indice n.86

I campi di concentramento in Libia
Aggiornamenti della lotta dentro e contro i cie
Con Bahar Kimyongur! Continuare la mobilitazione!
LETTERE DAL CARCERE “LE VALLETTE” (TO)
SULLE MOBILITAZIONI DENTRO E FUORI A “LE VALLETTE” DI TORINO
lettere dal carcere “la Dozza” (Bo)
Lettera dal carcere di S. Gimignano (siena)
carcere di OPERA MODELLO DI TORTURA
Lettera dal carcere di Rossano (cs)
Lettera dal carcere di Teramo
lettera dal carcere Pagliarelli di Palermo
Lettera collettiva dal carcere
SULLA MOBILITAZIONE DI SETTEMBRE DEL COORDINAMENTO DEI DETENUTI
Lettera dal carcere di Rebibbia (RM)
Lettera dal carcere di Ferrara
lettera dal carcere di terni
napoli: sul presidio a poggioreale
lettera dal carcere di piacenza
Da una Lettera dal carcere di Sulmona (Aq)
dalle udienze del processo contro i no-tav
Arresti per terrorismo contro il movimento no tav
Resoconto del processo per i fatti del 15 Ottobre 2011 a roma
bologna: sul Processo “Outlaw”
cuneo: Per farcela pagare
saronno (va): LIBERARE TUTTI VUOL DIRE LOTTARE ANCORA
LOGISTICA IN LOTTA
Genova: luci e ombre di una grande lotta

I campi di concentramento in Libia
Stato di polizia al servizio degli stati imperialisti
La morte di 700 profughi, probabilmente di più, nelle due più recenti avarie di carcasse marittime di fronte alle isole
mediterranee di Malta e Lampedusa ha compromesso la politica disumana dell’immigrazione seguita dall’Unione Europea
(UE).
Non meno drammatica è la situazione di coloro che, alla ricerca di sicurezza e di un poco di benessere, vengono
trattenuti in Libia e finiscono nei campi di concentramento.
Ufficialmente in Libia esistono “soltanto” 17 “centri di raccolta”. La loro base legale, ancora oggi vigente, risale al
2008 (dunque ai tempi di Gheddafi), ad accordi conclusi fra i governanti di Tripoli e i diversi stati europei. La lista
delle carceri nelle quali vengono imprigionati a migliaia migranti, innanzitutto in fuga dai territori di guerra e di
crisi Somalia, Eritrea e Etiopia, senza accusa e processo, senz’altro è molto più lunga.
La Croce Rossa avrebbe avuto accesso a circa 60 luoghi nei quali si stima siano imprigionate 6 mila persone. Questi
campi di concentramento vengono fatti funzionare, in assenza di strutture statali, da diverse milizie. Sono veri e
propri carceri sovraffollati in cui dominano condizioni disumane. Le persone prigioniere, fra le quali anche numerosi
bambini e giovani, dicono le ricerche delle organizzazioni umanitarie internazionali, vengono sottoposte ad ogni tipo di
angherie, violenze e torture, inflitte come ritorsioni contro i tentativi di fuga, come passatempo delle guardie o,
peggio, a causa del colore della pelle delle vittime.
Secondo Amntesty nel maggio 2013 nel “centro di raccolta” di Sabha c’erano 1.300 prigionieri. Quel campo non disponeva
del sistema di canalizzazione delle acque, i corridoi erano pieni di immondizia. I prigionieri (circa un’ottantina)
colpiti dalla scabbia, costretti a stare al centro di un cortile sotto il sole cocente, si trovavano in stato avanzato
di disidratazione. Sono stati anche documentati numerosi casi di uomini, donne picchiati/e con cavi elettrici e tubi di
gomma pieni d’acqua. In almeno due di questi centri le rivolte sono state domate con colpi d’arma da fuoco.
Simone Andreotti presidente di “In migrazione Onlus” afferma che dopo l’attacco al consolato Usa a Bengasi, avvenuto nel
settembre 2012 e in occasione del secondo anniversario della “rivoluzione” del febbraio 2013, le retate di arresti e il
razzismo si sono acutizzate. A suo parere per impedire morti, arresti, torture… sarebbe sufficiente permettere alle
persone immigrate di prendere i lasciapassare per poter chiedere asilo in Europa nelle ambasciate e nei consolati
europei nei paesi di transito. Una decisione che salverebbe tante vite, contrasterebbe gli interessi dei trafficanti di
schiavi e provvederebbe a liberarsi definitivamente dai ricatti dei paesi che fanno dell’apertura e/o chiusura dei loro
confini un’arma per accrescere la propria forza contrattuale sul piano internazionale.

Le milizie assetate di potere
Mustafa Nuh, ritenuto capo di qualche milizia, rapito dai servizi segreti all’aeroporto di Tripoli è stato rilasciato
appena da due giorni. Alla notizia del rilascio di Nuh, gruppi di persone hanno preso d’assalto il parlamento nazionale,
esortando il governo a mettere fine alle attività delle milizie.
La collera degli abitanti di Tripoli è soprattutto diretta contro le milizie di Misurata che nelle settimane scorse
hanno ucciso almeno 43 persone. I miliziani avevano fatto fuoco sui dimostranti che invocavano di fronte al quartier
generale della milizia, il suo allontanamento da Tripoli. Prima che altre milizie accorressero in aiuto ai dimostranti,
i miliziani di Misurata si sono ritirati dagli edifici occupati. In occasione dei funerali per i morti e i feriti nella
battaglia con la milizia di Misurata, però appartenenti alle milizie di Tripoli, sono stati organizzati tre giorni di
scioperi a in quest’ultima città.
La milizia di Misurata nel corso della guerra-NATO contro il precedente capo dello stato, Muammar Gheddafi, armata e
sostenuta dall’occidente e dagli stati del Golfo arabico, si era fatta, con la sua spinta e brutalità, una certa
“reputazione”. Dopo la conclusione della breve guerra civile i miliziani di Misurata, come la gran parte delle milizie,
rifiutarono di consegnare le armi. Talune fecero dipendere il disarmo dalla risposta alla richiesta di avere influenza
politica; altre vennero direttamente inquadrate nelle forze armate nazionali.
Nemmeno una settimana fa un gruppo di ex-miliziani ha occupato la raffineria petrolifera di Zawiya, ha fermato la
produzione, allo scopo di rinvigorire la richiesta di provvedere le cure mediche dei feriti in guerra. Quell’impianto
produce 120mila barili al giorno di benzina, pari a un quinto del fabbisogno complessivo della Libia. In generale, nel
2013 in Libia l’estrazione del petrolio a causa di simili azioni e scioperi, rispetto all’anno precedente, è caduta del
5%.
Il disarmo delle milizie è uno degli obiettivi principali fissati dal governo di transizione retto da Alì Seidan suo
capo. Così diverse ore di battaglia fra soldati dell’esercito e miliziani islamici a Bengasi hanno lasciato sulla strada
9 morti e 49 feriti. L’esercito ha invitato la popolazione a non uscire di casa. Lo stesso è accaduto a Tripoli dove
uomini armati appartenenti alla milizia Ansar Al-Scharia si sono scontrati con reparti dell’esercito poiché rifiutano di
consegnare le basi in cui si sono installati.

Le mani dei petrolieri e dei bombardieri europei sulla Libia
Parecchi stati dell’UE aiutano il governo libico nell’edificazione di una truppa di polizia paramilitare da impiegare in
funzione della sicurezza degli impianti di estrazione del petrolio, per contrastare l’emigrazione dall’Africa, ma anche
per proteggere, in Libia, gli edifici governativi e delle banche. La documentazione, fino ad oggi tenuta segreta, è
stata resa pubblica dal sito francese Mediapart. La documentazione fa riferimento alla creazione di una “guardia di
frontiera”, che deve avere competenza soprattutto nella zona di confine sud della Libia. Una sorta di gendarmeria il cui
modello dichiarato sono proprio i carabinieri dell’Italia.
Dopo la Tunisia la Libia è il secondo paese arabo al quale i governi occidentali forniscono grosse capacità dirette al
sostegno di una “riforma del settore della sicurezza”. Dal giugno di quest’anno l’UE incoraggia, per esempio, la
costruzione di una “direzione integrata dei confini”. La Libia, a partire da questo obiettivo, vuole riconquistare i
suoi 4.348 km di confine, la cui gran parte ancora oggi è invece controllata dalle milizie o dalle organizzazioni delle
tribù. Un anno fa il governo aveva perciò proclamato in quelle regioni lo stato d’emergenza e inviato unità
dell’esercito con conseguenti competenze.
Da subito 110 “esperti” internazionali devono dare sostegno ai diversi apparati già disposti alla difesa dei confini. Il
ministro dell’interno della Germania vuole inviare in Libia 20 poliziotti per aiutare le guardie di confine libiche a
“costruire le proprie capacità operative”. Per motivare queste decisioni il governo tedesco dice che in Libia gli
“interessi della sicurezza europea” sarebbero in pericolo. In gioco c’è comunque il petrolio: per es., date le continue
proteste e attacchi che colpiscono gli impianti di estrazione, la società tedesca Wintershall AG di recente ha lasciato
a casa gli operai. In generale attualmente l’estrazione è caduta sotto la metà della quantità abituale.
Dopo l’abbattimento guidato dalla NATO del regime di Gheddafi, due anni fa, all’Europa ora manca la mano ferma di un
simile presidente. Questo è invocato prima di tutto dall’Italia, che, nel quadro dell’accordo d’amicizia sottoscritto
nel 2008 con la Libia aveva pattuito numerose cooperazioni, fra le quali la consegna di impianti radar per i confini
marini e terrestri.
L’ex primo ministro Berlusconi allora commentò l’accordo con le parole: “Noi dalla Libia riceveremo più gas e benzina e
meno immigrazione clandestina.” Adesso l’Italia si riallaccia a quell’accordo: secondo la documentazione diffusa da
Mediapart il governo di Roma addestra già centinaia di ex ribelli a divenire gendarmi, promette la consegna di sistemi
di sorveglianza satellitare assieme alla consegna e riparazione di motovedette marine. La guardia costiera, addestrata
dall’Italia, naviga guidata dai centri di sorveglianza marina italiani. Insomma, la Libia sta diventando parte indiretta
della piattaforma di sorveglianza EUROSUR, che, su spinta dell’UE prende avvio nel dicembre 2013.
La settimana scorsa il Servizio Europeo Estero ha pubblicato una proposta secondo la quale le navi e gli aerei da guerra
della NATO potranno in ogni caso essere impiegati, in Libia ma non solo, nel respingimento dell’immigrazione.

dicembre 2013, Liberamente tratto da jungewelt.de


Aggiornamenti della lotta dentro e contro i cie
Gradisca d’Isonzo (Go): Cie chiuso
23 novembre. Nove persone sono state rinviate a giudizio con l’accusa di aver imbrattato le mura del CIE di Gradisca
d’Isonzo. Gli accusati, nel corso di una manifestazione organizzata dall’associazione Ya Basta per chiedere la chiusura
del centro, avrebbero scritto degli slogan sul muro di cinta della struttura, e anche sull’asfalto delle strade
circostanti. Per quest’ultima operazione avrebbero bloccato senza autorizzazione la circolazione stradale, per cui
dovranno fronteggiare anche l’accusa di interruzione di pubblico servizio.
Al momento è aperto il dibattito sulla sua eventuale riapertura. La Lega chiede che il centro sia riaperto il prima
possibile. Qualcuno invece ha proposto di utilizzare i locali per allargare l’adiacente Centro di Accoglienza per
Richiedenti Asilo. Le autorità comunali si sono dette contrarie a quest’ultima ipotesi, per mancanza di risorse. Il mese
scorso il Consiglio Regionale del Friuli ha approvato una mozione che chiedeva la chiusura del Cie. Che rimanga chiuso
per sempre!

Modena, domenica 24 novembre
Dalle ore 16, c’è stato un presidio in piazza Muratori (via emilia centro) in solidarietà ad Andrea, Sabbo e Gabriele.
I tre compagni sono stati arrestati il 16 giugno scorso in seguito ad un saluto sotto il CIE, durante il quale
l’accensione di qualche fuoco artificiale, lanciato in solidarietà agli immigrati detenuti, ha provocato un piccolo
incendio di sterpaglie nel campo adiacente la struttura. Da allora, sulle loro spalle pesa una restrizione cautelare che
proibisce di allontanarsi dal comune di residenza e li obbliga al rientro notturno presso le loro abitazioni.
Il processo, che li vede imputati di danneggiamento pluriaggravato, è già stato rinviato diverse volte e l'ultima data a
cui è stata fissata l'udienza è il 2 dicembre, a 2 settimane di tempo dallo scadere del termine massimo delle misure
cautelari.
L'accanimento della giudice Manuela Cortelloni contro gli antirazzisti rende palese come da un lato lo Stato e i suoi
ministri piangano ipocritamente gli immigrati annegati di fronte a Lampedusa, mentre dall' altro reprimono coloro che si
oppongono concretamente ai lager ed alle espulsioni, denunciando il sistema di sfruttamento che, da anni, si perpetua
nel silenzio dei più. L’udienza è stata poi rinviata al 20 dicembre.
Umbria, 3 dicembre
Continuano le notizie di prelevamento, da parte delle Forze del manganello, di senza documenti dall’Umbria, dove non ci
sono centri d’espulsione, al trasferimento in Cie siciliani (Pian del Lago, Trapani Milo). Un viaggio lungo e costoso a
spese del Ministero dell’interno.

Cie di Ponte Galeria (Roma), 30 novembre
Naturalmente come ogni anno con l’inizio del freddo al Cie l’impianto di riscaldamento non è funzionante.

CIE di Bari Palese
Nella tarda mattinata del 5 dicembre scoppia un incendio motivato dalla mancata liberazione di un recluso che si era
ferito gravemente. Dopo un breve passaggio all’ospedale, è stato fatto rientrare nel Centro, dove i suoi compagni di
reclusione hanno subito iniziato a protestare. I gestori del centro, Connecting People, hanno stabilito che dopo
l’incendio metà padiglione è ancora agibile, e i prigionieri sono stati stipati nello spazio disponibile. Un recluso è
stato preso dalla polizia, poi rilasciato solo dopo che i suoi compagni di sezione hanno minacciato di continuare a
bruciare tutto.

Cie di Pian del Lago (CL)
5 dicembre. I reclusi preparano materassi e suppellettili per darli alle fiamme e quindi scappare approfittando
dell’emergenza. Dopo momenti di tensione l’allarme è rientrato e la situazione si è “normalizzata”.

Cie di Trapani Milo
Il 29 novembre cinquanta reclusi riescono ad evadere, molti dei quali reduci dalle rivolte di Gradisca di poche
settimane fa, sono finalmente riusciti a riconquistare la libertà. Purtroppo i posti lasciati liberi dagli evasi sono
stati subito riempiti da una settantina di senza documenti sbarcati sulle coste trapanesi. Sembra ci siano anche
minorenni.
Nella notte del giorno dopo avviene un guasto all’impianto elettrico, causando un temporaneo blackout, così tanti
reclusi ne approfittano per tentare la fuga. Alcuni sono stati catturati subito fuori dalle mura, ma sembra che in molti
ce l’abbiano fatta. Nel Centro intanto continuano a essere trattenuti anche i settanta senza documenti sbarcati sulle
coste trapanesi, tutti chiusi in gabbia, compresi donne e minori, costretti a restare in una stanzetta senza
riscaldamento con i materassi buttati a terra. Nel Cie di Trapani sono confluiti molti stranieri sgomberati da altri
centri nel nord Italia, dopo che questi ultimi sono stati resi inagibili dalle rivolte delle ultime settimane.
4 dicembre. La Prefettura, lo scorso settembre, aveva revocato la gestione del Cie a L’Oasi di Siracusa per una serie di
carenze gestionali. Per i prossimi 6 mesi la gestione verrà affidata al consorzio “Glicine”, cooperativa sociale con
sede a Palermo. L’ente si è aggiudicato la gara con un ribasso del 15 per cento pari a 25,50 euro al giorno per recluso,
rispetto a un importo a base d’asta di 30 euro. Al momento il Cie è ancora gestito da “L’Oasi”. La normativa impone un
lasso temporale di 35 giorni prima del subentro effettivo del nuovo gestore. La Prefettura ha però chiesto al ministero
dell’Interno una deroga al fine di consentire l’entrata in servizio immediata del consorzio Glicine.

Lampedusa Centro di “Primo Soccorso” e “accoglienza”
16 dicembre. Il Tg2 ha mandato in onda un video girato all’interno del Centro di Primo Soccorso e “accoglienza”, in cui
si vede il modo in cui gli immigrati vengono disinfettati. Gli uomini vengono fatti spogliare nudi, di fronte a tutti, e
un operatore li irrora con la pompa. Il trattamento dovrebbe servire contro la scabbia, malattia che peraltro nessuno
aveva quando è arrivato a Lampedusa. Il Tg2 ha intervistato in proposito il sindaco di Lampedusa, che ha detto che
quelle immagini fanno pensare ai campi di concentramento. In questo lager sarebbero presenti 650 reclusi, a fronte di
250 posti disponibili.

Milano, dicembre 2013


Con Bahar Kimyongur! Continuare la mobilitazione!
Giovedì 21 novembre scorso, la Digos di Bergamo ha arrestato il compagno Bahar Kimyongur, di origine turche ma da anni
residente in Belgio, in base ad una richiesta di arresto ed estradizione da parte della Turchia. Bahar era appena
arrivato all'aeroporto di Bergamo, proveniente da Bruxelles. Ora, dopo l’udienza su del 2 dicembre al Tribunale di
Brescia, che ha deciso la sua scarcerazione, si trova con obbligo di dimora a Marina di Massa, senza altre restrizioni.
Pensiamo che la mobilitazione che si è da subito sviluppata per la sua libertà debba continuare fino ad impedire la sua
estradizione in Turchia e a far annullare il mandato di cattura. Di seguito riepiloghiamo la vicenda.

Il motivo della sua venuta in Italia era partecipare a due incontri pubblici sulla situazione in Medio Oriente, da
tenersi il primo a Monza, presso il centro sociale F.O.A. Boccaccio e il giorno successivo a Padova, in un'aula
dell'Università.
Bahar Kimyongur è un militante antimperialista, da molto tempo attivo nella solidarietà con i prigionieri politici in
Turchia e nell'opposizione alle politiche del regime turco, sopratutto rispetto alla repressione sul fronte interno e
all'espansionismo sul fronte esterno, nell'area mediorientale. Attualmente anima il Comitato contro l'ingerenza in
Siria, rendendosi protagonista della lotta contro la guerra imperialista nei confronti di questo paese arabo, condotta
sia per procura – armando i cosiddetti “ribelli” – e sia direttamente dalle potenze della Nato, Turchia in primis, da
Israele e dai regimi arabi reazionari (Arabia Saudita, Qatar, Giordania...).
Per questa sua militanza è già stato incarcerato in Olanda, Belgio – dove è stato processato e infine assolto poiché gli
era stata attribuita l'appartenenza al gruppo comunista turco Partito-Fronte di Liberazione del Popolo Rivoluzionario
(DHKP-C) e quest'estate, in Spagna, ove si trovava in vacanza con la famiglia, sempre per l'estradizione richiesta dalla
Turchia.
Non ci stupisce per nulla che oggi si ritrovi incarcerato dallo stato italiano. Nonostante i vari governi che si
succedono facciano a gara nell'ipocrisia pacifinta, l'Italia è un paese imperialista, quello con le truppe schierate su
circa ventotto fronti di guerra e finanziate nel 2012 con 26 miliardi di euro, facente parte degli aggressori della
Siria, portaerei della Nato in Mediterraneo e alleato strategico di Israele, com’è stato ribadito con i nuovi accordi
che Letta e Netanyahu hanno firmato il 2 dicembre scorso a Roma.
L'Italia è anche uno dei maggiori partner economici della Turchia, il quarto a livello commerciale, con un migliaio di
imprese presenti sul suolo turco. Con la consegna di Ocalan nel 1999 [leader della resistenza kurda, ndr] e con
l’appoggio alla repressione di Erdogan contro le mobilitazioni popolari di quest’estate – ricordiamo l’infame giudizio
del ministro degli esteri Bonino “i turchi non sono arabi e questa non è una primavera” – l’Italia ha già dimostrato
tutta la sua complicità con il regime turco. E del resto i metodi repressivi li avvicinano: dalla violenza della polizia
in piazza, fino all’utilizzo dell’isolamento carcerario contro i prigionieri politici, che in Italia prende le forme del
41 bis, del 14 bis e dei regimi di Alta Sorveglianza e in Turchia quello delle celle di tipo F.
L’assemblea tenutasi il 21 novembre a Monza si è trasformata in un momento di discussione per lanciare la mobilitazione
per la libertà di Bahar mentre quella prevista per il 22 novembre a Padova in un presidio di solidarietà.
Presidi si sono svolti a Milano, Padova, Firenze e la parola d’ordine della sua libertà è stata fatta propria dal corteo
nazionale a sostegno della Resistenza Palestinese tenutasi a Torino il 30 novembre. Le realtà promotrici del corteo si
sono fin da subito unite alla mobilitazione.
Lunedì 2 dicembre si è tenuto un presidio davanti al tribunale di Brescia, a cui hanno partecipato una cinquantina di
solidali provenienti da varie città; erano presenti anche alcuni familiari di Bahar giunti dal Belgio.
Contemporaneamente una grande solidarietà si è sviluppata anche in Belgio con numerose mobilitazioni promosse dalla
CLEA, una associazione per i diritti politici, la libertà di espressione e di associazione.
Invitiamo tutti a continuare la mobilitazione fino a quando si terrà l’udienza che deciderà sulla richiesta
diestradizione della Turchia e fino al completo annullamento del mandato di arresto. Essere solidali con Bahar significa
anche far conoscere le idee e la militanza per le quali viene perseguito. Per cui invitiamo tutti ad accompagnare le
iniziative con l’informazione e il dibattito.Mobilitarsi con ogni mezzo necessario contro l’estradizione di Bahar!
Contro la repressione e la guerra dell’imperialismo!Con i popoli che resistono!

