indice n.76

Tunisia: sull’assassinio di Chokri Belaid
L'esecuzione di Sakine, Rojbin e Leyla a Parigi
turchia: proteste contro “lo stazionamento dei “Patriot”
L’Agfghanistan di Hollande, la guerra in Mali si estende
AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
lettera dal carcere di San Gimignano (SI)
16 febbraio: Presidio sotto il carcere di Saluzzo (cn)
lettere dal carcere di Saluzzo (cn)
Lettera dal carcere di S. Vittore (mi)
Milano, SABATO 9 MARZO: MANIFESTAZIONE sotto san vittore
lettera dal carcere di Prato
bergamo, 16 febbraio: PRESIDIO CONTRO IL CARCERE
lettera dall’OPG di Montelupo fiorentino (FI)
Lettere dal carcere “Pagliarelli” di Palermo
comunicato dal carcere di san michele (al)
Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Odissea persecutoria della tortura del 41 bis
Bologna: Resoconto dell’assemblea “uniti contro la repressione”
Mobilitiamoci per Georges I. Abdallah!
Resoconto giornate per Marco Camenisch a Milano
aggiornamenti dalla lotta contro il tav
Processo 14/12/2010: un solo condannato a 2 anni e 6 mesi
TERAMO, 9 febbraio: COMPLICI E SOLIDALI CORTEO NAZIONALE
Lettera dal carcere di Alba (cn)
milano: continua il processo per la lotta della INNSE

Tunisia: sull’assassinio di Chokri Belaid
La mattina del 6 febbraio, è stato assassinato con quattro colpi di pistola Chokri Belaid, leader del Partito dei Patrioti Democratici, e tra le figure di spicco del Fronte Popolare Tunisino (raggruppamento che unisce partiti e associazioni dell'estrema sinistra, e della sinistra di classe in Tunisia). Avvocato originario della regione di Sousa, ha dedicato la sua vita al fianco degli oppressi dai regimi, e degli ultimi della società. L'omicidio politico si iscrive in un clima ad altissima tensione che scuote la Tunisia da mesi e sul cui sfondo si muovo le strategie di normalizzazione neoliberista orchestrate da Obama e petrol-monarchie. L'instabilità della transizione si manifesta nelle contraddizioni interne alla maggioranza, guidata dal Partito Ennahdha, che sei mesi fa, durante il congresso del movimento, aveva annunciato la necessità di riorganizzare il governo. Le lacerazioni interne al partito islamista provocate dalle due correnti, una di governo e più pragmatica, l'altra decisamente ideologica e orientata a islamizzare il prima possibile la società tunisina, si sono approfondite di settimana in settimana. Da una parte le continue rivolte sociali che costellano ad intermittenza tutta la Tunisia, e dall'altra una “governance” compiacente delle fazioni salafite radicali, minoritarie ma compatte e determinate, stanno facendo emergere la fragilità della così detta transizione democratica a guida Ennahdha.
L'omicidio politico, che ha visto i famigliari di Belaid accusare direttamente il governo ed Ennahdha, va letto sia come effetto dei giochi di potere interni alla maggioranza, che come strategia di attacco all'opposizione radicale tunisina. Da mesi Belaid riceveva minacce a causa del suo impegno politico e per essere una delle voci della verità e della giustizia sociale in Tunisia. Non aveva mai perso l'occasione per denunciare pubblicamente i misfatti e le ingiustizie degli islamisti al potere. Lo scorso martedì Belaid rivolgendosi pubblicamente contro il leader di Ennadha e il ministro degli interni aveva denunciato “dei tentativi di smantellamento dello stato e la creazione di milizie per terrorizzare i cittadini, e trascinare il paese in una spirale di violenza tramite la Lega della Protezione della Rivoluzione”. Affermazioni pubbliche di verità che Belaid aveva coraggiosamente rivolto alle autorità accusando la sedicente organizzazione della “Lega della Protezione della Rivoluzione” di funzionare da ala paramilitare al servizio del progetto di islamizzazione violenta architettato dal partito islamista al governo e dalle fazioni salafite. Ed oggi è stato punito a morte. Non appena si è diffusa la notizia in moltissime città del paese si stanno susseguendo manifestazioni di protesta, tra la rabbia e la rivendicazione di quella giustizia per cui Chokri Belaid ha dato la vita. A Tunisi sotto il ministero degli interni nell'avenue Bourguiba si sono radunati tantissimi manifestanti che rilanciano gli slogan delle insurrezioni del 2011 e la polizia ha iniziato a caricare e a lanciare la crimogeni. In altre città diverse sedi del partito Ennadha sono state saccheggiate e date alle fiamme.
La collera non si placa in Tunisia, le manifestazioni continuano in tutto il paese puntando dapprima sulle sedi del partito Ennadha per darle alle fiamme, e poi verso le questure. Sembra che a Gafsa il ministero degli interni abbia dato l'ordine alle autorità cittadine di liberare tutti i dormitori pubblici per dare spazio ai nuovi plotoni di poliziotti.
A Tunisi gli scontri scoppiati nel centro, dopo la grave provocazione poliziesca contro il corteo di saluto e l'ambulanza che portava la salma di Chokri Belaid, si sono diffusi nel resto della città. Barricate in fiamme, lacrimogeni, lanci di pietre e manganelli continuano a contendersi il territorio, mentre secondo la pagina facebook ufficiale dell'UGTT [sindacato con mezzo milione di iscritti e grande influenza nel paese, ndc] la polizia ha tentato di sfondare le porte della centrale sindacale. Stessa sorte per Tanit Press, agenzia stampa, i cui locali sono stati oggetto di lanci di lacrimogeni e i giornalisti aggrediti dai celerini.
Il Fronte Popolare Tunisino si è dimesso ufficialmente dall'Assemblea Nazionale Costituente, e sembra che anche tutti gli altri partiti d'opposizione abbiano annunciato le dimissioni dei propri rappresentanti. E la crisi istituzionale più profonda che la Tunisia post-elezioni(farsa) abbia conosciuto. Intanto in rete sta circolando in video dove vengono ripresi alcuni esponenti di fazioni islamiste radicali declamare la condanna a morte contro Chokri Belaid, considerato un comunista e nemico dei loro progetti.
Sono migliaia i tunisini e le tunisine che hanno accompagnando la salma di Chokri Belaid verso il cimitero El Jellaz di Tunisi scandendo con rabbia e determinazione “il popolo vuole la caduta del regime”. Altre migliaia salutano dai lati della strada e tantissimi sono già all'ingresso del cimitero. E' la giornata della rabbia contro Ennahdha, è la giornata di lotta dello sciopero generale che si oppone alla contro-rivoluzione.
L'Avenue Bourguiba era completamente blindata e militarizzata da militari, celere e corpi speciali della polizia, armati di tutto punto e coperti da passamontagna. Il dispositivo sicuritario non permette a nessuno di avvicinarsi nel grande viale della capitale dove si affaccia il ministero degli interni. Diversi video girati da mediattvisti mostrano i corpi speciali aggredire e scaraventarsi contro chiunque faccia qualche passo avanti nella direzione dell'avenue.
L'emittente filo-islamista AlJazeera sta vincendo anche oggi il primato della disinformazione e della mistificiazione mandando immagini del corteo di Chokri Belaid riprese dall'alto, montando immagini che sembrano zoommare sulla folla, ma al posto di quelle vere, appaiono vecchie manifestazioni a sostegno di Ennadha.
Il capo del governo Jabali ha annunciato una conferenza stampa nelle prossime ore dopo aver incontrato l'ambasciatore francese a Tunisi.
Si registrano scontri a Mahdia, dove è stata incenerita una sede di Ennahdha, Hammam Lif, dove i manifestanti da ore tentano di incendiare la questura, mentre a Sfax e in altre località del centro del paese continuano le manifestazioni e le ostilità tra manifestanti e celere.
L'aeroporto, il porto, e le attività pubbliche e private sono completamente bloccate. I primi bollettini del sindacato UGTT e testimoni contattati pochi minuti fa, ci parlano di una Tunisia completamente ferma, solo le farmacie e i panifici restano aperti come indicato dal sindacato. [...]
Durante tutta la giornata el 6 febbraio si sono ripetuti scontri durissimi tra polizia e manifestanti, in alcuni casi oltre agli assalti alle poche sedi di Ennahdha ancora in piedi, ci sono state vere e proprie jacquerie, come a Sfax, mentre a Gafsa durante gli scontri un poliziotto è stato linciato dalla folla ed ora è in fin di vita.
La crisi istituzionale non trova ancora soluzione dopo che Ennadha ha rifiutato la proposta di Jebali di formare un governo tecnico di unità nazionale. Ma d'altronde con l'assemblea costituente partecipata dai soli rappresentanti dei partiti della maggioranza di governo sembra quasi impossibile una ricomposizione istituzionale. Anche in questo caso sarà la piazza ad essere decisiva: la mobilitazione e la rivolta sociale seguita all'omicidio di Belaid ha funzionato da vero e proprio terremoto politico e istituzionale, e la convocazione dello sciopero generale da parte dell'UGTT ne è solo una manifestazione. Intanto ieri notte, come alcuni video diffusi in rete testimoniano, le milizie di Ennahdha hanno annunciato di essere in mobilitazione e di voler difendere con ogni mezzo il governo e il partito islamista.

febbraio 2013
da infoaut.org


L'esecuzione di Sakine, Rojbin e Leyla a Parigi
Centomila kurdi chiedono giustizia e verità sull'omicidio delle tre militanti kurde avvenuto il 9 gennaio.
Parigi, sabato 12 gennaio. Il cielo grigio di Parigi e la fine pioggia riflettono lo stato d'animo delle decine di migliaia di kurdi che sono arrivati nella capitale francese per chiedere al governo Hollande verità e giustizia sulle esecuzioni, il 9 gennaio, di Sakine Cansız, Fidan Doğan (Rojbin) e Leyla Şaylemez. Tre donne kurde, tre militanti, tre generazioni diverse. Sakine Cansız (55 anni) è stata una delle fondatrici del PKK, una vita, la sua, vissuta al servizio del suo popolo, per il quale desiderava pace, giustizia, libertà. Rojbin Doğan (32 anni) era la rappresentante a Parigi del Congresso Nazionale del Kurdistan. Il suo sorriso era contagioso: trasmetteva ottimismo. Leyla Şaylemez (24 anni) si era unita al movimento di liberazione del suo popolo in Europa, lavorava con i giovani.
Sakine, Rojbin e Leyla sono state giustiziate, colpite alla testa da killer spietati e preparati. Sono morte all'interno dell'ufficio di informazione del Kurdistan, nell'affollatissima Rue Lafayette, dietro la Garde du Nord, tra le 18 e le 19 (dice l'autopsia) del 9 gennaio. Nessuno ha visto niente, nessuno ha udito nulla.
Gli occhi dei centomila qui a Parigi sono umidi e rossi, non tanto per il lungo viaggio insonni che li ha portati qui, ma perché queste esecuzioni sono dirette anche a loro. Il messaggio dei mandanti di questo efferato omicidio è chiaro. Chi ha ucciso Sakine, Rojbin e Leyla ha cercato di uccidere anche la volontà e la determinazione dei kurdi, del loro lavoro per la pace, la libertà, la giustizia.
I mandanti hanno un messaggio chiaro anche per il PKK e per il suo leader, Abdullah Öcalan: non sopportiamo la vostra idea di società. Non sopportiamo le vostre proposte per una nuova relazione tra le nazioni, tra le genti della Turchia. Non sopportiamo nemmeno l'idea di una società dove le donne non siano subalterne e pensate che vi lasceremo provare a costruirla?
Sakine, Rojbin e Leyla sono state giustiziate proprio perché rappresentavano la summa di quello per cui il PKK lotta: la liberazione delle donne, la liberazione dei giovani, la liberazione delle nazioni, la pace, la giustizia, il dialogo, la libertà. Sono state giustiziate perché donne, perché kurde e perché militanti.
I killer erano dei professionisti. L'esecuzione ben pianificata, preparata con tempo. Esecuzione stile SAS, le teste di cuoio inglesi. Difficile non pensare a Gibilterra 1988 (il 6 marzo 1988 le SAS giustiziarono 3 militanti dell'Ira, Mairead Farrell, Sean Savage e Danny McCann, in pieno giorno, nella strada principale). O all'ex primo ministro israeliano Golda Meier, dopo l'azione palestinese alle Olimpiadi di Monaco, nel '72. La Meier ordinò al Mossad: "Andate, scovateli e giustiziateli: ecco la lista". In vent'anni l'operazione “Collera di Dio” portò all'esecuzione – in vari paesi europei – di tutti quei palestinesi che il governo israeliano riteneva responsabili dei fatti di Monaco.
Il fatto che il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan abbia suggerito a poche ore dalla scoperta dei corpi di Sakine, Rojbin e Leyla che "sembrerebbe un lavoro interno" indica solo la coda di paglia di chi – sapendo di essere in qualche modo coinvolto – si affretta ad indicare possibili sospetti.
Ma se la reazione del governo turco era prevedibile, quella della stampa turca deplorevole ma altrettanto prevedibile, quello che è inaccettabile è l'accodarsi vigliacco e complice della maggior parte dei media internazionali (ed europei in particolare) spenti portavoce di poteri non più così forti. L'occidente, l'Europa che tanta responsabilità ha nella persecuzione infinita dei kurdi (a partire dall'Italia che, governo D'Alema, condannò di fatto Öcalan alla cattura) ha dimostrato ancora una volta la sua nullità politica.
Rendition flights, rapimenti, esecuzioni condotte sul proprio territorio senza che nessuno alzi un dito o la voce. Servizi segreti di questo e quel paese che scorrazzano liberi di fare il bello e il cattivo tempo in questo o quel paese d'Europa. La sinistra (ma esiste una sinistra in Europa? a livello istituzionale, s'intende, perché sul campo, sì che esiste e resiste) ha la sua parte di responsabilità. Non ha mai smesso di pensare con questa paternalista (e razzista) mentalità occidentale per cui esiste un "noi" e un "loro". Fino a quando la sinistra in occidente non si libererà di questa mentalità colonialista cominciando a pensare e ad agire in termini di "noi" inteso come un unico "noi" nord e sud, est e ovest, non ci saranno, purtroppo, grandi speranze di qualcosa di diverso dal nulla politico che abbiamo di fronte.
No, nessuna faida interna al PKK. La Turchia è una cosa complessa. Questo "nuovo" processo (ma si può definire "processo"?) è guidato dal capo del MIT (i servizi segreti turchi) Hakan Fidan e consiste in una serie di incontri tra lo stesso Fidan e il leader del PKK Abdullah Öcalan (nel carcere di Imrali dal 1999) per "vedere se si raggiunge un accordo". Accordo su che cosa? Sul disarmo del PKK, dice il governo AKP, anzi, più precisamente, sull'abbandono delle armi e il ritiro oltre confine.
"L'obiettivo è quello di ottenere che il PKK deponga le armi – ha spiegato lunedì 14 gennaio il parlamentare e consulente principale di Erdogan, Yalçın Akdoğan – e questo significa il ritiro del PKK fuori dai confini della Turchia. Questo non è qualcosa che si otterrà dopo che il governo avrà fatto alcuni passi come sostiene il PKK. Il ritiro dal paese è il primo passo. Il processo avrà significato solo se questo passo avverrà". Un processo di dialogo che inizia con una precondizione (e che precondizione: l'abbandono di armi e del suolo kurdo), già non può essere definito tale.
Allora, chi ha ordinato le esecuzioni di Parigi? Una parte dei servizi segreti, il cosiddetto derin devlet, lo stato profondo, la gladio turca, quell'oscuro mix di generali, servizi segreti, magistratura, mafia? Molto probabile. I segni inconfondibili del loro lavoro ci sono tutti.
Ma c'è qualcosa in più. Erdogan non è sincero per quello che riguarda questo "nuovo processo". Il premier turco ha bisogno di tempo (il prossimo anno ci sono le elezioni amministrative). Ha perso credibilità tra i suoi deputati kurdi oltre che tra la base kurda dell'AKP. Ha bisogno di tempo per riconquistare la loro fiducia. Ma tutto indica che non ha intenzione di negoziare veramente per arrivare a una soluzione del conflitto kurdo, a una pace giusta e duratura.
La Francia deve rispondere a molte domande. Deve farlo in fretta se non vuole essere annoverata tra i complici di questo brutale omicidio. Rue Lafayette, dietro la Gare du Nord, è una via affollata. L'ufficio di informazione del Kurdistan dove le tre militanti kurde sono state assassinate è un luogo molto sorvegliato dalla stessa polizia francese. Sicuramente anche gli spostamenti di Sakine Cansız erano monitorati.
I centomila kurdi che a Parigi, sabato scorso, hanno chiesto verità e giustizia, con il cuore spezzato hanno mandato un messaggio chiaro ai killer: Continueremo a scegliere il dialogo e la pace. Continueremo a denunciare le vostre menzogne. I terroristi siete voi. I nostri occhi sono umidi ma non ci fermeremo finché i colpevoli di queste esecuzioni non saranno scovati. Staremo col fiato sul collo del governo francese, non molleremo finché giustizia sarà fatta, come ha detto la co-presidente del BDP (Partito della Pace e della Democrazia) Gülten Kışanak.

