La
sinistra proletaria e la crisi politica attuale
L'attuale
crisi politica italiana assume toni grotteschi,
accentuati dalla campagna elettorale, che non ci devono ingannare. E' vero: le manovre e le contromanovre,
i ricatti reciproci fra le forze di governo e fra queste e l'opposizione,
i «colpi di stato» che spingono deputati e sindacalisti a girovagare
di notte in cerca di salvezza dai «colonnelli», gli appelli della DC a salvare la patria dal comunismo,
e del PCI a salvare sempre la stessa patria dalla
reazione, i comizi e i manifesti delle cricche studentesche e dei «rivoluzionari»
dell'unione dei comunisti (marxisti
leninisti, e come no!) che spiegano
alle masse che il PCI è revisionista e che quindi...
bisogna votarlo; tutto questo assomiglia troppo
a un'operetta perché si riesca a prenderlo sul serio. E tuttavia lo
spettacolino che la borghesia rappresenta in
questo momento davanti alle masse
assolutamente disinteressate, merita attenzione perchè qualcosa
significa: che di fronte alla crisi generale
del sistema di sfruttamento e di dominio
la borghesia perde la testa e si affanna a cercare una soluzione, non
importa come, non importa con chi. Ma la
crisi resta, e sarebbe un grave errore
da parte della sinistra proletaria sottovalutarne l'importanza richiudendosi in una prassi politica
settoriale, operaistica, e limitando la propria azione
allo scontro sul luogo di produzione.
Il
processo di disgregazione degli equilibri economici
e politici si riflette nella frantumazione delle forze che hanno
governato l'Italia negli ultimi venticinque anni, le quali, strette in una
catena di paure e di speranze, oscillano fra
progetti di avventure reazionarie e
di «aperture» a sinistra.
L'elemento
determinante è il movimento di massa che dal 67 prosegue ininterrotto,
raggiungendo gradi maggiori o minori di autonomia, ma sempre teso a spezzare il
sistema economico e istituzionale dominante.
La rivolta delle masse non è certo arrestabile
con un'operazione simile a quella attuata intorno agli anni 60 e che ha portato
alla costituzione del centro-sinistra. E questo per due motivi: che la crisi
attuale è molto più profonda, radicale, di quella
degli anni 60; che essa ha dimensione internazionale ed è quindi
destinata a rimbalzare da un paese all'altro,
all'interno di un sistema economico-politico integrato, e destinato a integrarsi
sempre maggiormente. Non si tratta
quindi di una ferita rimarginabile con qualche cerotto ma di un'emorragia
che mette in pericolo di vita il paziente.
La
soluzione della crisi è in mano al movimento operaio. Ma il movimento operaio
si presenta a sua volta diviso: da una parte
il movimento operaio borghese e
dall'altra la sinistra proletaria.
Che
cosa sia il movimento operaio borghese l'aveva
già spiegato con chiarezza Lenin nella sua polemica
con Kautski: «Su scala mondiale, 50 anni prima
o 50 anni dopo, - dal punto di vista
di tale scala questa è una questione
secondaria, - il "proletariato"
certamente sarà unito, e "inevitabilmente"
trionferà nelle sue file la socialdemocrazia rivoluzionaria. Non si
tratta di questo, signori kautskiani, ma del
fatto che voi ora,
nei paesi imperialisti dell'Europa, vi
comportate
da lacché degli opportunisti,
i quali sono estranei al proletariato come classe, i quali sono i servi,
gli agenti, i veicoli dell'influenza
borghese; e se il movimento operaio non
se ne libererà, resterà un movimento
operaio borghese».
Il
movimento operaio borghese italiano (PCI, PSIUP, sindacati e manutengoli vari)
ha già fatto, seppure con sfumature diverse, la sua scelta. Esso si
propone come risolutore della crisi, in quanto forza organizzata compatta
che ha realizzato al suo interno un blocco
interclassistico, e che
si suppone capace di controllare e
utilizzare la spinta delle masse
subordinate. Si tratta, in primo luogo, di una funzione
di polizia «storica», ruolo già assunto con energia dal partito «comunista»
francese. Ma, il PCI è altra cosa dal PCF
come ripetono gli "intellettuali
di sinistra": infatti, mentre il comunismo francese svolge
ottusamente il suo ruolo poliziesco, accontentandosi, date le condizioni
obiettive, della funzione di opposizione
costituzionale di sua maestà la
borghesia, il socialcomunismo italiano è portatore
di un progetto storico di vasta portata, che ha avuto
in Togliatti il suo elaboratore teorico: le grandi
riforme di struttura, il socialcapitalismo, la gestione
«operaia» del capitalismo. Un progetto ambizioso e decisamente
originale, anche se un poco avventuristico,
visto che i precedenti tentativi, fra tutti si ricordi quello della
socialdemocrazia tedesca del primo
dopoguerra, sono finiti come sono finiti.