Dicembre 2013
Collettivo “Soccorso Rosso” Collettivo Politico Gramigna – Padova, Collettivo Tuttinpiedi – Mestre (Ve), Solidali con la
Palestina – Padova, Collettivo Tazebao – per la propaganda comunista, Rete milanese di solidarietà con la Palestina,
Cordatesa – Monza, Spazio popolare La Forgia Comitato ricordare la nakba Centro Falastin di Torino , Centro di
Iniziativa Proletaria "G. Tagarelli" – Sesto San Giovanni, Circolo "Partigiani sempre" Tristano Zekanowski di Viareggio,
Centro di documentazione "Gino Menconi" di Massa


Germania: le carceri trasformate in fonti dirette di profitto
A Burg, poco distante da Magdeburgo (Sassonia dell’est), è in funzione da circa 10 anni un carcere penale, 658 posti,
per persone condannate a pene non superiori a tre anni. Le celle misurano 12 mtq con gabinetto separato; inoltre vi sono
spazi per laboratori, impianti sportivi interni e esterni. Nella stessa regione, è in costruzione anche un carcere
giudiziario.
Queste costruzion vengono celebrate dai media con favore, ricordando l’impegno di numerosi prigionieri che
nell’inondazione del 2013 cucirono 5mila sacchi di sabbia; gli stessi media parlano con disinvoltura di “celle aperte
durante il giorno”. La realtà è però un’altra.
Noi della “Rete per la libertà di tutti i prigionieri politici”, anche perché dentro queste nuove carceri ci sono nostri
amici e compagni, abbiamo approfondito l’analisi da chi e perché vengono costruite le carceri; ci siamo trovati di
fronte alla continuazione della privatizzazione accompagnata dalla condizione penosa riservata ai prigionieri. Siamo
arrivati alla conclusione che a Burg non è stato e semplicemente costruito un carcere, ma che esso, al contrario, è un
progetto-pilota diretto a consegnare le istituzioni statali nelle mani dei privati – e a spese dei prigionieri.
Attualmente in Germania esistono circa 150 progetti di collaborazione fra pubblico e privato riguardanti la costruzione
di uffici, scuole e altre infrastrutture.
Dal 2006 è stata resa sempre più possibile anche la privatizzazione dell’esecuzione delle condanne affidata ai privati,
favorita dalla sistematica bancarotta in cui vengono abbandonate le istituzioni statali. I comuni, anche nei land più
ricchi, non hanno denaro nemmeno per l’illuminazione delle strade. Se stato, regioni e comuni non hanno denaro per
investimenti urgenti e necessari, l’investitore privato li rimpiazza e costruisce. L’edificio così costruito viene poi
venduto o affittato dalle istituzioni statali, che, per pagare questi debit,i si affida al lavoro nelle carceri.
Le carceri anche in Germania sono divenute terreno d’affari. Il lavoro nelle carceri è obbligo costituzionale. Così oggi
ci sono a disposizione degli investitori privati oltre 60mila persone le cui condizioni di sfruttamento vengono
continuamente inasprite, sottoposte al lavoro flessibile e senza alcuna protezione sociale. I salari interni in media
superano di poco 1 euro all’ora.
L’investimento privato nella costruzione di carceri è iniziato a metà degli anni ‘90 assieme all’impiego di guardie
carcerarie di società private - in particolare nelle carceri di espulsione (i Cie tedeschi). La differenza con l’oggi,
come mostra l’esempio del carcere di Burg, è notevole. Qui è stata privatizzato il disbrigo di tutti i servizi, dalla
pulizia fino all’elaborazione elettronica dei dati. Il carcere di Burg viene fatto funzionare da 350 impiegati,
poliziotti, cuochi, medici… di questi 100 dipendono da ditte private. Fra il land Sassonia e le ditte private è stato
fissato un contratto della durata di 25 anni, in base al quale il land dovrà versare 500 mln di euro (per un totale
mensile di 1,7 mln di euro).
Contro il peggioramento delle condizioni di prigionia già nel 2009 i prigionieri hanno attuato degli scioperi della
fame. I salari bassi non consentono acquisti, radio e tv non sono consentiti, la posta senza alcuna spiegazione non
viene consegnata, il cibo è semplicemente schifoso. Ciò mentre le aziende private che costruiscono carceri prosperano.
Ne è esempio la Bilfinger-Berger di Mannheim, la quale recentemente informava i propri azionisti (tanti dell’Inghilterra
e degli USA) di aver raggiunto l’obiettivo, nel tempo prefissato, di un guadagno di 500 mln di euro: la somma le è stata
regalata con le tasse pagate dalla cittadinanza. Uguali e maggiori guadagni incamerano ditte fornitrici come la bavarese
Massak (logistica, pulizie, assistenza medica…), l’amburghese Telio (apparati telefonici).
Il sistema carcerario è parte integrante della logica di sfruttamento capitalistica e serve al potenziamento del suo
potere. A riguardo, il carcere adempie precisi compiti. Da una parte mira a spezzare la resistenza politica, dall’altra
anche la prigionia acquisisce sempre più una connotazione sociale. La gran parte delle persone in carcere sono là per
scasso, furto, spaccio-uso di stupefacenti, atti violenti… ossia tutti tentativi per trovare una via d’uscita da parte
di una classe lavoratrice precarizzata. Il carcere non ha nulla a che fare con la risocializzazione, ma bensì è messo in
mostra per allontanare dalla società, per un tempo parziale o anche per tutta la vita, la parte ribelle della nostra
classe. La nostra solidarietà va a tutti i prigionieri politici e sociali imprigionati a causa del loro agire politico e
della necessità oggettiva, per prendersi ciò di cui abbisogna la sopravvivenza.

Sintesi da Gefangenen info, nr. 378, settembre 2013


LETTERE DAL CARCERE “LE VALLETTE” (TO)
Con estremo ritardo abbiamo ricevuto una lettera dal reparto femminile “nuove giunte”.
L’opuscolo n.85 era stato spedito da alcuni giorni e così abbiamo mandato copia della lettera solo ad alcune/i
detenute/i cercando di coprire tutte le carceri nelle quali esistono contatti e l’abbiamo fatta girare ovunque sia stato
possibile. Nonostante questo “inghippo logistico” la risposta solidale c’è stata. La lettera è stata pubblicata in vari
blog e siti internet, è stata trasmessa dalle onde radio di Blackout a Torino, di Radio Onda Rossa a Roma, di Radio
Citta Fujiko a Bologna e Radio Onde Furlane ad Udine, ed è stata pubblicata anche da una rivista femminile. E come
sempre i/le solidali a Torino non si sono risparmiati nel dare appoggio alla mobilitazione.

[…] Mi trovo tutt’oggi ancora ai Nuovi Giunti. Sono stata trasferita il 22 luglio. Io come altre detenute, siamo al
livello di non ritorno dalla quasi pazzia. In teoria nei Nuovi Giunti puoi starci massimo 15 giorni.
Dopo svariati mesi da una petizione siamo riuscite a ottenere uno sgabello per cella, poter fare l’aria a uno stesso
orario, e non come pecore da pascolo, o tappa-buchi quando le altre sezioni non scendono. Questo era un disagio non da
poco. Una mattina alle 9, il giorno dopo alle 11 come veniva comodo a loro e quell’ora d’aria diventava una corsa per
poter essere pronte all’improvviso. Questa situazione è da sempre insostenibile. Due ore d’aria e ventidue chiuse senza
la possibilità di fare un’attività ricreativa.
C’è una bellissima palestra inagibile. Abbiamo ottenuto di poter usufruire della doccia dalle 9 alle 11, orario in cui
devi essere già pronta per la così sospirata ora d’aria.
Alle 11 passa il vitto. Bene noi al nostro ritorno dall’aria alle 12 abbiamo nei piatti qualcosa di commestibile, di cui
non si capisce la fattispecie, messa a giacere per un’ora fino al nostro ritorno in cella. Prima cosa non mi sembra
molto corretto e igienico che io debba avere il vitto per un’ora dentro la cella senza neppur vedere cosa mi ci si mette
dentro. Io personalmente ho un piccolo aiuto dall’esterno e vado avanti da più di tre mesi a yogurt e frutta. Ma chi non
ha la possibilità di fare quel minimo di spesa si fa coraggio chiude gli occhi e butta giù. Le mie compagne mangiano
degli alimenti con corpi estranei all’interno!
Poi c’è il lusso della doccia dalle 13 alle 15. Alle 15 bisogna essere pronte per l’aria. Quindi in una sezione dove ora
siamo 25 ma spesso si è 50 con 2 docce funzionanti e un lavabo bisogna fare coincidere tutto. Voglio puntualizzare che
nelle celle non c’è proprio la predisposizione per l’acqua calda a differenza delle docce dove c’è un termostato per la
temperatura a piacimento loro. Quello che potrebbe essere un piccolo ritaglio di relax diventa una vera e propria
tortura per molte, direi quasi tutte. La temperatura priva di calore rende insostenibile il nostro livello di stabilità.
Io personalmente faccio comunque la doccia seppur con la speranza che non mi si geli il cervello. Ma le mie compagne
sono tutte comunque di un’età sulla cinquantina e anche oltre, puoi capire il loro disagio e impossibilità di lavarsi
dignitosamente: si prendono a secchiate a vicenda prendendo l’acqua dal lavabo della doccia che è per lo meno tiepida.
Potrebbero chiamarsi problematiche sorvolabili invece queste condizioni imposte rendono la nostra permanenza e
sopravvivenza insostenibili a un minimo tenore dignitoso. Ho deciso di scrivere questa parte di lettera di sfogo perché
vedo crollare la stabilità delle compagne sotto ai miei occhi! E mi sto quasi sentendo impotente a poter solo tendergli
la mano.
Ci sono detenute che andrebbero spostate in centri che possano aiutarle e non essere imbottite di terapia per non
disturbare la quiete delle lavoranti “agenti-assistenti” con il continuo urlo straziante per il loro malessere
psicologico con “invalidità al 100% neurologica”. Sono già state in diverse strutture OPG ma ora giacciono qui nei Nuovi
Giunti. Io non mi permetto di chiudere la bocca a nessuno. Così per non sentire queste urla assordanti ho praticamente
un trapianto di cuffie alle orecchie.
Ho preso realmente coscienza che bisogna fare uscire al di fuori da queste mura la realtà vera, cruda delle carceri
italiane. Perché lottando sole facciamo solo numero. Così da questa sera a un mese ognuna di noi farà da passaparola per
fare girare la voce nelle carceri italiane. Il 4 dicembre alle ore 16 faremo una battitura.
Nel giro di un mese credo che il passaparola sarà arrivato in tutte le carcere e chi ha la possibilità di mandarci
giornalisti al di fuori di queste strutture da degrado, aiuterà a fare uscire oltre queste infinite sbarre il nostro
grido di aiuto. Se una persona lotta da sola, resta solo un sogno, quando si lotta assieme la realtà cambia. Qualcuno
dovrà pure darci ascolto!
Siamo ancora prive di un contatto con il mondo esterno, prive di tv che potrebbe aiutare a distogliere la mente dai
nostri pensieri. La posta potrebbe essere un po’ di zucchero per i nostri cuori ma anche lì abbiamo il lusso che ci
venga consegnata “dal martedì al venerdì”, forse non avendo contatti con il mondo esterno non siamo a conoscenza che le
poste italiane ora lavorano solo quei giorni. Ma non credo sia così.
Dopo un mese dal mio trasferimento a questo penitenziario nuova disposizione: tutta la posta deve essere registrata al
computer “quando ne hanno tempo”. Altrimenti come oggi seppur lunedì la posta vista da altre detenute non c’è stata
consegnata. In prima sezione hanno fatto la battitura, noi nuovi giunti all’aria ci mettiamo sul piede di guerra:
minacciamo di non risalire dall’aria. Così per azzittirci la nostra dignitosa ispettrice ci viene a dire che stanno
registrando la posta. A chiacchiere: niente posta. Io personalmente una raccomandata l’ho firmata dopo 9 giorni dal suo
arrivo!
Non veniamo rifornite di niente: generi di prima necessità per l’igiene persona e quant’altro. Solo al nostro arrivo un
rotolo di carta igienica, due piatti e due posate di plastica, uno spazzolino e un dentifricio con saponetta. Poi dopo
aver dormito senza lenzuola coperte e cuscino se sei fortunato entro un paio di giorni dal tuo arrivo puoi ottenerle e
poi niente più. E, mi ripeto, chi non ha un piccolo aiuto dall’esterno economico è privo di tutto. Non viene rifornito
neppure dalla carta igienica. Ma per fortuna c’è la domenica di mezzo. Ci viene data gentilmente in regalo Famiglia
Cristiana e molti giornali. E molte hanno trovato rimedio a scopo carta.
Scrivo terra-terra sdrammatizzando ma siamo nel tunnel degli orrori. Prendendo atto di ciò che è accaduto il 31 ottobre
ora do il libero sfogo. Abbiamo sollecitato più volte le assistenti di sezione di tenere sotto osservazione una nostra
compagna da giorni in uno stato confusionale e, preoccupate per questa visibile instabilità, abbiamo solo richiesto che
venisse applicato il loro ruolo: controllarci. Bene se questo fosse stato fatto con i tempi giusti oggi non ci si
troverebbe in questa condizione. Bene siamo scese all’aria alle 15 e al nostro ritorno dopo più di un’ora che eravamo
rientrate notiamo un’allarmante via vai di assistenti nella cella di questa nostra compagna. L’hanno trovata priva di
sensi con entrambe le braccia tagliate da ferite importanti tanto da procurarsi la sutura di 19 punti al braccio
sinistro e 24 al quella destro. Ovviamente mentre era in infermeria viene fatto il cambio cella per essere poi
piantonata. “Ovviamente”. Tutto ciò poteva essere evitato ascoltando le sue ragioni. Non volevano consegnarle la spesa
della sua concellina uscita liberamente, che aveva fatto tanto di domandina per lasciare la sua spesa a lei. Domandina
vista da vari assistenti e poi credo cestinata. Questa è stata la goccia che ha interrotto quel filo sottile della sua
stabilità già offuscata. Anche qui sarebbe bastato ascoltare e controllare prima che succedesse l’accaduto. Malgrado
piantonata, la stessa notte per la seconda volta ci è andata troppo vicina: si stava soffocando con la sua maglia, e per
ritardare l’accesso alla sua cella di piantonamento ha tirato su la branda facendola incastrare nelle sbarre del blindo.
Allora tiriamo fuori la realtà, la verità. Non credo che bisogna aspettare che uno sia sottoterra. Questo va ben oltre.
Ieri è andata bene, se così si può dire, facciamo qualcosa. Aiutateci. Aiutiamo queste donne, figlie, madri.
Per finire in bellezza la stessa notte una compagna si sente male. Soffre di gastrite nervosa. Mi dirai che non è una
patologia così allarmante, sì se solo non soffrisse di problemi cardiocircolatori. Ha già avuto un arresto cardiaco
provocato da questi attacchi. Continuano a farle flebo e punture di “Contramal” per alleviare il suo dolore. Ma in
sostanza con i problemi che ha aggrava solo le sue condizioni. Portandola tra le mie braccia di peso sino in infermeria
è passata più di un’ora e mezza per fare intervenire la guardia medica.
Bene. Io sono allibita da tutto ciò. Ma non smetterò di combattere per me e le mie compagne, il nostro grido di dolore è
assordante ma non ci sente nessuno. La guardasigilli Cancellieri si sta muovendo per noi? Per la popolazione carceraria?
Ma deve aiutare noi tutte, detenute dal degrado.
Un grido di aiuto e un affettuoso saluto le detenute seconda sezione Nuovi Giunti.

4 novembre 2013
M. + di 22 detenute

***
Con questo comunicato vogliamo rendere noto al mondo esterno, ai nostri amici e parenti, che cosa sono le sezioni “Nuovi
Giunti” del carcere Le Vallette.
Queste sezioni nascono per ospitare i carcerati appena arrestati dovrebbero sostare non più di otto giorni, giusto il
tempo di sbrigare le visite mediche e le faccende burocratiche, in realtà invece moltissimi di essi restano in questa
sezione per più di un mese ed oltre. L’amministrazione penitenziaria si nasconde dietro lo spettro del sovraffollamento
ma i veri motivi sono da ricercare altrove, appena entrati infatti l’impatto del carcere è molto violento e solo la
solidarietà tra detenuti è in grado di alleviarlo.
L’amministrazione offre: 1 coperta, 1 lenzuolo che nella maggior parte dei casi non viene consegnato subito, se va bene
2 mini saponette, 2 piatti di plastica usati, uno spazzolino correlato di un tubetto di dentifricio monodose e per
concludere 1 rotolo di carta igienica da spartire in due persone per una settimana!!!
Le celle per 2 persone fornite di letti a castello cambiano diversi inquilini per cui spesso le condizioni igieniche
sono al limite dell’indecenza, poiché nessuno dell’organico se ne cura, sono i detenuti stessi che provvedono a proprie
spese. I materassi sono di vecchia gomma piuma usurata e molti di essi sono strappati agli angoli che vengono usati per
pulire i sanitari, sempre che così si possano chiamare!!!
Da tener presente che molti materassi sono sporchi, maleodoranti e sono delle vere e proprie alcove di ogni genere di
microbi, germi e parassiti. Ricordiamo che oltre alle mini saponette in dotazione non viene fornito alcun tipo di
prodotto per l’igiene personale o per il bucato.
Il regolamento penitenziario prevede 2 ore d’aria al mattino e 2 al pomeriggio, ma ai nuovi giunti ne viene concessa
solo poco più di 1 nei rispettivi orari. Le 2 ore di socialità previste sono negate ai nuovi giunti e gli agenti si
giustificano dietro al fatto di non conoscere gli individui.
Il cibo che passano è a dir poco immangiabile, le pietanze sono prive di sale e di olio che per noi sono un miraggio, le
zuppe sono acqua sporca così come il latte ed il caffè del mattino, le uova sode hanno il tuorlo “verde” e puzzano e
infine la carne è rancida e spesso cruda. Ogni tre per due qualcuno ha un infezione intestinale e ci sono alcuni
detenuti che in una settimana perdono fino a 5kg; i prodotti confezionati (come wurstel o mozzarelle) a volte sono quasi
scaduti e addirittura la domenica si salta il pasto della sera, che viene rimpiazzato con due misere crostatine a
persona.
Il personale che serve i pasti spesso e “volentieri” non usa i guanti e i contenitori ed i carrelli non sono a norma!!!
Il più delle volte a rincarare la dose c’è il fatto che il cibo non basta e si devono quindi aspettare gli avanzi freddi
ed incollati dai carrelli delle altre sezioni.
Questa condizione è inaccettabile, un insulto alla dignità di ogni individuo perché vivere in questo modo aggrava le
condizioni psichiche e fisiche di molti di noi detenuti!!!
Evidentemente per tutti loro non basta la privazione della libertà ma si rendono così ulteriormente responsabili di
morti suicidi che ci sono ogni anno in questa galera, anche ai nuovi giunti come lo scorso 11 novembre c.a. Per una
persona fragile infatti vivere in questa specie di campo di concentramento più essere la mazzata finale, la goccia che
fa traboccare il vaso, per non parlare dei nostri familiari che quando vengono ai colloqui sono trattati peggio delle
bestie dove persino i bambini sono oggetto di perquisizioni.
Per quanto le guardie carcerarie cerchino di tenere bassa la tensione e di procurarsi meno noie possibili alcuni
detenuti hanno preso coraggio e hanno deciso di denunciare con questa lettera in modo autonomo questa situazione.
Chiediamo a chiunque legga di diffondere questo scritto nella maniera più ampia possibile, nelle strade, nelle case
della gente, via radio e via internete, attraverso blog e social network, “pieni di speranza per noi e per quelli che
verranno”.