Orsola Casagrande, 14 gennaio 2013
da infoaut.org
turchia: proteste contro “lo stazionamento dei “Patriot”
Le forze armate tedesche (Bundeswehr) questa settimana hanno dato inizio nella città di Kahramanmaras (Turchia) all’installazione dei “Patriot” – sistema di difesa-controspionaggio aereo. L’opinione pubblica in Germania, diversamente che in passato, è stata informata dell’operazione in modo dettagliato. Il parlamento tedesco (Bundestag) il 14 dicembre scorso ha deciso l’invio dei “Patriot” assieme al sostegno tecnico per la loro installazione e impiego. Così l’8 gennaio 2013 sono partiti dal porto di Lubecca e da Berlino, diretti in Turchia, 240 soldati, 300 gipponi militari, 130 container. Nei media si è scritto e parlato di “intervento simbolico con rischi limitati”.
“L’intervento simbolico” sfocia nella violenza più rapidamente di quanto si supponga. Davanti all’ambasciata tedesca di Ankara, alla base aerea di Incirlik e a Kahramanmaras nelle giornate precedenti sono esplose le proteste contro l’intervento della NATO. Le “forze di sicurezza” turche hanno impiegato contro i manifestanti manganelli, spray con il pepe e gas lacrimogeni. Ad Iskendrun (città turca) cinque soldati tedeschi, vestiti in civile, “insultati e accerchiati”; hanno trovato riparo in un vicino negozio.
L’“intervento simbolico” incontra e approfondisce ostilità nella società turca. Certamente sia i kemalisti (atei, ma soprattutto nazionalisti) che gli islamici manifestano contro l’intervento della NATO. Il nucleo forte della protesta tuttavia è costituito dalla sinistra e dai gruppi kurdi, i quali si sentono minacciati dallo stazionamento dei “Patriot”.
La situazione è resa ulteriormente incandescente dalle sempre più frequenti operazioni condotte dall’“Esercito Libero Siriano” nei territori controllati dai kurdi in Siria, nei pressi del confine con la Turchia. Questo esercito fa uso anche di carri armati, con ogni probabilità provenienti dalla Turchia, il cui impiego viene in ogni caso tollerato da questo stato. Le presunte truppe simboliche della NATO in quel territorio, ora formate da soldati inviati da Germania, Olanda e USA, devono essere capite come base di sostegno in vista dell’ulteriore militarizzazione e estensione del conflitto in Siria.
La decisione della NATO, è chiaro, sostiene l’attuale escalation militare in corso in Turchia. L’impegno del patto militare viene assunto in nome dei “diritti fondamentali del popolo”, come è anche detto nel mandato votato dal Bundestag. Va ricordato che la Turchia è membro della NATO, e che ha richiesto il sostegno militare-legale, in seguito all’abbattimento di un suo caccia compiuto nelle settimane scorse dalla contraerea siriana. Questo fatto, unito al sostegno deciso dal governo di Berlino nei confronti dell’opposizione siriana in esilio, è alla base dell’accennata votazione favorevole all’invio di soldati e mezzi tedeschi nei territori dell’alleata Turchia. E’ completamente inesistente, ad ogni modo, la minaccia di un intervento della Siria nel territorio turco. Ed è altrettanto certo che nello scenario previsto dagli stati occidentali, relativo al presunto impiego di armi chimiche da parte della Siria, i missili Patriot non sono utilizzabili – questo almeno prevede il mandato del Bundestag.
La solidarietà “simbolica” dell’alleanza, in ogni caso consolida la Turchia come cane da guardia della NATO; funzione che va ben oltre la Siria. Subito dopo la decisione di installare i Patriot in Turchia, il segretario generale della NATO Rasmussen ha reclamato un deciso intervento contro l’Iran e persino contro la Russia. Per adempiere a questi compiti le basi NATO in Germania, in particolare Ramstein, sono già in coordinazione attiva fra loro e dotate dei mezzi necessari.
La geopolitica è presente adesso anche nei dibattiti in Turchia. Ad esempio, nei giorni scorsi la radio tedesca citava, in relazione allo stazionamento dei Patriot in Turchia, la seguente dichiarazione del politologo turco Fikret Birdisli: “Noi non dobbiamo dimenticare che il regime siriano è sostenuto da Russia, Iran e Cina. Di fronte a questo blocco, il sostegno della NATO per noi ha grande significato.” Invece la sinistra e i kurdi vedono tutto questo in modo completamente diverso. Il “contributo simbolico” della NATO in Turchia è un triste esempio di come nell’ingranaggio della geoplitica possano essere internazionalizzate le guerre civili e pilotati i conflitti sociali interni.

Sevim Dagdelen (*), 24 gennaio 2013
da www.jungewelt.de/2013/01-24/001.php

(*) Sevim Dagdelen è portavoce del gruppo della Sinistra per rapporti internazionali e membro della Commissione Esteri del Bundetag.


L’Agfghanistan di Hollande, la guerra in Mali si estende
E’ passata una settimana dall’inizio dell’intervento militare della Francia nel Mali, sua ex colonia nel nord dell’Africa. Secondo il presidente della Francia François Hollande in gioco ci sono la pace, la democrazia e la lotta contro i ribelli islamici, che hanno preso sotto il proprio controllo il nord del paese. In ogni caso, per la Francia, potenza nucleare, è innanzitutto messa in pericolo la sicurezza della ricerca-approvvigionamento dell’uranio.
Afghanistan, Irak, Pakistan, Somalia, Libia (*) e adesso Mali – in tutti questi paesi Usa, Francia e Gran Bretagna negli ultimi anni conducono assieme o da soli guerre e uccidono islamici. Adesso Parigi deve mettere in conto attentati in Nordafrica e in Francia stessa.
Mercoledì 16 gennaio, è stato preso d’assalto da un gruppo islamico (composto da circa 15 guerriglieri) l’impianto per l’estrazione di gas naturale di In Amenas (Algeria**), dove sono stati presi in ostaggio almeno 40 tecnici di diverse nazionalità. Secondo alcune fonti i guerriglieri avrebbero dichiarato che l’assalto è da considerare una rappresaglia dovuta all’invio di unità militari francesi in Mali.
Hollande è stato a suo tempo uno dei critici più taglienti dell’invasione nel 2003 dell’Irak decisa e condotta dagli Usa in modo unilaterale, cioè senza alcuna votazione dell’Onu. Poco dopo la sua elezione Hollande ha ritirato in anticipo gran parte delle truppe francesi dislocate in Afghanistan. Tanto più sorprendente appare ora quindi la sua, altrettanto unilaterale, decisione dell’invasione del Mali del nord, non coordinata con gli alleati.
La Francia infatti non dispone di nessun mandato dell’Onu. La Francia, potrebbe dichiarare: il suo presidente, vuole mettere in salvo ogni perplessità di fronte ai problemi economici della Grande Nazione. Formalmente Parigi può far richiamo all’appello lanciatole dal governo marionetta insediato in Mali e al sostegno ricevuto da parecchi stati della medesima regione africana. In ogni caso ha deciso e agito da sola. Questo riflette quanto sia caduta in basso, negli ambiti politici alti dell’Unione Europea, la dottrina dell’intervento multilaterale relativamente alla politica della sicurezza e della difesa comune europea. Oltre a ciò, il modo d’agire francese si mostra come un chiaro tentativo di aggirare il Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
In ogni caso Hollande ha sbagliato nei suoi calcoli. La guerra in Mali non durerà affatto poche settimane. E’ già chiaro sin da subito che c’è da attendersi una forte resistenza. La Legione straniera da sola non è sufficiente; dovrà piangere anche la madre francese. Sulla Francia incombe un “Afghanistan”, una guerra senza fine. La presa di ostaggi in Algeria e le possibilità dei ribelli di ritirarsi nei paesi vicini, mostrano quanto sia rapida e vicina l’internazionalizzazione del conflitto. Questa trasformerà la guerra in Mali in un’avventura, prolungherà e rincarerà la scelta compiuta oggi dalla Francia in una misura che nessun governo può permettersi. Tanto meno se in Francia verrà imposta una “politica di risparmio”, di tagli alla spesa sociale.

(*) L’11 settembre 2012, chiaramente in rapporto all’abbattimento delle Torri gemelle di New York del 2001, nella città di Bengasi è in programma la proiezione del film L’innocenza dell’Islam, contestato nelle settimane scorse anche in Egitto; una manifestazione organizzata contro quella proiezione si trasforma in un assalto all’ambasciata Usa. L’ambasciatore, Chris Stevens, costretto alla fuga, viene ucciso assieme a due marines mentre tenta la fuga. Ndt

(**) Giacimento di petrolio sfruttato dalle multinazionali BP (Inghilterra), Statoil (Norvegia) e Sonatrach (franco-algerina). L’intervento dell’esercito algerino ha causato la morte dell’intero commando assalitore, almeno 15 combattenti, e di almeno 40 tecnici di diverse nazionalità. Nel luogo dell’attacco lavoravano circa 680 algerini e oltre 100 europei, giapponesi. I guerriglieri forniti di armi lunghe e pare anche di mortai, hanno preso in ostaggio un numero imprecisato, senz’altro 50, soltanto tecnici europei e giapponesi. Le unità speciali algerine per avere ragione degli assalitori hanno impiegato oltre due giorni, uccidendo tutti i guerriglieri e oltre 40 ostaggi. I media occidentali hanno taciuto le dichiarazioni o altro avanzato dai guerriglieri definiti “terroristi di Al Qaida”. Ndt

Rainer Rupp, 18 gennaio 2013
da www.jungewelt.de/2013/01-18/049.php


AGGIORNAMENTI DALLA LOTTA DENTRO E CONTRO I CIE
CIE di Bologna
Quattro reclusi nordafricani durante le notte di capodanno tentano la fuga, purtroppo sono bloccati dalla polizia. C’è stato anche un lancio di oggetti verso le forze del disordine.

CIE di Gradisca (Go)
1 gennaio. Circa una ventina di reclusi escono dalle proprie camere e riescono ad impossessarsi delle chiavi delle porte che separano le stanze dalla zona mensa e dall’area adibita a magazzino. Giunti al magazzino si armano di tutto punto, prendono grossi lucchetti e degli estintori, bottigliette di plastica riempite di sassi e sabbia. Tutte le forze della sorveglianza, poliziotti, militari e finanzieri vengono raggiunti dagli estintori e dagli oggetti lanciati dai rivoltosi. Nel marasma generale 7 prigionieri riescono ad evadere!

CIE di Torino
Il 1° gennaio, approfittando dei botti di fine anno, una quarantina di solidali manifesta fuori dal Cie, con petardi, bombe carta, fumogeni e tamburi. All’interno del centro i reclusi rispondono animatamente, tanto da costringere la polizia ad intervenire.
Il 13 gennaio a causa del freddo e della mancanza di riscaldamento, verso le 23 i reclusi di tutte le sezioni del Cie bruciano i materassi in cortile. Altri salgono sui tetti delle camerate. Dopo l’appello di Radio Blackout (105.250 FM), diversi solidali si radunano di fronte alle mura per salutare i rivoltosi. Al termine delle proteste, una ventina di loro viene fermata da una dozzina di volanti in piazza Sabotino. Ma ancora, dopo l’allarme della radio e l’arrivo di altri solidali e un blocco stradale improvvisato, la polizia rilascia i fermati e se ne va.
15 gennaio. Altra notte di rivolta sedata a colpi di lacrimogeni, all’indomani mattina la polizia sveglia i prigionieri di tutte le aree per una perquisizione alla ricerca di oggetti di ferro. Diversi reclusi vengono spostati da un’area all’altra ed alcuni picchiati brutalmente. Inoltre dalla rivolta in cui hanno bruciato i materassi, gli internati dormono a terra o sulle reti metalliche dei letti, in quanto di materassi non ce ne sono più. Un resoconto di un’intervista fatta da Radio Blackout ad una patrocinatrice legale che si occupa di immigrazione per lo sportello CUB di Torino e che ha avuto un colloquio con un recluso, appena dopo le varie rivolte, ci fa capire meglio cosa è successo.
Il colloquio è avvenuto con un recluso che ha gravi problemi alla schiena e che dichiara che all’irruzione della polizia per la perquisizione, intimandogli di alzarsi, cosa che a fatica per la schiena stava cercando di fare, i prepotenti impazienti lohanno manganellato sulla schiena. Camminava con difficoltà sofferente, parla di una situazione di degrado assoluto, della mancanza di riscaldamento, dell’assenza di materassi e di coperte. Un volontario dei carcerieri della Croce Rossa ha dichiarato che ogni notte ci sono tentativi di fuga, incendi, in un anno sono stati bruciati più di 400 materassi, ora dormono sulle reti dei letti, se ci sono, oppure per terra. La prefettura non ha più soldi per acquistare materassi.
Poi questa legale assiste ad una scena in cui 20 poliziotti accerchiano sfottendo due reclusi che chiedono per quale motivo li chiamino sporchi negri, che questo è razzismo e il perché delle manganellate in testa. Se lo facessero a te cosa faresti? E il poliziotto sfottendo risponde: lo denuncerei.
17 gennaio. Una dozzina di prigionieri sono trasferiti d’urgenza al CIE di Trapani, il più lontano possibile e in una zona prossima all’espatrio.
31 gennaio. Jamal è da un mese prigioniero nel Cie di corso Brunelleschi a Torino. Non ha i documenti in regola, ma a Torino ha una moglie incinta di 8 mesi, tant’è che il suo avvocato aveva immediatamente presentato ricorso contro l’espulsione, e Jamal era in attesa fiducioso di essere liberato. Ma all’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino sono furbi, e ieri pomeriggio chiamano Jamal fuori dalla sezione per “notificargli qualcosa”. Negli uffici del Cie, Jamal capisce che quello che devono notificargli non è né la liberazione, né la proroga della reclusione, ma un biglietto di sola andata per il Marocco. Solo contro una decina di poliziotti, isolato dai suoi compagni di reclusione, Jamal capisce che è il momento di lottare: chiama la moglie, che lancia l’allarme all’avvocato e ad alcuni solidali. La notizia rimbalza su Radio Blackout, e nel giro di poco si forma un presidio di fronte all’ingresso principale su via Mazzarello, e con slogan e battiture si attira l’attenzione dei passanti e dei reclusi, alcuni dei quali salgono sui tetti. L’avvocato manda un fax urgente in Questura per evitare l’espulsione, e attende la risposta. Poco dopo a difendere il Centro arriva la celere, e arriva anche la notizia che Jamal per evitare l’espulsione si è tagliato su tutto il corpo.
Il presidio si trasforma in blocco stradale per intasare il traffico davanti all’ingresso, e la Celere quasi carica i manifestanti. Nel frattempo, arriva al Cie anche la moglie di Jamal, che riesce ad entrare per un colloquio. Verso le sei di pomeriggio, dal retro del Cie esce una camionetta a sirene spiegate con due reclusi: dovevano espellerne tre, e tra di loro Jamal non c’è, è ancora a colloquio con la moglie. Quando la moglie esce e arriva la conferma che Jamal è stato medicato e riportato nella sezione e non in isolamento, il presidio si scioglie, con l’amaro in bocca per non essere stati abbastanza per riuscire a bloccare entrambe le uscite e tutte e tre le espulsioni, ma con la conferma che resistere alle espulsioni è possibile davvero, quando alla determinazione dentro si aggiunge la solidarietà vera e rapida fuori. E questa è una cosa su cui tutti i nemici delle espulsioni dovranno riflettere nei prossimi giorni.

Crotone: rivoltarsi è legittima difesa
8 gennaio. Il Giudice del Tribunale di Crotone é chiamato a pronunciarsi sulle accuse mosse nei confronti di tre cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno protagonisti di una rivolta nel CIE di Isola di Capo Rizzuto a Crotone. Barricati sul tetto per una settimana dopo aver dato alle fiamme materassi e distrutto mobili e e grate: così la rivolta del CIE Sant’Anna passava alla cronaca come una delle tante che ormai a scadenza regolare infiammano centri sparsi nella nostra penisola. Ma dopo il provvedimento del Giudice del Tribunale di Crotone emesso lo scorso 12 dicembre quella rivolta verrà ricordata diversamente.
Infatti dopo i tanti rapporti delle organizzazioni umanitarie, le relazioni della Commissione Europea o le iniziative dei movimenti, anche il Giudice di Crotone ha riconosciuto la disumanità dei Centri di Identificazione ed Espulsione e di conseguenza la legittimità delle proteste e delle rivolte dei cosiddetti "ospiti". I tre venivano accusati di danneggiamento e resistenza aggravata.
Privati di uno dei diritti umani fondamentali, la libertà personale, da parte di un apparato dello Stato, gli stranieri hanno dunque agito per difendere questo loro diritto. Questa è in sostanza la conclusione del Giudice che non si è però limitato a prendere in considerazione solamente questo aspetto. Le condizioni lesive della dignità umana in cui erano costretti a vivere all’interno della struttura di Crotone rappresentano un’ulteriore violazione dei loro diritti: materassi e coperte sporchi, servizi igienici luridi, pasti consumati senza sedie ne tavoli, sono condizioni al limite della decenza. Per questo insomma il Giudice di Crotone ha ritenuto che la reazione dei tre sia stata proporzionata alla violazione subita e che per tutti questi motivi debba essere ascritta nell’ambito della legittima difesa di un bene, quello della libertà personale, che non può essere messo a confronto con i beni che gli stessi avrebbero danneggiato. La sentenza si pronuncia sulle accuse rivolte nei loro confronti ma apre una voragine sul sistema di detenzione italiano, ordinariamente gestito con provvedimenti illegittimi ed in condizioni di detenzione disumane.

Padova: rivolta, 5 arresti
7 gennaio Alla ‘Casa a Colori’ struttura di “accoglienza” per il Piano emergenza nord Africa, scoppia una rivolta nel corso di una riunione con alcuni responsabili della cooperativa «Città solare», che gestiscono la struttura. Gli stranieri hanno protestato contro i gestori della onlus, in quanto non procurano soldi necessari ad andarsene e documenti inizialmente promessi. Alcuni hanno trattenuto il direttore e 3 operatori, mentre altri hanno cominciato a distruggere ogni cosa. Dopo mezz’ora i 4 operatori sono stati rilasciati ed il direttore è andato a presentare una denuncia alla polizia. Con l’inganno, 5 ragazzi ghanesi, titolari del permesso umanitario sono stati convocati in Questura per il ritiro del tanto atteso titolo di viaggio. Ad attenderli però non c’era il tanto atteso documento ma invece le manette messe ai loro polsi in seguito all’ormai famosa "rivolta" dello scorso 7 gennaio. L’accusa? Sequestro di persona. I 5 infatti sarebbero stati individuati dalla Digos attraverso le telecamere interne della struttura di accoglienza ed i racconti degli operatori, come colpevoli di aver chiuso all’interno di una stanza il personale della Casa a Colori. Tutti i rifugiati dichiarano: "ciò che abbiamo fatto lo abbiamo fatto tutti insieme, i nostri 5 fratelli devono essere liberati subito, oppure arrestateci tutti!!". Questa mattina infatti sotto la sede di Palazzo Moroni i rifugiati, insieme agli attivisti dell’Associazione Razzismo Stop, hanno dato vita ad una conferenza stampa per chiarire la situazione e chiedere l’immediata liberazione di David, Paul, Mohamed, Seth e Francis. Milioni di euro nelle tasche delle cooperative che hanno gestito l’accoglienza e nessun futuro per i beneficiari cui dovevano essere destinate queste risorse. L’Associazione Razzismo Stop, che con gli avvocati lavorerà anche per la difesa dei 5 arrestati, ha fatto una richiesta di accesso agli atti per prendere visione delle rendicontazioni relative al 2011 e 2012 sui soldi stanziati.
Il 28 febbraio, data in cui finirà la proroga dell’accoglienza concessa dal Governo, è molto vicino. Non tutti hanno ancora i documenti, le somme promesse per le "buone uscite" ancora non si vedono e non c’è traccia di percorsi di inserimento, inserimento abitativo, borse lavoro.