Sul
riformismo sempre Lenin ha espresso una valutazione
che resta, dal punto di vista proletario naturalmente,
definitiva: «Invece della lotta aperta,
diretta, di principio contro tutte le tesi fondamentali del socialismo in
nome della completa inviolabilità della
proprietà privata e della libera concorrenza,
la borghesia dell'Europa e dell'America,
impersonata dai suoi ideologi e dai suoi uomini
politici, interviene sempre più di frequente in difesa
delle cosiddette riforme
sociali, contrapponendole
all'idea della rivoluzione
sociale. Non il liberalismo
contro il socialismo, ma il riformismo
contro la rivoluzione
socialista: ecco la formula della
borghesia progredita,
colta».
I
revisionisti-riformisti attuali hanno le idee ben chiare. I cardini della loro strategia sono tre: via pacifica
al socialismo, società pluralistica (foglia di
fico che copre pudicamente l'interclassismo), politica degli equilibri in
campo internazionale. All'interno di questi
rigidi canoni strategici tutto è concesso:
anche la lotta dura in fabbrica, qualche moderato pestaggio di crumiri,
le manifestazioni di solidarietà con il Vietnam in compagnia di quei terribili rivoluzionari che sono gli studenti del MS della
statale di Milano e i vari gruppetti trotzkisti, pseudo
ml, ecc., le inquietudini resistenziali delle sezioni
«staliniste» del partito, e i pasticci castristi-luxemburghiani-consiliaristi delle «teste calde» del
Manifesto e della sinistra Psiup. Via, non a caso la
cultura «di
sinistra» ha rivalutato quell'abile
prestigiatore di Giolitti!
Ma
le discriminanti sono proprio queste: via pacifica, pluralismo, stabilizzazione
mondiale. Ed è su queste linee strategiche
che la sinistra proletaria ha espresso
nei fatti il più profondo disaccordo. Le
lotte degli ultimi anni hanno espresso violenza di classe, rifiuto di essere
aggiogati al piano di ristrutturazione
capitalistica, un legame sotterraneo ma
profondo con le guerre di popolo che sempre più
si allargano nel mondo.
Alla
via pacifica il proletariato oppone la lotta rivoluzionaria,
la guerra di popolo nelle sue mediazioni
della guerriglia «fredda» o calda che sia; al pluralismo,
l'egemonia complessiva del proletariato; alla politica di equilibrio
l'unificazione della lotta
anticapitalistica a livello mondiale. La contrapposizione è netta e radicale.
Proprio perchè la soluzione della
crisi (o nel senso di una restaurazione socialcapitalistica, o verso la
rivoluzione) è in mano del movimento
operaio, la lotta contro i revisionisti
nazionali e internazionali acquista preminenza. Non si tratta di una
contraddizione in seno al popolo, non
si tratta di «anticomunismo» (come ha detto uno zelante neorevisionista) degli
estremisti; si tratta di riconoscere
che il sistema capitalistico non può reggersi senza l'appoggio dei revisionisti
e che questi divengono, obiettivamente, i più pericolosi avversari di classe.
Lo scontro non è più soltanto
ideologico, non è più fra una linea molle
e una linea dura, fra la lotta a scadenza e la lotta continua; lo scontro
è globale, fra la borghesia e il
proletariato, fra l'egemonia complessiva del capitale
e l'autonomia proletaria, e l'egemonia del proletariato rivoluzionario.
Ma
vediamo più da vicino come è articolata in Italia la strategia
borghesia-revisionismo in questi ultimi mesi.
Dopo
l'autunno sindacale, la primavera delle riforme
Con
questo slogan la stampa di «sinistra», col tono
sovreccitato e speranzoso di chi si accingeva a partecipare alla
cerimonia elettorale, descriveva la situazione
politica. E i giornali padronali, col tono più
pacato di chi alle elezioni non attribuisce poi soverchia
importanza (tanto la partita si gioca altrove),
facevano eco.