20 novembre 2013
“I nuovi giunti”

***
[...] Il normale rapporto tra agenti e carcerati è impostato sul “vivi e lascia vivere”, o meglio “vivi in questo buco
in pace che io non ti disturbo”. La responsabilità per la vita di merda che si fa in mancanza di tutto viene rimandata
alla gestione della grande e lontana Amministrazione. Per gli agenti siamo “detenuti” e ci danno pure del lei. Ma la
parola più azzeccata è prigionieri. In quanto tali siamo sempre e comunque imprigionati ingiustamente, perché nessuna
struttura carceraria o giudiziaria sarà in grado di sapere quello che abbiamo fatto, in che circostanze e perché. I loro
funzionari vivono da tutta un’altra parte e in modo assai diverso, e le aule di Tribunale sono degli uffici come altri
dove tutti i conti vengono approssimati in eccesso. Non ci conoscono e non ci conosceranno mai. Allora su quale base ci
giudicano?
Spaccio, furto, rapina, resistenza, ecc… questi sono i loro nomi alle nostre risposte che in molti abbiamo trovato alla
loro crisi. Papà ha perso il lavoro, mamma deve operarsi in una clinica privata costosa, un bimbo e un altro in arrivo,
nessuno mi presta i soldi per aprire una piccola attività per sostenere la famiglia, la macchina, il telefono e quello
che serve per vivere bene… Allora si prende una pistola, un motorino, si studia un obiettivo e un percorso, e via! A
volte va bene a volte va male. Ma la galera resta sempre una merda, e se va male ce la fanno pure pagare coi soldi che
non abbiamo. Altri sacrifici, doppia fregatura. Vaffanculo.
I prigionieri più forti (e dignitosi) sono quelli che non si condannano e non condannano gli altri per quello che hanno
fatto. D’altronde se tutto fosse andato bene fuori non ci saremmo nemmeno sentiti in colpa, perché dovremmo sentirci in
colpa ora che siamo qua dentro? Quando ci biasimiamo, quando diciamo “ho fatto una cazzata” dovrebbe essere solo per
dire che avremmo potuto muoverci meglio: non far suonare l’antifurto di quel BMW, stare più attenti alle telecamere,
usare dei guanti per non lasciare impronte, mascherarsi per tirare un pugno a quella guardia infame che voleva prendere
una nostra amica.
Se tra prigionieri ci comprendiamo è perché sappiamo quanto è dura la vita quando non si ha il culo al caldo in qualche
ufficio a comandare, a farsi i conti in tasca, ad eseguire. Conosciamo i nostri quartieri, le strade dove viviamo o dove
siamo stati presi. Se i posti dei ricchi sono, per molti, il luogo di “lavoro”, i posti dove viviamo dovrebbero essere
quelli dove la polizia fatica a lavorare. Dove se cadiamo arrestati la notizia vola di bocca in bocca, di balcone in
balcone. Dove i nostri cari si incontrano per raccogliere soldi tutti assieme o per cucinare per noi e i nostri fratelli
rinchiusi.
I nostri amici dovrebbero venire fuori dal carcere a salutarci, con botti e fischi, perché qui il tempo è una macina che
ti consuma lentamente e dieci minuti di euforia bastano a riempire tutta l’ora dopo.
Qua è uno schifo, ma niente giornalisti a testimoniare, grazie. Ci basta vedere le nostre facce stampate sulle pagine di
“Torino Cronaca”, quella rivista populista e forcaiola, per capire che sono tutti infami. E quelli che non lo sono, con
le belle parole non possono nulla. Niente associazioni né parlamentari europei, che restino all’”Arcobaleno” a far finta
che le Vallette sono il carcere migliore del Nord Italia.
Ci siamo solo noi e la nostra gente, nel bene e nel male, quando si gioisce e quando si patisce… quando si lotta.

novembre 2013
da www.autistici.org/macerie

***
[ …] Di scuola e attività varie non se ne parla, se non per pochi, e il lavoro (nonostante ci sia una graduatoria) viene
dato in base alle conoscenze e alle leccate di culo… un esempio: io che son qui da quasi un anno non sono mai stato
chiamato e alla mia richiesta la risposta è stata: “è presto, è poco tempo che sei qui”, per vedere dopo 2 giorni
persone che son qui da 2-3 mesi che col loro essere viscidi sono stati aperti al lavoro.
L’educatrice che dovrebbe starti dietro in tutta la carcerazione si fa aspettare almeno un mese ogni volta che chiedi di
parlarle, per poi dirti che non si può far nulla né per la scuola né per il lavoro.
Se vuoi vedere il dottore devi segnarti la mattina alle 8, e sperare che in giornata ti visiti, se stai male può darsi
che ti diano un brufen, un’ovvia soluzione a qualsiasi malanno! Inutile dire che dentisti e altri specialisti ti
visitano su richiesta con pause di 4-5 mesi…
Detto ciò passiamo a quello che mi interessava raccontarvi, cioè come sono realmente i detenuti… direi che possono
essere divisi così: 1/3 è completamente dipendente dalla terapia chi perché non vuole pensare chi perché i suoi amici
gliel’hanno consigliato e chi per puro sballo, questo terzo dei detenuti comunque sia è come se non ci fosse. 1/3 è
formato dai vari leccapiedi dell’ispettore e delle guardie. È riconoscibile dalla cella sempre aperta. Dalla possibilità
di andare su e giù per il blocco e dall’altissima possibilità di vederli negli uffici delle guardie, seduti con loro in
rotonda o alla macchinetta a prendere il caffè con loro. Riguardo questo terzo dei detenuti posso dirvi che sono
semplicemente porci senza divisa.
Il terzo rimanente è formato da persone fantastiche, solidali, amichevoli e sempre pronti a darti una spalla su cui
piangere o una guancia da colpire. Loro sarebbero dei perfetti compagni di lotta, il problema è solo convincerli che la
lotta è giusta e che si sta uniti non può succederci nulla… purtroppo tanti hanno paura del rapporto che ti fa perdere i
tanto ambiti 45 giorni di sconto al semestre o ancor peggio di essere impacchettati e mandati n un carcere più distante
che equivale ad avere i problemi per i colloqui con i parenti che magari non hanno la possibilità di venire fino a
chissà dove.
Tutto questo per dire che qua la voglia di cambiare le cose c’è, nella testa di tanti, ma manca una spinta, una spinta
vera che faccia scattare qualcosa nella testa di tutti, serve qualcosa che faccia tornare la voglia di dignità nelle
persone. Una volta fatto il primo passo sono sicuro che non si tornerà indietro e che quindi la lotta prenderà forma e
si potrà ottenere qualcosa.

novembre 2013

***
Alla cortese attenzione di: Ispettore capo blocco “C”; Direttore c.c. “Lorusso e Cotugno”;
Garante dei detenuti.
Egregi signori, da alcuni mesi in questo blocco si è evidenziata una delle più vecchie e contagiose malattie: la
scabbia. I primi detenuti ad aver contratto questa malattia, recandosi dal dottore del padiglione venivano congedati con
scuse e diagnosi inverosimili, quali punture di ragni, allergie intolleranze etc… questo fattore, ossia la non
professionalità e il menefreghismo del dottore e di tutta la direzione sanitaria, ha portato l’aggravamento di questa
situazione, portando un singolo caso (che con le dovute precauzioni sarebbe rimasto tale) a spargersi fino a diventare
una vera e propria epidemia.
Noi detenuti ci troviamo nostro malgrado a convivere e condividere cibo e spazi comuni quali aria, palestra, sezioni e
docce (per altro pulite a nostre spese) anche con chi ha già contratto la malattia, vivendo quindi in uno stato continuo
di paura per la salute nostra e dei nostri cari. Dei detenuti contagiati alcuni sono stati trasferiti in altre carceri
(e solo grazie a questo si è venuti a conoscenza di questa grave situazione), mentre altri sono stati vittime
dell’indifferenza, e alcuni di questi sono addirittura stati ammessi al lavoro di porta-vitto (quindi a stretto contatto
con il cibo) e di lavorante in genere.
Tutto ciò nonostante i sintomi della malattia fossero già evidenti. Non trovando accettabile tale situazione vi
ricordiamo che è un vostro dovere la tutela nostra e della nostra salute.
Risulta evidente che il servizio sanitario del padiglione “C” non è competente (in quanto al personale) né adeguato (in
quanto al servizio) e che questa tutela viene quindi a mancare, diventando così una violazione dei nostri diritti.
Con questa presente vi mettiamo quindi a conoscenza dell’inefficienza dell’organismo sanitario e delle precarie
condizioni igenico-sanitarie a cui siamo esposti noi, voi e i nostri famigliari.
Confidiamo quindi in un immediato intervento risolutivo da parte degli organi competenti, per far si che decada questa
situazione intollerabile e lesiva della dignità umana. Sicuri che questa situazione sarà risolta al più presto vi
porgiamo i nostri più cordiali saluti.

28 novembre 2013
I detenuti della casa circondariale “Lorusso e Cotugno” - padiglione “C”

da informa-azione.info

Da quanto ci scrivono l’ispettore a cui i detenuti hanno provato a consegnare la lettera non ha voluto neanche
riceverli. Al momento non sappiamo quale sia la situazione e quali forme di protesta abbiano intrapreso eventualmente i
detenuti.

SULLE MOBILITAZIONI DENTRO E FUORI A “LE VALLETTE” DI TORINO
17 novembre - Torino
Alla mattina durante il mercato abusivo di piazza dalla Repubblica, é stato distribuito un volantino sull’ennesimo
suicidio alle Vallette. Diversi passanti si sono fermati ad ascoltare gli interventi che si alternavano al microfono,
per ricordare il recente suicidio di un detenuto nel carcere delle Vallette a Torino. Segue il testo del volantino
diffuso.
Abdul Murat, un giovane algerino di 25 anni, si è impiccato alle sbarre della sua cella del carcere delle Vallette di
Torino la notte tra domenica e lunedì 11 novembre 2013. È morto perché un giudice lo aveva appena condannato a sette
mesi di galera per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale.
Non conoscevamo Abdul, ma conosciamo bene l’aria che si respira dentro una prigione: un’aria soffocante, la stessa aria
che si respira nei quartieri pattugliati dalla polizia. Non sappiamo perché Abdul sia stato condannato, ma sappiamo che
una denuncia per resistenza vuol dire che la polizia ha dovuto – o voluto – picchiarti per riuscire ad arrestarti.
Proprio come è successo il 2 novembre scorso in via Monte Rosa, nella Barriera di Milano. Non ci interessa se ci sarà
un’inchiesta sulla sua morte, perché nessun giudice sentenzierà mai la più tragica delle banalità: di carcere si muore.
Non abbiamo più lacrime per piangere, perché quello di Abdul è purtroppo solo l’ultimo, per ora, di una serie di decine
di morti dietro le sbarre, una vera e propria strage di Stato. Ma ci sono per fortuna delle prigioni dove tira un’aria
diversa. Nelle prigioni per stranieri senza documenti, per certi versi «peggio della galera» secondo chi le ha vissute
entrambe, sempre più spesso il fuoco delle rivolte e il vento delle evasioni offrono un’altra via d’uscita
dall’isolamento e dalla disperazione: la lotta per la libertà.
I ministeri degli Interni e della Giustizia fanno pagare un caro prezzo a chi, nelle prigioni e nelle strade, resiste al
loro gelido pugno di ferro. Un prezzo fatto da trasferimenti, arresti, ancora galera, e a volte la morte, come il prezzo
pagato da Abdul. Non conoscevamo Abdul, così come non conosciamo tutti gli internati e tutti i giustiziati dallo Stato.
Ma è come se li sentissimo tutti gridare, nelle prigioni e nelle strade, «o libertà, o morte!»

25 novembre - “Le Vallette”
Alle 11.15 il carrello del vitto passa lungo i corridoi del blocco B del carcere delle Vallette. L’odore di andato a
male volteggia nell’aria, chi riceve la carne ne osserva l’aspetto disgustoso, qualcuno avvisa gli altri di non
mangiarla. Dalla Decima sezione si inizia a battere. Da giorni il cibo è immangiabile. La Nona sezione si aggrega al
fracasso al grido «Il cibo scadente lo mangia l’assistente!». I detenuti della Nona lasciano i piatti fuori dalla cella.
In Decima buttano in corridoio di tutto, anche pezzi di materassi e strisce di giornale infuocate. Il baccano in Nona va
avanti per un’ora, in Decima fino all’una, imperterriti. Un graduato è costretto a salire in sezione e capire il motivo
della protesta: vengono aperte le celle di alcuni, questi ricevono la promessa di controllare assieme le cucine
l’indomani - il giorno dopo nessuno si farà vedere. Invece giù all’aria i battitori delle differenti sezioni
s’incontrano entusiasti, si salutano con uno scrosciante applauso e strette di mano. Nel cortile del passeggio si
abbozza un’assemblea. Che ne sarà del brodo colorato di domani?
4 dicembre - Torino
L’appello diffuso delle detenute dei Nuovi Giunti del carcere delle Vallette per denunciare le condizioni ignobili in
cui si trovano costrette dietro le sbarre ha ottenuto una discreta eco fuori dal carcere. Tanto che oggi, tra dirette
radiofoniche sul tema (su Radio Blackout a Torino, ma anche su Radio Onda Rossa a Roma, Radio Citta Fujiko a Bologna e
Radio Onde Furlane ad Udine) e comunicati di sostegno, un discreto gruppo di solidali si presenta davanti al femminile a
dar manforte all’annunciata battitura. Così, nonostante una nutrita presenza di sbirri preavvisati della situazione,
anche all’esterno si batte sui pali e si fa baccano per una buona mezz’ora. Dopo poco gli stessi solidali si presentano,
in barba a digossini e sbirraglia varia, anche davanti alle celle del maschile, dove i detenuti hanno aderito alla
protesta. La reazione dei reclusi è forte e rumorosa, tanto da scaldare il clima e i cuori. Si salutano Niccolò ed altri
amici che sono dentro, esplodono botti, risuonano urla ed insulti verso i secondini. Una giornata in cui si è aperta
qualche breccia, perché non si richiuda dovremo dare tutti del nostro meglio. Le stesse detenute, a quanto pare
impazienti di dare un po’ di sfogo alla propria rabbia, avevano inoltre fatto una battitura di uguale durata anche ieri
mentre i detenuti del carcere di Tolmezzo (UD), dal canto loro, accolgono l’invito e battono anche loro, dalle 16, in
contemporanea a Torino mantenendo così l’impegno che ci avevano comunicato in una precedente lettera:
“Dopo aver letto con attenzione lo scritto delle nostre compagne detenute e tutte quelle che si trovano in quelle
condizioni, posso fermamente dire che è un vero schifo, è molto straziante e mi ha fatto lacrimare il cuore nel leggere
quello scritto, ma purtoppo è una realtà che vivono quelle ragazze una tortura vera e propria, personalmente mi sto
impegnando a far girare per tutto l'istituto questo scritto e ti faccio sapere che molti amici sono d'accordo per fare
una battitura il 4 dicembre alle ore 16 per solidarietà alle nostre amiche”.

6 dicembre - Torino
«Il cibo scadente lo mangia l’assistente!»: riprendendo lo slogan coniato poco più di una settimana fa dai reclusi del
blocco B delle Vallette, una ventina di solidali con i prigionieri in lotta ha fatto irruzione questa mattina nella sede
di Ecosol, la cooperativa sociale che gestisce le cucine del carcere torinese. Megafono, volantini e striscione per
chiedere conto della pessima qualità del cibo fornito ai reclusi e per dare un’eco ulteriore (dopo le battiture fuori
dalle gabbie e le dirette radiofoniche dell’altroieri) alle proteste di queste settimane nelle sezioni maschile e
femminile dei Nuovi Giunti delle Vallette.
Non è certo un caso che la Ecosol sia parte integrante della Kairos di Mauro Maurino, il consorzio immischiato fino al
collo nel grande affare della gestione dei Cie.
Chi ha la vocazione per il business umanitario è un esperto innanzitutto di mascherature ideologiche e giochi di parole;
e così, come Maurino e compagnia coprivano sistematicamente le violenze della polizia a Gradisca sostenendo poi di stare
nei Cie soltanto per fornire servizi alla persona a uomini rinchiusi -, la Ecosol nelle cucine delle Vallette prepara
ogni giorno pasti scadenti per i prigionieri ma poi vanta in pubblico ricerca e selezione attenta delle materie prime,
frutta e verdura fresca di stagione, prodotti locali a filiera corta quando i prigionieri rimangono ai fornelli e a
mangiare sono invece gli invitati ai banchetti delle aziende per le quali fa catering con il servizio dal nome offensivo
di “LiberaMensa”.
L’unica risposta data ai dimostranti da una dipendente di Ecosol, questa mattina, è stata indicativa di un’inveterata
abitudine alla menzogna: «alle Vallette, da quando ci siamo noi, si mangia molto meglio». Le denunce dei reclusi uscite
in queste settimane sono abbastanza crude in proposito e poi vi basterà parlare con qualunque frequentatore abituale
delle Vallette (e ce ne sono parecchi sia tra chi legge questo blog che tra chi ci scrive sopra) per scoprire che là
dentro il cibo sia sempre stato una merda, sia prima che dopo l’ingresso di Ecosol nel 2005.
Dopo un po’ di discorsi al balcone, e dopo aver portato a Mauro Maurino il saluto dei reclusi di Bari Palese che con la
rivolta del 6 dicembre causeranno qualche ammanco di cassa per Kairòs-Connecting People, i manifestanti si sono spostati
a volantinare al mercato e si sono poi dileguati prima dell’arrivo della polizia.
Di seguito il volantino distribuito.

Che il cibo scadente lo mangi l’assistente (e il cooperante)
“Alimenti con corpi estranei all’interno” davanti ai quali è necessario “farsi coraggio e chiudere gli occhi per
buttarli giù”, cosi le prigioniere dei nuovi giunti del carcere delle Vallette descrivono le pietanze loro riservate
dalla mensa interna.
Entrando un po’ più nei particolari, dai nuovi giunti maschili ci informano poi che “il cibo che passano è a dir poco
immangiabile, le pietanze sono prive di sale e di olio che per noi sono un miraggio, le zuppe sono acqua sporca così
come il latte ed il caffè del mattino, le uova sode hanno il tuorlo “verde” e puzzano e infine la carne è rancida e
spesso cruda. Ogni tre per due qualcuno ha un infezione intestinale e ci sono alcuni detenuti che in una settimana
perdono fino a 5kg; i prodotti confezionati poi (come wurstel o mozzarelle) a volte sono quasi scaduti“.
Oltre alla qualità del vitto, il servizio e la gestione della mensa non fanno altro poi che peggiorare ulteriormente le
cose: “il vitto passa alle 11 cosi noi al nostro ritorno dall’aria alle 12 abbiamo nei piatti qualcosa di commestibile,
di cui non si capisce la fattispecie, messa a giacere per un’ora fino al nostro ritorno in cella e non mi sembra molto
corretto e igienico che io debba avere il vitto per un’ora dentro la cella senza neppur vedere cosa mi ci si mette
dentro“. E ancora: “i carrelli ed i contenitori non sono a norma mentre la domenica addirittura si salta il pasto della
sera, che viene rimpiazzato con due misere crostatine a persona.“
Evidentemente, come in ogni azienda che si rispetti, il primo interesse di chi gestisce la mensa del carcere di Torino é
quello di massimizzare i profitti risparmiando un po’ su tutto ciò su cui si può risparmiare: il cibo, le stoviglie ed
il personale, arrivando persino a tener chiusa la cucina di domenica sera, valutando che per chi é rinchiuso alle
Vallette due crostatine siano più che sufficienti.
Per questo motivo siamo qui, perché l’azienda in questione é la cooperativa Ecosol del consorzio Kairos, consorzio che
tra l’altro vanta una lunga esperienza nella gestione di luoghi di prigionia come i Centri di Identificazione ed
Espulsione per immigrati.
E pensare che nel loro sito internet parlando del loro progetto di ristorazione alle Vallette, sfacciatamente denominato
“Liberamensa”, quelli di Ecosol si vantano di aver ampliato la cucina del carcere e iniziato un servizio di catering
esterno per banchetti e cerimonie. Nei loro desideri, e non sappiamo se siano già riusciti a realizzarla, c’è poi
addirittura l’idea di aprire un ristorante all’interno del perimetro carcerario carcere aperto a una clientela esterna,
magari in cerca di qualcosa di nuovo.
Di certo i prodotti preparati per il catering e ipotizzati per il ristorante, non saranno neanche lontani parenti delle
schifezze riservate a chi non ha altre possibilità di scelta, i detenuti. Ma non poter scegliere non vuol dire dover
subire in silenzio. Così quando passa il carrello la mattina del 25 Novembre, giorno in cui forse più del solito
“l’odore di andato a male volteggia nell’aria, chi riceve la carne ne osserva l’aspetto disgustoso e comincia ad
avvisare gli altri detenuti di non mangiarla. Dalla Decima sezione allora si inizia a battere perché da giorni il cibo è
immangiabile. La Nona sezione si aggrega al fracasso al grido «Il cibo scadente lo mangia l’assistente!». I detenuti
della Nona lanciano i piatti fuori dalla cella. In Decima buttano in corridoio di tutto, anche pezzi di materassi e
strisce di giornale infuocate. Il baccano in Nona va avanti per un’ora, in Decima fino all’una, imperterriti.”
Noi oggi siamo qui per sostenere proprio quei detenuti che non sono rimasti a subire in silenzio. Per ribadire a loro e
a chi lucra sulla loro pelle che chi lotta non è mai solo.