Protesta dei rifugiati per la libertà degli arrestati: blocchi stradali e cariche sotto il Comune
5 febbraio. Il Presidio inizia in Piazza Antenore ma si trasforma subito in corteo. Immediatamente i rifugiati si dirigono verso l’ingresso della Prefettura lanciando finte banconote alle spalle dei reparti dei Carabinieri schierati a difesa di Palazzo Santo Stefano. Vi piacciono i soldi? Teneteveli dicono, riferendosi a quegli oltre 4 milioni di euro arrivati in città per la loro accoglienza di cui si sono in parte perse le tracce tra le pieghe di clientele e burocrazie.
Il corteo si sposta, blocca le Riviere, il traffico va in tilt, autobus e tram non si muovono mentre i manifestanti si dirigono verso la Questura. In testa portano uno striscione che non lascia spazio a dubbi: "siamo tutti colpevoli di chiedere diritti". Vogliono la libertà per i loro fratelli, o altrimenti, dicono, "arrestateci tutti".
Siamo quasi all’epilogo di un anno e mezzo di quel malsano esperimento chiamato "emergenza nordafrica" dove sotto le mentite spoglie dell’accoglienza, migliaia di enti gestori, in larga parte cooperative e albergatori in Italia, hanno costruito fortune.
A Padova i migranti "ospitati" sono stati circa 260, poco più di 160 sono ancora in città, milioni di euro sono arrivati dal Ministero senza che nulla più, oltre al vitto e l’alloggio, qualche corso di italiano e qualche ricorso contro i dinieghi, sia stato offerto. Nessuna traccia dell’inserimento abitativo, nessuna traccia della formazione professionale, dell’avviamento al lavoro, di un progetto che permettesse ai rifugiati di avere di fronte a loro qualche opportunità.
Dopo la tappa in Questura il corteo dei rifugiati si è diretto verso Palazzo Moroni, dove era in corso la seduta del Consiglio Comunale. Chiedevano di essere ascoltati, che qualche esponente volesse sentire le loro ragioni. Hanno bloccato gli ingressi rendendo difficile per consiglieri ed assessori raggiungere la sala dell’assemblea cittadina, ma per loro, nessuna risposta. Cancelli chiusi e silenzio per oltre un’ora fino a quando dall’interno arriva la notizia di una delegazione composta da tre consiglieri comunali e la rappresentante della commissione stranieri pronti a scendere per riceverli. In pochi minuti però arriva anche la smentita. Il Sindaco Zanonato, responsabile nazionale immigrazione dell’Anci (Ass. Nazionale Comuni Italiani), ha vietato categoricamente al gruppo di scendere per incontrare i manifestanti. Loro fanno dietro front e così si consuma l’ennesima pagina vergognosa per la politica cittadina: per il sindaco non tutti i cittadini sono uguali; in Consiglio Comunale i diritti non trovano posto; l’assemblea cittadina non gode di autonomia, supina agli ordini dell’arrogante Sindaco. Così invece di incontrare i consiglieri, la presidente della commissione, l’assessore alle politiche sociali, i rifugiati hanno avuto a che fare solo con i reparti dei Carabinieri e della Polizia in assetto anti-sommossa che li affrontano con due cariche. Dopo ore si conclude la mobilitazione, intorno ad un Comune sotto assedio e senza che la politica abbia voluto ascoltare la voce dei rifugiati, che è però risuonata tra le strade ed i portici della città.
Nei prossimi giorni, garantiscono i rifugiati insieme agli attivisti dell’Associazione Razzismo Stop, torneremo a farci sentire, fino a quando tutti i ragazzi in carcere non saranno liberati, fino a quando non arriveranno i nostri documenti, aspettando l’avvicinarsi del 28 febbraio, data in cui finirà la proroga del piano di accoglienza.

Venezia: profughi libici in corteo per la dignità e la libertà
25 gennaio. "Il 28 febbraio scadono le convenzioni. Dove andremo? E come sono stati spesi i soldi pubblici destinati all’ “accoglienza”?" Oltre 200 migranti hanno manifestato davanti alla Prefettura. “Siamo persone e non siamo valigie - spiega un migrante - Ci hanno tenuto parcheggiati per troppo tempo. Tra noi ci sono anche donne con bambini. Questa che ci è stata data non è accoglienza. Non possiamo andare avanti a permessi di soggiorno che scadono ogni due o tre mesi. E dove andremo dopo il 28 senza un soldo in tasca, senza prospettive e senza documenti? Vogliamo sapere quale sarà il nostro futuro. Ne abbiamo il diritto”. “Questa che loro chiamano accoglienza ha ottenuto solo di tenerci segregati dal resto della società. Non abbiamo neppure avuto la possibilità di cercarci un lavoro e di intessere relazioni sociali”. Quella stessa dignità che reclamavano tutti gli striscioni che i circa 250 profughi dalla Libia - migranti di guerra provenienti da tanti Paesi come il Mali, la Nigeria, il Sudan - hanno portato per le calli di Venezia sino alla prefettura dove sono stati accolti da uno schieramento di poliziotti e di celerini francamente eccessivo per una manifestazione che certamente non si poteva definire a rischio di violenza. La tensione è comunque calata quando il prefetto ha accettato di ricevere una delegazione dei profughi. Infine è stato loro concesso con colpevole ritardo (cioè solo adesso) un permesso umanitario in concomitanza con la scadenza del programma di accoglienza (28 febbraio), che presa per il culo! Alla base di questo c’è stata una gestione che ha assunto in molti casi la forma di un vero e proprio business costruito sulle spalle dei migranti (così come dimostrato da diverse inchieste) con un’enorme discrepanza tra le grosse cifre investite - 46 euro al giorno a persona - e la bassissima qualità e disorganizzazione del sistema di “accoglienza” ossia sistema di segregazione.

Prati di Caprara (Bo): la rabbia dei rifugiati contro Croce Rossa Italiana e accoglienza emergenza nord africa
16 gennaio. 130 migranti nigeriani alloggiati da mesi in uno stabile fatiscente gestito dalla Croce Rossa Italiana (CRI) nell’ambito della cosiddetta Emergenza Nord Africa (ENA), sono saliti nell’ufficio della CRI presso i Prati di Caprara per protestare con il responsabile della struttura, chiedendogli conto della promessa di interpellare la prefettura per il rilascio del titolo di viaggio, documento equipollente al passaporto necessario per poter godere della libertà di circolazione nell’area europea.
Di fronte alle proteste e alle istanze sollevate, il responsabile della CRI Camurati ha declinato ogni responsabilità; è stata allora formata una ristretta delegazione che si è recata in Prefettura dove hanno incontrato un funzionario facente funzioni di vice-prefetto, a cui è stato chiesto di provvedere al rilascio dei titoli di viaggio e all’erogazione di un contributo di uscita idoneo a sostenere le spese per una sistemazione di alloggio dopo il 28 febbraio.
Il funzionario della Prefettura ha dichiarato che si attiverà presso la Questura per il rilascio del titolo di soggiorno, promettendo che entro la fine della prossima settimana i migranti sarebbero stati convocati per la consegna. “Un impegno che deve trasformarsi in realtà, dicono i migranti, altrimenti continueremo la mobilitazione e torneremo in Prefettura finché non si capirà cosa succede dopo il 28 febbraio”.
Rapporto Medu
Roma, 30 gennaio. I migranti trattenuti nei centri di identificazione ed espulsione (Cie) in Italia nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) Di questi solo la metà (4.015) è stata effettivamente rimpatriata, pari ad appena l'1,2% del totale delle persone senza permesso di soggiorno presenti sul territorio italiano, 326.000 secondo le stime dell'Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità) al primo gennaio 2012.
Sono gli ultimi dati aggiornati forniti dalla Polizia di Stato all'Ong Medici per i diritti umani (Medu) che li ha diffusi. Si conferma dunque l’inutilità della progressiva estensione della durata massima dell’internamento (18 mesi) rispetto al fine dichiarato e cioè il miglioramento dell’efficacia delle espulsioni. L'allungamento dei tempi di detenzione nei Cie ha reso drammaticamente peggiori le condizioni di vita dei migranti imprigionati. Lo testimoniano le associazioni a cui è stato concesso di accedervi e molti degli enti gestori, che denunciano l'aggravarsi dei problemi organizzativi, logistici e sanitari. Ma lo testimoniano anche le tante fughe e rivolte scoppiate nei CIE.
La detenzione di un anno e mezzo ha fatto aumentare la tensione, le fughe e le rivolte, nonostante l'inasprimento delle misure repressive. Sono 1.049 i migranti che sono riusciti a fuggire dai Cie l'anno scorso, con un aumento del 33% rispetto al 2011. Secondo Medu, il lungo internamento "ha drammaticamente peggiorato le condizioni di vita dei migranti all'interno di queste strutture" e i Cie hanno fallito nel loro schifoso scopo dichiarato. Il rapporto di Medu mette bene in evidenza il costo esorbitante e la sostanziale inutilità dei Cie come luoghi che possano favorire la politica dei rimpatri praticata dall’Italia. Tutto dipende sempre e soltanto dagli accordi di riammissione. Alcuni di questi, proprio quelli che garantiscono i rimpatri (come nel caso di Egitto, Tunisia e Nigeria) violano il regolamento Frontiere Schengen e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Con l’avallo dei consolati, consentono, infatti, delle vere e proprie espulsioni collettive, senza il riconoscimento individuale, ma solo con la generica attribuzione della nazionalità. Si tratta di luoghi ove si pratica la tortura di esseri umani che non hanno commesso reati.

La storias di M.
È M. stesso a rendere pubblica la sua drammatica storia. Il giovane migrante arriva a Lampedusa nell’ottobre del 2010. Nel dicembre del 2011 viene internato nel Cie di Gradisca, poi successivamente è trasferito a Trapani e poi ancora riportato al Centro di Identificazione ed Espulsione di Gradisca senza che si possa procedere al suo rimpatrio. Ai primi di dicembre, dopo che il Giudice di pace decreta l’ennesima proroga di due mesi del suo trattenimento, M. viene trasferito d’urgenza al pronto soccorso dell’ospedale di Gorizia dopo aver tentato il suicidio ingerendo numerosi farmaci e innumerevoli monete. Gli viene praticata la lavanda gastrica e successivamente viene ricondotto al Cie.
Il giorno seguente, viene sottoposto presso lo stesso nosocomio a visita psichiatrica con diagnosi di reazione da stress ambientale, calo ponderale importante in sindrome depressiva reattiva. Lo psichiatra, nel prescrivere la terapia farmacologica per l’insonnia e l’ansia, ritiene «assolutamente urgente» velocizzare il più possibile l’uscita dal Cie, ritenendo che la situazione ambientale possa peggiorare ulteriormente il quadro. Nonostante ciò il trattenimento nel Cie prosegue. Alla fine di dicembre una nuova visita psichiatrica riscontra un peggioramento del quadro («grave sindrome depressiva con importante dimagrimento»), specificando che «la situazione psico-patologica è sicuramente reattiva al trattenimento nel Cie». Il primo di gennaio M. comincia a rifiutare acqua, farmaci e cibo. In otto giorni perde sette chili. Il tre gennaio compie un ulteriore atto di autolesionismo riportando una ferita superficiale al gomito sinistro. Viene chiamato il 118 ma il paziente rifiuta il trasporto in ospedale. Una relazione dello psicologo del Cie sottolinea le buone condizioni generali di salute di M. all’ingresso nel Cie e un atteggiamento collaborativo e positivo del paziente nei confronti degli operatori del centro e degli altri migranti. La relazione prosegue evidenziando un progressivo peggioramento dello stato psico-fisico nel corso del tempo e la graduale comparsa di una sintomatologia ansioso-depressiva con conseguente e significativo calo ponderale. Lo psicologo riscontra inoltre la compatibilità dei sintomi di M. con i criteri propri del disturbo depressivo maggiore. Il giorno 8 gennaio, i sanitari del centro, certificandone lo «stato cachettico» e l’evidente condizione di disidratazione, inviano nuovamente il paziente al pronto soccorso per accertamenti. Dopo nove giorni dall’inizio del digiuno, la direzione sanitaria del centro annota che «l’ospite ha ripreso ad alimentarsi e a reidratarsi per cui, tenendo presente la compatibilità dei parametri vitali e soprattutto la volontà di riprendere a mangiare e bere, si ritiene attualmente compatibile dal punto di vista organico il suo trattenimento presso il Cie Gradisca, salvo ulteriori ripensamenti autolesionistici».
Il 12 gennaio M. è nuovamente ricondotto ai servizi psichiatrici territoriali dove un’ulteriore consulenza specialistica conferma il quadro di grave sindrome depressiva reattiva e chiede, per la terza volta, l’urgente rilascio dal Cie. Il paziente rifiuta di assumere la terapia psichiatrica prescrittagli. Il 22 gennaio il paziente comincia di nuovo a rifiutare alimenti e bevande andando incontro ad un nuovo calo ponderale. M. chiede di poter essere visitato da un medico di Medu di sua fiducia. Il colloquio viene concesso ma, da regolamento, per soli venti minuti, attraverso una barriera di plexiglass e in presenza di due agenti di pubblica sicurezza. Al momento dell’incontro, il medico riscontra lo stato di notevole sofferenza del paziente e, dopo aver a lungo interloquito con gli agenti, ottiene unicamente un breve tempo supplementare per il colloquio. Il provvedimento di detenzione amministrativa in un Cie, che secondo la normativa europea e la legge italiana dovrebbe essere finalizzato esclusivamente ad effettuare il rimpatrio del cittadino straniero, appare essere stato protratto in questo caso oltre ogni ragionevolezza, ledendo gravemente valori fondamentali come la salute e la dignità umana.

Campobello di Mazzara (Tp)
2 gennaio. Il cadavere di un immigrato è stato trovato nelle acque del trapanese. Arrestati i tre scafisti. I sopravvissuti parlano di altri dispersi: "Ci hanno buttato in mare, anche se gridavamo di non saper nuotare". In tutto erano una quarantina, 16 sono stati intercettati dalla Polizia e sappiamo già quale sarà il loro schifoso destino, gli altri sono dispersi o verranno a galla nel mare dei morti.
Milano, febbraio 2013


lettera dal carcere di San Gimignano (SI)
Buon giorno compagni, ho ricevuto ieri il vostro opuscolo di dicembre 2012 e mi siete piaciuti molto. Sono un detenuto anarchico, mi chiamo Taddei Fabio di Firenze, nato il 1968.
Sono detenuto dal 10 gennaio 2008 per un reato che non ho commesso e devo scontare 7 anni. Da ottobre del 2008 sono detenuto nel carcere di San Gimignano (Siena).
Ci sono 6 sezioni di media sicurezza e 2 di Alta Sorveglianza.
Quando sono arrivato eravamo in 200 e adesso siamo in 420 (compreso l'isolamento).
Vi vorrei mettere a conoscenza di questa struttura, le celle sono singole ma siamo in due, c'è una totale rottura degli articoli del codice di procedura penale.
Manca tutto quello che riguarda detersivi, stracci e quant'altro per la pulizia della cella. E non c'è un grande supporto degli educatori e simili.
Facevo un corso di computer e dopo le feste natalizie doveva ricominciare il 7 gennaio ma fino adesso non ne sappiamo niente e non abbiamo ricevuto alcuna motivazione e quello che pensiamo è che gli mancano i soldi per pagare l'insegnante.
Ogni sezione è di 50 detenuti e la maggioranza sono stranieri. Io sono stato carcerato anche in Francia e là i detenuti extracomunitari sono divisi da quelli della comunità Europea e anche qua in Italia non sarebbe male.
Poi sotto l'aspetto medico non funziona niente, il dottore riceve ogni 5, 6, 7 giorni e per farvi un esempio feci una richiesta per le analisi del sangue ed ho aspettato due anni perché mi venissero fatte e 3 mesi per la risposta. Per fortuna a parte la pressione bassa sono in buona salute. Tutti i fine mese mancano le medicine, anche per farti misurare la pressione devi fare un casino. Siamo aperti solo dalle 16,45 alle 19,30.
Avrei piacere che pubblicate la mia lettera e inoltre fatemi restare in contatto con voi non solo per le parti detentive ma anche per altro, ho il Che Guevara e il simbolo dell'anarchia tatuati sulla spalla e vi assicuro che sono dei vostri. Fatevi sentire e quando uscirò sarò dei vostri non solo adesso. HASTA LA VICTORIA SIEMPRE. VI ASPETTO!

16 gennaio 2013
Fabio Taddei
***
Cari compagni, ho ricevuto con piacere la vostra lettera. Vorrei chiarire cosa vuol dire il separare i comunitari dagli extracomunitari. Il non farlo impedisce a noi comunitari ad unirsi in lotta in scioperi vari contro il sovraffollamento e altro; non era argomento di razzismo questo sia ben chiaro.
Per quanto riguarda la sorveglianza è una loro difesa non tenere i comunitari tra loro.
Poi abbiamo due modi di vivere diversi, qui non lo sento come razzismo.
Qui non abbiamo la sala ricreativa, niente ping-pong niente calcino. […]
Fanno funzionare la scuola ma soprattutto le elementari e le medie inferiori.
In ogni caso qua non funziona niente, non funziona il dentista, mancano le visite specialistiche, io ho chiesto di curarmi il fegato avendo l'epatite C ma non mi è riuscito.
Per fortuna è molto meno sovraffollato di altri carceri, considerando però che è un penale potrebbe essere anche meglio.
I lavori mancano e sei sottopagato, un portavitto guadagna netto 80/90 euro al mese, dovrebbe fare 2 ore e ne fa 5. Anche in cucina guadagni 330 euro e lavori duro.
Uscendo dal discorso sul carcere, cosa ne pensate delle prossime elezioni? Tanto i nostri governanti se ne sbattono della crisi del lavoro e sanno aumentare solo le tasse.
Io ho vissuto 3 anni in Spagna dal ‘92 al ‘94 e c'era una difficoltà lavorativa, ho vissuto anche 3 anni in Francia dal 92 al 94 ed erano tempi diversi. Ho vissuto anche tutto il ‘98 in Olanda, a Amsterdam e ho trovato subito lavoro al porto per 100 fiorini ogni 7 ore. Per adesso vi saluto e aspetto vostre notizie A [cerchiata]

febbraio 2013
Fabio Taddei, via Ranza, 20 - 53037 San Gimignano (SI)

Ciao Fabio, rispondiamo alla tua lettera qui direttamente sull’opuscolo in cui viene pubblicata. Abbiamo particolarmente discusso il punto esposto da te riguardo alla separazione nelle carceri fra le diverse nazionalità che lo stato cattura, rinchiude e condanna. La composizione delle carceri, è chiaro, è un’arma nelle mani del DAP ed esso la usa per rompere le relazioni fra chi finisce dentro, per impedire che si coalizzino e lottino assieme o anche da soli ma con il sostegno reciproco. Loro si sono dati leggi (la Gozzini, per es.), punizioni (il 14-bis, per non parlare del 41-bis), ricatti (tu lo sai bene che in tante carceri il salutarsi, lo scambiare anche un libro sono gesti a volte puniti, sempre mal digeriti dall’apparato che in un modo o nell’altro al momento buono te lo sbattono in faccia negando p. es. il lavoro).
La separazione fra sfruttati ha portato loro sempre e solo disgrazie, come oggi. Al contrario, la loro unità nella lotta, ha avuto conseguenze stupende. Pensa all’emigrazione 60-50 anni fa, in Italia, dal sud verso il nord, verso Mi, To, Ge, Bo… Nelle fabbriche, nei quartieri, nelle stesse carceri dell’intero paese non ci sarebbero mai state le conquiste (ad es. la liberazione anticipata, la soppressione della censura, la socialità, l’aumento delle ore d’aria e di colloquio, il fornello, la telefonata…) tutte oggi maciullate dal metodo premio-punizione individualizzante...), se chi era dentro fosse stato separato, chiuso nella sua comunità.
La rivolta fu possibile, vinse proprio perché fu generale, sentita, voluta, compiuta dalla gran parte delle prigioniere e dei prigionieri, al di là di ogni differenza riguardante, ad es., la famiglia, l’amicizia, il rapporto con l’autorità…
Certamente oggi costruire una simile unità è più difficile, non foss’altro perché loro si sono dati la Gozzini e simili, i Gom, le telecamere, il carrello della terapia, la premialità, i ricatti, il 41-bis, il 14-bis proprio per prevenire la collettività necessarie alla lotta, alla rivolta. Come ci sono maggiori difficoltà nella comunicazione, nell’intessere legami dato che la “popolazione carceraria” è formata da molteplici nazionalità, da persone che hanno senz’altro, come scrivi tu stesso, “modi di vivere diversi”, ma, volendo, e succede, certamente ci si intende al volo nel contrastare, impedire le prepotenze delle guardie ecc. E del resto, non c’è scampo: lo stato dentro come fuori rigira a proprio vantaggio la mancata unità fra operai per abbassare i salari, per abbruttire le condizione di vita e di lavoro (ogni giorno, in Italia, avvengono quattro (4) “morti sul lavoro”); così dentro succede quel che sappiamo fin troppo bene, è superfluo dilungarsi.
La discussione non può che andare avanti, anche perché senza conoscersi non c’è chiarezza e alla fine vince solo la paralisi. Ti abbracciamo con forza con un a presto, magari fuori, dall’intero collettivo.