Cominciamo
dai padroni.
Scriveva la rivista «Successo», legata alla corrente «avanzata» della Confindustria, che l'autunno caldo andava valutato positivamente soprattutto perchè aveva consentito al sistema di «lasciarsi alle spalle le ultime frange di una competitività basata sui bassi salari», creando in questo modo le premesse per una «sferzata della produttività basata sull'organizzazione aziendale e sulla ristrutturazione e il rinnovamento degli impianti». Più precisamente, il commentatore intendeva sostenere, contro quei padroni ancora fermi ad anacronistiche ed esasperate contrapposizioni, la validità e la importanza dell'uso capitalistico della lotta operaia ai fini di un adeguamento progressivo degli standard attuali della produttività del capitale ai più alti livelli europei e mondiali.
Un
progetto così ambizioso esige un controllo della risposta organizzata e
spontanea che la forza-lavoro oppone ai
processi di riorganizzazione tecnologica
della produzione e di intensificazione dello sfruttamento:
controllo che non è realizzabile senza
un deciso rafforzamento del sindacato.
Ecco
dunque il vero problema: a misura in cui la
classe operaia pone con forza i suoi reali e autonomi
interessi, prende corpo un'ideologia ed una pratica
padronale che si caratterizza: a) per l'assunzione
di una iniziativa riformistica anticipatrice; b) per l'incapacità di
realizzarla senza la stretta ed esplicita collaborazione delle forze
sindacali.
Su
questa linea le forze «riformiste» del capitale
italiano si sono battute e si stanno battendo all'interno
della Confindustria per mutarne dirigenza, strutture
e indirizzo politico.
«Pretendere
che le tensioni non esistano, o, ancor peggio sapere che esistono ma
cercare di sopprimerle, significa compiere un passo che può portare all'accantonamento
di fondamentali libertà... - leggiamo
nel documento della Commissione Pirelli - ...l'ordine
non è la soppressione delle tensioni, anche se acute, e delle battaglie
condotte alla luce del sole; l'ordine è il riconoscimento e l'osservanza
delle regole di una società civile».
«...qualsiasi
lotta - è il contrappunto di Agnelli - qualsiasi
confronto dialettico, porta a risultati positivi.
Bisogna però che il conflitto non sia fine a
se stesso».
Di
conseguenza il secondo elemento positivo dell'autunno
per il capitale è stato l'aumento di potere
dei sindacati: «...il potere di
controllare l'operato delle direzioni aziendali non più solo per quanto
riguarda il rispetto delle leggi e dei contratti,
ma anche i criteri di organizzazione del lavoro, di
distribuzione del tempo degli orari, di utilizzo degli
orari straordinari. Questi poteri limitano fortemente
l'ambito di discrezionalità delle direzioni aziendali.
Ma contemporaneamente danno al sindacato
un ruolo di responsabilità nella conduzione dell'azienda,
si voglia o no. La crescita del potere va
di pari passo con la crescita delle responsabilità»
(cit.).
Ecco
dunque esplicata la tendenza a favorire il processo
di consolidamento di una vera e propria opposizione costituzionale, che
da un lato favorisca la permanenza di adeguati livelli di conflitto tra gli interessi
del capitale e gli «interessi» dei lavoratori,
e contemporaneamente normi e istituzionalizzi questo conflitto in modo da
non lasciare alcuno spazio alle istanze
eversive maturate alla base.
Agnelli
arriva perfino ad augurarsi che «sindacati e
imprenditori arrivino ad una difesa comune di certi
obiettivi, magari verso lo stesso potere politico».
Il
sindacato diventa così il perno intorno al quale si
gioca l'intero processo di ristrutturazione del capitale
nella
fabbrica e nella società.
Consci
che la contropartita per questo servizio reso
al capitale è quella di un maggior potere peso nelle aziende, negli istituti della programmazione e in quelli di
gestione della vita sociale, i sindacati
hanno compiuto ogni sforzo durante l'autunno per acquistare un pieno controllo sulle lotte operaie.