7 dicembre - torino
Un’ottantina di persone, tra compagni, solidali con le lotte dei prigionieri, amici di reclusi, bambini, ad urlare
“Libertà!”. E a scriverla, questa benedetta parola, a lettere infuocate, nel pratone dietro al carcere delle Vallette.
Poi petardoni oltre le sbarre, fuochi d’artificio, slogan, musica, interventi al microfono per raccontare ai prigionieri
le ultime iniziative in città, leggere le lettere da dentro e per salutare amici e amici degli amici. Da parte loro, i
reclusi battono, urlano e fan quel che possono per comunicare; in tanti si affacciano al finestrone del blocco B per
denunciare ancora le condizioni di vita dentro; nei Nuovi Giunti i secondini fanno rientrare la gente nelle celle e
spengono la luce del corridoio per impedire ai prigionieri di parlare con i manifestanti; nel blocco C, più distante, la
gente brucia carte e pezzi di stoffa per farsi vedere e sentire.
Un paio d’ore, poi si saluta: è un “a presto”, di sicuro.

dicembre 2013, Estratti da autistici.org/macerie


lettere dal carcere “la Dozza” (Bo)
Un saluto a tutti… Ho ricevuto la vostra lettera e come sempre vi ringrazio per il vostro supporto e per la vostra
solidarietà. Ho letto lo stralcio della lettera dalle Vallette (e l’ho fatto girare un po’ in sezione). Ho avuto dei
brividi che mi sono arrivati fino al cervello. Tralasciando il fattore dei ruoli, non riesco proprio a farmi una ragione
di come si possa essere così indifferenti, insensibili, impassibili di fronte ad una sofferenza sotto qualsiasi forma si
possa presentare… a livello umano proprio. Si dice che ci siamo evoluti, che siamo esseri superiori… che stronzata
inverosimile! Noi umani siamo la razza più ignorante, incompetente e vigliacca. Per fortuna non si sono estinte quelle
persone che ancora portano il rispetto per il valore della vita e di ogni forma di libertà.
La realtà della Dozza è un po’ diversa dalle Vallette… mi spiego meglio: viviamo in celle 4mt x 3mt in tre: dei veri e
propri buchi in cui non riusciamo nemmeno a stare tutte in piedi perché c’è un impedimento nei movimenti. Non c’è posto
per depositare i generi alimentari, che depositiamo in ceste sovrapposte una sull’altra; tanto meno c’è posto per gli
effetti personali e gli indumenti (in quanto ci sono solo due armadi grandi). Abbiamo una sola finestra che non si
chiude bene e ci sono infiltrazioni d’acqua quando piove, per cui siamo costrette ad ingegnarci, mettendo degli
asciugamani. Anche gli spifferi sono un problema per chi ha il letto proprio sotto la finestra, perché è direttamente
esposta alla corrente.
Nel bagno non c’è la finestra, ma una ventola che si attiva in orari prestabiliti, vi lascio immaginare quanto possa
essere scomodo e imbarazzante. Dal lavandino non esce l’acqua calda e ci ritroviamo a dover utilizzare il bidet per
lavarci i denti, il viso, i piatti, i vestiti e naturalmente adoperarlo anche per l’igiene personale… Parecchio
degradante direi. Siamo fortunate ad avere la doccia in cella con temperatura regolabile, però… c’è un però… non c’è un
adeguato scarico, quindi l’acqua si accumula e fuoriesce dal bagno alla cella.
A causa dell’umidità i muri gocciolano d’acqua e tra il materasso e la branda si forma uno strato di bagnato. Il
pavimento è di cemento e si crea continuamente polvere, che a molte di noi dà allergia sia a polmoni e bronchi che
all’epidermide.
Da tre mesi c’è una donna di 58 anni anoressica e affetta da HIV e altre patologie, che si lamenta continuamente per i
dolori al piede affetto da un’ulcera e che viene pressoché ignorata o offesa. Necessita della sedia a rotelle per
muoversi e nonostante tutto ha avuto un rigetto alla richiesta di libertà, perché, dicono, che non c’è una struttura
disponibile ad accoglierla. In sezione ci sono anche bambini piccoli e le madri sono terrorizzate dalla sua presenza e
molto accuratamente tengono i loro bimbi a distanza di sicurezza. E la signora si ritrova a vivere in un contesto triste
e solitario.
I medici sono poco presenti (tre volte la settimana), in casi estremi l’intervento degli infermieri arriva in notevole
ritardo.
Ah! Il riscaldamento è assente nei mesi più freddi, in quanto la caldaia esterna si congela.
Gli educatori “unico riferimento per i definitivi, per permessi e relazioni (sintesi)” non riescono a seguirci tutte.
Abbiamo una palestra con tanti attrezzi, tutti fuori uso. Ci sono stati ingenti tagli sulla fornitura. Le nuove giunte
devono fare il test della TBC e di solito passano una ventina di giorni in isolamento, fino all’arrivo delle analisi.
In questo momento non hanno niente, né stracci per asciugare i piatti né detersivi in celle povere e sporche.
I turni di lavoro sono a rotazione semestrale, la busta paga è misera, e si lavora sempre più ore di quelle
prestabilite. I corsi sono pochi, a numero chiuso e non ciclici.
Di certo anche qui molte cose raddoppiano la pena, perché oltre alla quantità dobbiamo fare i conti con la qualità del
tempo che dobbiamo scontare. Sinceramente penso che non potrà andare avanti così ancora per molto… Le persone sono
stanche della triste realtà sia quelle fuori che quelle dentro. Povertà, sofferenza, controllo, schiavitù, dominio,
manipolazione ecc… tutto ciò che le autorità hanno fatto e stanno tutt’ora facendo gli si rivolterà contro. Le persone
si ribellano e si ribelleranno. È matematicamente impossibile mantenere un perenne controllo su un qualcosa che è in
continuo mutamento. Ed è l’augurio che faccio a tutti/e i/le mie/i compagni liberi nell’anima e ribelli nello spirito!
Vi abbraccio forte, Vanessa.

Bologna, 25 novembre 2013
***
[…] Vorrei spiegare le motivazioni del mio trasferimento a Bologna… Mi ero fatta “giustizia da sola” su un’infame che
riferiva tutto alle guardie. Il bello è che ce l’avevo in cella. Ho ripetuto più volte di togliermela dalla cella e,
visto che si trovava così bene con le divise, se la potevano pure tenere in guardiola a dormire. Non essendo stata
ascoltata e non volendo assolutamente respirare la stessa aria di un’infame l’ho fatta andare via a modo mio dalla
cella.
Tutta la sezione era più che solidale nei miei confronti e nessuno la voleva, così l’hanno sbattuta nelle celle del
piano inferiore in isolamento. Tra tutte però, ero io la spina nel fianco, la “presenza scomoda”, e hanno preferito
trasferire me.
Eh! L’uccellino fa comodo e poi l’infame è di famiglia importante, sarebbe stato “compromettente e inopportuno” il suo
trasferimento – testuali parole dell’agente che mi ha scortata per la traduzione.
Chi ha spinto per il mio trasferimento è stata la comandante, pensate… andando addirittura contro al parere contrario
della direttrice…
A volte mi pongo un dubbio: non se provare rabbia contro gli organi penitenziari o pena, perché li vedo… li vedono che
ci credono in quello che fanno, mentre io li guardo e vedo solo degli esseri ridicoli. Allora giungo a questa
conclusione… Provo pena, per la loro ignoranza e rabbia perché devo averci a che fare tutti i santi giorni da 4
fottutissimi anni. Molte cose che leggo negli opuscoli mi fanno male perché provo un senso di impotenza oltre ogni
limite. Purtroppo non so nemmeno da dove partire per migliorare questa triste realtà, ma quel che è certo è che una cosa
positiva c’è per nell’aver vissuto questa esperienza. L’aver conosciuto i ragazzi/re di Giùmura di Forlì… Un grazie a
loro per avermi aperto gli occhi e avermi presa per mano, accompagnandomi nell’abbattimento di stereotipi correnti e
nella presa di coscienza sui meccanismi subdoli che mirano al controllo e alla manipolazione delle nostre vite.
Ci siamo risvegliati dalla realtà apparente e molti altri faranno dopo di noi… più saremo e più diventeremo forti per
continuare a lottare contro tutto ciò che non è libertà!!!
Un abbraccio forte!

Bologna, 8 novembre 2013
Vanessa Bevitori via del Gomito, 2 – 40127 Bologna

***
Siamo state portate il 30 settembre 2013 nel carcere della Dozza a Bologna.
Ci siamo conosciute tramite un amico comune più o meno un mese prima del nostro arresto. Ci stavamo frequentando.
Durante la prima settimana di isolamento abbiamo fatto la domandina per essere messe nella stessa cella, in quanto
legate da questa spiacevole esperienza, per sostenerci da più vicino nel percorso che ci apprestavamo a vivere.
Passata la settimana di isolamento veniamo messe in celle diverse con altre detenute, ignorando la nostra richieste e
senza darci alcuna spiegazione.
Iniziano a circolare voci da parte di alcune alieni che dicono di averci trovate in situazioni equivoche, che ci siamo
spudoratamente baciate, ma questo non è mai avvenuto, se non qualche abbraccio o, massimo, tenerci per mano.
Passato un mese dal nostro arresto si libera un posto nella sua cella, facciamo un’altra domandina, pensando che essendo
passato del tempo le cose potevano essere cambiate, ma nulla da fare.
Chiedo di essere ricevuta dalla sovrintendente. Per giorni si è fatta negare, nonostante avessimo fatte diverse
domandine scritte. Niente, indifferenza completa. Chiesi di parlare con l’ispettore, sperando che lei mi volesse
ascoltare, darmi delle risposte e per fornirle delle ragioni per le quali desideravamo stare nella stessa cella. Ci ha
ricevute e lo stesso giorno ci ha fatto fare la domandina che ci ha portato ad avere una piccola soddisfazione, contro i
pregiudizi della sovrintendente. Adesso siamo nella stessa cella dopo due settimane di inutili richieste.
PS. C’è molta discriminazione per l’omosessualità, molti trasferimenti avvengono per dividere persone che si vogliono
bene e che devono stare attente a dimostrarselo, per non rischiare denuncie per atti osceni in luogo pubblico e
l’allontanamento.

Bologna, 25 novembre 2013
Nicole Cardi via del Gomito, 2 – 40127 Bologna

***
Ciao a tutti, sono Sonia. Grazie per la grande forza che dimostrate a tutti noi detenuti in queste galere, per la
possibilità di far uscire la nostra voce, a raccontare liberatamente le nostre disavventure carcerarie ma soprattutto
giudiziarie. Non mi vergogno di aver raccontato il mio calvario giudiziario né di aver contribuito alla solidarietà
umana fra e con noi detenuti.
Cercare attraverso un tam-tam di notizie, voci e angosce di fare trapelare questo mondo fatto di illusioni, ipocrisie,
idealistico strumentale, tra politici corrotti e finti p.m. e giudici, dove il loro volere è legge, imposizione, attenti
ad impartire pene o detenzioni senza giusta causa o peggio, solo per pochi mesi, intenti a risolvere i problemi con la
“custodia cautelare”, ignorando la dignità di un essere umano, i politici! Intenti ad elargire illusioni, false speranze
per tutti coloro che sperano in una casa, in una pensione nel vivere, mentre grazie a loro si ritrovano o per un modo o
per l’altro in galera solo perché dovevano sfamare o aiutare la famiglia a viver meglio.
Grazie a tutti voi di credere in noi e per quanto può sembrare strano! Tutti noi detenuti abbiamo realmente qualcosa da
poter insegnare oltre a quanto abbiamo imparato.
Grazie a voi e attraverso questi opuscoli possiamo far girare nonché divulgare le nostre storie di vite. Ho letto
l’opuscolo dove avete inserito il mio pensiero. La speranza è che tutto possa essere riconosciuto un domani da coloro
che illudono ad una società migliore.

25 novembre 2013


Lettera dal carcere di S. Gimignano (siena)
[…] Ti sto scrivendo con un po’ di ritardo solo perché prima volevo informarti com’è qui la situazione, essendo che
c’erano dei cambiamenti in corso. Siamo stati spostati nel reparto dei “comuni”, composto da 6 sezioni (300 posti) che
stanno riempiendo con detenuti trasferiti anche dalle carceri di Milano; mentre i “comuni” sono stati spostati nel
reparto AS composto da sole 2 sezioni (100 posti).
Perciò la situazione è molto peggiorata. Sono stato spostato da un canile in un vero e proprio campo di sterminio. C’è
un passeggio in cui a ogni detenuto toccano 50 cm di spazio – un cane deve avere 12 mt. Insomma non si capisce il motivo
di questo cambiamento così animalesco. Le celle sono troppo strette anche per un solo detenuto, i gabinetti sono piccoli
e chiusi e i loro respiratori sono rotti, non funzionano, rimane una puzza irrespirabile.
Credimi, vivere è una tortura. Come può cambiare un lager da un giorno all’altro è incredibile. Si parla di umanità,
mentre so torturano i detenuti, sinceramente non riesco a comprendere nulla. Per esempio, devo chiedere di nuovo i
permessi (colloquio, liberazione anticipata ecc.); mi hanno detto “se ne parla il prossimo anno”. La solita tattica
“trita tutto” usata dallo stato: fare passare del tempo, più tardi esci più vecchio sei…
Ora vi abbraccio tutti…

fine novembre 2013


carcere di OPERA MODELLO DI TORTURA
La presentazione – a Palazzo Reale, il 30 novembre – dei laboratori “Leggere Libera-mente” è un’occasione per
smascherare i tentativi di far passare quello di Milano-Opera come un carcere modello improntato sull’ “umanizzazione”
del trattamento penale e sul “benessere relazionale dei detenuti”, per dirla con le parole del direttore di Opera (vedi
prefazione al libro “Carcere e trattamento in Alta Sicurezza”, Franco Angeli, 2012).
Senza nulla togliere alle buone intenzioni di chi organizza o partecipa a questi laboratori di “scrittura creativa” non
possiamo che guardare all’iniziativa di Palazzo Reale come al tentativo di mistificare la realtà e non ci riferiamo alle
conseguenze pratiche del sovraffollamento carcerario e dei tagli alla spesa pubblica che accomunano un po’ tutti i
penitenziari d’Italia.
Molte in questi anni sono state le testimonianze che descrivono quello di Milano-Opera come un carcere improntato
sull’isolamento, sul ricatto e sull’intimidazione. (Su questo parlano chiaro i brani di lettere dall’interno che uniamo
a parte.)
L’inaugurazione, nel 2007, di una delle più grandi sezioni destinate a reclusi in regime di 41bis, il cosiddetto carcere
duro, ha consolidato la “massima sicurezza” quale elemento caratterizzante la vita interna a Opera. Non è un caso che a
dirigere questo istituto sia stato messo Giacinto Siciliano, già direttore del carcere di Sulmona (AQ), meglio noto come
il “carcere dei suicidi”, sbirro di comprovata fiducia ultraventennale del Ministero della giustizia, in particolare del
Dipartimento dell’Amministrazioni Penitenziaria (DAP, organo supremo delle carceri).
L’iniziativa del 30 novembre a Palazzo Reale si pone in continuità con altre dello stesso tenore tenutesi a Milano nei
mesi passati e finalizzate a dipingere Opera come un carcere modello. Un’operazione che potrebbe anche giustamente
passare nell’indifferenza dei più se non avesse conseguenze ben più preoccupanti che quella di ridare la verginità
perduta al direttore Siciliano.
Infatti, in questi ultimi anni, sulla spinta di politiche emergenziali che producono leggi emergenziali, rispetto a
“mafia”, “terrorismo”, immigrazione soprattutto se “clandestina”, la riorganizzazione del sistema penitenziario ha fatto
e fa ricorso a forme di detenzione in cui tortura e morte sono diventate norma. La tortura mirata a produrre
collaborazione, istituzionalizzata con l’introduzione e la stabilizzazione dell’art.41bis dell’Ordinamento
Penitenziario, si è via via estesa ai circuiti speciali cosiddetti di “Alta Sicurezza”, ai Centri di Identificazione ed
Espulsione (CIE), fino a rafforzare la differenziazione attraverso criteri sempre più discrezionali tesi a consolidare
il potere delle guardie e di conseguenza paura e sottomissione nei prigionieri. Così, nel carcere di oggi, è
quotidianità per chi si ribella, per chi difende la propria dignità, sopratutto se cerca di agire insieme ad altre/i,
per chi “non è figlio/a di nessuno”, essere colpito con l’art. 14bis, cioè finire per mesi in isolamento in cella senza
null’altro che la branda, essere trasferito a chilometri di distanza dai propri affetti, avere la censura sulla posta
spesso nemmeno consegnata e spedita, vedersi ridurre le ore d’aria e dei colloqui, trovarsi a elemosinare un libro da
tenere in cella. Questo, e ancor peggio, è anche il modello applicato nel carcere di Milano-Opera, contro il quale nel
settembre scorso, e ancora in queste settimane, ci sono state azioni di protesta collettiva e individuale.
L’operazione di dare una percezione di “apertura” del carcere di Opera e del suo direttore, è parte dell’ipocrisia
assassina che da sempre i carcerieri adoperano per nascondere la realtà. Oggi, in particolare essa è funzionale alla
riorganizzazione del sistema penitenziario in sé a partire dai circuiti cosiddetti di Media Sicurezza, che riguardano la
gran parte della popolazione detenuta. Una falsificazione tesa ad attrarre capitali privati, a favorire
l’esternalizzazione/privatizzazione delle funzioni accessorie ed in parte di “custodia”, a “razionalizzare” la spesa, in
vista di un sistema penitenziario maggiormente articolato e complesso dove la mobilità del detenuto attraverso la fitta
rete dei circuiti detentivi differenziati è regolata da rinnovati dispositivi premiali e punitivi fissati e applicati su
decisione dell’onnipotente DAP.
Il carcere di Milano-Opera ha un peso di non poco conto nell’orientamento di queste politiche essendo uno dei più grandi
d’Europa, contenente tutti i circuiti differenziati, nella regione d’Italia col più alto numero di detenuti (un decimo
del totale, circa 10mila) e la decisione di ampliarlo ulteriormente con un nuovo padiglione da 450 posti (costruito sul
campo da calcio) lo conferma.
Una decisione che rientra all’interno di un programma più vasto di sviluppo dell’edilizia penitenziaria avviato nel 2008
e che entro il 2016 dovrebbe portare ad un aumento di 12 mila posti detentivi tra nuove carceri e nuovi padiglioni in
carceri già esistenti per un totale di spesa di mezzo miliardo di euro che si vanno ad aggiungere ai circa 3 miliardi di
euro spesi ogni anno… mentre per le case popolari, gli asili, le scuole, gli ospedali… ci sono solo tagli, aumenti dei
prezzi, licenziamenti… insomma il disastro sociale che lo stato cerca di imporre, reprimendo, soprattutto con il
carcere, chi, nelle maniere più diverse si ribella, sciopera, resiste. Inevitabilmente la lotta contro il carcere è
parte della lotta generale contro lo stato che vuole imporre con le guerre d’aggressione e saccheggio, morti, razzismo,
miseria e sfruttamento.
Sosteniamo nelle forme di solidarietà più diverse le lotte di chi in carcere si organizza e resiste, dimostrando in tal
modo la possibilità della lotta più generale, la determinazione necessaria per la sua avanzata.
Sabato 30 novembre dalle ore 10, davanti a Palazzo Reale
- per denunciare le politiche assassine portate avanti dal DAP
- per contrastare i progetti di sviluppo dell’edilizia penitenziaria

Milano, novembre 2013
OLGa - olga2005@autistici.org

***
Allegate al volantino abbiamo riportato alcune lettere ricevute da Opera che parlano di persone tenute senza cure
mediche anche quando ne hanno estrema necessità, parlano di posta bloccata, di pubblicazioni (come il nostro opuscolo)
che non vengono consegnate per mesi, di continue umiliazioni e soprusi, di un campo da calcio che sparirà per vedere al
suo posto nuove gabbie, di parenti che attendono ore ed ore per poter fare un’ora di colloquio super-controllato, di
largo uso dell’isolamento applicato col 14bis.
Ci siamo presentati davanti a Palazzo Reale con lo striscione “Carcere di Opera-Modello di tortura” ed un volantino con
le lettere dei detenuti che da Opera riescono a scriverci e qualcuno di noi ha presenziato all’interno della sala
(cercando una discussione solo interrompendo le evidenti menzogne che raccontava il direttore). Altri/e avrebbero voluto
entrare, ma essendo troppo “conosciuti” alle forze dell’ordine come oppositori al carcere, sono stati bloccati.
Nonostante ciò la discussione con chi si recava in sala, soprattutto volontari/e ha suscitato, pur nelle diversità,
conoscenze, reciproche curiosità da prendere in considerazione per l’estensione necessaria allo sviluppo della lotta
generale contro il carcere.
Milano, 1 dicembre 2013