16 febbraio: Presidio sotto il carcere di Saluzzo (cn)
In solidarietà con Maurizio Alfieri e tutti i prigionieri
Esiste una galera dentro la galera: sono le sezioni di isolamento, che i ragionieri dei supplizi utilizzano per cercare di sottomettere e annichilire chi non si piega alla disciplina imposta dal regime carcerario. L'isolamento nel carcere di Saluzzo è una tortura che impiega strumenti che vanno dalla privazione di contatto umano, al "passeggio" in piccoli cortili di cemento, uno per cella, senza relazioni, senza orizzonti e senza luce. I prigionieri raccontano che molti di loro non hanno ricevuto nessun tipo di sanzione disciplinare, e che la direzione motiva la loro presenza in questa condizione afflittiva con la scusa del sovraffollamento. Dal 18 dicembre, nella sezione di isolamento del carcere di Saluzzo è rinchiuso Maurizio Alfieri, un prigioniero che da anni ha il coraggio di segnalare all'esterno le brutalità delle galere e la violenza dei secondini, battendosi in prima persona o organizzandosi con i suoi compagni di prigionia, diffondendo negli ultimi mesi, dal carcere di Tolmezzo, storie di teste spaccate e detenuti legati, colpiti con getti d'idrante e pestati a sangue.
Ma il carcere non tollera che la coltre di censura che nasconde la sua vera natura venga infranta e Maurizio, per la sua lotta, ha dovuto subire diverse rappresaglie. L'ultima è un'accusa nei suoi confronti di stare pianificando una fuga in elicottero. Non si potrebbe certo biasimare chi cerchi di evadere dall'apparato carcerario italiano, che ogni anno ammazza più di 160 persone tra abbandono sanitario, abusi di psicofarmaci, pestaggi e suicidi; ma Maurizio ci segnala una manovra pianificata per incastrarlo. Nei suoi confronti, la direttrice del carcere di Tolmezzo e i ROS, hanno organizzato una montatura tesa a motivarne il trasferimento, a fargli scontare più galera, orchestrata per cercare di mettere in secondo piano le atrocità da lui segnalate e intaccare la solidarietà che dall'esterno si è venuta a creare in suo supporto. Sta ai nemici di ogni gabbia e di ogni galera impedirglielo.
CONTRO IL CARCERE E L'ISOLAMENTO!
IN SOLIDARIETA' CON TUTTI I PRIGIONIERI DEL CARCERE DI SALUZZO!
IN SOLIDARIETA' CON MAURIZIO ALFIERI!
PRESIDIO SABATO 16 FEBBRAIO 2013, ORE 16 DAVANTI AL CARCERE DI SALUZZO

***
L'incredibile avventura degli elicotte-ROS
Naufragata la pista sulla trattativa Stato-Mafia, finalmente i ROS scoprono i veri alleati dei clan: gli anarchici! Scoop imperdibile per la stampa locale: dopo al-Quaeda e le BR, quali saranno i prossimi alleati di questi sovversivi? I satanisti? Gli extraterrestri? I testimoni di Geova?
Una storia incredibile quella pubblicata nei giorni scorsi dai media locali, che riporta di fatto l'attenzione sul maledetto carcere di Tolmezzo, anche se cercando di screditare chi solidarizzava con i prigionieri in lotta e non riportando i reali problemi del sistema carcerario italiano.
Uno strano destino quello del capoluogo carnico e la sua prigione, storie di droga e di “mele marce” non fanno più notizia: dentro le sue mura vi sono stati rinchiusi diversi ragazzi che vendevano o detenevano stupefacenti, arrestati proprio dal comandante dei carabinieri Demetrio Condello che poi è stato scoperto essere chi gestiva tutto il traffico della zona!
Questi fatti,e i ripetuti presidi di solidali con i detenuti, ci fanno pensare che qualcuno ha cercato di rifarsi la faccia costruendo ad arte una maxi operazione, con tanto di sventata evasione in elicottero del cosiddetto “Boss” che, guarda caso, è proprio quello che per primo aveva denunciato i pestaggi e le minacce che venivano perpetuate regolarmente all'interno del carcere di Tolmezzo contro i prigionieri! Anarchici e No Tav in tutto questo, “sono stati usati” secondo i giornali, colpevoli (diciamo noi) di aver portato fuori dalle mura le proteste dei detenuti con presidi e volantinaggi. Il nesso tra gli elicotteri e gli anarchici non è chiaro, ma tutto fa brodo!
Invece, si pubblicano poche informazioni sul carcere quando bisogna portare il punto di vista di chi vi è rinchiuso: la prigione è una delle regioni nascoste del nostro sistema sociale, uno dei buchi neri della nostra vita. La prigione è lo specchio deformato ma rivelatore della società, moltiplica tutti i vincoli ideologici dell'ambiente esterno: rispetto assoluto per la gerarchia, coercizione e obbedienza coatta, sfruttamento e alienazione del lavoro, ricatto sulla ricompensa, ricatto sulla punizione, molteplice repressione della sessualità.
Non appena si cerca di rompere il muro dell'omertà e della rimozione denunciando pubblicamente le angherie, le ingiustizie, le violenze perpetrate ai danni dei prigionieri e le perversioni intrinseche al sistema carcerario, scattano meccanismi di mistificazione della realtà, di criminalizzazione e di repressione. Se la realtà trapela, il potere politico, giudiziario e poliziesco deve negarla e contorcerla per i suoi fini. Se i prigionieri alzano la testa e fanno sentire la loro voce, se i solidali fuori dalle mura fanno loro da cassa di risonanza, il potere fa di tutto per rendere la vita impossibile ai primi e per denigrare e/o intimidire i secondi.
Questo emerge dalla vicenda che riguarda il carcere di Tolmezzo e che colpisce drammaticamente nella loro esistenza Maurizio Alfieri e gli altri prigionieri a cui va la nostra solidarietà. Sbirri magistrati e giornalisti, sono capaci di architettare una montatura tanto ridicola quanto megalomane pur di cercare di riportare tutto nei ranghi, pur di cercare di mettere tutto a tacere, pur di cercare di preservare il loro potere di vita e di morte sui detenuti e sulla società.
Noi vogliamo sapere, e ci proponiamo di divulgare nelle piazze dei paesi e delle città che cos'è la prigione: chi ci va; come e perché ci si entra; quale è la vita dei/delle prigionieri/e; come sono gli edifici, il cibo, l'igiene, il lavoro; come funziona il regolamento interno, come funziona il controllo medico, perché un uomo settantenne, diabetico, con una gamba amputata, debba rimanere in galera e morirci, come è successo a Udine qualche giorno fa.
Noi intendiamo spezzare il doppio isolamento in cui si trovano rinchiusi i/le detenuti/e; vogliamo che possano comunicare tra loro, parlarsi da prigione a prigione, da cella a cella.
Noi non torniamo indietro. Non saranno certo queste campagne mediatiche a farci desistere dal lottare contro il carcere e il suo mondo. Qui come altrove le iniziative anticarcerarie si moltiplicano e sempre più prigionieri trovano il coraggio di denunciare ciò che succede all'interno delle prigioni. L'8 e il 9 Febbraio saremo di nuovo in piazza a Udine per rompere il silenzio, forti della consapevolezza che a chi sta a cuore la libertà, non si fà certo scoraggiare dalle infamie di poliziotti e pennivendoli vari. Per noi i BOSS sono quelli seduti in parlamento, nei consigli di amministrazione delle banche come l'MPS, delle industrie assassine come l' ILVA o delle lobby del cemento come la CMC. Tutta gente che, guarda caso in prigione non ci andrà mai... Non saranno certo giudici e magistrati (specie quelli che entrano in politica) a cambiare questo stato di cose, sta a noi con le nostre voci e i nostri corpi far sì che in questo muro di silenzio e paura si crei finalmente una breccia e fermare gli orrori che avvengono nelle carceri!

5 febbraio 2013
Coordinamento contro il carcere e la repressione
da informa-azione.info


lettere dal carcere di Saluzzo (cn)
Carissimi/e compagni/e, mi preme scrivervi quanto mi accade per rendere partecipi tutti/e coloro che vorranno sapere come siamo costretti a vivere e quanto dobbiamo sopportare a Saluzzo. Vi premetto che ho problemi alle ginocchia, dovute a usura delle cartilagini, con segni di meniscopatia, frammenti di cartilagini e una ciste di Baker che mi bloccano l'articolazione. Tutte queste patologie le ho combattute con la forza di buona volontà, correndo "piano" ogni mattina per 1 ora, nonostante mi trattengano in isolamento; qui a Saluzzo è impossibile correre. Aspettavo da giorni dopo aver sollevato il problema, l'ortopedico mi ha prescritto la "cyclette" il 13 gennaio 2013 e di camminare spesso; così stamattina, dopo aver visto che a nessuno interessava del mio stato di salute, ho iniziato lo sciopero della fame. Mentre il dottore di turno misurava tutti i parametri e mi faceva pesare entrò un dottore, e ho saputo solo in un secondo momento che si trattava del dirigente sanitario. Dopo che il dottore di turno gli ha illustrato la mia situazione, questo fantomatico dirigente sanitario mi guarda e mi dice: “guardi per me lei può correre in cella”!!!
In un primo momento pensavo ad una battuta infelice, solo che appena mi sono reso conto che dopo aver detto questo è uscito e stava per andarsene, sono corso fuori e gli ho chiesto se stava scherzando; appena mi ha risposto di no gli ho detto che lui aveva sbagliato lavoro... avrei voluto apostrofarlo, solo che erano presenti alcune donne, così mi sono trattenuto, non sapendo chi era costui. Però adesso avendo saputo che è il responsabile dell'Area Sanitaria, mi chiedo come possa svolgere una mansione così delicata!!! Neanche un veterinario avrebbe risposto in questa maniera, ma evidentemente è la sua indole strafottente. A me, come a tutti/e i detenuti e le detenute deve essere garantito il diritto alla salute. Costui non può arrogarsi il diritto di contraddire una patologia accertata, addirittura senza neanche visionare la mia cartella clinica! Contravvenendo ad un luminare come l'ortopedico!
Qui a Saluzzo siamo capitati in cattive mani, escludendo gli altri dottori e dottoresse che svolgono il loro lavoro con la massima attenzione, nonostante tutti loro abbiano dato disponibilità a farmi iniziare una fisioterapia, questo fantomatico dirigente sanitario ha stabilito che io posso correre in cella!!!
Questo signore avrebbe bisogno di una visita psichiatrica ed andrebbe esonerato dal suo impiego perché non è idoneo a svolgere la mansione di responsabile sanitario, dato che nessun dottore si sognerebbe di dare una simile risposta.
Adesso resto in attesa che la direzione mi risponda se qui viene garantito il diritto alla salute... e nel contempo auguro un buon appetito a tutti e tutte e inizio il digiuno forzato grazie a persone come questo signor dirigente...
Un abbraccio a tutti e tutte i compagni e le compagne. Con ogni bene, Maurizio.
Vi aggiornerò di tutti gli sviluppi di questa faccenda

9 febbraio 2013
Maurizio Alfieri, via Regione Bronta, 19/bis - 12037 Saluzzo (CN)

da informa-azione.info

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lettera collettiva dal carcere di saluzzo
Noi sottoscritti detenuti della Casa di Reclusione di Saluzzo, con la seguente, vogliamo rendere testimonianza di tutti gli abusi che quotidianamente subiamo presso l'istituto di Saluzzo ad opera della direzione e di tutti gli organi dirigenziali.
Faremo alcuni esempi di quello che siamo costretti a subire nell'attesa che siano presi seri provvedimenti e che vengano rispettati i diritti di noi detenuti come previsto da norme e leggi. Chiediamo che:
- Art. 6 O.P. - La direzione si faccia carico di voler provvedere alla consegna di coperte, piatti e posate per tutti i nuovi giunti, perché è ignobile che chiunque arrivi in questo istituto non abbia coperte per ripararsi dal freddo e piatti con posate per mangiare.
- Art. 8 O.P. - Chiediamo che ci venga concesso di poter avere detersivi, spazzolone, scopa e stracci e secchi per l'igiene della cella, così come shampoo, saponi, dentifrici, spazzolini, etc., per l'igiene e la cura della persona.
- Art. 12 O.P. - Facciamo presente che i prezzi del sopravvitto lievitano ogni mese, oltre ad essere prodotti di sottomarca dei discount li paghiamo come generi di prima qualità ed i prezzi non coincidono mai con il listino della spesa perché subiscono sempre aumenti, non consono rispetto a quanto previsto dall'Ordinamento Penitenziario perché i prezzi subiscono variazioni di mercato ed ogni tre mesi devono essere visionati come previsto dall'O.P.
- Art. 11 O.P. - Il vitto prevede che nei giorni feriali e festivi sia passato una sola volta al pranzo, così chi non ha la possibilità di potere cucinare viene costretto ad un digiuno forzato, come avviene attualmente per l'elevato numero di detenuti indigenti e extra-comunitari. (*)
- Caloriferi – La direzione, nonostante il freddo gelido e le elevate temperature invernali, nel pomeriggio spegne i caloriferi dalle ore 15.30 sino alle ore 18.15 per poi spegnerli di nuovo alle ore 20.30 e riaccenderli alle ore 7.30 senza tenere conto del freddo insopportabile e delle rigide temperature esterne e interne.
- Art. 36 O.P. D.P.R. N°230 – In questo istituto non vengono consegnati gli opuscoli dove c'è scritto "Diritti e doveri" di ogni singolo detenuto, così come sancito dal D.P.R. N°230 dove è scritto chiaramente che: il regolamento interno deve essere portato a conoscenza di detenuti e internati. Questo non avviene, contravvenendo alla seguente norma del 30-6-2000 n° 230.
- Usufruizione dei benefici – Tantissimi detenuti con pene residue e irrisorie si vedono negati ogni beneficio, a nessuno viene concesso di poter usufruire di pene alternative come: l'affidamento, la semilibertà oppure permessi premio; il piano trattamentale è accessibile solo per pochissimi ristretti, dato il numero esiguo degli educatori, impossibilitati a seguire 420 detenuti.
- Lavoro detenuti – Il lavoro per i detenuti è concesso solo a pochissime persone, in più vengono retribuiti con miseri stipendi, pagati per 2 o 4 ore, mentre le ore lavorative svolte superano le 6 / 8 ore, così come viene sfruttata la manodopera a favore dell'Amministrazione Penitenziaria.
Per concludere: vogliamo sottolineare l'importanza di questa nostra petizione che sarà portata all'attenzione dell'opinione pubblica sul sito internet "informa-azione.info", per sensibilizzare le persone su quanto accade nell'istituto di Saluzzo, date che tantissimi scioperi della spesa non hanno sortito nessun effetto e non hanno portato la direzione a risolvere i nostri problemi.
Inoltre: desideriamo ringraziare tutti/e i/le compagni/e che verranno qui fuori a manifestare in solidarietà con tutti noi detenuti e prigionieri; un abbraccio a tutti/e i/le detenuti/e in lotta contro abusi, pestaggi, prevaricazioni e quant'altro avviene in tantissimi carceri d'Italia, affinché questo obbrobrio finisca e vengano rispettati i diritti di noi detenuti; solidarietà a tutti/e i detenuti nelle sezioni di isolamento, trattenuti contro la loro volontà e che lottano per il rispetto dei diritti di tutti/e i/le detenuti/e; e solidarietà per i compagni di Alessandria nella sezione AS2.
Per terminare: ci riserviamo in futuro di intraprendere altre forme di proteste pacifiche e iniziative volte ad ottenere il rispetto della dignità umana oltre che i nostri diritti, perché prima che detenuti siamo esseri umani.
P.S. Un ringraziamento particolare a tutti/e i/le volontari/e che prestano il loro aiuto ai detenuti.

In fede i detenuti [Seguono 245 firme]
11 febbraio 2013, da informa-azione.info
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Segue una lettera di Santo, prigioniero entrato in contatto con Maurizio Alfieri nella sezione di isolamento del carcere di Saluzzo. Santo segnala gli abusi e l'abbandono sanitario che contraddistinguono la sua situazione, come quella di molti altri uomini e donne sequestrate nelle discariche sociali dello Stato. Nel frattempo Santo è stato trasferito a Milano-San Vittore e da lì ci ha scritto una nuova lettera che pubblichiamo successivamente in questo numero dell’opuscolo.