Non
è questa la sede per valutare le «grandi conquiste»
del nuovo contratto; anche da un'analisi superficiale
tuttavia risalta come in esso siano stati rispettati
tutti i tempi e le esigenze di ristrutturazione
dei padroni italiani - o almeno di
quelli più importanti - sia
nell'entità degli aumenti di salario, sia
nelle riduzioni di orario di lavoro dilazionate e perfino, come abbiamo visto,
nel trionfale ingresso del sindacato
in fabbrica.
Malgrado
quindi i risultati di una lotta lunga e costosa
siano insignificanti per la classe operaia - gli
aumenti rimangiati immediatamente da un vertiginoso
balzo in su dei prezzi, la diminuzione di
orario subito divorata dall'aumento dei ritmi di lavoro - il
sindacato ha cercato di far pesare tutta la propria forza organizzativa
per imbrigliare i moti della spontaneità e
dell'autonomia operaia.
E
questa volta non ha commesso l'errore di lasciare
ad altri l'iniziativa dopo la chiusura dei contratti;
ha lanciato un nuovo grande ciclo di lotte: il
ciclo delle «lotte social ».
Le
« lotte sociali » hanno un obiettivo immediato
ed uno di più lungo periodo.
Immediatamente
esse perseguono l'inserimento di uomini del sindacato in organismi come il CNEL,
là dove cioè vengono elaborate le scelte
di politica economica, nei consigli
di amministrazione dell'INPS, dell'INAM,
della GESCAL e di altri consimili organismi
che attualmente gestiscono e rapinano una grossa
fetta del salario operaio «trattenuto».
Ecco
per esempio un brano della risoluzione del direttivo della CGIL del 7 aprile: «...E'
lecito attendersi una esaltazione e
una dilatazione del ruolo: dei
rappresentanti dei lavoratori nella gestione dell'INPS
e un nuovo rapporto con gli associati, nei termini stabiliti dalla
legge...».
Contemporaneamente
da parte sindacale si fanno le prime «avances» per una gestione diretta della preparazione
professionale della forza-lavoro, del,
collocamento
e degli ispettorati del lavoro.
Per
farla breve, il
sindacato aspira
a realizzare
in tempi
ravvicinati, utilizzando la spinta
operaia, il controllo di tutto il
ciclo pre-produttivo, produttivo
e sociale della forza-lavoro. Controllo
che quei sta volta sarà legale, organizzato
e capillare.
Diventa
chiaro così l'obiettivo che i sindacati perseguono nel lungo periodo: il
controllo del ciclo complessivo
della forza-lavoro costituisce infatti
un'esigenza fondamentale del
potere in una società ad alto sviluppo capitalistico,
un elemento principale
della ristrutturazione socialcapitalista
della sociétà.
In
un documento apparso nel gennaio 1970 a cura del
Collettivo Politico Metropolitano (Lotta
sociali e organizzazione nella metropoli) il
progetto socialcapitalista
veniva così brevemente schematizzato: «Questa
nuova fase dell'organizzazione sociale capitalistica tende a realizzare
una vecchia utopia della borghesia: la possibilità di pianificare il comportamento
del proletariato sia dentro che fuori la fabbrica, nel momento della
produzione come in quello del consumo e in
tutte le espressioni della vita sociale
e dei rapporti umani.
«Nell'attuale
fase di sviluppo la vecchia combinazione
di riforme e repressione, composta all'interno
della democrazia formale borghese, non basta più.
La centralizzazione del potere necessaria alla gestione
del capitalismo avanzato riduce sempre più
gli spazi di potere reale da "concedere"
ai quadri
direttivi subordinati, il dinamismo verticale elimina
gli strati intermedi e lo scontro di classe tende a prodursi in modo netto e
radicale tra una borghesia che
ha esaurito ogni possibilità di espressione sociale complessiva (cioè non può
più presentarsi come "portatrice"
di ideali democratici, nazionali, di
valori etici o culturali) e un proletariato urbano che si estende alla
maggioranza della popolazione attiva. A questo punto è necessario per il
sistema che la contestazione sociale stessa venga organizzata
e incanalata, preparando una soluzione che salvaguardi i presupposti
irrinunciabili della società dello
sfruttamento e contemporaneamente accolga
le richieste popolari di mutare il quadro istituzionale complessivo. Ciò
significa da un lato il riconoscimento
aperto della dinamica di classe, e dall'altro
l'istituzionalizzazione della lotta di classe, la riduzione di interessi
antagonistici nell'ambito di una
logica di conflittualità interna».
