche non
consecutive e sopratutto: acausali.
Così il lavoro temporaneo si slega definitivamente dall’ipocrisia della causa contingente e si approda làddove si voleva
approdare sin dalla Riforma Biagi: il lavoro deve essere temporaneo ed il contratto a tempo indeterminato è
un’aberrazione che, insieme all’articolo 18, inchioda le imprese a fare i conti con la vita delle persone, la quale non
è in linea con le esigenze di flessibilità del mercato internazionale. In questo modo si avvera il sogno proibito del
capitalista dell’anno zero con una situazione di diritto del lavoro che fa fare una regressione storica di quasi 200
anni alle lotte sindacali ed ai diritti dei lavoratori.
Ma torniamo all’Act. Il contratto è stato impropriamente, ma non imprudentemente, chiamato “a tutela crescente” ma la
tutela non c’è e, sopratutto, non cresce. Quali siano, infatti, le tutele ed i contributi di cui è dotato questo nuovo
contratto acausale, è argomento sconosciuto ai più e probabilmente lo sarà fino alla redazione delle note tecniche.
Quello che è sicuro è che, i (chissà quali) contributi saranno a carico dello stato. Un bel dispositivo di affidamento
allo stato dei costi del lavoro, in piena fede al mantra neoliberista che vuole tutto lo spazio occupato dal mercato,
tranne gli oneri di gestione. In pratica l’esito sarà quello di tramutare i contratti già in atto di tutti i lavoratori
precari, spostando gli oneri dei contributi dall’azienda allo stato. E quindi precari, si rimane. Lavorare, non si
lavora ed i contributi, oltretutto, sono spalmati su tutti, un po’ come i costi dei cataclismi naturali. In effetti è un
interessante accostamento di idee il lavoro precario ed i cataclismi naturali. Entrambi figli di un sistema economico
che non ha interesse a confrontarsi con l’ambiente che invade.
Si è ventilata anche la creazione di un ammortizzatore universale del quale avrebbero potuto beneficiare tutti i
disoccupati, anche i diseredati dalla Cassa Integrazione che, a quanto pare, verrebbe in quest’ottica soppressa. Anche
qui la terra trema. Caro Matteo, prima di rimuovere l’unico ammortizzatore sociale, benchè parziale e non
universalistico, vorresti gentilmente assicurarti di non sostituirlo con una cilecca? La preghiera della sera di milioni
di italiani.
In piena coerenza con un Renzi che ci vuole competitivi in Europa, nella proposta originale faceva anche capolino la
proposta di svincolare il contratto di apprendistato dal concetto di formazione ed emendarlo dagli obblighi di
assunzione di almeno il 20% degli apprendisti se si desidera assumerne altri (introdotto dalla Fornero). Lo stipendio
proposto per l’apprendista è di ben il 35% della paga base del settore ed il contratto di apprendistato sarebbe l’unico
vero contratto della durata di 3 anni inserito nell’Act. La consueta arroganza del capitale e del burrattino Renzi
raggiunge un’altro picco. Anche se, come dicevamo, il progetto è già stato ridimensionato alla camera che ha prontamente
riappioppato l’obbligo di fare formazione per l’apprendistato e ridotto la possibilità di proroga del contratto acausale
da 8 a 5 volte entro i 36 mesi, anche non consecutivi. Meno male che c’è il parlamento. Le correzioni parlamentari di
Grillini ecc.. basteranno a tramutare questo flop in un capolavoro? La risposta è: sicuramente no.
Nella bozza iniziale era presente anche un punto che è stato lasciato, per ora, indietro. L’iniziativa prevedeva di far
entrare i sindacati nei cda delle aziende sul modello di partecipazione alla tedesca. Ma su questo punto Camusso Bonanni
& Co non si sono fatti trovare impreparati, avendo firmato a Gennaio di quest’anno un accordo interconfederale (quello
che Landini ha nominato “la svolta Autoritaria”) che prevede una stretta collaborazione tra sindacati ed aziende,
recependo pressochè integralmente il “Modello Marchionne”. Vengono ammessi all’accordo con le aziende soltanto quei
sindacati che si impegnano a non scioperare e si rimuove alla radice la possibilità legale di condurre una vertenza.
L’accordo introduce anche sanzioni pecuniarie ai rappresentanti sindacali che non rispettano gli accordi e l’arbitrato
interconfederale diventa lo strumento ufficiale di risoluzione delle controversie. Insomma, una porcata interconfederale
in piena regola, che tra l’altro, naviga in senso contrario rispetto a quella famosa sentenza della cassazione che aveva
imposto il reintegro degli 8 lavoratori di Pomigliano, licenziati con l’accordo coi sindacati.
Anche se, nel Job’s Act, il capitolo sui sindacati nei CDA è stato già cassato, è balzato presto all’occhio un
riferimento Mitbestimmung tedesca che, insieme al piano Hartz di semplificazione del lavoro (quello dei mini jobs), ha
reso, negli ultimi 20anni, la vita più semplice agli investitori teutonici e l’economia tedesca più competitiva.
Ed eccola lì, la cogestione: l’altra metà della mela. C’è chi questo sistema lo combatte e lo rallenta con
manifestazioni e scioperi, c’è chi collabora per renderlo migliore, più umano e meno ostile, in sintonia con le
necessità di consumo delle persone. In una parola? Friendly. Come al solito si ripropone il dramma delle due europe:
Europa Friendly (Germania e Scandinavia) ed Europa Un-Friendly, quella del sud, con Italia Spagna e gli altri
porcellini.
La cogestione, o codeterminazione, è la risposta organizzativa che i padroni si sono dati di fronte alle nuove esigenze
della governance dell’impresa a livello internazionale. I rappresentanti dei lavoratori siedono insieme ai dirigenti in
alcuni organi direttivi delle aziende e contrattano, azienda per azienda, le condizioni e le retribuzioni dei
lavoratori. Nessuno si fa male negli scioperi politici, poichè vietati.
Sono i sindacati stessi, nei consigli di sicurezza a controllare i lavoratori ed a decidere, di concerto con l’azienda,
chi sarà licenziato. Un aberrazione del concetto di sindacato stesso che, per come ce lo sogniamo noi, difende i diritti
dei lavoratori. Non li svende nè li contratta.
Noi, quaggiù, non ne vogliamo proprio sapere di Friendly e di Mitbestimmung. Rimaniamo dell’idea che la disoccupazione
non sia una colpa e che il lavoro non sia un accessorio del capitale. Riluttanti a questa modernità, rifiutiamo anche il
concetto di flessibilità, il cui esito appare sempre più chiaro. [...]

7 maggio 2014, da noisaremotutto.org