Ciao carissimi compagni, chi vi scrive è un compagno di Maurizio Alfieri. Maurizio mi ha parlato molto bene di voi e allora mi sono sentito di prendere carta e penna e scrivermi la mia sofferenza.
Mi chiamo Santo, sono di Catania, vivo a Milano e ho 38 anni. In questo momento sto passando dei momenti brutti e molto tristi per la morte di mio padre. Ma questo mi dà più forza per combattere il mio problema e spero che la mia testimonianza spingerà qualcuno ad aiutarmi e a fare sentire la mia voce tramite voi compagni e Internet.
Io sono portatore di bendaggio gastrico, pesavo 188 kg, ne ho persi più di 80 e ho bisogno di controlli periodici specializzati presso il policlinico di Milano (padiglione Zonda, dottor Mozzi). Dovrei andare ogni 6 mesi per come hanno dichiarato i periti in sentenza. Ma è da giugno 2011 che non faccio controlli.
Sono stato accusato sulla base di "voci confidenziali" ritenute attendibili di essere mandante, capo sommossa e capo promotore di rivolte ecc. ecc. E mi trovo in isolamento da dicembre 2011 come un cane. Mi hanno sanzionato con gli articoli più gravi (art. 3,4,5 e 39 OP) e applicato la G.S.C. (Grande Sorveglianza Custodiale) da reato comune. Tutto ciò perché ho lottato per i mie diritti alla salute.
Ogni 6 mesi mi trasferiscono senza darmi cure né spiegazioni (da Catania a Caltagirone, Caltanisetta, Trapani, Favignana, Ucciardone, S. Vittore, Opera, Biella e ora Saluzzo).
Ora è da marzo 2012 che aspetto un'operazione all'epidermide cutea DX, è per questo che se ne lavano le mani perché abbiamo fatto denuncia per danni permanenti e si spaventano ad operarmi. Ho scritto a Riccardo Arena (radio carcere) con tutta la documentazione ma siccome il tutto scotta non ha fatto niente perché c'è da combattere per gli abusi che sto ricevendo, ma io li affronto giorno per giorno sì che loro hanno paura perché io mi faccio rispettare. Spero che avrò la solidarietà dei vari compagni così mi faranno compagnia e potremo combattere assieme per i nostri ideali che sono la libertà di uomini liberi. Ora vi saluto con affetto e stima. Il vostro compagno carcerato,

13 gennaio 2013
Santo Galeano
da informa-azione.info


Lettera dal carcere di S. Vittore (mi)
Ciao ragazzi, vi racconto questo. Nel febbraio 2011 mi trovavo nel carcere di Opera dove, nonostante la patologia che ho del bendaggio gastrico, mi mettono nei raggi comuni e prima di darmi il vitto prestabilito passano più di 6 mesi. Per farmi stare tranquillo mi danno il lavoro come cuoco (ne avevo bisogno). Dopo 4 mesi di lavoro si sono inventati che per voci confidenziali mi ritengono responsabile di una spedizione punitiva e mi danno 15 giorni di isolamento (che non è compatibile con la mia patologia). Ma ancora deve venire il bello. Dopo la sanzione disciplinare del 3 gennaio 2012 mi tengono in isolamento facendo degli abusi fino al 14 febbraio. Poi non solo mi trasferiscono alla C.C. di Biella sprovvista di centro clinico ma ci sto fino al 14 settembre 2012 sempre in isolamento. Più di 6 mesi senza avere cure, poi mi dovevano operare al testicolo invece mi fanno partire nuovamente per la C.R. di Saluzzo, dove rimango in isolamento dal 14 settembre al 21 dicembre 2012.
Ho fatto varie denunce al Procuratore generale di Torino, al DAP e al magistrato di sorveglianza, che si lavavano le mani e mi sono aggravato sempre di più. Fino a quando un giorno mi chiamano partente per S. Vittore.
Dal 27 marzo 2009 al 27 marzo 2012 non mi hanno dato nessuna liberazione anticipata (neanche per i semestri trascorsi senza sanzioni disciplinari).
Ora mi sono aggravato e mi stanno curando fra asma bronchiale, artrosi, sclerosi e ora 'sta protesi al testicolo (per non avermi curato in tempo mi hanno dovuto togliere un testicolo e reso sterile) e devo subire ancora 2 operazioni, rendetevi conto. Sempre chiuso ad aspettare che si liberi una carrozzina di cui ho bisogno per 1 mese, però qui ce ne sono solo 2 per 100 detenuti.
Mi hanno rigettato le richieste di differimento pena dicendo che a Milano c'erano le strutture sanitarie adatte e che il vitto prescritto poteva essere fornito anche in carcere. E allora perché mi hanno trasferito prima a Biella, poi a Saluzzo ecc. ecc.? Perché il vitto me lo hanno dato dopo mesi?
A Cuneo mi dicevano "immediato trasferimento" e aspetto, aspetto… chi? la mamma che porta le arance? (detto siciliano).
Come mi diceva tutte le mattine Maurizio Alfieri: "Santo, come siamo messi?", e io gli rispondevo: "A tri tubi". Capito come siamo andati avanti.
Ormai la battaglia si è aperta e mai si chiuderà più. Possiamo perdere 100 battaglie, compagni anarchici, fratelli, ma dobbiamo vincere la guerra.

gennaio 2013
Santo Galeano, p.zza Filangeri 2 - 20123 Milano

La documentazione spedita da Santo è davvero un esempio, nel suo piccolo, di stupidità burocratica, di vessazioni carcerarie e di psicopolizia.
Il tribunale di sorveglianza di Torino, nell'udienza del 3 luglio 2012, respinge la richiesta di Santo di ottenere i giorni di liberazione anticipata (i quali dovrebbero essere automatici) per i semestri trascorsi senza sanzioni disciplinari, con queste motivazioni, davvero degne di 1984 di Orwell: "Dalla relazione comportamentale di Biella si evince […] che il detenuto risulta persona di difficile gestione sul piano relazionale con gli operatori del trattamento e che la sua condotta è solo 'formalmente regolare', non impegnandosi sufficientemente nelle attività interne preposte.
La complessiva condotta quale emerge dall'istruttoria espletata, tenuto conto delle modalità di perpetrazione, dei motivi e dei singoli contesti in cui è maturata, appare di particolare gravità e manifestazione del permanere di un radicato atteggiamento di opposizione e ribellione alle regole di convivenza penitenziaria e, comunque, ai valori dell'ordinamento.
La regolarità della condotta nei semestri indicati dal detenuto ha avuto carattere meramente superficiale e apparente […], ovvero che tale regolarità formale non corrispondeva a quella interiore e reale, anche se solo parziale, adesione al trattamento che il beneficio della liberazione anticipata presuppone".
Mentre le condizioni di salute di Santo – lasciato per mesi senza cure e senza il cibo prescritto dai medici – si aggravano sempre di più, con danni biologici permanenti, i magistrati di sorveglianza si occupavano della sua adesione interiore ai valori dell'ordinamento.


Milano, SABATO 9 MARZO: MANIFESTAZIONE sotto san vittore
Uno schifo chiamato carcere
Sovraffollamento delle carceri significa sovraffollamento delle celle: impossibilità pressoché totale in cella di movimento fisico, d'intimità, di attenzione, rispetto proprio e di chi è concellino; un bagno, un rubinetto per sei o nove persone...
Sovraffollamento vuol dire anche sovraffollamento del cortile dell'aria, dove ginnastica e calcio sono difficili perchè in contrasto con la densità delle persone in piccoli spazi, con l'assenza d'acqua corrente, con i cessi intasati e puzzolenti.
Sovraffollamento prodotto dalle condanne decise arbitrariamente da polizia, carabinieri, giudici.
Si è chiusi in cella 2 x 4 metri quadrati in 5/6 persone per 21 ore al giorno; le ore d’aria sono ridotte dalle quattro previste a tre, a volte ancora meno perché in quelle ore è compreso il tempo della doccia.
Pestaggi e umiliazioni praticati dalle guardie contro chi non accetta di essere trattato come e meno di un animale da macello. Una condizione che spesso finisce nella tragedia del "suicidio".
Le persone immigrate oltre che del sostegno dei propri cari mancano della lettura poiché a San Vittore vengono venduti solo giornali e riviste in italiano e la tv diffonde solo programmi in italiano.
I prigionieri catalogati “malati psichici” sono costretti in una condizione di vero e duro isolamento, senza fornello, impossibilitati a scambiare cibo, parole...
Cure, lavoro, igiene e vitto sono sempre più scarsi e scadenti; costruire nuove carceri non può che aggravare la situazione. La spesa interna al carcere è invece a prezzi da rapina.
Detenuti ridotti a larve umane con tranquillanti e bombe farmacologiche di stato che invece abbondano. Per fortuna che c’è ancora chi le rifiuta.
Anche amici e familiari scontano la loro condanna: lunghi e costosi viaggi per andare ai colloqui, file d’attesa, pacchi respinti per ragioni affidate alla massima arbitrarietà delle guardie.
Vogliamo lottare contro questa situazione, anzitutto sostenendo le proteste che per queste ragioni nascono a San Vittore così come nelle carceri di tutta Italia dove amnistia è la parola che più abbiamo sentito urlare.
Riteniamo questo un obiettivo generale immediato che può dare forza al movimento di lotta se c’è unità e determinazione nel conseguirlo, ma che può indebolirlo se si confida nell’imparzialità dello stato o nell’illusione che basti mettere il tutto nelle mani di un partito. Siamo persone che direttamente ed indirettamente hanno provato sulla propria pelle il carcere e le sue conseguenze. Se l’amnistia è l’indicazione che esce dalle prigioni è da lì che vogliamo partire, lottando per una riduzione della pena carceraria altrettanto generale.
SABATO 9 MARZO 2013: MANIFESTAZIONE, ore 11 P.za Aquileia (vicina a S. Vittore)
In solidarietà con chi dentro non abbassa la testa. Per l’unità nella lotta fra fuori e dentro che è l’unica condizione che può portare a conquiste valide per chi è chiuso in carcere.
L’unica cosa che è cambiata con la recente visita di Napolitano al carcere di S. Vittore è che sono stati soppressi i colloqui e cancellate le scritte che toglievano un poco di ferocia alle mura del carcere.

Milano, febbraio 2013
Solidali nella lotta contro il carcere
lettera dal carcere di Prato
Ciao Olga, siete favolosi e molto molto seri e sempre con rispetto vi scrivo.
Vengo con questa mia, per partecipare a tutto quanto, sta facendo Pannella per tutti noi che è un vero uomo. Alla sua età ancora combatte per tutti noi, naturalmente non è da meno l'opuscolo, anche voi fate più che tanto per noi ma voglio che Pannella smetta a fare sto sciopero della sete e fame a l'età 82 anni allora come potremo permettere che un uomo di 82 anni sta rischiando per noi e noi cosa stiamo facendo per lui, un cazzo, vogliamo questo o altro senza combattere, affanculo la buona condotta ma non facciamo combattere solo Pannella facciamo anche noi qualcosa per lui.
Non state davanti alla TV sperando per una amnistia la volete allora combattiamo per Pannella lui ci serve vivo e non farlo morire per cosa? Che non stiamo facendo niente, solo silenzio. Con il silenzio e la speranza non si vince la battaglia pertanto, se vogliamo vincere su tutto, rispettiamo sia Pannella che l'opuscolo, combattiamo da fuoco veramente tutti i carceri allo stesso giorno solo così si può vincere lo stato e amministrazioni che subite in silenzio, avete paura per i giorni? Pannella rischia alla sua età la morte! Per cosa? Per noi naturalmente! Aiutiamolo e subito, io sono 4 anni che sto bevuto, cioè carcerato, e me ne sono sempre fregato, ho sempre combattuto su tutto, con le amministrazioni. [...]

23 gennaio 2013
Domenico Gabelli, via La montagnola, 76 - 59100 Prato

Condividiamo l’appello fatto da Domenico a non abbandonarsi alla rassegnazione né all’illusione che miglioramenti delle condizioni detentive, compresa l’amnistia, possano venire come per magia sulla spinta delle iniziative promosse da Pannella o per via di qualche lacrima versata da Napolitano (basterebbe ricordarsi quelle della neo ministra del lavoro Elsa Fornero prima di partorire l’ennesimo pesante attacco alle condizioni di vita dei lavoratori). Senza contare che in questi ultimi mesi la battaglia dei Radicali per l’amnistia si é spostata sempre più sul diritto di voto per i detenuti, creando molta confusione sugli obiettivi delle lotte dentro le carceri.
La lotta contro il carcere è nelle mani dei/delle detenuti/e, se c’é chiarezza degli obiettivi e sufficiente unità si potranno strappare delle conquiste e rafforzare il movimento di lotta. Da fuori cercheremo di sostenere le lotte dentro, di farle conoscere fuori soprattutto a chi sta portando avanti analoghe lotte di resistenza a difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Siamo anche consapevoli che dentro le carceri vi sono tante lotte quotidiane, individuali e collettive, anche se i giornali non ne parlano o quando lo fanno é solo per indebolirle falsificandole. L’opuscolo vorrebbe servire soprattutto a dar voce a queste lotte.


bergamo, 16 febbraio: PRESIDIO CONTRO IL CARCERE
Kelvin, 23 anni, detenuto, ucciso dallo Stato
Era la mattina del 24 gennaio 2013. Era un ragazzo come noi, uno dei tanti che vengono “pescati nel mucchio” e rinchiusi dietro le sbarre per dei reati che il Sistema stesso ci impone di compiere per sopravvivere. Una delle tante vittime che questo Stato si porta appresso. Pochi giorni prima, aveva saputo di essere stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione, nonostante fosse incensurato. I suoi compagni di prigionia hanno dato subito l’allarme, ma le guardie accorse non hanno voluto aprire le sbarre immediatamente, come quasi sempre accade. Quando lo hanno fatto, ormai era troppo tardi.
Gridiamo vendetta, bastardi assassini, di un altro ragazzo ci avete privato!
OGNI MORTE IN CARCERE È UN OMICIDIO VOLUTO DAL SISTEMA!
Nel carcere di Bergamo questo è l’ottavo suicidio che si conta in dieci anni. Il sesto nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno in corso. Nel 2012 i morti per carcere (suicidi e morti mai accertate/mai volute accertare, morti per malattie, ecc.) sono stati in totale 154.
Il suicidio è l’atto estremo di ribellione di un essere umano costretto a vivere segregato, è un atto di dignità che non può passare ignorato e restare impunito. Le Istituzioni responsabili e la stampa asservita, per loro convenienza, fanno ogni volta di tutto per nascondere il fatto e le sue vere ragioni.
Di carcere si muore, o immediatamente o a poco a poco, in maniera costante. L’annientamento fisico e psicologico inflitto è brutale. Si va dall’insostenibile sovraffollamento delle celle alla scarsa qualità del cibo somministrato; dall’enorme difficoltà di usare la corrispondenza come mezzo di contatto con l’esterno alla negazione del diritto a ricevere cure mediche specifiche appropriate (a Bergamo un detenuto nel 2011 per questo motivo è morto). D’altro canto è prassi la criminale somministrazione di psicofarmaci e sedativi d’ogni genere, con lo scopo, unico e rimarcato, di annientare la resistenza della persona che combatte contro l’oblio, per renderla innocua, vulnerabile e sottomessa all’ordine carcerario, proprio come vorrebbero vederci sottomessi noi tutti. Nel 2009, sempre nel carcere di via Gleno, un ragazzo è morto di overdose di NOZINAN 100, un potentissimo neurolettico la cui somministrazione deve essere parsimoniosa e controllata medicalmente.
Chi pensa e promuove campagne elettorali promettendo un improbabile indulto o un’improponibile amnistia non fa altro che prendersi gioco dei detenuti stessi, con l’intento di ridicolizzare, sminuire e isolare le fondamentali lotte rivendicative che nascono da dentro. La riduzione dell’elevato numero dei detenuti può dipendere solamente dall’abrogazione delle leggi repressive di cui lo Stato si fa forte. La distruzione del carcere, nodo cardanico di questo Sistema autoritario chiamato capitalismo, democrazia, società del benessere, e la distruzione dello Stato stesso, necessario passo da compiere per una società libera e giusta, si potrà compiere solo ed esclusivamente attraverso la presa di coscienza e l’autorganizzazione di tutti gli sfruttati, siano essi rinchiusi tra le sbarre, alienati nei posti di lavoro, schiacciati nelle piazze.
Scendi in strada ed aggregati a noi, ricordando Kelvin, per dire che
NESSUNA MORTE PASSA SOTTO SILENZIO!
SABATO 16 FEBBRAIO DALLE ORE 11 VIA GLENO: PRESIDIO CONTRO IL CARCERE

8 febbraio 2013
Gruppo Antiautoritario Contro Carcere e Repressione e Compagn* solidali
Gruppo Antiautoritario Contro Carcere e Repressione, via Furietti 12/B - 24126 Bergamo
sportello informativo legale e gratuito ogni primo giovedì del mese dalle 21.30 alle 23
gaccr2012@gmail.com


lettera dall’OPG di Montelupo fiorentino (FI)
Compagne/i di Olga sono Adriano Levratto, dopo questo lungo silenzio da parte mia: la spiegazione è la seguente il 21 dicembre 2012 il giorno del mio finepena per detenzione articolo 75 comma 5 al posto di essere scarcerato in libertà, sono stato tradotto all'OPG Montelupo Fiorentino, per scontare anni 1 di misure di sicurezza, applicatomi vigliaccamente nel 2007. Vi faccio presente codeste incongruenze sulla mia persona.
Nel 2007 venni accusato di tentato omicidio solo dopo aver scontato anni 2, mesi 9 di detenzione. La cassazione di Roma mi derubricò il reato ascrittomi in lesioni semplici, 2 punti di sutura alla base del pollice, con 7 giorni di prognosi alla parte lesa. Dovetti patteggiare presso la corte d'appello di Genova il massimo della pena per lesioni s. = anni 2.
3 mesi orsono sono stato risarcito dal ministero dell'economia per ingiusta detenzione ad euro 61,550. Altresì, 3 mesi fa, il tribunale di Savona delegava un perito psichiatrico di San Remo, ove ero recluso, a periziarmi, avendo un processo da celebrare a Savona. Codesto perito non constatava patologie psichiatriche dicendo che sono sano di mente.
Morale: mi hanno condannato a piede libero ad anni 2 e mesi 6 senza attenuanti per vizio di mente. Praticamente lo scrivente risulta: sano di mente per il processo penale e in ugual modo persona con patologie psichiatriche da essere internato in questo lager di stato.
Cazzo ragazzi, ditemi voi se non stanno esagerando, si stronzi. Tutto perché do fastidio a livello di conoscenze e intrallazzi.
Ora il mio legale di fiducia è speranzoso per il mio lieto fine, intanto è quasi un mese che vivo in una realtà infernale, orribile a dir poco. Qui ci tengono pure persone handicappate, è una cosa orripilante, persone che la famiglia per l'eredità le fa internare.
Ti fanno storie per un lassativo, ma storie originali. Però sugli psicofarmaci più ne chiedi più ne danno. Oltretutto qui c'è una censura postale cinese.
Speriamo che il 21 marzo 2013 questi lager vengano chiusi come hanno promesso i politici, intanto questo luogo i NAS (carabinieri) lo hanno messo per 3 quarti sotto sequestro. Se vedeste che luogo sono riusciti ad appropriarsene il ministero della giustizia, vi verrebbe rabbia visto che era della famiglia dei Medici del 1500 e tutto ciò fa parte delle belle arti, perché sono a dire il vero una bellezza maestosa, purtroppo con l'uso del OPG.
Compagni/e, aiutatemi, fate sapere alla nazione di questo nazismo.
Vi voglio bene e con stima vi saluto.

28 gennaio 2012
Adriano Levratto, v.le Umberto I, 64 - 50056 Montelupo Fiorentino (FI)


Lettere dal carcere “Pagliarelli” di Palermo
Le prime due lettere sono di Madda; la prima è una parte di una lettera giunta alla Cassa AntiRep delle Alpi occidentali all’inizio di gennaio in cui racconta di essere stata messa in isolamento e delle condizioni a cui è sottoposta; nella seconda racconta del blocco della posta e ci aggiorna sulle dinamiche di scontro interne al carcere.
Ai primi di febbraio apprendiamo da informa-azione.info che Madda è stata trasferita: "25 (gennaio) finito colloquio trasferimento coatto dopo malmenamento con guardie", questo il telegramma che Madda è riuscita a inviare ad una compagna. Sappiamo bene che Maddalena non perde tempo a lamentarsi e non saranno il sadismo e la vigliaccheria delle guardie a farle piegare la testa, ma farle sentire la nostra vicinanza è un modo per darle forza e per fare sapere agli aguzzini in divisa che non è sola.