E'
abbastanza facile vedere come su questa base si
sia costruita un'oggettiva convergenza di interessi
tra sindacati e padroni, come entrambi concorrano,
in maniera relativamente autonoma e talvolta conflittuale, a una profonda
ristrutturazione economica,
politica e culturale della società capitalista che
ha per obiettivo il mantenimento e il perfezionamento
della condizione salariale come base dello sfruttamento
economico, politico e culturale del moderno
proletariato, pur in un mutato rapporto di
potere tra le forze istituzionali oggi esistenti. Il conflitto
fra padroni e movimento operaio borghese
non riguarda la natura del potere e neppure la struttura
salariale, ma un diverso equilibrio di poteri
all'interno del sistema.
Gli
strumenti di questo progetto li abbiamo rilevati
nelle risoluzioni padronali e li troviamo puntualmente
applicati nella politica sindacale: a) politica di riforme che prevenga
l'esplodere delle contraddizioni e incanali
la lotta operaia su obiettivi prefissati
che, salvaguardando i presupposti irrinunciabili della società dello
sfruttamento e le esigenze produttive del
capitale, accolga le richieste popolari di
mutare il quadro istituzionale complessivo; b) il mantenimento
dello scontro entro i limiti di una società
«civile», l'istituzionalizzazione cioè della lotta di classe sia con leggi
quali lo statuto dei lavoratori, sia
mediante gli attivisti sindacali e di partito
utilizzati come «servizio d'ordine» per frenare le
«teste calde». L'esempio ce lo hanno dato i «cordoni
sanitari» del sindacato durante le lotte d'autunno,
e la difesa dei consolati americani da parte degli
attivisti del PCI durante le recenti manifestazioni
antimperialistiche.
Il
riformismo e gli interessi reali del proletariato
Se
è ben chiaro, quindi, come l'obiettivo finale sia tutto
contrario agli interessi della classe operaia, è tuttavia
opportuno esaminare se singoli momenti di
questo progetto corrispondano all'interesse reale del
proletariato e costituiscano un terreno obbligato
di lotta, come vorrebbero le recenti reclute del revisionismo
(dall'Unione al Manifesto, dagli ultimi brandelli
della cosiddetta «linea rossa» agli studenti-Capanna,
e giù fino alle «avanguardie» trotzkiste).
Al
di là delle fumose e demagogiche dichiarazioni sindacalpartitiche,
cerchiamo di capire che cosa effettivamente
rappresentano le cosiddette riforme sociali.
Tutti
sanno che una parte del salario operaio è per così dire «trattenuta» con la
sottintesa garanzia
che essa verrà «redistribuita» sotto forma di benefici
sociali. A questa parte del salario trattenuta
sulla busta paga, va aggiunta quell'altra parte di
versamenti che apparentemente gravano sui padroni,
ma che di fatto sono pagati dai lavoratori salariati.
Questo insieme di trattenute rappresenta l'oggetto
delle lotte sociali.
I
sindacati sottolineano una verità sacrosanta quando mettono in evidenza la
pessima amministrazione
realizzata da un oscuro esercito di rapinatori
e parassiti, ma portano avanti un discorso antiproletario
quando chiamano i lavoratori a lottare per
far sì che «i loro rappresentanti legali» possano
andare a sostituire degli inetti burocrati o dei cattivi
amministratori nei consigli di amministrazione
di questi vari enti.
Che
i lavoratori si amministrino i loro soldi auspica
perfino la rivista «Successo», che cioè una parte
del salario venga trattenuta e poi efficientemente redistrbuita ed amministrata
per pagare «oneri sociali» che sono
una fondamentale esigenza del capitale prima che dei lavoratori.
Ma
raggiungere la piena efficienza di un sistema di
rapina deve restare unicamente interesse dei padroni.
Sul
salario pesano, da un lato le trattenute, dall'altro le tasse, dal momento che
per lo Stato operai e padroni sono considerati entrambi titolari di un
«reddito». Ma i salari non sono
redditi! Sono solo
il minimo indispensabile con cui il capitale paga la riproduzione della forza
lavoro al livello storico dei bisogni e dei consumi che il capitale stesso determina.