Lettera dal carcere di Rossano (cs)
Qua all’AS2 (isolamento) hanno iniziato i lavori, al primo piano ormai da un mese. Tra qualche giorno ci faranno
scendere di piano per completare l’inutile opera e spreco di fondi. Sappiamo bene che in carcere le apparenze ingannano,
e che quando si fa qualche lavoro o cambiamento i primi che ci devono guadagnare sono loro e raramente i detenuti.
Ebbene “non si sa” perché hanno deciso di mettere le docce, di trasformare due celle in una saletta e di mettere tre
telecamere per piano quando le nostre richieste, da sempre, sono quelle di buttare giù un muro per allargare il
passeggio così da permetterci di fare una semplice partita di calcio o una corsetta per alleviare i dolori alle
articolazioni (ora non si potrà più neanche uscire per andare in doccia) visto che il campo sportivo è solo ad uso
esclusivo per gli italiani o comunque basta non essere musulmani come noi. A noi non è permesso uscire alla luce del
sole, trattati come esseri inferiori, come formiche. Forse temono che all’improvviso ci crescono le ali e voliamo via.
Visto che per la natura dei nostri “reati” c’è un grande business sulle nostre spalle, e chi finanzia la guerra al
terrorismo islamico non lascia mai gli alleati a tasche vuote, specialmente o allo stesso modo, l’istituto che deve
tenerci, il quale, a costo di non perdere questo prezioso bottino, che siamo, cerca di far passare un isolamento AS2
come uno spazio cosparso di rose e fiori. Da qui possiamo così capire che i fondi ci sono e ci sono sempre stati, ma non
vengono usati per noi.
Ci fanno lavorare per tenerci calmi, mentre ci hanno tolto tutto il resto. Ma si lavora per vivere. Qui non è così, o
almeno non lo è per me dato che non ho né moglie né figli da mantenere. La cosa che mi interessa è invece completare la
scuola visto che ho 22 anni, ma alla richiesta mi è stato risposto “allora, l’AS2 qui non fa scuola”. Prima, causa di
ciò, dicono, è che i docenti che hanno paura di noi; seconda, è dei fondi che non ci sono.
Sono in attesa del processo d’appello che ho il 21 febbraio 2014, dopodiché se qui non cambia questa discriminazione me
ne vado da un’altra parte.
Chiedo scusa se mi sono dilungato, ma le cose da dire sono sempre tante, e non dobbiamo temere a dirle, perché la verità
va detta. Non pensavo che vi avrei riscritto così velocemente, ma qualche giorno fa nel battibecco tra me e un
ispettore, che forse credeva di intimidirmi, mi ha fatto pesare il fatto che lavoro, dicendomi che nel mio paese c’è chi
muore di fame; mi ha inoltre detto che aveva letto la mia lettera su ampi orizzonti – ho così saputo che abbiamo un
lettore in più.
Vi saluto calorosamente sperando che questa lettera (raccomandata) arrivi intera, e che il prossimo opuscolo me lo
consegnino una volta letto; che non se lo tengano come il precedente. A presto! Mohamed

Rossano 28 novembre 2013
Jarmoune Mohamed, Contrada Ciminata Greco, 1 – 87067 Rossano Scalo (Cosenza)


Lettera dal carcere di Teramo
Carissime/i compagne/i, fratelli e sorelle carcerate/i, dalla corrispondenza che intrattengo con tanti detenuti e da
altre letture, possiamo affermare che la mobilitazione indetta dal coordinamento sia andata benone. La risposta dei
detenuti è stata forte e l’appoggio degli antagonisti fuori queste mura non si è fatta mancare; dopo anni e anni di
immobilismo, qualcosa si è mosso e ciò sta a significare che non siamo morti, anzi!
L’obiettivo di tenerci sedati e al guinzaglio è venuto meno ed ora possiamo solo avviare un’attenta analisi per capire
come lavorare ad una nuova mobilitazione più partecipata e incisiva. Sappiamo benissimo tutti che darsi da fare e
organizzarsi all’interno di queste mura è difficilissimo e metterci la faccia comporta trasferimenti o punizioni di ogni
genere. Io sono uno di quelli che è stato preso come promotore e trasferito di carcere, ma non per questo sono riusciti
a fermarmi. La mia voglia di cambiare questo sistema inumano è aumentata e da questa convinzione mi rivolgo a tutti voi
affinché il vento di protesta non sia fermato.
Stiamo lottando per rivendicazioni sacrosante quindi non abbiate paura, rendetevi liberi nel cuore e nella mente,
contribuendo a future, eventuali, nuove iniziative.
La differenza la può fare chiunque, basta “lavorare” in ogni carcere, parlando con gli altri detenuti di quelli che sono
i problemi, evitando di passare intere giornate a disquisire di indulto o amnistia, Con queste false speranze ci stiamo
limitando ad aspettare la manna dal cielo, quando invece dovremmo, se veramente vogliamo l’indulto o l’amnistia,
spingere dall’interno con qualunque mezzo a nostra disposizione.
Chiedo a tutti i detenuti di ogni carcere d’Italia (soprattutto a quelli delle grandi città) a non restare indifferenti,
è assurdo che ad esempio a Napoli, Roma, Palermo, Bari ecc. ecc. non abbiano appoggiato la protesta di settembre 2013.
Soprattutto voglio lanciare il mio appello ai comunisti, ai movimenti, agli antagonisti e alle persone di buona volontà
a fare proprio il tema anticarcerario. Non possiamo lasciare soli i fratelli anarchici a portare avanti la lotta. Anche
noi comunisti dobbiamo condividerla. Non basta dire combattiamo la repressione se poi dinnanzi alla massima espressione
della stessa ci posizioniamo nelle retroguardie. Se vogliamo tornare a guidare il malessere popolare ed essere
protagonisti di una nuova stagione di lotta, dobbiamo iniziare a muoverci contro chi ci sbarrerà la strada e vorrà
soffocare la rivoluzione, sbattendoci in carcere.
Iniziamo quindi a stringerci attorno a chi vive questa realtà e, permettetemi di dire che è necessario anche costruire
una manifestazione nazionale contro la repressione dei movimenti e quindi l’utilizzo arbitrario del reato di
devastazione e saccheggio.
Uniamo le nostre forze, abbiamo numeri e capacità organizzative che possono dare risposte concrete a coloro che da
sempre vogliono annientarci.
Sbarrate il corso di un fiume e avrete un’inondazione, sbarrate l’avvenire ed avrete la rivoluzione! Non un passo
indietro!

17 novembre 2013
Davide Rosci, Carcere Loc. Castrogno 64100 Teramo


lettera dal carcere Pagliarelli di Palermo
Cari compagni/e, oggi ho ricevuto tutto (catalogo, 3 libri, bolli e buste + lettera) con la solita prassi del cazzo per
poterli avere. Il vostro impegno solidale che riesce a penetrare in questo isolamento è una ricchezza infinita! Di cui
ovviamente ne faccio tesoro! Non vedo l'ora che si realizzi l'opuscolo in merito alla mobilitazione di settembre, per
fare alcuni chiarimenti, con l'intento di avanzare con più determinazione! Ho capito che la direzione del carcere se lo
reputa, può fottersene delle disposizioni ministeriali, come fa per qualsiasi altra cosa. Alla fine 2+2 fa sempre 5! Ci
sentiamo alla prossima, vi mando anche il verbale di trattenimento (in allegato ci ha inviato copia del Verbale di
trattenimento corrispondenza epistolare), sempri ainnantis! Vi abbraccio tutti/e!

Presoni 13 novembre 2013
Davide Delogu, Via Bachelet, 32 - 90129 Palermo


Lettera collettiva dal carcere
Il coordinamento dei detenuti nato in maniera spontanea nelle carceri italiane per solidarietà alla manifestazione
nazionale di Parma contro il carcere, la differenzazione, il 14 e il 41 bis è riuscito grazie alla mobilitazione di
settembre ad abbattere il vergognoso muro di silenzio in cui il carcere viveva negli ultimi decenni. Per la prima volta
dopo vent'anni i detenuti hanno preso di loro iniziativa, collegandosi e confrontandosi tra loro, la parola indicendo
una protesta che ha coinvolto contemporaneamente 4 carceri con un'adesione collettiva e molti altri con un'adesione
singola o di piccoli gruppi.
Per far si che questa esperienza possa crescere e radicalizzarsi all'interno dei vari istituti di pena diventando una
vera e propria voce e strumento di lotta dei detenuti è necessario far partire un dialogo in più carceri possibili per
creare un foglio d'intenti e d'azione comune a tutti. Richiediamo a tutti di far partire una discussione nel proprio
istituto e a portare la propria esperienza.
Ricordiamo i punti salienti del coordinamento sin dalla sua nascita:
Il coordinamento è di tutti i detenuti, di qualunque religione o cittadinanza, chiunque può riferirsi al coordinamento
per azioni contro il carcere e per rivendicare i diritti dei detenuti.
Il coordinamento ritiene il carcere come un mezzo di tortura, per questo lo combatte, vedendo in esso un contenitore di
tutti i problemi sociali creati da questa società e che la stessa non vuole risolvere ma nascondere e reprimere.
Il coordinamento ritiene che qualunque detenuto debba essere visto come individuo attivo della società e per questo gli
si dovrebbero riconoscere tutti i diritti umani oltre a tutte le attività che gli necessitano per farlo realizzare
pienamente (ricordiamo come la nostra costituzione preveda che la pena sia riabilitativa e non punitiva come purtroppo
è).
Nella mobilitazione di settembre protestavamo contro il sovraffollamento intollerabile, la speculazione sul prezzo della
merce, lo sfruttamento dei detenuti "lavoranti", chiedendo inoltre l'abolizione della legge Cirielli, il rispetto delle
norme igienico-sanitarie, l'abolizione dei regime 14bis, 41bis e AS oltre alla possibilità di poter vivere i propri
affetti anche da detenuti.
Partendo da questi punti vorremmo andare avanti insieme a più detenuti possibili con mobilitazioni nazionali e attività
di solidarietà a qualunque carcere entri in lotta.
Troviamo ogni maniera possibile affinché alla chiamata-discussione prendano effettivamente la parola tutte e tutti le
persone che nelle carceri oggi si ribellano, si battono, protestano nei modi più diversi.
Il primo passo per spezzare le catene del carcere è rompere il muro dell'indifferenza, del rapporto individualizzato con
i carcerieri, che loro tendono continuamente a imporre.
La solidarietà è un'arma facciamola nostra, usiamola.

dicembre 2013


SULLA MOBILITAZIONE DI SETTEMBRE DEL COORDINAMENTO DEI DETENUTI
- Si è verificato un indubbio fatto positivo: per la prima volta dopo alcuni decenni di assoluto mutismo da parte dei
detenuti, dal carcere si è levato in maniera sia collettiva che individuale una decisione di lotta contro la struttura
stessa. Nonostante le grandi difficoltà che comporta la comunicazione tra i detenuti di diversi istituti di pena,
almeno in 5 carceri si sono svolte, in maniera diversa ma collettiva, prese di posizione e proteste diverse a seconda
dei casi (battiture, scioperi dell'aria, del carrello e della fame etc.). In una decina di altri carceri i detenuti
hanno aderito alla protesta in modi e maniere individuali. E' bene evidenziare che la protesta poneva al centro
l’esortazione a mettere fine a isolamento, prepotenze, angherie, pestaggi, morti-uccisioni… assieme al miglioramento
della quotidianità (dal cibo al vitto, dai prezzi sempre elevati degli acquisti alle carenze igieniche, sanitarie…) e
non un’amnistia o un'indulto perché usabili a fini elettorali dalle sanguisughe del palazzo, che comunque, ha chiuso in
quel senso ogni strada.
- Detto ciò, bisogna comunque evidenziare i lati negativi affinché questa esperienza possa crescere e consolidarsi nel
percorso di lotta alla repressione e in particolare alla sua estensione: il carcere. Di sicuro le difficoltà di
comunicazione tra le varie carceri non hanno aiutato. Questo è un ostacolo da superare trovando altri metodi di
comunicazione oltre a quelli epistolari (es. avvocati, familiari ai colloqui), anche aprendo un facebook. L’esperienza
della comunicazione diretta fra interno e esterno che ha dato vita alle battiture iniziate ai primi di dicembre alle
Vallette rappresenta un esempio concreto da seguire.
- Bisogna dar vita alla comunicazione diretta interna per cogliere, definire bene gli obiettivi principali e il modo di
conquistarli, magari lavorando nello stesso tempo a una carta d'intenti e d'azione. Ci sono tanti obiettivi concreti da
risolvere, sia su problematiche interne che giuridiche (riduzione delle pene, cancellazione della Cirielli, contro il
“reato di clandestinità”… senza perdersi in discussioni su amnistia e indulto.

Milano, novembre 2013

***
Curato dall’Assemblea contro il carcere e la repressione, é in preparazione un lavoro di resoconto e bilancio della
mobilitazione di settembre. L’opuscolo sarà pronto a gennaio prossimo e può essere richiesto a:

Ass. Culturale Nicola Pasian, Via Varese 10 - 35100 Padova


Lettera dal carcere di Rebibbia (RM)
[...] Da tempo l'Europa ci richiama per i tempi lunghi dei nostri tribunali sia penali che civili e ci minaccia e
commina pesanti sanzioni pecuniarie.
Nello stesso tempo la Corte di Strasburgo funziona peggio di una lumaca e posso testimoniarlo di persona. Da oltre 4
anni, dopo che il mio ricorso è stato dichiarato ricevibile in tutti gli spunti di violazione del diritto alla difesa,
sono in attesa di una pronuncia definitiva ed è un'attesa imbarazzante perchè da allora sono ospite dello stato nel
carcere di Rebibbia. [...]

Roma, 10 dicembre 2013
Achille Della Ragione, Via Majetti, 70 - 00156 Roma


Lettera dal carcere di Ferrara
A sentire le lettere di altri compagni rinchiusi nelle altre carceri d’Italia non fa che venir voglia di continuare a
lottare e andare avanti a testa alta!
In particolar modo colgo l’occasione per poter salutare il mio caro amico Nicola Amoroso e Maurizio rinchiusi nel
carcere di Spoleto. Saluti dal “conte”! lui sicuramente ricorda.
Che posso dirvi di me? Sto abbastanza bene e passo le mie giornate occupandomi più che posso a fare cose che mi possano
far scorrere più veloce questo tempo represso!
Ora mi hanno messo di commissione in cucina, ma il cibo scarseggia sempre, e le pietanze sono sempre uguali; persino il
latte alla mattina è contato e lo allungano con l’acqua!
Ho una gran vergogna a sapere che ho qua i due anarchici che saluto con onore e rispetto: Alfredo e Nicola, chiusi in
isolamento da solo, di fronte all’infermeria. Isolati da tutto e da tutti…fanculo! Tanto di cappello.
Ci sono e ci sarebbero da dire cose e ancora cose, ma purtroppo siamo sempre in pochi e sparpagliati gli uni dagli
altri!
Poi sono amareggiato del ragazzo ucciso nel carcere di Poggioreale (Napoli), con patologia non idonea a stare in
carcere. Morto, perché oltre alle botte ricevute non è gli è stato trapiantato il fegato, visto che aveva e soffriva di
cirrosi epatica! Pietà merde!
In ultimo vi saluto e vado avanti per la mia strada, augurando che presto prendano seriamente in questione la faccenda
di questo indulto, che gioverebbe soprattutto a noi e l’Italia non avrebbe ulteriori questioni con Strasburgo.
Scrivetemi, mandatemi notizie dalle altre carceri…saluto infine il mio amico Salvatore Romano recluso a Opera…vi verrò a
trovare, ciao Alessandro.

Ferrara, 4 dicembre 2013
Alessandro Chiappatti, via Arginone 327 – 44122 Ferrara


lettera dal carcere di terni
Un argomento sul detenuto Federico Perna, deceduto l’8 novembre 2013
Il quotidiano “La stampa” riportava la data del decesso del detenuto l’8 novembre, ma la notizia è stata data dopo l’8
novembre solo perché la mamma di Federico Perna si è rivolta al quotidiano, in cui tra l’altro si suppone che il
detenuto abbia subito un pestaggio. Un altro caso Cucchi! Beh, il carcere di Poggioreale ha sempre avuto la fama di
essere un carcere repressivo, che inculca il terrore nella mente dei detenuti. Il clima che si respira nel carcere di
Poggioreale è quello degli anni 1980/81, quando avvenivano pestaggi e altre angherie di ogni genere, sempre con la
complicità dei tribunali e del Ministero. Il carcere di Poggioreale è sempre stato un laboratorio di morte, dove ogni
ora avvengono tentativi di suicidi, che ormai, quando avvengono questi fatti, tutto viene tenuto segreto per non creare
allarmismi. Dice la mamma di Federico che Federico non doveva restare in carcere. Beh, vorrei dire una cosa in merito a
questo. Nelle patrie galere dello Stato ci sarebbero centinaia di detenuti che non dovrebbero stare in carcere perché
non sono compatibili con il regime carcerario perché malati e questo deve pure saperlo anche la signora Ministra
Annamaria Cancellieri e i signori Magistrati di Sorveglianza che spesso e volentieri se ne fottono della relazione
sanitaria del carcere, oppure lo fanno quando ormai il detenuto ha già un piede nella fossa.
A Federico Perna, nel carcere in cui era detenuto, erano state diagnosticate cirrosi epatica ed epatite C, era stato
dichiarato incompatibile con il regime carcerario da diversi medici e più volte ricoverato nei centri clinici del
carcere. Questa è la prova evidente che i Tribunali di sorveglianza non applicano le leggi sulla salvaguardia della
salute dei detenuti in generale, perché l’unica legge che loro sanno applicare è quella di tenerli in carcere il più a
lungo possibile per far sì che non possano più nuocere al bene della collettività sociale. Federico aveva un quadro
clinico compromesso, almeno questo dicono le relazioni dei medici di diverse carceri. Federico non doveva essere
ricoverato nei centri clinici delle carceri ma scarcerato o quanto meno essere ricoverato all’ospedale. Che il caso di
Federico sia finito in Parlamento non significa che queste vicende non accadano più e non risolve il problema in se
stesso.
La signora Cancellieri Annamaria è molto ben informata del fatto che all’interno delle carceri non ci sono soli i
detenuti ammalati di epatite C ma ma ci sono anche detenuti affetti da altre patologie come HIV e cardiopatici. Certo,
come ho detto, vengono presi in considerazione i referti medici solo quando si ha già un piede nella fossa o si muore in
carcere. È inutile che la Cancellieri finga di non sapere pensando di risolvere il problema mandando i soliti “paraculi”
dopo che c’è stato il morto/i. Sa bene, e meglio di me, che se esistono dei responsabili del decesso di Federico verrà
insabbiato con il compiacimento non solo dei magistrati. Certo Federico non è quella detenuta che la Cancellieri ha
fatto scarcerare, è un piccolo criminale, per la cronaca, a cui forse non spettava lo stesso trattamento, il cui unico
trattamento è quello di essere morto forse per un presunto pestaggio, già con un piede nella fossa. La prova lampante è
che alla mamma di Federico non abbiano saputo dire con certezza dove è morto suo figlio, dandole versioni diverse. Prima
le hanno detto che Federico è morto nel centro clinico del carcere di Poggioreale per un attacco cardiaco, poi che è
morto in ambulanza o in ospedale. È chiaro che si voglia nascondere la verità, che Federico è morto nel carcere di
Poggioreale […]