Per scriverle: Calore Maddalena, C.C. Contrada Petrusa - 92100 Agrigento

Ciao cari compas, vi scrivo tentando di mandarvi queste due righe da rigirare per informarvi che, alla fine, hanno ottenuto il mio isolamento in regime di 14bis dell’OP, quindi cella a blindo chiusa, liscia (senza mobilio, tv, fornellino, specchio, ecc. ecc.), due ore d’aria al giorno (ora anche meno dato che bisogna distribuire l’orario dei passeggi con altre persone isolate), solo branda, tavolino e sgabello e ovviamente qualche libro, carta e penna (ah, bijou!, io ho il lusso che tengo la radiolina!).
Questa fottuta cella, essendo più grande delle altre, lascia in circolo il freddo e l’umido (anche perché ti sogni i caloriferi!) e poi, essendo così più lontana a pianterreno, non c’é modo di fare arrivare il calore e la luce solare... questa cosa della luce mi da sui nervi, avendo le finestre non solo con le sbarre ma anche con una sorta di tapparelle in ferro saldato che filtrano il minimo! Fanculo! Ventitre ore su ventiquattro vivi con la luce artificiale! Chiaramente non sto qua a lagnarmi della decisione adottata conoscendo bene le tattiche di chi ci opprime. Lo sappiamo bene che ai ribelli sociali, a coloro che non accettano di subire le regole imposte, viene data l’esemplare punizione dell’isolamento come metodo per annientarti nello spirito... sappiamo che lo Stato per mantenersi come tale utilizzi tutti i mezzi a sua disposizione per mantenere, terrorizzando, l’acquiescenza, per mantenere così come sacre quelle leggi fatte da e per quei pochi, volendoti solo come suo suddito succube a capo chino, in vita solo per produrre, cittadino ai suoi ordini, schiavo di una routine imposta dove se sgarri vieni punito e dove il massimo dei livelli punitivi si esercita attraverso il carcere! Allo stesso modo, essendo il carcere istituzione statale (quindi lo specchio dell’esterno), al suo interno riproduce perfettamente le dinamiche che lo stesso vuole e deve mantenere anche esternamente: il rispetto delle regole imposte e il timore nelle autorità. Così come fuori, se non rimani schiavo vieni represso, punito, papale papale anche all’interno se sei “indisciplinato” devi essere punito per essere rincasellato, rieducato a cittadino-servo da produzione, e se pur all’interno della stessa macchina punitiva non accetti, esprimi disprezzo, per ciò che ti vuole annichilito, robotico, morto, allora non rimane altro che distruggerti nello spirito (e di modi per farlo il carcere ne ha molteplici). Che persone che si ribellano (non solo alle norme esterne, ma anche a quelle interne) non son utili e non possono far comodo a chi deve mantenere i propri dogmi come assoluti, imposti!!!
Per questo non mi stupisco della scelta di questa punizione, di questo duro regime! È la norma, la conseguenza applicata ai ribelli di ogni dove! Ma sicuro non è questa situazione (né tutto quello che chi vuole mantenere un certo apparato adotta per eliminare l’indole ribelle) a vedermi cambiare nei confronti di quello che odio. [...]

1 gennaio 2012
Maddalena Calore

***
Ciao miei cumpà, da come potrete ben vedere questa mia lettera giungerà con un ritardo assurdo, questo perché ho dovuto ingegnarmi a far uscire queste due righe per via dell'infame mossa voluta ed avviata dal carcere di trattenermi tutta la corrispondenza in entrata e in uscita da mandare al settaccio, prima d'esser inviata, all'autorità giudiziaria!
Questo è stato giustificato da "motivi di sicurezza interna all'istituto!". Sono riusciti pure a censurarmi la corrispondenza, a dilungare i tempi e decidere quali debbano o meno partire! Chiaro il gesto, da quando sono uscite tutta una serie di infamie che avvengono in sto schifo man voluto prevenire e reprimere ulteriori voci che avrebbero potuto uscire! Dato che qua dentro ogni giorno ce n'è una!
Vi racconto le ennesime infamie adottate per la loro fottuta sicurezza... intanto, dopo avermi contestato ulteriori giorni di isolamento e la "censura" sulla corrispondenza, stesso giorno di uscita dalla loro punizione vennero i/le compas qua sotto a portare un po' di calore! E che bene che fece a molti animi tra maschile e femminile! Ci fu un bel dovuto bordello! Tra chi chiedeva la solita amnistia e chi invece si prendeva quell'attimo di libertà nel sfogare tutto quello che si subisce quotidianamente... Gli sbirri stavan neri perché s'è spezzata, come han detto loro, la tranquillità interna... quale? La loro fottuta tranquillità dato che qua dentro non c'è mai da star tranquilli! Si dice che tranquillo è bello che morto e sepolto! Appunto... Insomma io chiaramente mi feci sentire come potevo... inutilmente perché sono posizionata dal lato opposto a quello in cui si misero i compas... urlando e sbattendo e scandendo i soliti slogans. La guardia di turno mi rapportò per aver urlato cosa che dissi non mi toccasse affatto... dopo aver sentito calare una calma (troppo strana in realtà, che mi preoccupai di un fermo da parte degli sbirri nei confronti dei solidali...) chiesi la doccia che mi spettava quel giorno e questi infami me la negarono per via della mia ostilità nei confronti delle loro regole e perché - dissero - avevo turbato la tranquillità interna! Sti porci (con tutto il rispetto per i maiali) mi fecero andare in escandescenza che iniziai a sbattere e gridare ciò che mi spettava! Al ché, come diretta conseguenza, mi chiusero il blindo... Nuovamente iniziai a buttare tutto all'aria e se la febbre che tenevo quel giorno non me l'avesse impedito, avrei sfasciato completamente tutto! Conclusione la doccia non la feci e questi bastardi l'ebbero vinta perché sappiamo bene che tutti i metodi legali burocratici cazzi e mazzi a loro disposizione son sempre a loro favore! Non è un "abuso di potere" ma è la norma, è la legge che deve prevalere ed esser mantenuta appunto per poter continuare a perpetrare... insomma giorno dopo, oltre ad avere il cazzo girato per tutta la storia mi trovo una fottuta guardia che, sentitasi dire la verità in faccia (un giorno, mentre questa infame compiva il suo lavoro di merda di porta chiavi si mise a sfottermi con frasi come "facciamo uscire il pezzo grosso... aspetta che non ci siano colleghi uomini in sezione" - questo perché nella lettera inviata all'opuscolo n° 72 scrissi che ci stava un capo posto uomo... cioè come queste guardie capiscono le cose quando leggono! Che ignoranti! che io lo scrissi a livello informativo, mica di critica che ci sia l'uomo come capo posto! Che tanto uomini o donne sempre infami in divisa sevi e schiavi dello stato sono! - e di risposta alle sue frecciatine le dissi di smetterla di sparare minchiate) si pone a muso con me dicendomi di dirle le cose in faccia - come se non l'avessi fatto! - che sono una cretina pezza di monnezza ecc. ecc. Tutta una serie di offese che io lasciai scivolarmi addosso per non abbassarmi ai suoi livelli da povera ignorante che è... anche perché in quei momenti non c'è nulla da dire... o usi indifferenza o mani in faccia... io sono così... insomma dopo quest'ennesimo episodio di accumulo tensione se ne escono dall'ufficio comando con una nuova disposizione per l'ora di socialità... dalla data riportata nel foglio, si sarebbe svolta per il braccio destro - in cui sto io e la maggior parte di sbirre detenute - in una saletta e quello sinistro in un'altra! Porco dio come dividerci! E che qua si faceva per potersi ritrovare con le altre ragazze! Ok, all'aria si discute sul da farsi di sto problema, in principio non rientrare dai passeggi, ma c'era chi si cagava, allora s'è optato per far bordello ognuna nella socialità predisposta... salendo il comandante convoca alcune delle ragazze che con me hanno proposto la cosa e le intimorisce, se non addirittura le minaccia con isolamento e "calci in culo!", per far si che si eviti la cosa ribaltandola e rigirandola con un'istanza alla direttrice... Certo, come no, come se questi metodi portassero a qualche cosa... se l'ufficio comando, che deve gestire la sicurezza interna, emana una cosa, di certo chi dirige la struttura avendo quegli uomini come gestori per la sicurezza, non darà mai loro torto né smentirà le loro disposizioni... quindi l'unico mezzo e metodo efficace è l'azione collettiva! Ora stiamo a vedere come minchia si comportano cazzo, intanto sono riusciti con le minacce a turbare e chetare gli animi caldi che inizialmente s'erano uniti! Come al solito questi pezzi di merda la merda la devono far ingerire a forza o facendola passare per cioccolato... che nervoso me cumpà! Ora, questa disposizione non ho avuto modo di avere informazioni sulle motivazioni, c'è chi dice perché c'è stato bordello durante il presidio (qua e al maschile) e c'è chi dice per litigi interni... ma se queste disposizione, da come ho letto è stata applicata a tutti i reparti, io credo che vogliano evitarci l'unione in momenti caldi... Poi, ad ognuno il ragionamento che vuole ciò non toglie che questa è l'ennesima restrizione adottata nei nostri confronti... l'ennesima!
Fate girare questo scritto cumpà che è importante... in attesa di un'ulteriore ventata di calore dall'esterno, che ci vuole proprio, chiudo questa mia sempre per la libertà fuoco alle carceri tutt* liber*

PS. Ringrazio tutt* i/le compas che mi han supportato fin'ora e che continuano a farlo e i/le solidali venuti qua sotto il giorno del mio complex! Avete dato un attimo di libertà a molti e molte di noi rinchiusi! Sperano in tante di risentirvi... io più di tutti! Grazie mi avete scaldato il cuore... in questa situazione di merda dove da una parte ci sono vessazioni di guardie infami e dall'altra la mancanza di solidarietà tra detenute, il vostro urlo di libertà s'è unito al mio odio nei confronti di chi ci reprime!!! e al mio eterno amore per la completa libertà!!! Sempre in lotta contro lo stato.

16 dicembre 2012 [arrivata a metà gennaio 2013]
Maddalena Calore, via Bachelet, 32 - 90129 Palermo

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Ciao a tutti cumpà vi scrivo queste due righe solo per farvi capire che qui al Pagliarelli c'è più merda che no cioccolato, come ben sapete siamo tutte mischiate sez sx comuni e sez da pedofili ma siccome a sti sbirri de merda ci annoia anche fare il loro lavoro ormai condividiamo anche l'aria e le cose che sento e vedo sono pazzesche... In sto carcere c'è troppo abuso di potere e tutto questo è dovuto alle detenute che abbassano la capa ma la maggior parte so tutte sbirre senza divisa, questo è il 4° carcere dove mi portano hanno provato a picchiarmi ma ho reagito come sempre farò a 7 mesi che mi trovo qua ma possiamo dire che mi sono fatta + isolamento e i rapporti mi volano per i miei atteggiamenti è che sono subito impulsiva se già mi dicono A io faccio tutto l'alfabeto... Cmq sto scrivendo per una persona speciale che mi sta a cuore la mia compare Madda che l'han trasferita un giorno prima dell'isolamento, Madda se leggi vedi che aspetto un tuo scritto lo so che ci vorranno secoli per arrivare e complimenti per quello che hai fatto, ci rivedremo fuori a far lotte e ai rave scrivimi che anche quella sbirra non vuole dirmi dove sei TVB e ovunque siamo anche divise combattiamo per sti cessi...
Adesso cumpà vi saluto e facciamoci sentire... ACAB
NB: non dimenticate di mandarmi l'opuscolo.

28 gennaio 2013
Alessandra Fumia, via Bachelet, 32 - 20129 Palermo


comunicato dal carcere di san michele (al)
Apprendiamo che a partire da martedì 29 gennaio i compagni Alfredo Cospito e Sergio M. Stefani, prigionieri nella sezione AS2 del carcere di Alessandria, hanno iniziato uno sciopero della fame teso all’ ottenimento dei colloqui con le rispettive compagne.
Ricordiamo che Alfredo non è mai stato autorizzato, dal momento del suo arresto il 14 settembre, ai colloqui con la propria compagna in quanto indagati nel medesimo procedimento. Sergio era autorizzato ai colloqui con la sua compagna, ma essendo anche lei detenuta a seguito della medesima indagine, non l’ha potuta rivedere fino alla sua scarcerazione in data 21 dicembre. In seguito è riuscito ad effettuare tre colloqui prima che l’indagine passasse dalla procura di Perugia a quella di Milano, che ha deciso di negare i colloqui. Quello che segue è un breve messaggio con cui hanno voluto rendere pubblico il loro gesto.

Il mondo mercantile, la società tecno-industriale, la civilizzazione stessa poggiano le loro fondamenta, non sugli individui per propria natura differenti ed imprevedibili, ma sulla massa omogeneizzata dall’educazione, dalla morale e dalla legge. In questo mondo ogni rapporto sincero e profondo diventa sospetto, i legami di affinità sinonimo di sodalizio “criminale”, la solidarietà ridotta a mera esecuzione di un comando.
Ma noi rifiutiamo di ridurre al realismo i nostri desideri e di addomesticare le nostre passioni. Viviamo la nostra vita senza mediazione, senza accontentarci e questo ha disegnato sui nostri volti il sorriso di gioia che mai ci abbandona.
Per questo non possiamo accettare che nessuno tenti di recidere i nostri legami ed intraprendiamo questo sciopero della fame pregustando la dolcezza dell’abbraccio delle nostre compagne.

Alfredo Cospito, Sergio M. Stefani, Strada Casale 50/A - 15040 S. Michele (Alessandria)

30 gennaio 2013
da informa-azione.info


Lettera dal carcere di Siano (CZ)
Cari compagni, vi mando questo scritto visto che il diretto interessato, Davide, si è visto nel frattempo confermare una quarta volta il 41 bis. Nel puro spirito d’annientamento psico-fisico che è il fine del 41 bis. Secondo modalità che si possono indicare con una sola parola: tortura. Pare che siano in corso trasferimenti verso i nuovi carceri della Sardegna e non solo per il 41 bis: non sono in grado di quantificarli.
Tra l’altro qui per avere una lettera ormai ci vuole un minimo di tre (3) settimane. Non solo queste vengono sistematicamente aperte, ma le consegnano con calma. Come ovvio la cosa sarebbe illegale: ma parlare di legalità in carcere è come bestemmiare in chiesa.

6 gennaio 2013
Ghirardi Bruno, via tre fontane 28 - 88100

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Odissea persecutoria della tortura del 41 bis
La storia di un tormento istituzionale che sembra non avere mai fine, una tortura democratica in cui l’arbitrio è un fatto divenuto ovvio e naturale.

Premessa introduttiva
La logica emergenziale con la quale ragionano i giuristi della legislazione sovverte il funzionamento del gioco probatorio. Messo da parte il corredo delle garanzie si dà luogo a un metodo che permette il funzionamento di un sistema di tortura del “41 bis” che per vie legali raggiunge obiettivi illegittimi.
In ambito penitenziario la competenza dei tribunali di Sorveglianza viene sistematicamente offesa dalla pretesa superiorità del D.A.P. “Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria” che si ritiene unico figlio legittimo del ministero della giustizia.
Così questo sistema di tortura del “41 bis” nutrito da preoccupazioni più virtuali che oggettive, rompe l’asimmetria fra mezzi legali e fini legittimi.
Attraverso funambolismi giuridico-investigativi è permesso alla legge di aggirare se stessa, mentre intelligenze del diritto, le stesse che danno vita al ministero della giustizia consentono la sistematica violazione delle più elementari regole del diritto che permettono il funzionamento legale della legge.
Succede col sistema di tortura del “41 bis” che decreti a firma del ministro della giustizia riportano note informative che in termini di prevenzione dovrebbero rappresentare l’intelligenza investigativa, risultando, in assenza del gioco probatorio l’espediente legale, che attraverso l’eccessiva tolleranza imposta al controllo giurisdizionale, permette la permanenza illegittima di persone nel circuito speciale a tempo indeterminato.

Nota espositiva
Venti anni di carcere di cui quindici sottoposto a regime di tortura del 41 bis; tre revoche disposte da tre diversi tribunali di Sorveglianza, disattese da tre ministri della giustizia, sono il risultato di come il “sistema” della tortura del 41 bis si auto regola in funzione di modalità contrarie ai principi del diritto.

Cronaca dei fatti
Cronologicamente l’odissea che sto scrivendo e vivendo, iniziò con il mio arresto nel 1993 e la contestuale sottoposizione al regime di tortura del 41 bis. Con la notifica del decreto a firma del ministro, venivano sospese nei miei confronti tutte quelli regole trattamentali previste dall’Ordinamento Penitenziario, a salvaguardia dei diritti umani.
Dal 1993 al 2003 mi furono notificati diciannove decreti di proroga; così per dieci anni ininterrottamente subivo ogni sei mesi il rinnovo del decreto ministeriale, in violazione dei principi giurisprudenziali fissati dalla Consulta, che imponevano a ciascun decreto di proroga motivazione non stereotipate basate su fatti recenti. (Circostanza disattesa ad ogni notifica della proroga).
Contro il decreto di proroga la Consulta stabilì che si poteva proporre reclamo entro dieci giorni dalla notifica; questa garanzia non ebbe altro che un valore formale: i tribunali di Sorveglianza fissavano la trattazione del reclamo a una data che superava il tempo d’efficacia (6 mesi) del decreto, e all’udienza veniva dichiarato inammissibile.
Succedeva che intanto il ministro firmava un altro decreto di proroga e quello precedente ormai inefficace non veniva valutato.
Così il sistema repressivo che usava la tortura istituzionalizzata, disattendeva quelle timide garanzie costituzionali, grazie alla complicità tollerante concessa dal legislatore sulla legalità del controllo giurisdizionale.
Nel 2003 il regime di tortura del 41 bis non aveva più oggettive legittimazioni emergenziali. L’emergenza virtuale foriera di opportunità fu il motivo reale per cui questo regime divenne stabile per legge.
Il legislatore corresse solo gli aspetti bocciati in precedenza dalla Corte Costituzionale e dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, mantenendo alto il livello di afflittività e salvando l’apparato repressivo.
Nel 2003, quando l’Avv. Dominici propose reclamo, al tribunale di Sorveglianza di Roma, il controllo giurisdizionale tramite una giurisprudenza ormai rivisitata dalla Corte Costituzionale, e voluta dalla Corte Europea, aveva acquistati un maggiore potere di sindacabilità. Così dopo dieci anni di regime di tortura del 41 bis, in assenza di qualsiasi elemento mi veniva riconosciuto insussistente il pericolo di collegamenti con la criminalità. Avvenuta la revoca nel 2003, mi ritrovai a regime di E.I.V. (elevato indice vigilanza), dove restai circa quattro anni.
L’e.i.v. era un circuito nato al di fuori di ogni regola, che in seguito fu rottamato nel 2009, cambiandone solo il nome in A.S.1; un’operazione truffaldina per eludere la sentenza della Corte Europea.
Il D.A.P. senza emettere un provvedimento motivato e senza una notifica, decideva nei miei confronti l’esclusione da tutte le opportunità al di fuori della sezione, obbligandomi alla permanenza in un circuito fantasma, senza la tutela di un giudice competente per giurisdizione.
Il 10 gennaio 2007 (dopo anni di permanenza abusiva in regime di e.i.v.) il ministro della giustizia firmava un nuovo decreto di tortura del 41 bis. Questi signori ritengono che la tortura persecutoria avvenendo in democrazia si legittimi.