Lo
Stato trae dai salari la maggior parte delle sue
entrate: basti pensare che se tutti i rimanenti strati sociali fossero
espropriati al pari della classe operaia lo
Stato eleverebbe della metà le sue entrate
(passando da circa 10.000 miliardi a oltre 15.000).
Da
un punto di vista proletario la richiesta sindacale di una «più equa
tassazione dei salari con l'elevamento della fascia di franchigia mensile a 110.000
lire», è al di fuori di una strategia che denunci
la globalità del sistema di sfruttamento, il cui
nodo esplicativo centrale sta proprio nel salario e nel suo uso
capitalistico.
Dare
un assetto al sistema classista di controllo della
condizione «salariale» non è neanche un interesse immediato della
classe operaia in quanto contrasta con
l'unico interesse reale del proletariato che
è il rifiuto
della condizione salariale.
Il
controllo del salario non è un passo verso il rifiuto
del sistema salariale; al contrario: è un passo gigantesco verso il
consolidamento del sistema capitalistico
salari-profitti.
Il
sindacato, facendo leva su interessi vivi ed immediati
del proletariato (casa, salute, etc.), ha progettato
la propria conquista
di potere attraverso il controllo del ciclo
complessivo della forza lavoro, usando
il salario, gestendo le trattenute, e proponendo una struttura
organizzativa politica, nuova, realmente
radicata nella base operaia, in grado di garantire la direzione ed il controllo
delle lotte: i delegati
di reparto.
SUI
DELEGATI
Sulla
struttura dei delegati s'innesta una delle più
insidiose mistificazioni del revisionismo nostrano: l'impostazione
oggettivistica dell'organizzazione che tanti consensi va raccogliendo tra gli
antileninisti di sempre!
E
non è un caso!
Vale
così la pena di «sfiorare» questa spinosa questione
proprio e solo per sottolineare come su questa
variante «rivoluzionaria» della «via italiana e pacifica» al
socialismo trovino buono spazio proprio
quegli opportunisti accortamente mimetizzati all'interno del movimento
operaio rivoluzionario che sono alla ricerca angosciata di sempre nuove
motivazioni per non muovere un passo verso la rivoluzione.
Garavini
ha scritto su un numero monografico di «Rassegna
sindacale» che i delegati, essendo la espressione dei «gruppi omogenei», rappresentavano
di conseguenza anche la omogeneità degli interessi, proprio perchè chi
è oggettivamente unito dai padroni per compiti produttivi «può
anche essere
soggettivamente unito per difendersi dallo sfruttamento
del padrone che omogeneamente opprime tutti
gli operai di quel reparto o di quella squadra».
In
tutta sincerità egli poi concludeva che essendo
impliciti in una tale impostazione rischi di corporativismo e di
aziendalismo, punto essenziale era e
rimaneva «il collegamento con il sindacato, perchè se tutti questi
problemi dei gruppi operai omogenei sono
enormemente differenziati... la via della lotta
va cercata da parte dei delegati di tutti i gruppi
operai omogenei in un riferimento alla classe operaia nel suo insieme,
cioè al sindacato».
La
struttura dei delegati si configurava così in questa impostazione come una
struttura di servizio del sindacato, saldamente controllata da questo mediante
le SAS (sezioni aziendali sindacali), capace
di occupare tutto lo spazio politico presente nella
fabbrica (mescolando crumiri e militanti, opportunisti
e rivoluzionari) e finalmente funzionante nel
doppio senso di
-
lavoratori-delegati-sindacato (verso dell'informazione)
-
sindacato-delegati-lavoratori (verso del potere).
A
misura in cui, cioè, il sindacato andava assumendo
sulle proprie spalle anche una funzione di direzione politica del
movimento operaio e delle sue scelte strategiche, si costruiva una «cinghia di trasmissione»
che gli assicurasse l'organizzazione rigorosa e capillare del consenso, e
l'informazione minuziosa sui movimenti parziali di classe.
In
tal senso configurandosi come un ampliamento
della capacità di strumentazione dei sindacati, la questione presentava solo inizialmente elementi di
ambiguità per le forze autonome del proletariato.
Anche
i militanti di reparto più «ingenui», che erano
in un primo momento caduti nelle trappole tese dalla demagogia degli agitatori sindacali, non tardarono ad
accorgersi che non si trattava di «autonomia
proletaria», ma di «potere sindacale»; non
di un embrione della nuova organizzazione rivoluzionaria del proletariato, ma di una estensione dei poteri
delle organizzazioni sindacali riunite.