2 dicembre 2013
Mauro Rossetti Busa, via delle Campre, 32 - 05100 Terni


napoli: sul presidio a poggioreale
Solo venti giorni dopo la morte di Federico Perna nel carcere di Poggioreale la notizia è arrivata ai giornali ed in
relazione soltanto al lavoro che la madre ha fatto di denuncia delle condizioni di salute di suo figlio e delle percosse
subite, con la pubblicazione delle fotografie del corpo martoriato che fanno tornare alla mente il corpo senza vita di
Stefano Cucchi. Un ennesimo caso che passa dal trafiletto di cronaca alla prima pagina dei giornali solo grazie
all'intervento della famiglia e solo perchè purtroppo si conclude con la morte del protagonista, ma che fa parte di un
insieme di accadimenti che nel carcere sono all'ordine del giorno, che a Poggioreale sono la quotidianità.
Un trattamento disumano dei detenuti è parte integrante e strategica nei confronti di chi subisce la privazione della
libertà. Vivere in celle minuscole e superaffollate, vivere i bisogni anche più necessari come dei premi da conquistare.
Non ti comporti bene? Niente aria, niente doccia, ma isolamento, botte.
Eppure questo sistema è sistematicamente legiferato da articoli quali il 14bis che consente trattamenti di particolare
limitazione e maltrattamento per i detenuti non allineati, nonché dallo strapotere di cui gode la polizia penitenziaria
dentro le carceri. Salvo poi indignarsi se il detenuto paga con la vita.
Intanto, a giustificazione dell'episodio, nel caso di Federico come quello di Stefano Cucchi e tanti altri, il marchio
di essere tossicodipendente, come se questo rendesse meno importante l'accaduto o addirittura semplicemente un
“trattamento speciale” per un delinquente particolare.
Alla base, il meccanismo del bastone e la carota, strategico per lo Stato, dei (rari, dobbiamo dirlo) casi di detenuti
che vivono condizioni carcerarie decenti (spesso perchè incensurati, particolarmente collaborativi) che devono servire
ad esempio nei confronti invece della stragrande maggioranza dei detenuti che ogni giorno si trovano a fare una lotta
anche per avere soddisfatta la minima necessità.
Lo stesso meccanismo che ieri 2 dicembre ha portato al fermo di 40 disoccupati napoletani, definiti come delinquenti
perchè lottano per chiedere lavoro, lo stesso che definisce terroristi i notav perchè vogliono impedire la devastazione
del proprio territorio e che definisce Federico Perna tossicodipendente prima che detenuto.
Giovedì 5 dicembre, per questo motivo, insieme ai familiari si Federico, si è tenuto un primo presidio fuori il carcere
di Poggioreale e l'impressione immediata è stata che la condizione di Federico non è affatto isolata. Detenuti malati,
spesso anche in fin di vita a cui viene privato di mettere a conoscenza delle proprie condizioni di salute i familiari,
detenuti picchiati che celano le ferite durante i colloqui per paura di “ricevere il resto” una volta rientrati. Questi
solo alcuni dei racconti dei familiari dei carcerati che abbiamo incontrato al presidio e che erano lì in attesa dei
colloqui settimanali.
Da Poggioreale emerge un dato: detenuto non è soltanto chi viene imprigionato, ma anche sua madre, sua moglie, i suoi
figli. Tutti vivono la detenzione nelle attese settimanali per i colloqui che cominciano alle 5 di mattina, nelle risse
generate da chi deve entrare prima, nei colloqui in degli stanzoni sovraffollati come le celle, dove parlare con i
familiari è praticamente impossibile.
Non è possibile lottare contro le condizioni inflitte dal sistema del capitale se non si lotta contro il carcere.
Intorno alle 12 il presidio dall'entrata principale di Poggioreale si è poi spostato verso piazzale Cenni, in prossimità
dei padiglioni, dove i detenuti ci hanno sentiti e hanno urlato la loro solidarietà alla mamma di Federico.
Allo stato attuale, quando in Parlamento non si fa altro che parlare di sovraffollmento delle carceri e condizioni
disumane dei detenuti, ci sembra veramente una beffa quindi sentir lanciare appelli all'amnistia, ben conoscendo che se
l'obiettivo dello stato è il mantenimento di questo sistema la parola amnistia rappresenta solo polvere negli occhi di
chi oggi sta cominciando a denunciare le condizioni carcerarie e cercare di lottare, sia dentro che fuori le carceri.
L'unica lotta è per la libertà di tutti i detenuti.

dicembre 2013
Mensa Occupata, Via Mezzocannone 14 - Napoli


lettera dal carcere di piacenza
Lettera aperta al movimento no tav
Cari amici della no tav, sotto invito di un mio caro compagno, conosciuto nel carcere lager di Tolmezzo, vi scrivo,
sperando in un legame, in un ponte, con cui poter dimostrare la mia solidarietà a voi, che, benché in modo diverso dal
mio, siete conculcati in libertà e dignità dal potere statale.
Ammetto che la mia attenzione verso di voi è il risultato di una spinta esterna avvenuta nel 2012. Come spesso accade,
l'uomo medio, preso dalla vita convulsa fatta di lavoro, sequenze inutili di quotidianità ripetitiva e direzionata da
bisogni vaghi, tende a percepire con marginalità e distacco le notizie (già di per sé poco veritiere e dozzinali) del
tubo catodico e della stampa: non è sempre una mancanza di empatia o sensibilità, ma spesso solo una stanca
disattenzione su vicende che invece ne abbisognano molta. L'opinione pubblica non è veramente al corrente della
situazione in Val di Susa, persino i carcerati italiani, così colmi di tempo libero da passare davanti alla tv, non
hanno ben chiaro quanto sia vicina a loro la controversia che divampa in quel piccolo pezzo d'Italia, reso sacrificabile
dalle mire economiche del Moloch statale.
Ho intrapreso il discorso con molti detenuti, l'opinione comune ricalca ciò che volutamente le stampe divulgano per
compiacere i padroni, ossia che la TAV significa progresso, velocità (mi ricorda tanto il manifesto futurista di
Marinetti e co. tanto amato dai fascisti) ma soprattutto lavoro e imprenditoria. Così l'italiano stolto si chiede chi
mai sia così tanto barbaro da opporsi a questo benessere e a queste possibilità di lavoro, soprattutto con la crisi
attuale.
Purtroppo nessuno si sofferma su un particolare: il benessere della collettività è l'equilibrio nella collettività! Il
benessere per la collettività non è far passare la merda per cioccolato o far credere che una schiavitù sia l'unico modo
per salvarsi dalla povertà. Ci sono intellettuali prezzolati che, al soldo (in maniera occulta certo) di politicanti
come Lupi, fanno i mercanti vendendo “cioccolata” e “salvezza”, legittimando “poveri” imprenditori e demonizzando i
manifestanti come fossero terroristi mal armati. Ma poiché in parte il cittadino è vigliacco e arrivista, oltre che mal
informato e credulone, non solo crede, ma cede, a volte addirittura impegnandosi a voler ottenere lo stesso successo dei
suoi governanti e oppressori, usando così i loro metodi, ma facendo soprattutto il loro gioco, alla fine però l'unico
risultato sono gli scarti di quelle tavole ammannite dai ricchi epuloni.
Essere obiettivi non è facile, bisognerebbe però sempre chiedersi del rapporto costi-benefici delle grandi opere
finanziate in parte con denaro pubblico, quando si sa che lo scopo è lucrare mirando ai finanziamenti dell'Unione
Europea. In egual modo ci si dovrebbe chiedere come mai, dei 30 mld messi a disposizione dalla stessa UE per la piccola
imprenditoria, ben pochi vengono utilizzati, perché non canalizzati da adeguata informazione. Eppure emeriti economisti
come Zagrebsky o Mario Callagati, allievo di Giorgio Fua, critici verso la possibilità di ripresa della grande
produzione e della crescita, a conti fatti ammettono che l'unico sensato intervento dello Stato nell'economia è il
credito per le piccole e medie imprese, in modo che con piccole opere a livello locale si soddisfi la richiesta di
manodopera.
Ora, per quanto ritenga questa possibilità solo in parte salvifica perché difende (in parte) un capitalismo che di fatto
è il concetto di entropia economica ai massimi livelli (irreversibilità dei processi produttivi), almeno non si tratta
di depauperare energia economica, sociale e ambientale con un'imposizione di sudditanza per il guadagno di una casta.
E qua, si apre un altro punto, quello per cui sono un vostro acceso sostenitore, la non accettazione di un'imposizione
da parte dei “nostri impiegati” per l'ipotetico nostro bene. È paradossale pensare che una democrazia rappresentativa,
che dovrebbe per l'appunto rappresentare la nostra volontà, invece la sotterri per mantenere viva la propria
“cleptocrazia”. Noi cittadini siamo datori di lavoro che pongono una classe per farsi derubare e schiavizzare: se
bisognava arrivare alla faccenda della Val Susa per reagire allora dico che si è aspettato troppo.
Diciamoci la verità, quel grosso buco non ha utilità alcuna visto che dalla metà degli anni '90 il traffico commerciale
su gomma attraverso l'arco alpino (e non solo) ha avuto una decrescita, visto che anche la stessa Francia non ha
stanziato il denaro previsto perché di fatto non ha ottenuto alcuna precedenza dal ministero dei Trasporti e delle
Infrastrutture (non mi ricordo il nome in francese, pardon!), ma qualche canaglia in Italia vuole replicare lo scempio
economico della Salerno-R. Calabria, perché per una volta lo Stato impara dalla malavita e non il contrario.
Ed infatti per veder difesa la loro prepotenza, ecco una bella militarizzazione a protezione dei poveri imprenditori...
Qualcuno ha detto in tv che parlare di militarizzazione sia assurdo, perché il presidio occupa 7 km quadrati su una
superficie di 1000 kmq. Bisognerebbe spiegare a quell'esimia testa di c... (di cui non ricordo il nome) che anche un
metro di presidio è manifestazione dittatoriale quando le armi vengono puntate sulla volontà popolare.
Cari amici, vi invito ad investire nella vostra giusta causa in due modi distinti ma correlati. L'informazione
generalizzata e l'azione localizzata, senza lasciar spazio all'indulgenza. Vorrei potervi essere fisicamente vicino e
sarei felice di incorrere in problemi giudiziari per una causa come la vostra, ma purtroppo mi trovo qui incasinato in
un modo di cui neanche io ho idea, ma questa è un'altra storia.
Con rispetto per la vostra lotta,

Piacenza, 20 novembre 2013
Valerio Crivello - Strada delle Novate 65 - 29100 Piacenza


Da una Lettera dal carcere di Sulmona (Aq)
[…] La storia con la S maiuscola ci ha insegnato che non esistono “cattivi maestri”: esiste ed esistono sempre più in
futuro una sempre più vasta gamma di persone che pensano autonomamente con la propria testa. Questa gente ha deciso di
occuparsi una volta per tutte del futuro e del benessere dei propri figli. Libertà ai No Tav!

Sulmona 7 dicembre 2013
Antonino Faro, via Lamaccio 2 – 67039 Sulmona (L’Aquila)


dalle udienze del processo contro i no-tav
Udienze del 19 e 21 novembre 2013, aula-bunker carcere Le Vallette (Torino)
Sono state udienze interminabili, dalle 9 alle 17-18, con breve intervallo, uguali alle precedenti. E’ proseguito
l’ascolto dei “testi”, cioè di dirigenti Digos della questura di Torino e carabinieri, che ricostruiscono, a piacer loro
ovviamente. Ciò attraverso foto e filmati su quanto accaduto il 27 giugno e 3 luglio 2011 a Chiomonte, riguardo all’area
destinata dai devastatori a cantiere d’avvio del tunnel lungo il quale dovrebbe transitare il Tav fra Francia-Italia.
Anche in questo processo, fatti i conti, i “testi” della procura e la sua ricostruzione rimane intoccabile, lo si
constata dalla crescente apatia impiegata dal tribunale nel trattare le deposizioni degli sbirri. Agli avvocati della
difesa che con insistenza avanzano opposizione alle frequenti espressioni di giudizio degli sbirri e dei pm, alle loro
“domande suggestive” (che suggeriscono previste e comode risposte) su compagne/i e sui fatti, salvo rari casi, la corte
scocciata e menefreghista mette il veto, concludendolo con un banalizzante “…non l’ammettiamo o se no non la finiamo
più… andiamo avanti”.
La verità di stato necessita, anche qui, di falsità, ipocrisia, manipolazione. Così, per esempio, quando gli avvocati
chiedono notizie su chi ha effettuato gli arresti, chi ha pestato le e gli arrestate/i di quelle giornate, i “non c’ero…
non era mia competenza…” volano via come bolle di sapone; così è per i video che mostrano sì manifestanti che lanciano
sassi, che si battono, ma allo stesso tempo in cui altre/i cadono, piegati dai gas, colpiti dai bossoli che li
contengono, ciò che chiarisce quale fosse la famosa “parabola” adoperata nel lancio dei gas… di tutto ciò non viene
detta parola. E’ una realtà anche in questo bunker negata, assieme alle ragioni che hanno portato tante/i a battersi
quel giorno in quei luoghi.
Data l’impostazione generale accennata, lo stesso“esercizio della difesa” risulta minato. al punto da portare gli
avvocati della difesa a stendere in una richiesta rivolta alla presidenza del tribunale che se accettata o meno muterà
il processo e lo stesso nostro comportamento. Le richieste sono:
- revisione della calendarizzazione: le due udienze settimanali previste sono eccessive;
- immobilità della corte di fronte alla “cattiva condotta dei pm”;
- sostituzione del presidente del tribunale spinto a concludere prima di andare in pensione (alla fine del 2014), da
qui, anche, l’eccessiva vicinanza fra le udienze;
- riportare il processo nel tribunale in città, anche per facilitare l’attività degli avvocati.
La risposta dell’autorità competente dovrebbe esserci nei primi giorni di dicembre. Anche noi “imputate/i” certamente
siamo coinvolti/e, soprattutto perché potrebbe verificarsi la remissione del mandato da parte degli avvocati. Una realtà
che reclama una risposta collettiva e individuale da socializzare e affrontare con il movimento anche fuori dall’aula.

Udienze del 30 novembre e del 2 dicembre 2013, aula-bunker carcere Le Vallette (Torino)
Sono continuati gli “ascolti dei testi” da parte dei pm e della difesa con il tribunale deciso, come nelle udienze
precedenti a velocizzare il processo, cioè a farlo correre nei binari della rappresaglia fissata dalle aziende delle
“grandi opere” e dal loro stato.
Al termine dell’udienza di lunedì 2 dicembre alcuni avvocati della difesa si sono pronunciati a favore della
sostituzione della corte che porta avanti il processo, in quanto quest’ultima ha imposto una “calendarizzazione” delle
udienze talmente fitta e unilaterale fino a rendere “impossibile l’esercizio della difesa”. In pratica, una
manifestazione inequivocabile di sfiducia, che si unisce alla formale richiesta di “remissione della corte”, di
“legittimo sospetto” nei suoi confronti, data la sua subordinazione all’orientamento stabilito dalla procura di Torino.
Vale a dire, dagli apparati repressivi centrali dello stato, impegnati a fare dell’attacco al movimento No Tav
un’intimidazione contro ogni movimento di lotta. Rispetto al punto del ridimensionamento della “calendarizzazione”, la
risposta è affidata al presidente del tribunale di Torino che dovrebbe esprimersi entro qualche giorno; invece la
risposta alla richiesta di “remissione della corte” ecc., quando e se sarà avanzata, dovrà darla la Cassazione, la quale
in genere non risponde prima di tre-sei mesi. Come si vede, entrambe le richieste non fermano il proseguimento del
processo. Gli avvocati si sono detti infine disponibili, in caso di sostituzione della corte, a non riascoltare i
“testi” già ascoltati.

Udienza del 6 dicembre 2013, aula-bunker carcere Le Vallette (Torino)
Anche nell’udienza di oggi c’è stata una sfilata di “testi” digos rispetto sempre alla ricostruzione ovviamente
processuale delle giornate 27giugno e 3 luglio 2011. Questa ricostruzione in sostanza consiste nel rivolgere domande al
“teste” sul come, quando e perché si sono verificati scontri fra manifestanti da una parte centinaia di agenti di
polizia, carabinieri, finanzieri dall’altra muniti di elicotteri, gas, autopompe, ruspe, manganelli, cineprese, macchine
fotografiche… sul come, quanto sono stati colpiti danneggiati i camion-idranti… non certamente sui pestaggi riservati a
chi manifestava.
Il processo sta ancora ascoltando i “testi” proposti dall’ “accusa” (in seguito toccherà a quelli indicati dalla
“difesa”). E’ stata la volta, fra gli altri, di un poliziotto della scientifica cine-operatore (preposto alla macchina
da presa e fotografica), che assieme ad altri “17 colleghi” in quelle giornate avrebbero messo insieme 600 foto, 42
filmati dvd, oltre 40 ore degli scontri, che ha detto il poliziotto “scientifico” “cerco in tutti i modi di riprenderli”
comprese le “immagini di tipo preventivo”, realizzate per cogliere travisamenti, atteggiamenti, spostamenti…
Oggi si è capito bene un passaggio non secondario, questo: quando una parte del processo presenta la lista dei “testi”
da ascoltare fissa contemporaneamente le domande da rivolgere ad ogni singolo teste; queste, chiamate “capitolazione”,
diventano il “seminato” dal quale la controparte non può uscire. La parte che le ha preparate può elevare opposizione a
ulteriori richieste, che tuttavia possono essere ammesse dalla corte. Così oggi come anche nelle udienze precedenti, i
pm si sono limitati a fare domande striminzite, banali; agli avvocati della difesa che volevano conoscere taluni
particolari sostanziosi, il tribunale ha negato l’approfondimento, ha revocato persino una propria “ordinanza” già
disposta sul ri/ascolto di un digos, poiché “il collegio ritiene sufficientemente istruita la capitolazione. I testi
richiesti sono superflui. Se proprio… li ascolteremo”. A quel punto alcuni avvocati della difesa hanno chiesto la parola
e detto chiaramente che in quelle decisioni veniva stroncato il diritto alla difesa, previsto dalla Costituzione… parole
che non hanno sfiorato il “collegio”, ormai succube della procura, comunque degli organi dirigenti il palazzo di
giustizia di Torino.
Sul contrasto fra difesa, “collegio giudicante” e procura che sta montando nell’aula bunker, il giorno 4 dicembre una
delegazione degli avvocati difensori ha avuto un incontro al quale hanno preso parte: il presidente del tribunale di
Torino, il presidente del tribunale che conduce il processo NoTav, il presidente dell’ordine degli avvocati di Torino e
il vicario della procura. Nelle settimane precedenti la difesa aveva presentato una sorta di esposto riguardante la
calendarizzazione (due udienze alla settimana, considerata troppo fitta), il ritorno del processo nel tribunale in
città, la conoscenza anticipata di qualche giorno dell’elenco dei “testi” da ascoltare nelle udienze via via fissate. La
risposta è stata che già dalla prima udienza del gennaio 2014 tutte queste richieste verrebbero accolte. Prossima
udienza lunedì 23 dicembre 2013 aula bunker ore 9.

***
vicini a Giobbe, Andrea e Claudio
Venerdì 17 dicembre si terrà l’udienza preliminare per Andrea, Claudio e Giobbe, i NO TAV accusati di tentata rapina e
sequestro di persona per una colazione ai cancelli della centrale.
Il 16 Novembre 2012 si svolge una consueta colazione alla centrale di Chiomonte, pratica che vede il movimento NO TAV in
strada per rallentare i lavori del cantiere del tunnel geognostico della Maddalena.
L'obiettivo è far compiere un lungo giro agli operai che devono accedere dal lontano cancello autostradale, mentre
vengono lasciati passare i vignaioli e i lavoratori Iren della centrale elettrica. Ma quel mattino succede qualcosa di
particolare: le forze dell'ordine di stanza al cantiere decidono di aprire ugualmente i cancelli nonostante la presenza
dei presidianti, anziché invitare gli operai a fare il giro dall'autostrada. Insieme agli operai, si presenta anche un
misterioso personaggio, che si occuperà di fotografare la casetta-punto informativo NO TAV di via dell'Avanà,
successivamente rimossa con una gru e mai più riconsegnata al movimento. Costui, rivelatosi poi un agente di polizia,
sporgerà denuncia contro i presidianti insieme a uno degli operai. Andrea di Vaie e Claudio di Torino, presenti quel
giorno ai cancelli, saranno sottoposti a fermo per l'intera giornata al fortino della Maddalena e verranno poi
rilasciati la sera, a piedi, presso la sede della polizia stradale di Susa, Giobbe verrà coinvolto successivamente sulla
base dei filmati e per questo motivo incarcerato alle Vallette ed ora ai domiciliari.
Questa vicenda segna l'inizio della nuova strategia della procura, che alza il tiro delle accuse con reati fantasiosi, e
serve ai media un assist prezioso per la distruzione mediatica del movimento, visto con simpatia dalla stragrande
maggioranza del paese.
Per questo, organizziamo una presenza solidale
Martedì 17 dicembre ore 9, palazzo di giustizia ingresso Via Falcone, Torino
L'udienza sarà a porte chiuse e dovrebbe durare tutta la mattinata.

L'udienza è terminata con il rinvio a giudizio per tutti gli imputati senza nessuna attenuazione delle misure cautelari
(Giobbe rimane quindi ai domiciliari restrittivi ed Andrea con le firme ogni giorno). Nessuna revisione delle accuse:
Giobbe e Andrea rimangono accusati di tentata rapina, sequestro di persona, danneggiamento, violenza privata e minacce
mentre Claudio di favoreggiamento. Il processo inizierà giovedì 10 aprile.