Seconda applicazione
Per la seconda volta, fui sottoposto alla tortura “democratica” e trasferito al carcere di Ascoli Piceno. La nuova riapplicazione, non si fondava su fatti commessi dopo la revoca, disposta nel 2003 dal tribunale di Sorveglianza di Roma, né su elementi nuovi non considerati dal giudice all’atto della revoca.
Il tribunale di Sorveglianza di Ancona, investito per competenza, con reclamo proposto dall’Avv. Dominici in udienza dispose il rinvio per chiedere al ministero quali fossero gli elementi nuovi sopravvenuti alla revoca del 2003, (tribunale di Sorveglianza di Roma che a suo tempo lo disapplicò.
Purtroppo in materia penitenziaria la competenza dei tribunali di Sorveglianza viene sistematicamente offesa dalla pretesa “superiorità” del D.A.P. che si ritiene unico figlio legittimo del ministero.
L’unica speranza per avere giustizia rimaneva la Corte Suprema di Cassazione.
Il ricorso per Cassazione presentato dall’Avv. Dominici, venne dichiarato ammissibile dal Procuratore generale, e su sua richiesta fu annullato dalla Corte, con rinvio degli atti per la trattazione presso il tribunale di Sorveglianza di Ancona.
Rimasi in regime di tortura del 41 bis fino alla fissazione dell’udienza nel luglio del 2008.
In udienza sopravvenne un fatto nuovo: la morte durante un’operazione di polizia, condotta dalla questura di Caltanissetta, di mio fratello Daniele, all’epoca latitante.
L’unica nota su cui insisteva il ministero decadeva con la morte di mio fratello.
Il tribunale di Sorveglianza di Ancona, l’11 luglio 2008 disponeva la revoca della tortura del 41 bis. Per la seconda volta una corte mi revocava la tortura fisica, che ormai su era impadronita della mia serenità, e che rimarrà sempre dentro di me. Come mai il ministero della giustizia violava le norme che non ignorava?
Disposta la revoca fui trasferito nella sezione abusiva di e.i.v. del carcere di Voghera (PV). Dopo quattro mesi, il 18 novembre 2008, il ministro firmava un nuovo decreto, così mi ritrovai in una cella della sezione di tortura del 41 bis del carcere di Opera (MI).

Terza riapplicazione
Un nuovo decreto di sottoposizione al regime di tortura del 41 bis, sarebbe stato legittimo solo nel caso che dopo la revoca fossero stati commessi nuovo reati. Ma questo non fu neanche ipotizzato.
Fu una nota informativa, vero funambolismo giuridico investigativo che permise (e permette) alla legge di aggirare se stessa. Queste note informative che danno vita ai decreti ministeriali, dovrebbero rappresentare l’intelligenza investigativa in termini di prevenzione, ma la logica emergenziale con cui il legislatore impone di ragionare, sovverte il “gioco” probatorio: non è ciò che è accertato a provare ciò che è sospettato, ma ciò che è sospettato è provato dalla sua stessa verosimiglianza; il resto viene regolato dal sistema.
Il corredo delle garanzie è stato dimenticato dei giuristi della legislazione e il sistema di tortura del 41 bis si autoregola meccanicamente attraverso modalità simili all’ostracismo ateniese (nella nota non si sa chi è la fonte, non si conosce il dove, quando, come e perché dei fatti…).
Successe nel mio caso, che la squadra mobile di Caltanissetta scrisse una nota informativa che recitava testualmente “… da attività investigativa è emerso che l’Emmanuello è in contatto con l’attuale reggente esterno della famiglia al quale impartisce ordini, ricevendo anche comunicazioni”; (va premesso che tutto ciò venne smentito indirettamente negli anni a venire da un’ondata di collaboratori). La nota informativa non era corredata da alcuna indicazione che ne consentisse la fondatezza. Ciò fu motivo di reclamo proposto dall’Avv. Dominici al tribunale di Sorveglianza di Milano.
Il tribunale milanese il 3 aprile 2009, rinviò la trattazione per acquisire i dettagli necessari su quanto accertato con testuale richiesta: “posto che della suddetta attività investigativa appare rilevante ai fini del decidere, essendo stata espressamente menzionata nel decreto impugnato, ma le cui risultanze non sono state inviate come invece avrebbe dovuto essere”. Richiesta che il tribunale avanzò tramite il D.A.P. esercitando il potere di sindacato giurisdizionale che in materia di proroga concerne nella piena valutazione dei presupposti applicativi. Questa richiesta avanzata al D.A.P. conforme alla giurisprudenza costituzionale non ebbe risposta. In sostanza succedeva che la nota informativa non conteneva altro che parole in libertà, e prima ancora del tempo a confermarlo, già la risposta negativa degli apparati di sicurezza lo dimostrava.
All’udienza del 19 giugno 2009 per la trattazione, il tribunale milanese contraddicendo la richiesta avanzata al D.A.P., concludeva “la circostanza che il D.A.P. non abbia inviato l’esito dell’attività investigativa, come richiesto da questo tribunale alla scorsa udienza appare del tutto ininfluente”.
Con queste testuali parole il tribunale dichiarava ininfluente un’attività investigativa in forza della quale unicamente, sarebbe stato possibile al sistema, in modo legale per la terza volta, ripristinare il regime di tortura del 41 bis già revocato precedentemente da ben due tribunali. Questo è il metodo che permette il funzionamento del sistema di tortura del 41 bis, che ottiene per vie legali ciò che non sarebbe legittimo attraverso acrobazie giuridico investigative.
Se il tribunale di Sorveglianza di Milano si fosse attenuto alla giurisprudenza costituzionale, in risposta della nota informativa avrebbe preteso il riscontro probatorio, ristabilendo ciò che il sistema di tortura del 41 bis esclude, cioè l’asimmetria fra mezzi legali e fini legittimi. Il reclamo da noi proposto fu così rigettato, e il ricorso per cassazione pur ritenuto censurabile dal Procuratore Generale fu dichiarato infondato.

Il decreto aveva efficacia fino al novembre 2010, puntualmente il ministero allo scadere mi notificò la proroga per altri due anni.
La nota informativa “incriminata” che aveva fatto scattare preventivamente il regime di tortura del 41 bis venne tolta dal decreto di notifica, mentre il nuovo venne motivato con fatti riesumati dai decreti precedenti, che erano stati ritenuti idonei dai tribunali che avevano revocato il regime di tortura del 41 bis.
Sarebbe assurdo immaginare intelligenze del diritto, le stesse che danno vita il ministero della giustizia, ignorare le regole più elementari delle leggi e del loro funzionamento.
Come da prassi l’Avv. Dominici propose reclamo, per competenza intervenuta con la nuova legge, fu presentato al tribunale di Sorveglianza di Roma.
Dopo un anno, l’udienza fu fissata il 28 ottobre 2011, e l’esito fu l’annullamento del decreto ministeriale, con la testuale motivazione “… in assenza di circostanze veramente nuove, concrete e attuali… il collegio reputa non legittimamente emanato il decreto impugnato.” (Ordinanza 5 novembre 2011).
Con la revoca, da Opera (MI) fui trasferito nella sezione A.S.1 del carcere di Catanzaro, dove attualmente sono ristretto.
Oggi dopo la revoca, mi trovo ad attendere penosamente la quarta decisione, perché la Suprema Corte di Cassazione, per cavillose questioni di diritto, ha accolto il ricorso della D.N.A., annullando di conseguenza l’ordinanza e fissando nuova udienza il 23 novembre 2012 dinanzi al tribunale di Sorveglianza di Roma, unico organo speciale adibito alla discussione del regime di tortura del 41 bis, “ricordo dei Tribunali speciali di mussoliniana memoria”. Una situazione insostenibile, una lenta agonia, per la quale non appare risolutiva la garanzia giurisdizionale. Una forma di persecuzione, paragonabile ad una sofisticata tortura psicologica studiata dalle stesse menti del diritto…
Tutto appare insufficiente per neutralizzare gli espedienti messi in atto da una macchina burocratica, programmata per l’annullamento dei diritti fondamentali della persona.

Catanzaro, agosto 2012
Davide Emmanuello


Bologna: Resoconto dell’assemblea “uniti contro la repressione”
Si era in 30/40 provenienti da: Ba, Fg, Na, Bo, Pd, Pr, Mi, Ts, Mestre.
Il punto più dibattuto è stato quello dell'organizzazione concreta della manifestazione generale (nazionale) contro il 41 bis a Pr. Intanto ne è stata fissata la data (25 maggio 2013), ne sono stati discussi i criteri da seguire per un percorso nella parte della città interessata in qualche modo alla lotta contro il carcere o la repressione in generale; a suo sostegno è stato deciso di stendere un appello, assieme al manifesto, in cui riaffermare con chiarezza i contenuti della chiamata (l'applicazione in larghissima parte delle carceri, se pur con metodi e mezzi diversi - esempio ne è quanto è accaduto, ci siamo detti, a Tolmezzo, - della "logica" premio/punizione perseguita nelle sezioni a 41 bis: isolamento, pestaggio, individualizzazione della pena... al minimo accenno di ribellione, di propulsione all'agire collettivo da parte di chi è in galera contro le prepotenze del carcere...).
In seguito ogni realtà ha comunicato quanto combinato e accaduto di saliente nel territorio in cui agisce. Si è capito una volta di più che la controrivoluzione persegue un disegno omogeneo di aggressione al movimento in cui l'arma maggiormente adoperata è quella di appioppare, secondo i casi, "devastazione, saccheggio", "resistenza, oltraggio", "concorso" (ci si è scordat* del 270...)...mentre si fanno avanti le aggressioni fasciste, specie a Na e Ba - in quest'ultima città il tribunale è riuscito a trasformare la difesa di quattro compagn*, da un attacco di un gruppo di fasci molto più nutrito, in "rissa..." e infine a condannarl*.
Sono infine stati messi a conoscenza di tutt* le scadenze di numerosi processi, in particolare quelli riguardanti proprio le manifestazioni tenute a L'Aquila (da cui è nata l'assemblea), sia quella del 2007 che del 2011. Per la prima è arrivata l'ora dell'appello (27 marzo 2013, cade di mercoledì); si è deciso di andare almeno in una ventina per tenerci il campo, naturalmente c'è il tempo di liberarsi per quella giornata e di prepararsi a raggiungere L'Aquila con il suo tribunale ancora nascosto in un paese...
Il secondo processo è fissato invece per il 30 aprile 2013 alle 9, contro 5 compagn* accusat* di "oltraggio"; la sua prima udienza è considerata generica, la possiamo insomma marinare.
Infine è stato comunicato a che punto si trova la preparazione di un video sul 41 bis; è stato fatto un blog... si invitano tutt* i/le compagn* a usarlo: il suo indirizzo è: uniticontrolarepressione.noblogs.org
Ricordiamo che la proposta di appello perla mobilitazione di Parma il 25 maggio 2013 verrà inviata dai compagni di Milano entro metà febbraio e il manifesto dai compagni di Napoli, per fine febbraio. Rispetto ai contenuti da portare alla mobilitazione e da riportare anche nell’appello, si è avuto un dibattito molto ricco e interessate rispetto ad alcuni aggiornamenti delle condizioni dentro alle carceri, con particolare riguardo all’articolo 14 bis, e alcune flessioni rispetto a recenti proteste e alla natura dell’articolo 41 bis. In particolare, si è evidenziato come sempre di più i modelli di detenzione tipici del 41 bis vengano esportati di peso nella vita quotidiana del carcere, l’assillo punitivo costante verso chi si ribella si materializza tramite l’applicazione dell’articolo punitivo del 14 bis, a cui sempre più prigionieri viene applicato. Questo confronto ha fatto emerge la necessità si saper diversificare l’articolazione delle iniziative da sviluppare in solidarietà ai detenuti che lottano, affiancando ai presidi sotto le carceri altri momenti di protesta.
In particolare aggiungiamo per l’appello:
- di collocare la mobilitazione di Parma nella situazione attuale, facendo anche riferimento al clima generale di inasprimento dell’apparato repressivo, e di collegare il 41 bis alla repressione che alcune lotte oggi vivono, come la lotta No tav (e la bunkerizzazione del processo).
- la solidarietà ai rivoluzionari prigionieri, partendo dal fatto che proprio nel carcere di Parma è detenuto un compagno prigioniero in regime di 41 bis.
- Approfondire la notizia relativa alla costruzione di nuove carceri in Sardegna e alla predisposizione di nuovi reparti a 41 bis nelle carceri dell’isola in cui trasferite i detenuti sottoposti a questo regime.
- Tra gli altri contenuti discussi (per l’appello/manifesto), si proponeva di ricordare le morti da carcere, le carceri speciali per i compagni comunisti, anarchici e per i prigionieri di guerra antimperialisti.
La prossima riunione si terrà il 6 aprile alle ore 14 presso l’Iqbal di Bologna.

Padova, 29 gennaio 2013


Mobilitiamoci per Georges I. Abdallah!
Il 10 gennaio la corte d'appello di Parigi ha confermato il giudizio, emesso il 21 novembre 2012 dal tribunale per l'applicazione delle pene, favorevole alla liberazione di Georges I. Abdallah, condizionandola a un'ordinanza di espulsione verso il Libano. Ciò nonostante, il ministro dell'interno, il 14 gennaio, ha deciso di non firmare quest’ordinanza ritardando la liberazione del compagno. La decisione è stata rinviata al 28 gennaio.
Occorre ricordare che i vari governi francesi, succedutisi negli anni, si sono sempre opposti alla sua liberazione, che era giuridicamente possibile già dal 1999. A ciò va aggiunto che gli Usa e l'entità sionista hanno sempre esercitato pressioni sul loro alleato francese, “sconsigliando” il rilascio di Georges I. Abdallah, cosa avvenuta puntualmente anche in questi giorni.
Tutto ciò in un contesto in cui l'imperialismo francese ha un ruolo di primo piano, fra le potenze imperialiste, nelle politiche di aggressione militare contro i popoli oppressi. Un percorso fatto di oppressione e sangue, spesso celato da “ingerenza umanitaria”: dalla criminale aggressione alla Libia al colpo di stato in Costa D'Avorio, dallo schieramento di truppe in Niger alle periodiche incursioni in Somalia, dal sostegno al regime fascista in Ciad alla balcanizzazione del Sudan. Ed è di questi giorni l'intervento militare in Mali, terzo produttore mondiale di oro e ricco di uranio, materia prima necessaria alla potenza nucleare francese. Per la borghesia imperialista francese si tratta di imporre manu militari i propri interessi economici strategici, per salvaguardare i propri interessi.
Sono chiare, secondo noi, le ragioni politiche alla base del prolungamento della detenzione del compagno. Perché accade ciò? Perché Georges I. Abdallah è un comunista libanese, che si è sempre battuto per la causa palestinese, ha aderito al FPLP ed è stato in prima fila nella lotta politico-militare nelle metropoli imperialiste. Viene arrestato nel 1984 in Francia e successivamente condannato all'ergastolo con l'accusa di aver partecipato a due azioni, nel 1982, ad opera delle F.A.R.L. (Frazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi) contro il colonnello Charles Ray, responsabile militare presso l'ambasciata americana a Parigi, e contro Yakov Barsimantov, responsabile del Mossad in Francia e alto funzionario dell'ambasciata sionista a Parigi. Anche in carcere il compagno ha continuato a lottare, fornendo preziosi contributi al dibattito per lo sviluppo della lotta contro l'imperialismo, a fianco del proletariato, dei popoli oppressi e in solidarietà con gli altri prigionieri rivoluzionari.
Sono questi i veri motivi per cui Georges I. Abdallah non è stato ancora rilasciato!
Il movimento internazionale di solidarietà a Georges I. Abdallah, che in tutti questi anni ha sempre sviluppato un grande lavoro di mobilitazione e controinformazione, in queste settimane ha esteso e rilanciato l'iniziativa in risposta alle decisioni assunte dal governo francese. Si sono svolti presidi e numerose manifestazioni in Francia, Libano, Giordania, a Gerusalemme e Ramallah. In Francia, quasi ogni giorno ne vengono organizzate: a Parigi, Lione, Marsiglia, Tolosa...
Il 19, a Parigi, il corteo che si avviava in direzione del ministero dell'interno è stato caricato dalla polizia e sono stati eseguiti decine di fermi e un arresto. Anche in Libano, a Beyrouth, i manifestanti si sono scontrati con la polizia. Altre iniziative di solidarietà si sono svolte in Germania (Stoccarda), Belgio (Bruxelles) e sono in programma nei prossimi giorni decine e decine di altre mobilitazioni.
In Francia, così come negli altri paesi imperialisti, gli aspetti della repressione “interna” e della guerra sono legati fra loro, quindi, nostro compito è impegnarsi ad unire la lotta in solidarietà ai prigionieri rivoluzionari, come Georges I. Abdallah, alla lotta contro la guerra imperialista. Noi pensiamo che anche qui in Italia si debba sviluppare una mobilitazione a sostegno di Georges I. Abdallah, contro la guerra e le politiche imperialiste. Invitiamo quindi i compagni a momenti di dibattito su questi temi e a costruire iniziative.
L'unica giustizia è quella proletaria! Libertà per Georges Ibrahim Abdallah!
Contro la guerra imperialista a fianco dei popoli oppressi!

25 gennaio 2013
Compagni/e per la Costruzione del Soccorso Rosso in Italia
L’udienza fissata per il 28 gennaio è stata poi rinviata a causa del nuovo ricorso della procura. Quest’ultima contesta la convocazione del 14 gennaio. In attesa che tale ricorso venga esaminato nel termine legale di 2 mesi, il tribunale per l’applicazione delle pene dunque non potrà sentenziare lunedì come previsto.


aggiornamenti dalla lotta contro il tav
La giornata di lotta contor il processo nell’aula bunker del carcere delle Vallette
Ii 1° febbraio 2013 il “processone” contro il movimento No Tav ha vissuto un’altra bella giornata di lotta. Lo spostamento della sede del processo nell’aula bunker è stato rifiutato dalle e dagli “imputati” forti di un ampio sostegno. Davanti al fortino dell’aula bunker, già prima dell’inizio dell’udienza, siamo arrivati tante e tanti da varie città e dalla Valle, con la determinazione di non accettare alcun isolamento.
L’ingresso in aula è iniziato con tutti i riti del controllo, delle schedature e delle limitazioni. Ad esempio, alla madre di un “imputato”, che doveva riferire all'avvocato dell'assenza del figlio malato, non è stata data la possibilità di entrare; il numero di chi può entrare in aula, esclusi coloro che sono sotto processo, è chiuso, bloccato ad 80! Quindi, vengono tirati su gli sbarramenti e schierati decine di sbirri pronti alle cariche.
La corte entra in aula puntuale alle 9,30 decisa ad iniziare immediatamente l’udienza; più voci fanno notare che almeno due “imputati” si trovano ancora in dirittura d’arrivo e che altri “imputati” sono ancora bloccati fuori dall'aula, perché appunto la polizia non permette loro di entrare. Niente, per i giudici si deve iniziare subito. Le proteste in aula cominciano da parte degli “imputati”, che non rispondono all’appello. Dopo circa mezz'ora, fra attese e urla alla corte che continuava ad insistere nel voler cominciare, una compagna “imputata” inizia a leggere a nome di tutte e tutti la dichiarazione seguente:

“In occasione della prima udienza di questo processo (il 21 novembre scorso) il movimento NO TAV ha espresso coesione e determinazione anche dentro l'aula del tribunale; la vostra risposta è stata lo spostamento del procedimento in questa aula bunker. Tale scelta è in sintonia con l'ondata repressiva che dal 26 gennaio 2012 ha visto un susseguirsi di perquisizioni, arresti e pesanti restrizioni nei nostri confronti. Ondata repressiva sostenuta e legittimata dalla campagna mediatica finalizzata a demonizzare il movimento NO TAV, tentando di indebolirlo e isolarlo dalle lotte che attraversano il paese. Trasferendo la sede del processo voi state tentando di rinchiudere la lotta NO TAV nella morsa della "pericolosità sociale" e delle emergenze. Noi, invece, rivendichiamo le pratiche della lotta ribadendo le ragioni che ci spingono a resistere, contrastando lo stato che vuole imporre il tav militarizzando la Valle con le conseguenti devastazioni umane, sociali e ambientali. Le nostre ragioni restano vive più che mai e neppure la vostra scelta di trascinarci in questa aula bunker ci impedirà di perpetrarle. Per questo oggi scegliamo di abbandonare tutti-e l'aula, lasciandovi soli nel vostro bunker. Giù le mani dalla Val Susa! Ora e sempre NO TAV! Ora e sempre resistenza!”