Le
riunioni sindacali di corrente, come alla Pirelli
o alla Sit-Siemens prima delle assemblee, l'uso dei delegati
contro la volontà e la pratica di lotta della massa
operaia come alla FIAT (dove i «delegati crumiri»
si sono affiancati ai capetti per far funzionare
le linee bloccate dallo sciopero) ed altri episodi
consimili come alla Marzotto di Valdagno o alla Petrolchimica di Marghera,
dove essi sono serviti per «tagliare l'erba sotto i piedi alle avanguardie
operaie» hanno in fine provveduto ad eliminare
le ultime incertezze.
Il
«Consiglio dei delegati» non è dunque il terreno
più favorevole per una «battaglia politica volta
alla costruzione di un'organizzazione di massa capace di esprimere l'autonomia
della classe operaia, la spinta
combattiva dei lavoratori, l'affermazione
dei valori proletari», come vanno dicendo neorevisionisti di lusso come
Pino Ferraris e come gli «ideologi» del
«Manifesto». Non si tratta insomma
di uno strumento «imperfetto», «limitato» ma
«sostanzialmente corretto», forma embrionale della organizzazione
autonoma della classe operaia.
L'inconciliabilità
dei due momenti di «attacco alla struttura politica del salario», e «mediazione
e contrattazione legale di questo attacco»
è un dato che solo i più consumati ideologi neo-revisionisti possono
fingere di non vedere.
Ma
ci sono almeno altri due motivi che ci interessa
sottolineare:
-
il primo, riferito alla fondazione teorica che
sindacati e neo-revisionisti si
ingegnano di dare alla struttura dei
delegati: i gruppi operai omogenei;
-
il secondo, riferito alla radice antileninista
ed oggettivista che è fondamento del
loro discorso sull'organizzazione.
Se
guardiamo alla grande fabbrica moderna, ciò che ci appare come caratteristica
fondamentale del processo di produzione è
l'unificazione di tutta la forza-lavoro
sotto il segno della espropriazione di ogni
residua specifica professionalità.
In
tal senso i reparti, intesi come isole differenti di interessi omogenei, non esistono già più e sempre meno
esisteranno a misura in cui la riorganizzazione
tecnologica e produttiva delle aziende tende a completarsi.
Tutta
la forza-lavoro è già oggi unificata al di là delle
«differenze» di reparto:
-
dalla espropriazione crescente della professionalità;
-
dalla espropriazione dell'aspetto politico
decisionale del proprio lavoro;
La
questione dei «gruppi operai omogenei» va intesa così unicamente nel senso di
indispensabile premessa al discorso di chi
tende a configurare la ricomposizione del movimento di classe, non su una
base strategica di lotta (e di organizzazione), ma su
infondate considerazioni oggettivistiche che consegna
a forme di organizzazione la
decisionalità delle discriminanti tra una linea rivoluzionaria e le altre
linee.
L'unità
della classe operaia non viene intesa cioè come
unità sulla linea proletaria emersa
ed emergente dalla pratica complessiva dello scontro mondiale
in atto tra proletariato e capitale, e l'organizzazione
non viene commisurata ai contenuti generali di
lotta impliciti in questa strategia, ma essa viene ritrovata
nel ribaltamento speculare della piramide sociale statale, regionale, di
fabbrica, di reparto, ...
Ci
sembra di sentire i più autorevoli esponenti dell'economicismo rivoluzionario
antileninista: «...Ogni fabbrica, ogni
luogo di lavoro costituisce una unità. Nella
fabbrica gli operai eleggono i loro uomini di fiducia. Le organizzazioni
di fabbrica sono divise in distretti economici. Attraverso i distretti si
possono ancora eleggere uomini di fiducia. E i distretti eleggono
a loro volta la direzione generale dell'unione per
l'intero Stato».
Echi
spiacevoli di un discorso perdente.