***
AVVERTENZA: PRESENZE ALIENE A MILANO
Premessa: sono imputato nel “processone NoTav” di Torino per i fatti del 27 giugno e del 3 luglio, e per altri
procedimenti a mio carico sono sottoposto a obbligo di firma e di dimora a Milano. Pertanto ogni qualvolta ritengo
opportuno presenziare alle udienze nell'aula bunker delle Vallette sono costretto a richiedere l'autorizzazione a
lasciare il comune di residenza.
Sabato 23 novembre sono andato a firmare al commissariato di zona. In questa circostanza un agente mi consegna
l'autorizzazione di cui sopra, graffettata insieme a un invito, emesso dalla Digos di Milano, a presentarmi in questura
per il successivo mercoledì. La cosa non mi stupisce, dal momento che anche in passato alla mia richiesta era seguita
analoga convocazione.
La mattina di mercoledì 27 novembre mi reco quindi in via Fatebenefratelli, dove vengo accolto da due noti operanti
della Digos meneghina; diversamente dal solito però la pratica non viene sbrigata in portineria e sono invitato a salire
in ufficio. Già nei corridoi mi viene chiesto se sono accompagnato da un difensore. Rispondo: “Devo chiamarlo?” - “No,
assolutamente, non c'è problema”. Giunti al quarto piano, mi introducono in un ufficio dove mi presentano due loro
“colleghi di Torino”; infine con la scusa di “non disturbarci” si allontanano e mi lasciano con i due: “Sa perché la
abbiamo convocata?” - “Certo, per notificarmi l'autorizzazione a lasciare la città” - “No! È per un altro motivo”.
Tale motivo risulta essere una raccolta di “sommarie informazioni” con un generico riferimento a del materiale
sequestratomi nell'agosto 2011 in località Chiomonte, sequestro che sta alla base del mio coinvolgimento nel processo di
Torino (per inciso trattasi di maschera da verniciatore, occhialini da piscina, guanti da saldatura e materiale
cartaceo, sia stampato che manoscritto). Ribatto che mi rifiuto di rispondere a un interrogatorio, tanto più in assenza
del mio difensore; ne segue un diverbio sulla necessità o meno di tale presenza, che si conclude con un mio categorico
rifiuto a qualsivoglia tipo di colloquio. Eccepisco l'irregolarità dell'essere stato convocato in questura per ritirare
un'autorizzazione e di trovarmi invece di fronte alla richiesta di rilasciare “sommarie informazioni”. La situazione si
risolve con la compilazione di un verbale di cui non mi viene data lettura. Mi rifiuto di firmarlo e non ne ottengo
copia, nonostante mie insistite richieste.
Questi i fatti. Al riguardo, tre brevi evidenze:
- la grave irregolarità della procedura: essendo già a dibattimento il processo che mi vede imputato, non posso essere
interrogato da funzionari di polizia per i medesimi fatti;
- il maldestro sotterfugio di convocare qualcuno in questura per “provare” a interrogarlo a sorpresa;
- presenze aliene (i “colleghi di Torino”) sono in missione a Milano. Per fare che?
Senza sovraccaricare di importanza questo episodio, ho deciso di renderlo pubblico, non tanto per denunciare
l'irregolarità del fare questurino, ma per mettere in guardia rispetto a simili tentativi di abboccamento.
Uno dei tanti.
dicembre 2013
Arresti per terrorismo contro il movimento no tav
La procura di Torino alza il tiro
All’alba di lunedì 9 dicembre i poliziotti irrompono a Torino nella casa occupata di via Lanino e all’Asilo Occupato di
via Alessandria, nello stesso momento irrompono nella casa di un compagno a Milano. Il loro compito è trarre in arresto
tre compagni (di cui uno già detenuto nel carcere di Torino) ed una compagna con le pesanti accuse dell’art. 280 e del
280bis (“attentato con finalità terroristiche, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, detenzione di armi
da guerra, danneggiamento”), e ciò in relazione a l'attacco al cantiere del Tav di Chiomonte avvenuto la notte tra il 13
e il 14 maggio 2013.
Immediata la solidarietà sia dal movimento No Tav che da parte di numerosi/e compagni/e. A Torino nella serata stessa un
corteo molto compatto e determinato percorre per un’oretta Porta Palazzo e Aurora. In trecento ad urlare “libertà per
Chiara, Claudio, Nicco e Mattia”. Slogan, scritte sui muri, qualche vetro di banca che cade, blocchi improvvisati con
cassonetti e segnali stradali.
Anche in Val Susa non si attende e nella nottata stessa un po’ di rumore sotto gli hotel dove dormono le forze di
occupazione e striscioni contro le truppe di occupazione e di solidarietà con i 4 arrestati .
Per sabato 14 dicembre l’appuntamento è alle 17.30 davanti al carcere “Le Vallette” di Torino. Per scrivere:

Chiara Zenobi, Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Mattia Zanotti
c.c. via Maria Adelaide Aglietta 35 - 10151 Torino

***
9 dicembre 2013: l'ennesima operazione repressiva contro il movimento no-tav.
Quattro persone in carcere (Chiara, Nico, Mattia, Claudio), arrestate tra Torino e Milano, con l'imputazione (tra le
altre) di associazione sovversiva con finalità di terrorismo, accusati di aver partecipato a una iniziativa notturna in
Clarea, tra il 13 e il 14 maggio 2013, una delle tante camminate e manifestazioni popolari organizzate quest'anno contro
il cantiere di Chiomonte.
Terrorista è chi devasta e saccheggia il territorio e la vita di chi lo abita!
Il movimento No Tav rivendica il diritto alla resistenza attiva contro la militarizzazione del territorio, l'imposizione
violenta di una grande opera inutile e dannosa, la criminalizzazione del movimento e la negazione di diritti.
Chiara, Nico, Mattia, Claudio sono tutti noi e ne esigiamo l'immediata liberazione!!!

Movimento No Tav
Valsusa, 10 dicembre 2012

***
resoconto del presidio di solidarietà di sabato 14 dicembre
Decine di agenti in borghese che pattugliano l’area attorno alle Vallette e le principali vie di accesso al carcere,
fermando e perquisendo macchine su macchine, trecento celerini (25 sono infatti i blindati che qualche manifestante ha
contato) schierati nei tre punti dove solitamente si svolgono i presidi anticarcerari per impedire ai solidali di
avvicinarsi troppo alle inferriate. E dietro le inferriate un bell’idrante, che non si sa mai. Questo lo schieramento
predisposto dalla Questura di Torino in occasione del presidio in solidarietà con Claudio, Chiara, Mattia e Nicco. Dopo
aver creato i mostri da sbattere su tutte le prime pagine, un tale spiegamento di forze doveva servire a proseguire con
altri mezzi il lavoro degli scribacchini locali e nazionali: intimorire, dividere il movimento e mettere in un angolo
gli arrestati.
Si può tranquillamente dire che anche questa volta l’intento è fallito. Più di trecento i solidali venuti da diverse
città italiane e dalla Valsusa per far sentire a Chiara, Claudio, Mattia e Nicco la propria vicinanza. Slogan e
petardoni si sono succeduti senza sosta per un’ora davanti al blocco D dove sono chiusi i compagni, poi il presidio si è
trasformato in un breve corteo dirigendosi verso la sezione femminile posta dietro l’ingresso principale delle Vallette
dove due file di celerini hanno impedito ai solidali di avvicinarsi troppo ai cancelli. I manifestanti dopo una
mezz’oretta di slogan si sono spostati nuovamente, dirigendosi verso il pratone che dà sui blocchi B e C, per salutare
anche gli altri detenuti. Anche in questo caso però nulla da fare, una folta schiera di celerini blocava infatti anche
l’accesso al prato. Il corteo è allora continuato addentrandosi tra le vie del quartiere e spiegando ai tanti affaciati
alle finestre il perché di questa manifezione cirondata da caschi blu. Tornati infine al luogo del concentramento il
presidio si è sciolto, dandosi appuntamento per domani alle 17 e 30 a Bussoleno per un’altra iniziativa di solidarietà.
Come già accaduto mercoledì scorso, ci saranno nei prossimi giorni altre occasioni, meno annunciate, per salutare più da
vicino i compagni arrestati.
Il 16 dicembre un’altra iniziativa di solidarietà con i quattro arrestati si è svolta nel pomeriggio a Bussoleno. Un
presidio affollato, che si è trasformato velocemente in un corteo che ha percorso in lungo e in largo le strade del
paese.

16 dicembre 2013, da autistici.org/macerie

***
Venerdì 13 dicembre, a Trento, una trentina di compagni ha bloccato per circa venti minuti il Frecciargento delle 17,
32. Lo striscione aperto sui binari diceva: “La lotta no tav non si arresta. Libertà per Chiara, Mattia, Nico e
Claudio”. Durante il blocco, interventi e volantinaggio. Curiosi e ben disposti i viaggiatori sui binari.


Resoconto del processo per i fatti del 15 Ottobre 2011 a roma
Udienze del 4 e 14 novembre
Continuano a gran ritmo e soprattutto a senso unico le udienze per i fatti del 15 ottobre 2011: in tutte e tre le
giornate si sono sentiti i teste dell'accusa, tutti appartenenti alle forze dell'ordine a parte i 2 teste del 4 novembre
in specie i dipendenti del supermercato Elite che hanno raccontato i fatti del 15 ottobre visti da lavoratori
dell'esercizio in cui è avvenuto "l'esproprio proletario"; i teste più volte aiutati dal pubblico ministero a ricordare
i fatti (?!) hanno descritto una situazione spaventosa in cui loro si sono salvati per miracolo nonostante, per loro
stessa dichiarazione, nessuno ha rivolto violenza verso di loro, anzi le uniche minacce sono state rivolte a un
dipendente dopo che lo stesso ha lanciato una "scatoletta di carne" addosso ai manifestanti.
Il pubblico ministero corregge più volte i suoi teste volendo evidenziare il cordone fuori dal supermercato. La ragione
delle varie puntualizzazioni diventa evidente durante la deposizione di Palozzi, sovraintendente della Digos di Roma.
Nella giornata del 14, il teste ha spiegato come ha identificato 4 imputati "colpevoli" di aver partecipato al presunto
cordone, quindi la sola partecipazione ad esso è punibile come l'aver compiuto "l'atto criminoso".
Anche tutti gli altri teste delle tre giornate portano la loro testimonianza su come, nel corso delle indagini, sono
riusciti ad identificare i 18 compagni "colpevoli" di aver partecipato all'insurrezione popolare del 15 ottobre.
Chi scrive ha deciso di sorvolare sulle posizioni individuali, per rispetto alla vita privata dei compagn@ già stuprata
da troppi giornali nazionali e locali. Ben più importante, penso, sia evidenziare le varie ingiustizie perpetrate
dall'accusa con l'avvallo del presidente. L'accusa si è resa colpevole di "omesso deposito degli atti d'indagine"
utilizzando teste mai depositati nella fase istruttoria. Nonostante per legge siano inutilizzabili, la corte ha deciso
di ascoltarli in ogni caso, ma con "riserva". Anche se considerati successivamente inaccettabili tutto ciò avrà comunque
condizionato la giuria.
Nonostante fosse presente in aula durante la deposizione del sostituto commissario Cassano, della Digos di Cosenza,
viene illegalmente ascoltato anche l'isp. capo Rado, della medesima divisione e interrogato sugli stessi fatti. Oltre
alle due appena descritte, nessuna delle eccezioni presentate dalla difesa viene accettata. Addirittura quando i nostri
avvocati fanno presente che molti dei fotogrammi usati come prove contro gli imputati sono stati estratti da filmati non
presenti agli atti e quindi non visionati dalla difesa e ovviamente faziosi, il presidente della giuria ha deciso di
accettarli.
Per chiudere vorrei ricordare che nessuno degli imputat@ è stato identificato perché a volto scoperto durante "l'azione
criminosa" e quindi tutti i compagn@ alla sbarra sono stati identificati attraverso soggettivi riscontri tra le varie
immagini. La loro colpa più grande sembra essere la partecipazione ad associazioni, collettivi, centri sociali o più
semplicemente l'aver preso parte spesso a manifestazioni dell'area antagonista. Appare sempre più ovvia la volontà
dell'accusa, sorretta dal presidente, di voler colpire in maniera chirurgica il movimento nella, vana, volontà di
spaventarlo.
Prossimo appuntamento: 3 Dicembre c/o Tribunale di Roma.

Udienza del 3 dicembre
Come al solito l'aula in cui si svolge il processo contro 18 compas “imputat*” si riconosce subito dal gran
dispiegamento di forze dell'ordine. Per la prima volta la richiesta degli avvocati, sia della difesa che delle “parti
lese”, viene accolta, così l'udienza si tiene nell’ampia aula Occorsio appropriata al numero di “imputat*”, avvocati,
“pubblico”…
Anche oggi prosegue l’ascolto dei testi dell’accusa, cioè di agenti digos di tante città d'Italia, i quali hanno
eseguito le identificazioni di noi arrestat*, con questa copertura passano tutto il tempo della deposizione ad elencare
precedenti degli imputat*, loro caratteristiche personali che non c’entrano niente con i momenti e i fatti specifici del
processo.
Nelle descrizioni fornite dalle digos il tentativo palese è portare come prove di colpevolezza la militanza dei compagni
nella città dove vivono. Così la semplice partecipazione alla vita di un centro sociale o aver vissuto in uno di essi (o
in uno squat), aver partecipato ad iniziative per il diritto alla casa, aver portato solidarietà ai lavoratori, ai
carcerati, ai migranti, etc. vengono lasciati esporre come fatti recidivi che dovrebbero rafforzare-confermare la
colpevolezza delle e degli accusat*. La volontà dell' accusa è più che trasparente: colpire con questo processo il
frammentato arcipelago della sinistra su tutto il territorio nazionale.
Oltre agli agenti della digos di Milano e Cosenza, viene ascoltata il commissario di Polizia di Roma Prati, dott.sa De
Angelis, che riferisce le dinamiche dell'arresto di un compagno, “colpevole” di aver combattuto per difendere piazza San
Giovanni dalle cariche mediante insulti e qualche pietra. La stessa tira fuori una descrizione di piazza San Giovanni,
di quel giorno, completamente in stato di "guerriglia urbana", raccontando come si sia salvata da “pericolosissime bombe
carta riempite di chiodi” etc.
Le opposizioni della difesa invocate, facendo notare che le notizie di guerriglia urbana e simili sono solamente
valutazioni personali se non supportate da prove, vengono sistematicamente respinte dal tribunale. Stessa sorte tocca
alla ricostruzione sui “caroselli” compiuti dai blindati della polizia, sempre in piazza S.Giovanni. I/le digos cercano
di mutare la realtà a loro favore, dichiarando che i caroselli sarebbero stati compiuti con “mezzi che avanzavano per
difendere la celere", che “non c’era nessun intento di investire i manifestanti”. Invece, i blindati lanciati a alta
velocità hanno quanto meno investito un compagno e distrutto due furgoni dei panini.
L’udienza si chiude con l’ascolto di Roberto Messina, vice questore aggiunto, capo della "Squadra Anarchici" della digos
di Roma. Precisa di aver seguito sin dalle 11 del mattino “un gruppo di noti anarcoinsurrezionalisti romani" raggruppati
dietro uno striscione arancione; racconta i “fatti delittuosi” cioè scritte, attacco alle vetrine… Comunque nel corso
della manifestazione non sarà in grado, di identificare nessuno/a. Discolpa, il gruppo dall’assalto al supermercato
Elite,"lì erano autonomi e non é il mio campo". Come si ricorderà su quel fatto è stato accusato un compagno,
identificato “grazie” ad altri manifestanti che lo hanno fermato e smascherato, filmando il tutto poi consegnato alla
polizia, che lo arresterà. Non si riesce a trovare parole per esprimere questa infamia; si spera solamente che questi
zelanti sceriffi presenti nel corteo dei cobas capiscano di aver consegnato un compagno ai carcerieri per 8 forse 15
anni soltanto perché ha messo in pratica quello che loro spesso esaltano, quando succede all'estero, dal quale però
prendono certamente le distanze quando succede a due metri da loro.
L'unico compagno che l' “esperto” sugli anarchici riesce ad arrestare è un "facinoroso" che arrancava in via Labicana
dopo aver vomitato a causa dei fumogeni. Lo sbirro prima dichiara di essere dovuto scappare “perchè dei violenti
cercavano di riprendersi l'arrestato”, dopo dice di aver calmato gli stessi dicendogli che “la polizia non avrebbe fatto
male al fermato”; quando uno dei nostri avvocati fa notare quanto sia assurda questa deposizione lui si corregge
raccontando una storia non ben definita, dove dei ragazzi volevano riprendere l'arrestato e delle ragazze volevano
chiarezza; non si capisce bene come abbia parlato solo alle seconde e sia sfuggito ai primi. Anche su questo la
chiarezza, in tribunale, non l'avremmo mai perché il pm spalleggiato dalla presidente, e viceversa, dichiara
inammissibili le domande poste dagli avvocati. Francesco, detenuto per questa causa, prima di lasciare l'aula viene
salutato calorosamente da compas presenti; venerdì si svolgerà un presidio a Rebibbia anche per lui.

Udienza del 12 dicembre
La corte entra ed esordisce con: fatti e notizie precedenti a quelli processuali raccontati dalla polizia sono ammessi
visto che danno una descrizione dell’imputato, pure se non hanno mai portato a una condanna penale.
Dopo questa assicurazione sulla certezza condanna, l’udienza scorre via con il solito ascolto dei testi-digos, stavolta
delle città di Genova, Macerata e Padova. Sempre in relazione all’identificazione di noi “imputat*”.
Oltremodo indicative del clima in cui si svolge questa farsa sono la decisione di rigettare l'istanza presentata dal
difensore di un compagno, in cui si chiedeva la sospensione della firma per la settimana natalizia, in maniera da dargli
la possibilità di far visita ai familiari - visto da quasi due anni ne è impossibilitato. Inoltre, alla richiesta dei
nostri avvocati di poter avere accesso alle registrazioni radio perché ancora, nonostante tutti i testi ascoltati, non
si è capito come e quando i vari reparti della celere si siano mossi e soprattutto chi li coordinava. Il pm si oppone e
il presidente si riserva, rimandando la discussione in un'altro momento da lei considerato consono. I nostri legali
promettono battaglia facendo notare che non hanno altro modo di ottenere le registrazioni e devono avere anche il tempo
di analizzarle.
Prima di uscire la presidente ordina alla polizia di identificare chi fra il pubblico ha salutato Francesco, ancora
detenuto, e in aula tenuto molto in disparte, e di proibire loro l'ingresso in aula nelle prossime udienze. Nonostante
quest'ultima prepotenza della corte, noi “imputat*” ricordiamo come tra complici e solidali solamente uno sguardo dà
forza. Francesco viene comunque salutato ad alta voce dagli imputati presenti in aula mentre vengono portati fuori dalle
loro scorte.
Prossimo appuntamento il 9 gennaio 2014 - anno nuovo repressione vecchia.

dicembre 2013, da una voce libera e libertaria


bologna: sul Processo “Outlaw”
Proseguono le udienze per il processo “Outlaw”. Nella scorsa udienza, la terza, gli avvocati difensori hanno
controinterrogato il digos coordinatore dell’inchiesta, Marotta. Il soggetto ha continuato a fare la sua bella figura
da stolto non riuscendo a rispondere decentemente a nessuna delle domande. Sono stati contestati i riferimenti a
presunti reati commessi dagli imputati e dalle imputate, emersi nel corso dell’ interrogatorio della pm che ha occupato
le due udienze precedenti . Per la gran parte di questi non esistono nemmeno inchieste aperte e per altri ci sono
assoluzioni o condanne minime e non definitive. Messa alle strette, alla fine la pm è insorta “Ma qui li stiamo
processando per associazione a delinquere e non per tutti questi reati”. Appunto! verrebbe da dire, visto che invece il
materiale portato in aula dall’accusa è interamente riferito a quegli episodi.
Non è mancato il teatrino finale quando la pm ha tentato di produrre un album fotografico a colori, del quale andava
visibilmente orgogliosa, con materiale sequestrato allo Spazio di Documentazione “Fuoriluogo” messo a confronto con
immagini ricavate da manifestazioni e cortei. Una prova nuova non si sa bene da chi e quando costruita e che si voleva
introdurre così, senza i passaggi necessari. A quel punto nell’aula si è creata una confusione pazzesca con pm e
avvocati che si aggiravano cercando di convincere la presidente delle proprie ragioni. La presidente, in preda a
visibile costernazione, ha aggiornato l’udienza. Non si sa bene quindi da dove si ripartirà il 13 dicembre, è certo che
inizieranno le deposizioni dei digos, tra questi quello che si potrebbe definire il reale coordinatore e che per ora è
rimasto nascosto, come un’eminenza grigia, dietro il Marotta. A seguire gli altri digos, quelli che da anni perseguitano
con presenza assillante, fermi continui e provocazioni violente. La presenza in aula può essere importante per
rendergli meno agevole il compito di sparare idiozie e per capire come si muovono e come costruiscono le loro reti per
ingabbiare.
Le prossime saranno il 13 dicembre, dalle 9.30 alle 19, e il 20 dicembre dalle 15.