Il presidente urla ai carabinieri di segnalare chi "interrompe" il suo iter, ordinando di prenderne il nome. La nostra risposta non si fa attendere: a sostegno della singola lettura del comunicato parte la lettura collettiva, corale di tutte e tutti. La corte, pm e sbirri, paralizzati, imbarazzati e muti. A tutti loro viene urlato che la lettura non è una scelta singola, “non c’è nessuno da segnalare”. Fallisce lo stesso loro tentativo di portarsi via la compagna che ha dato inizio alla lettura. Poi tra cori e slogan si abbandona effettivamente l'aula tra le facce attonite e smarrite dei vari accusatori e della loro truppa. L’uscita non è facile.
Ci bloccano, chiudendo i cancelli, vogliono, identificarci, soprattutto vogliono aver il nome della compagna. Chiudono la cancellata d’uscita e schierano i manganellatori. Il presidio sul piazzale che reclama l’apertura degli sbarramenti viene caricato, cercano di allontanarci, ma non ci riescono. Il gruppo di compagni e compagne entrato in aula viene anch’esso caricato, perché rifiuta l’identificazione. Volano colpi di manganello, gomitate e calci. Il muso a muso va avanti per circa una mezz’ora, finché – grazie alla determinazione di tutti i presenti – gli sbirri sono costretti a cedere il passo, ad aprire la cancellata.
Il presidio si ricompatta; si sposta, seppur con un po' di confusione, sul lato del carcere da dove è possibile vedere, sentire ed essere visti e uditi da chi è rinchiuso nelle celle. Da dentro rispondono ai nostri saluti e alle nostre battiture; alcuni prigionieri vedono il campo dove siamo rincorsi da uno schieramento di polizia in assetto antisommossa, ma continuiamo a battagliare per avvicinarci. Nei fatti anche oggi il processo alla lotta è stato respinto e ribaltato in momento di liberazione dai riti opprimenti della repressione e allo stesso tempo in un momento di solidarietà a chi resiste in carcere.
La prossima udienza si svolgerà sempre nell’aula bunker, alle 9,30 del 14 febbraio 2013, quando dovrebbe avere inizio formale il processo con la costituzione delle parti civili. Nella stessa mattinata è in preparazione per quel giorno un presidio informativo in città, a Torino.

Resoconto della prima udienza del processo a 28 no tav per i fatti di Venaria 2010
Lunedì 4 febbraio è cominciato il processo per la lotta alle trivelle dell’inverno 2010. Nel mirino il presidio permanente a Venaria, dove, grazie a un’ampia solidarietà popolare, i No Tav riuscirono a rallentare i lavori finché in fretta e furia il cantiere venne smontato. In via Amati la trivella arrivò nel tardo pomeriggio del 26 gennaio. Siamo in una zona di grandi palazzi stesi lungo la tangenziale, fiancheggiati da tralicci dell’alta tensione.
Qui l’opposizione al Tav si legge, oggi come allora, nelle bandiere appese ai balconi.
Nel prato di fronte alla trivella ci siamo trovati in tanti: No Tav che si erano fatti tutti i presidi e gente di Venaria preoccupata per il proprio futuro, in questa periferia stesa tra la città e il niente delle auto in corsa oltre la barriera antirumore.
La trivella era accompagnata da un imponente nugolo di poliziotti, carabinieri e finanzieri in assetto antisommossa, che invasero la strada rendendo difficoltosa la circolazione. Già nel tardo pomeriggio una cinquantina di No Tav armati di bandiere e striscioni fronteggiava nel prato la polizia. Partì il consueto tam tam e presto eravamo molti di più. Bidoni, legna, qualcosa da mangiare. Un camion con le luci rimase bloccato dal gran numero di persone che si riversarono in strada. Furono tre giorni di presidio permanente, con assemblee, incontri, cene collettive. Tanta gente che abita nella zona di via Amati scese in strada, partecipò alle discussioni, alla lotta. Quelli che non potevano fermarsi portavano caffè caldo e una brioche, segni tangibili di una solidarietà vera.
La sera del 26 gennaio, nonostante un'abbondante nevicata all'assemblea spontanea tra il prato e la strada parteciparono centinaia di persone. Emerse netta la volontà di contrastare il sondaggio, di mettere i bastoni tra le ruote a chi pretendeva di imporre con la forza un’opera inutile e dannosa. In serata arrivò anche il sindaco Pollari, che fece un po’ di acrobazie per acquisire consensi, ma convinse poco. Si disse contrario al Tav in Val Susa ma possibilista su una nuova linea a Venaria. Un colpo al cerchio - i cittadini di Venaria che presidiavano la trivella - e un colpo alla botte - il suo partito, il PD, schierato su posizioni si tav. La gente sa bene che il Tav a Venaria correrà in mezzo alle case, fuori o in galleria, saranno dieci anni di cantieri, polvere, disagi per un’opera inutile e dannosa.
A due anni da quel gennaio la Procura di Torino ci presenta il conto. Alla sbarra siamo in 28, tutti scelti con cura tra gli attivisti più noti alla polizia politica, per tentare ancora una volta il gioco dei buoni e dei cattivi, nascondendo la realtà di una lotta popolare forte anche a Torino e nei paesi vicini.
Il processo era di competenza della sede di Ciriè del tribunale di Torino, ma è stato spostato nel capoluogo per ragioni di "ordine pubblico". In aula c’è il solito clima dei processi No Tav: tanta gente diversa che ha costruito i propri legami tra un presidio e una barricata. Gente che non si arrende alla violenza e ai tribunali. Si comincia con grande ritardo, per qualche intoppo burocratico. Dopo il rituale appello, l’udienza viene sospesa per un’eccezione di tipo tecnico proposta da uno degli avvocati. La giudice valuta che uno dei compagni non era presente per un legittimo impedimento e rimanda il processo al 4 marzo. Fuori c’è una marea di poliziotti. Scopriremo dopo che temevano un incontro dialetticamente vivace tra No Tav ed Esposito e Boccuzzi, due onorevoli diessini, che si sono distinti per gli attacchi continui al movimento. Inutile dire che, se li avessimo incontrati faccia a faccia, non avremmo nascosto la nostra indignazione specie a Boccuzzi, scampato alla strage della Thyssen, che, dopo aver cambiato la tuta con la giacca da deputato, ha dimenticato che i cantieri Tav nella sola tratta Bologna/Firenze hanno ucciso 83 lavoratori, uno per ogni chilometro di Tav costruito.
Il potere corrompe. Sempre.

Assalto al cantiere - venerdì 8 febbraio 2013
Da mesi i media raccontano del cantiere che avanza, dei No Tav ridotti a minoranza e sconfitti, dei lavori ormai avviati, dei processi contro i violenti che hanno difeso la libera Repubblica della Maddalena, contrastato le trivelle, assediato gli occupanti. Da mesi i No Tav vanno al cantiere del Tunnel geognostico. Chi di giorno, chi di notte. C’è chi scatta foto e chi va in cerca di Giacu, il No Tav che si è perso in Clarea e che nessuno trova mai. Non sono certo nottate tranquille per le truppe di occupazione.
La notte dell’8 febbraio è stata la peggiore per gli uomini in divisa, colti alla sprovvista e messi in fuga dai No Tav che hanno tagliato le recinzioni e sono entrati nel cantiere. I poliziotti e i loro mezzi blindati hanno fatto retro marcia, mentre i No Tav scorrazzavano liberamente nella zona devastata dalle ruspe, nei luoghi dove a lungo i castagni hanno fatto ala ai bivacchi dei resistenti. Mezzo cantiere è rimasto al buio. Il giorno successivo “La Stampa” ha raccontato di un fallito assalto al cantiere. Il giorno successivo ha aggiustato il tiro sulla base del comunicato della questura. Due No Tav di Mattie, Christian ed Emanuele, sono stati arrestati dalla polizia. L’accusa nei loro confronti è di danneggiamento aggravato e resistenza. Domenica 10 febbraio il comitato No Tav del loro paese ha organizzato una fiaccolata solidale.
Milano, febbraio 2013


Processo 14 Dicembre 2010: un solo condannato a 2 anni e 6 mesi
Come antifascisti abbiamo sempre considerato la Resistenza un valore irrinunciabile e la pesante sentenza della 2° sezione del Tribunale di Roma contro Mario Miliucci - condannato a due anni e sei mesi per “resistenza”- ci sembra in sintonia con le logiche repressive che tendono ad “educare” con manganelli, arresti e condanne le giovani generazioni precarie che si affacciano alle lotte sociali.
La palestra di questa strategia del condannare e punire la abbiamo vista a Genova, con il comportamento delle “forze dell'ordine” nei confronti di una generazione in lotta contro la globalizzazione finanziaria e neoliberista, madre della crisi attuale. La mattanza nelle strade della città ligure, continuata alla DIAZ, negli ospedali e nel carcere di Bolzaneto sono state seguite da condanne abnormi di alcuni manifestanti per il reato -che sarebbe da abolire - di “devastazione e saccheggio”, figlio del fascista codice Rocco, sempre più spesso applicato, insieme alle denunce e agli avvisi orali, dalle questure, alle sentenze di alcuni magistrati contro l'opposizione sociale, mentre nessun autore materiale dei pestaggi e delle torture è stato individuato e condannato (in Italia non esiste il reato di tortura, né codici di identificazione degli agenti in servizio di PS).
La stessa logica dei due pesi e due misure e dei tentativi di intimidazione da parte degli apparati repressivi la vediamo in atto contro il popolo della Valsusa, la valle occupata militarmente dallo Stato per garantire spesa pubblica, interessi privati e devastazione ambientale.
Anche per i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma, sono state comminate dalla magistratura pesantissime condanne e si è applicata una logica repressiva tipica degli anni '70 per cui basta essere vicini agli eventi per vedersi addossate accuse e condanne pesantissime, patrimonio del codice penale fascista: pensiamo alle condanne per “devastazione e saccheggio” solo per essere stati fotografati a transitare nei pressi di un blindato in fiamme.
La stessa logica punitiva ha funzionato per Mario Miliucci, che sembra essere l'unico “colpevole” di quella giornata di mobilitazione che il 14 dicembre 2010 vide sfilare a Roma decine di migliaia di studenti medi ed universitari, precari, metalmeccanici e terremotati dell'Aquila, contro la fiducia al governo Berlusconi. Infatti su oltre 20 arrestati Mario è stato l'unico condannato pesantemente, per il reato di “resistenza”.
Sarebbe gravissima la logica del capro espiatorio ed il fatto che la magistratura abbia condannato, oltre alla resistente coscienza critica di Mario, anche il suo cognome, in una sorta di rappresaglia generazionale.
Le lotte contro la crisi attuale, non possono essere fermate con le intimidazioni poliziesche o le rappresaglie di alcuni magistrati, esprimiamo la piena e completa solidarietà e vicinanza a tutti e tutte coloro che lottano - impegnandosi e spesso pagando prezzi sempre troppo alti ed inaccettabili - per un altro mondo possibile.
gennaio 2013
da cobasterni.blogspot.it


TERAMO, 9 febbraio: COMPLICI E SOLIDALI CORTEO NAZIONALE
In seguito alle pesantissime condanne a 6 anni di reclusione e 60 mila di euro di risarcimento inflitte, lo scorso 7 gennaio, ai 6 ragazzi accusati di essere coinvolti negli scontri avvenuti nella capitale il 15 ottobre 2011, Azione Antifascista Teramo chiama all’appello tutti i gruppi, i movimenti e i singoli individui che si riconoscono nelle lotte e che vogliono dimostrare la loro solidarietà e vicinanza con i fatti, oltre che con le parole. Sabato 9 febbraio 2013 si terrà a Teramo un corteo nazionale le cui finalità saranno:
1. Esprimere la massima solidarietà a tutti i condannati, gli arrestati e gli inquisiti per i fatti del 15 ottobre 2011;
2. Rispondere in maniera forte ed unitaria alla repressione che ogni giorno colpisce chi ha la forza e il coraggio di non abbassare la testa e si ribella allo Stato di cose attuale;
3. Lanciare la battaglia contro il codice Rocco ed in particolare contro il reato di devastazione e saccheggio e tutte quelli leggi in forza delle quali ai singoli questori viene garantito il potere di limitare, in maniera del tutto discrezionale e priva di controllo, la libertà individuale attraverso l’emissione di fogli di via, avvisi orali e misure di prevenzione in generale.
Chiediamo a tutte le realtà e a tutti i singoli che intendano rispondere alla nostra chiamata di organizzarsi sin da oggi per raggiungere e far raggiungere Teramo nella giornata di Sabato 9 febbraio 2013, e di farsi carico di diffondere, ognuno nei rispettivi territori, questo nostro appello attraverso qualsivoglia mezzo.
Chiunque voglia dare la propria adesione formale alla manifestazione, sottoscrivere l’appello, fornire contributi ed essere aggiornato su tutto ciò che riguarderà il corteo può inviare una mail all’indirizzo: teramo9febbraio2013@gmail.com

gennaio 2013, Azione Antifascista Teramo


Lettera dal carcere di Alba (cn)
Ciao ragazzi, vi scrivo queste due righe sul perché sono dentro il che, non sapendolo bene neanche io, non è semplice.
Dunque sono stato arrestato l’11 aprile 2012 con l’accusa di devastazione dopo la manifestazione milanese che chiedeva la liberazione dei No Tav arrestati per i fatti del 3 luglio 2011. Sono stato scarcerato il giorno dopo con obbligo di firma fino alla data della camera di consiglio, dove mi hanno condannato a nove mesi – e nella pena hanno inglobato un mio vecchio definitivo per un’occupazione. Il giudice della camera di consiglio, visto il parere favorevole dei servizi sociali e il contratto di lavoro, ha accettato di farmi scontare la pena presso di loro. Mi ha quindi revocato l’obbligo di firma. Sono rimasto così in attesa del definitivo accennato (la cui espiazione doveva iniziare nel febbraio 2012) per vederne le condizioni (orari rientro ecc.). Ero un uomo libero, che aspettava un definitivo senza altri carichi pendenti.
Ad ottobre la sorpresa: il nucleo operativo dei carabinieri si presenta a casa della mia ragazza, dove non avevo neanche il domicilio e mi arrestano, usando come motivazione che dove avevo la residenza non era una casa idonea. Voglio sottolineare che in quella residenza avevo già scontato i due mesi con obbligo di firma, e che nella richiesta di sorveglianza c’era un’altra abitazione ritenuta appropriata dagli assistenti sociali. Portato a S. Vittore ho passato un mese in mezzo a interrogatori non sapendo ancora bene il motivo dell’arresto.
Dopo un mese la sorpresa: mi è stato notificato dalla digos di Milano e Roma una custodia cautelare per il corteo del 15 ottobre “Giornata Mondiale dell’Indignazione”; i reati cui mi si accusa sono:
- devastazione e saccheggio, - più persone che concorrono nel reato,
- circostanza aggravante: quando una o più persone concorrono, organizzano o promuovono il reato (fino a metà in più della pena),
- circostanza aggravante: l’aver commesso il reato per conseguire o assicurare a sé o ad altri l’impunibilità (fino a metà in più della pena),
- legge Reale del 1975 che disciplina l’uso delle armi, delle munizioni e degli esplosivi (da 1 a 3 anni).
Questo è più o meno quello che ho capito, voglio solamente ricordare che insieme a me sulla custodia ci sono altre 14 persone, tutte identificate, delle quali non ne conosco una.
In più, non ho capito bene, ma pare che ci sia in giro per i tribunali di Lecco e Milano, un’indagine della digos, per terrorismo, che il mio legale è riuscito solamente a scorgere, ma che compare agli atti e che è stata usata durante gli interrogatori. A tutti gli interrogatori mi sono avvalso della facoltà di non rispondere, vista la mia estraneità ai fatti, visto che il mio riconoscimento è stato fatto confrontando uno zaino con altro identico da me indossato, secondo loro, al corteo di Milano del 30 marzo (un comunissimo Seven blu).
Spero di avervi chiarito le idee. Grazie per il supporto, Dayvid

14 gennaio 2013
Dayvid Ceccarelli, via vivaro n 14 - 12051 Alba (Cuneo)

Per i fatti del 15 ottobre 2011 a Roma in 6 sono stati condannati in primo grado a 6 anni di reclusione mentre altri 25, fra cui David, subiscono misure “cautelari” in attesa del processo.


milano: continua il processo
contro i sostenitori della lotta degli operai della INNSE
Il 26 ottobre, dopo un paio di udienze puramente tecniche, ha avuto inizio il dibattimento nel processo che vede, quali imputati, cinque compagni accusati di “resistenza aggravata e lesioni a p.u.”. Si tratta dei fatti del 2 agosto 2009 quando venne occupata la tangenziale Est di Milano sopra Rubattino per contrastare il tentativo di smantellare la resistenza degli operai della INNSE in difesa del loro posto di lavoro.
I resoconti delle udienze preliminari e le valutazioni sulle finalità di questo processo possono essere lette nei seguenti comunicati: Processo ai sostenitori della lotta degli operai della INNSE (cox18.noblogs.org/post/2012/10/25/innse/) e Sull’udienza preliminare del processo della lotta INNSE (www.operaicontro.it/index.php?id=fa34d46).

breve resoconto dell’udienza del 26 ottobre 2012
Durante la mattinata sono passate un centinaio di persone, oltre agli imputati erano presenti tutti gli operai della INNSE.
Nel corso di tale udienza sono stati sentiti i primi testi portati dall’accusa. In particolare alcuni agenti di polizia e carabinieri coinvolti nei presunti scontri avvenuti sulla tangenziale. Tutti hanno confermato quanto già risultava dalle relazioni compilate dagli stessi al momento dei fatti, anche se le versioni sono risultate alquanto contraddittorie: chi dice che gli scontri sono avvenuti sotto la tangenziale, chi sopra, chi dice che era in quel dato posto in un dato momento venendo subito dopo smentito da qualche altro, chi dice che non è avvenuto niente degno di nota. Inoltre i dubbi sulla reale entità delle lesioni lamentate (miracolosamente lievitate da pochi giorni di prognosi ad oltre due mesi grazie alle certificazioni rilasciate da medici privati di fiducia) sono accresciuti, essendo state le testimonianze sul punto alquanto lacunose.
Siamo comunque consapevoli che non saranno queste palesi contraddizioni a determinare l’esito del processo che è invece segnato, come quella mattina del 2 agosto, dalla volontà di rivalsa da parte dello stato, incapace in 14 mesi di sconfiggere la convinta resistenza organizzata dagli operai della INNSE.
Il 15 febbraio verranno sentiti gli ulteriori testi di accusa e i consulenti medici citati dalle difese in relazione alle fantomatiche e fantasmagoriche lesioni lamentate dagli agenti.
Invitiamo tutti/e a presenziare alla prossima che si terrà: venerdì 15 febbraio, alle ore 9.30, presso il Tribunale di Milano (sezione decima penale – aula 10 piano terra).

Milano, feabbraio 2013
R.S.U. INNSE, gli imputati