dicembre 2013, Anarchiche e anarchici sotto processo


cuneo: Per farcela pagare
Un breve aggiornamento in merito alla sentenza di primo grado del processo per gli scontri in occasione dell’apertura
delle sede di Casa Pound a Cuneo. In previsione di produrre, appena possibile, un testo che analizzi gli elementi più
interessanti emersi dall’intera vicenda, pensiamo opportuno anticipare alcune considerazioni rispetto alla sentenza in
sé, che ricordiamo ha portato alla condanna di tutti e 16 gli imputati a pene che variano da 1 anno (trasformati in 2
anni di libertà vigilata) ai 2 anni e 6 mesi di carcere (altri 3 imputati avevano scelto in udienza preliminare di
patteggiare una condanna a 18 mesi e un risarcimento simbolico alle parti lese di poche migliaia di Euro).
Pene accompagnate da varie decine di migliaia di Euro tra risarcimenti a sbirri e fascisti e spese processuali. Certo,
le pene detentive sono risultate decisamente ridimensionate rispetto a quanto chiesto dal Pm Francesca Nanni: forse
anche al collegio giudicante è risultato un po’ esagerato pretendere fino a 7 anni e mezzo di galera per una mezz’oretta
di tafferugli, ma non si può dire che ci siano andati leggeri, specialmente in quanto ai risarcimenti, dettaglio di cui
vorremmo parlare in questo aggiornamento. Lasciando a parte i risarcimenti con cui le varie divise sperano di
arrotondare lo stipendio, pure per l’immagine di Casa Pound i giudici della “Città Culla della Resistenza” hanno
ritenuto si debba provvedere con un gruzzolo da 6.500 Euro.
Ora, per estorcerci tutti questi soldi (di cui ancora non abbiamo fatto bene i conti, ma dovrebbero ammontare più o meno
a 100.000 Euro), la sentenza ricorre ad una serie di clausole che ci dovrebbero obbligare a sborsare. Ai condannati per
cui è possibile la sospensione condizionale della pena, quest’ultima è stata subordinata al pagamento dei risarcimenti
entro 90 giorni, per i risarcimenti a sbirri e fasci è stato disposto il pagamento in solido (ciò significa che la parte
degli insolventi viene estorta da stipendi, beni mobili ed immobili di chi eventualmente ne dispone) con clausola di
“provvisoria esecutorietà”, ovvero da pagare subito, ed infine per gli avvocati delle parti lese e 2 casi di
risarcimenti minori è stato disposto il pagamento provvisionale, immediato, di una parte del conto.
Insomma, vogliono proprio farcela pagare, nel vero senso della parola. Poco importa se, secondo i tempi dei loro
tribunali, ancora non siamo stati condannati in maniera definitiva visto che del processo si è concluso solo il primo
grado… intanto cacciate i denari e poi si vedrà!
Al di là di ogni altra considerazione teorica o pratica che ci riserviamo per il futuro, ci preme con questo
aggiornamento mettere in chiaro un paio di cose:
- nessuno, tra noi imputati che abbiamo affrontato il processo rivendicando collettivamente l’importanza di combattere
il fascismo, verserà di sua spontanea volontà manco un Euro nelle tasche di tribunali, fasci, divise o loro avvocati;
- per fare fronte alla loro estorsione legalizzata ci organizzeremo personalmente per condividere i disagi di chi sarà
oggetto dei pignoramenti, senza chiamare le realtà antifasciste ad impegnarsi in iniziative di raccolta fondi.
Più che per chiedere soldi ci pare l’occasione per chiamare ad opere di bene che animino la lotta contro il fascismo e i
suoi seguaci!
Da Cuneo, Città Medaglia d’Oro della Repressione.
Alcuni imputati
18 dicembre 2013


saronno (va): LIBERARE TUTTI VUOL DIRE LOTTARE ANCORA
Nelle ultime settimane a Saronno abbiamo assistito ad un rapido evolversi della situazione riguardo la casa occupata di
via Don Monza. Dapprima, martedì 12 novembre, un tentativo andato a vuoto di togliere l'acqua alla casa, grazie alla
risposta di occupanti e solidali, poi, venerdì 15 novembre, l'effettivo taglio dell'acqua con il solito ingente
dispiegamento di forze dell'ordine, con un ruolo sempre crescente della Polizia Locale e ovviamente con la supervisione
di Carabinieri e Digos di Varese.
Durante queste giornate sono state organizzate diverse forme di protesta, dal semplice volantinaggio ad azioni
simboliche come per esempio andare nei bagni del comune a riempire delle taniche d'acqua, per sottolineare come questa
amministrazione di sinistri abbia ben chiaro che l'acqua è un bene del Comune.
Venerdì 15, in seguito al taglio dell'acqua gli abitanti e alcuni solidali si recano in Comune per replicare la
protesta, all'ingresso trovano schierata la Polizia Locale che li aggredisce immediatamente con calci e pugni. La
domenica seguente nella piazza centrale di Saronno viene organizzato un partecipatissimo presidio, vissuto in maniera
attiva da molti saronnesi che si sono fermati a chiedere e discutere. Dopo le dichiarazioni del sindaco riguardo un
immediato sgombero della casa abbiamo presidiato ogni mattina per due settimane la casa di via Don Monza, gli sgomberi
per chi non si accorda con questure e caserme sono sempre a sorpresa, avere invece informazioni di questo tipo ci
sembrava un'occasione da non perdere. Ad oggi lo sgombero non è ancora avvenuto, ma gli sviluppi sembrano non fermarsi.
In questi giorni il sindaco Porro ha detto pubblicamente che non parlerà più delle occupazioni per lasciare maggior
spazio d'azione alle forze dell'ordine, come dire: lo sgombero annunciato e le conseguenti mobilitazioni mattutine si
son fatte sentire e hanno avuto il loro peso sul rinvio dello sgombero.
Sono partite per i fatti sopra accennati numerose denunce, le più disparate, dal furto di acqua (?!) alla resistenza e
ingiurie nei confronti degli sgherri della Polizia Locale, per arrivare a manifestazione non autorizzata per il
presidio, uno dei tanti che abbiamo organizzato senza autorizzazione in questi anni, ma che forse per significatività,
vista anche l'adesione di una fetta dell'associazionismo saronnese, come per esempio il Comitato Acqua Bene Comune, ha
dato più fastidio degli altri. Proprio in risposta a questo attacco alla nostra presenza nelle piazze e nelle strade
abbiamo indetto per questo sabato un altro presidio, simile a quello di due settimane fa, con l'accompagnamento musicale
di Alessio Lega. Il presidio è riuscito forse ancora meglio del precedente. A fine presidio Toffo si è recato in caserma
per le firme cui è sottoposto come misura cautelare in seguito agli arresti per gli scontri in Statale in difesa della
Ex-Cuem occupata. Un quarto d'ora dopo passando per caso davanti alla caserma lo abbiamo visto uscire a bordo di una
volante e accompagnato in maniera coatta a casa dei genitori dove è stato rimesso ai domiciliari con tutte le
restrizioni. L'inasprimento della cautelare è stato giustificato dal PM di Milano come conseguenza di alcuni ritardi
nelle firme e di reati che avrebbe accumulato in queste settimane di mobilitazione in difesa della casa occupata, reati
creati ad hoc dalla Polizia Locale di Saronno che in questa faccenda si è distinta per infamia.
L'utilizzo dell'inasprimento della cautelare per togliere persone attive nelle lotte o nelle situazioni di rottura
sembra essere una pratica sempre più utilizzata dal potere. Mediante l'accumulazione di denunce varie ed eventuali,
molte delle quali hanno in effetti dell'assurdo, riescono a delineare un profilo caratteriale il quale poi diventa di
per sé una prova di colpevolezza, senza bisogno di attendere gli ormai biblici tempi della (in)giustizia italiana,
troppo intasata per garantire l'immediato allontanamento degli indesiderabili. E' successo per Toffo ed è successo anche
per Giobbe, nostro amico e compagno della provincia di Varese, arrestato in quanto attivo nella lotta No Tav. Sempre in
provincia di Varese stiamo vivendo il processo a Busto per la lotta in solidarietà ai lavoratori delle cooperative della
Bennet di Origgio, i cui imputati rientrano tutti tra i solidali, come a voler da parte loro dividere la lotta, punire
in maniera esemplare chi interviene per portare solidarietà.
La strategia del potere sembra sempre più orientata verso l'allontanamento o l'incarcerazione delle persone che prendono
parte in maniera attiva alle tensioni che vengono emergendo in diverse zone d'Italia, è successo per la lotta contro gli
sfratti a Torino, è successo per i recenti arresti di Mattia, Claudio, Niccolo e Chiara ai quali è stato affibbiato il
pesante appellativo di terroristi, termine il cui uso mira proprio a separare e allontanare certe pratiche dalla
quotidianità di una lotta, come se fossero proprie di alcune grigie persone rinchiuse in scantinati a creare miscele
esplosive. Opporsi al Tav significa anche impedire che quelle maledette macchine facciano il loro sporco lavoro,
significa anche capire che attaccando questi quattro compagni attaccano una intera valle e una pratica, quella del
sabotaggio, rivendicata più volte dall'intero movimento.
L'attacco non è rivolto solo ai singoli arrestati, l'attacco è rivolto a tutti quanti.
Giovedì 12 dicembre alle 9 in Largo Cairoli: spezzone contro la repressione al corteo studentesco a Milano per Piazza
Fontana
Lunedì 16 dicembre alle 10: presidio solidale al processo a Busto per le lotte dei lavoratori delle cooperative alla
Bennet di Origgio
Sabato 21 dicembre: corteo a Saronno – giù le mani dalle lotte e dai compagni

Anarchiche e anarchici di Saronno
11 dicembre 2013, da informa-azione.info


LOGISTICA IN LOTTA
20 novembre. Due sono stati i picchetti nella serata, con partecipazione di diverse centinaia di lavoratori. Il primo
alla Camst, dove lo sciopero è iniziato alle 23.30, ha registrato la presenza di più di 200 persone, forte del sostegno
allargato di moltissimi lavoratori provenienti da tutti i comparti della logistica: quelli di Granarolo ovviamente, ma
anche dei Grandi Salumifici Italiani, dell'interporto, della DHL, di Artoni e della Fercam. Non è mancato inoltre
l'appoggio del personale di aziende provenienti da fuori Bologna, come quello dei facchini dell'Ikea di Piacenza. Lo
sciopero è terminato alle 9 del giorno dopo, solo dopo che per le 11 è stato fissato un incontro tra i vertici della
cooperativa Logiva (le cui mansioni sono assegnate in appalto a Camst) ed i delegati sindacali.
Nel frattempo, sempre presso l'interporto di Bologna, i lavoratori della Cogefrin hanno picchettato i due ingressi della
cooperativa adibiti al carico ed allo scarico delle merci. A partire dalle 6.30 sono stati 38 i tir ad essere bloccati.
I dipendenti della cooperativa (forti anche in questo caso della solidarietà di rappresentanze dell'Ikea di Piacenza e
della Camst) hanno deciso di optare per il picchetto ad oltranza: una scelta dettata dalla decisione unilaterale della
prefettura di far saltare il tavolo della trattativa aperto dopo l'accordo di luglio (accordo peraltro mai rispettato da
parte padronale).
Solo una dura aggressione della polizia è riuscita a mettere fine (temporaneamente) all'iniziativa che le 150 persone
presenti stavano portando avanti. Alle 9.30 infatti si sono presentati sul posto quattro blindati della polizia ed uno
dei carabinieri. Dopo un'ora di muro contro muro, i reparti della celere sono intervenuti in modo brutale, trascinando
sull'asfalto i lavoratori, in quel momento seduti a terra a protestare. Sono stati sette i compagni e le compagne
fermate (rilasciati dopo mezz'ora). In un secondo momento un'ambulanza è sopraggiunta per medicare alcuni facchini
rimasti feriti durante lo sgombero del picchetto.

Il 29 novembre si è tenuto a Bologna un corteo selvaggio e meticcio, con le prime file del corteo a raccontare la
reciprocità tra i facchini in lotta contro il sistema mafioso delle cooperative e gli occupanti di case, tra gli
studenti in lotta nei licei e all'università e i comitati contro la costruzione di grandi opere inutili, tra i militanti
del sindacalismo conflittuale e quelli dei centri sociali.
Davanti all'occupazione di Asia-Usb in via Irnerio si sono ribadite ancora una volta le cifre drammatiche dell'emergenza
abitativa bolognese, scandite con forza anche dagli interventi effettuati dagli occupanti di Social Log. Davanti invece
allo studentato occupato Taksim fuochi d'artificio e uno striscione srotolato dal tetto con scritto “Questa università
non è un albergo, alloggi libri mensa li paghi l'Er.Go.”
Una volta arrivati di fronte alle porte del Comune, ovviamente serrate come da prassi delle istituzioni di fronte alle
richieste popolari, la violenza della polizia si è mostrata l'unica risposta capace di allontanare i manifestanti che
assediavano l'entrata al grido di : “Casa, reddito, dignità!”. Ma nemmeno le manganellate sono riuscite a smorzare la
rabbia di chi era in piazza e ha poi voluto simbolicamente prendersi uno spazio pubblico centrale come la biblioteca
comunale per portarvi contenuti di rottura alle sofferenze del presente, ma anche le tende per accamparvisi per tutta la
notte. L'assessore comunale al Welfare Frascaroli (in quota SeL) ha provato in maniera ipocrita a rimanere in Sala Borsa
occupata, venendo poi immediatamente scacciata fuori dagli occupanti che hanno testimoniato per l'ennesima volta la loro
completa mancanza di fiducia nei confronti di istituzioni assenti di fronte alle emergenze sociali che vivono in città.

6 dicembre: processo di Basiano, vincono gli operai
Sono trascorsi 18 mesi di distanza dalla mattanza sociale e militare di Basiano (70 operai licenziati, 19 arresti, 30
feriti fra cui 2 gravi). Un aggressione militare che ha sancito lo schieramento definitivo e inequivocabile dello stato
democratico dalla parte del sistema di caporalato e sfruttamento rappresentato dalle cooperative.
E’ terminato il primo processo a carico degli operai licenziati. La sentenza è stata netta: assoluzione con formula
piena e trasmissione degli atti alla procura per indagare sulle responsabilità delle forze dell'ordine in relazione al
pestaggio subito dell'imputato.
La sentenza non fa certo giustizia del torto subito dagli operai né permette di colpire al cuore gli interessi di classe
che hanno partorito quel livello di violenza.
Gli applausi dei solidali presenti in aula non sono stati quindi un tributo alla giustizia finalmente ripristinata, ma
piuttosto un saluto al movimento di lotta dei facchini, e più in generale della classe operaia immigrata, che sta
cominciando ad avere un suo peso politico e ad incidere anche all'interno rei luoghi preposti a difendere lo stato
borghese e gli interessi capitalisti. Il fatto che da Basiano in poi il movimento sia costantemente cresciuto a livello
nazionale è la prova più tangibile che la repressione, costante permanente contro gli opera che si organizzano e
lottano, non solo non è onnipotente ma a volte finisce per alimentare ulteriormente la lotta di classe stessa. La
determinazione operaia è la discriminante.

10 dicembre: Sciopero in DHL
In anticipo sui tempi previsti è cominciato alle 22.30 lo sciopero dei facchini della DHL nell'impianto di Carpiano
(Mi), il più importante a livello nazionale (circa 110 operai, di cui il 90% iscritti al SI.Cobas) . Al centro della
piattaforma il recupero del pregresso e il riconoscimernto di diritti fondamentali quali quello alla malattia e
all'infortunio, tuttora soggetti ai truffaldini regolamenti interni delle cooperative.
A due ore dall'inizio dello sciopero i massimi dirigenti del colosso tedesco delle spedizioni (1^ azienda in Italia nel
settore dei trasporti e della logistica) si presentano ai cancelli dell'azienda prima cercando di accusare il sindacato
di manovrare gli operai e mandarli al macello poi, di fronte alla reazione veemente e convinta degli operai, vengono
riportati a più miti consigli, accettano di prendere visione delle "buste paga incriminate" e quindi di sedersi al
tavolo per trovare una soluzione. Il consorzio Lintel (ex Gesco), su esplicita richiesta del SI.Cobas, non viene
accettata come interlocutore. La partita si gioca tra operai e capitalisti. I caporali semmai interverranno
successivamente. Questo, in realtà é il vero risultato raggiunto stanotte.
Nel merito della vertenza la DHL ha acquisito i nostri conteggi (in totale si parla di circa 450 mila euro lordi in 28
mesi di servizio), dichiarandosi disponibile, previa verifica, a intervenire economicamente, anche con un acconto
cospicuo entro il 25 dicembre per poi stendere un accordo che più complessivamente possa riguardare il riconoscimento
della malatia, la flessibilità dell'orario, un premio di risultato annuo.
La partita con la DHL si è quindi definitivamente aperta. L'intenzione del SI.Cobas di Carpiano è quella di mettere in
piedi un tavolo nazionale, che unisca in un unico sforzo le "roccaforti sindacali" di Milano e Bologna e faccia da
sponda per altre situazioni più arretrate, come Roma, sottoposte ad un attacco diretto da parte dei caporali della
Gesco.

13 dicembre: sciopero vincente alla Kuehne-Nagel (PV)
S. Cristina, provincia di Pavia, nella periferia del nulla, in mezzo alla nebbia che impedisce di scorgere l'alba,
l'unica luce visibile è quella degli 80 facchini/e che costruiscono il loro sciopero fin dalle 5,30. Sul tappeto le
solite questioni: un cambio appalto, un contratto nazionale calpestato su tutti i terreni economici e normativi e,
soprattutto, il tentativo di espellere il SI.Cobas, anche attraverso il licenziamento di 4 suoi attivisti. Blocco dei
camion e dei crumiri (con lievi tafferugli ai cancelli) hanno assicurato allo sciopero una condizione di vantaggio che
si è concretizzata dopo 8 ore, allorquando le forze dell'ordine dopo aver rifiutato la richiesta dei padroni (la Kuehne-
Nagel e il consorzio B&M) di utilizzare la forza per liberare i cancelli, convocano sul luogo ispettorato del lavoro che
contribuisce a inchiodare definitivamente la cooperativa. Risultato: ritiro del regolamento interno, riconoscimento
definitivo del cobas, ritiro dei licenziamenti.

14 dicembre: sciopero alla Carrefour di Assago, un altro passo avanti
Sulla spinta dell'inequivocabile vittoria riportata in mattinata ai magazzini Carrefour in mattinata, 30 operai di S.
Cristina, unitamente ad una delegazione del CSA Vittoria si presentano davanti ai cancelli della Carrefour di Assago per
dare sostegno ai loro compagni che hanno proclamato sciopero contro i tagli sul salario che perdurano ormai da oltre tre
anni (circa 250€ mensili nette di ammanco, tra ore mancanti, stato di crisi inensistente e istituti). Lo sciopero
coinvolge l'80% dei lavoratori e costringe la cooperativa Serim e giungere sul posto e rimangiarsi seduta stante il non
riconoscimento del sindacato, fissando un incontro per i primi di gennaio in cui discutere i contenuti della piattaforma
rivendicativa. Lo stato di agitazione è momentaneamente sospeso ...insieme alle prestazioni straordinarie.

Dicembre 2013, liberamente estratti da comunicati del SI.Cobas


Genova: luci e ombre di una grande lotta
La lotta dei lavoratori delle aziende partecipate genovesi contro la delibera privatizzatutto della Giunta Doria ha
visto chiudersi il primo atto con la movimentata assemblea dei tranvieri svoltasi sabato. Ora è utile cercare di trarne
un bilancio, evitando possibilmente di incorrere in inutili mitizzazioni, come in passato si è fatto con l’INNSE,
Pomigliano, Fincantieri. Si è trattato infatti di una mobilitazione straordinaria, attraversata tuttavia da limiti e
contraddizioni. A Genova è scoppiata la rabbia di migliaia di lavoratori, accumulatasi nell’arco degli anni, e il
sindacato, in particolare quello dei tranvieri, ha capito che non avendo l’autorevolezza per contenerla, non rimaneva
che cavalcarla. E lo ha fatto guardandosi bene dall’indicare degli obiettivi concreti da portare a casa. Col risultato
che i lavoratori si sono trovati in una situazione in cui o ottenevi un risultato oppure dovevi andare avanti a
oltranza, mentre la stanchezza, le sanzioni, la pressione per riprendere il servizio crescevano. A quel punto il
sindacato si è inventato una trattativa senza alcun mandato, firmando un accordo che da una parte fa entrare il privato
in AMT attraverso l’esternalizzazione delle linee collinari, dall’altra copre il buco finanziario con risorse in parte
inventate (recupero dell’evasione) e infine dà ancora una volta ai lavoratori ‘garanzie’ inesigibili suoccupazione e
retribuzioni. Il pasticcio della “votazione” in assemblea, con la contestazione ai sindacalisti e il lancio di decine di
tessere contro la presidenza è il segno che il sindacato, come la politica, da questa vicenda ne esce con le ossa rotte.
La lotta di questi giorni d’altra parte ha prodotto alcuni risultati importanti. Intanto i lavoratori di diverse aziende
per la prima volta hanno capito che stavolta bisognava lottare insieme e la forza di questa mobilitazione unitaria è
stata amplificata dal clima di simpatia, per nulla scontato, creatosi in città intorno a questi lavoratori, nonostante i
disagi prodotti dallo sciopero. D’altro canto rispetto alla privatizzazione le dichiarazioni dell’AD di BusItalia (non
siamo più interessati ad AMT) confermano che un privato, prima di comprarsi un’azienda con un tale livello di conflitto,
ci penserà non una ma 20 volte. Ma allo stesso tempo i lavoratori hanno sperimentato che la forza, senza una strategia e
senza generali affidabili, rischia di essere inefficace o comunque meno efficace di quanto potrebbe. Se il passo falso
di sabato diventa un’occasione per riflettere su questo punto allora la battaglia non è persa, ma semplicemente
rimandata e può essere ancora vinta.
25 novembre 2013
da lnx.associazionecontrocorrente.org