I
compiti della sinistra proletaria e la sua risposta al riformismo
Il
tentativo di dislocare su falsi obiettivi la risposta
operaia all'intensificazione dello sfruttamento e al
recupero post-contrattuale attuato con cronometrica
puntualità dal padronato italiano, non si può dire
che sia riuscito come una ciambella col buco per
i nostri sindacati riformisti! Si deve dire invece che
dopo le ultime lotte della Fiat, della Lancia, della Snia
e di molte altre fabbriche, l'intero progetto di unità sindacale, di
articolazione complessiva del controllo di ogni movimento di classe
operaia, sembra ormai prossimo ad un
rumoroso sgretolamento o quanto meno
ad una consistente ridefinizione.
La
risposta di classe alla strategia delle riforme non è stata nel suo complesso
una risposta riformista.
-
All'esigenza giusta proletaria, della
soluzione di impellenti bisogni
materiali quali la casa, etc., le masse proletarie di Quarto Oggiaro,
delle Vallette, di Roma, hanno dato uno sbocco
i cui contenuti sono la più completa
negazione del riformismo, del gradualismo, del legalitarismo che impregnano tutta la proposta
del PCI e dei sindacati.
-
Al tentativo di far saltare la lotta della
classe operaia sui problemi posti con immediatezza dall'acutizzazione
dello sfruttamento per dislocarla su un terreno sconosciuto, estraneo,
parlamentare, la sinistra proletaria ha
risposto impossessandosi della lotta e
colpendo duramente a Milano a Torino a Marghera
i maldestri tentativi di instaurazione di un clima di "pace
sociale", di "conflitto regolato", che
sindacati e padroni andavano concertando.
E
questa situazione di contraddizione tra scelte autonome
della classe operaia e scelte del sindacato non
va sottovalutata, perchè al di là di segnare una sconfitta tattica della
strategia sindacale contiene un
profondo insegnamento per la sinistra proletaria,
per le forze rivoluzionarie; e l'insegnamento è
questo: il riformismo non è solo una ideologia borghese,
infiltrata all'interno del movimento operaio,
ma è soprattutto una strategia perdente, una strategia
suicida. Essa non solo disarma in tutti i sensi
il proletariato, ma lo obbliga ad accettare il destino
che il capitale gli ha imposto: quello appunto di classe-oggetto sulla
quale si scaricano incessantemente
sfruttamento, dominio e guerra.
Per
sfuggire a questo destino il movimento di classe
tende a ricomporsi dunque, non sulla base della geometria e delle forme
rovesciate dell'apparato produttivo, ma in un
lungo processo di coagulo nel corso
del quale la sinistra proletaria, enucleatasi
in questi ultimi anni di lotta, faticosamente conquista oggi, stretta
com'è dalla morsa dell'attacco padronale e
di quello revisionista, la dimensione leninista e maoista della strategia
e dell'organizzazione.
Appare
dunque quanto mai sterile a questo punto
riproporre al movimento rivoluzionario la falsa alternativa: essere nelle
lotte o elaborare una strategia da tavolino.
La dimensione organizzativa è ormai
tutta nel movimento, come esigenza, come problema,
ma anche come conquista. E
dunque delineare e sviluppare la
strategia rivoluzionaria, fa tutt'uno
con la lotta, giacchè oggi la lotta è sopratutto lotta
per costruire l'organizzazione.
I
compagni cinesi hanno scritto che i prossimi dieci
anni saranno gli anni della «tempesta rivoluzionaria».
Questo è il punto: o noi pensiamo di andare
incontro a un periodo di stabilità, di equilibrio (confondendo il
presente con il passato o con i propri sogni di pace sociale), o pensiamo che ci
attende un periodo rivoluzionario destinato a scardinare
strutture e sovrastrutture del sistema capitalistico
e imperialistico. O ci affidiamo a quell'empirismo
miope e furbesco che costituisce l'ideologa reale del revisionismo, o
riteniamo che il marxismo sia una scienza in
divenire, capace - come lo è
stata con Lenin e con Mao tse-tung - di
affrontare fino in fondo i problemi
della propria epoca, di intenderne le
linee di tendenza, di prevedere lo sviluppo
dei movimenti di massa.
La
lotta proletaria in Italia ha dimostrato di sapersi
conquistare progressivamente spazi di autonomia
dalla strategia revisionista, inserendosi di fatto
- e non soltanto con le vuote
dichiarazioni verbali dei falsi marxisti-leninisti-maoisti - nell'ambito
della strategia mondiale rivoluzionaria.
L'iniziativa
operaia di questi ultimi tempi ha posto
energicamente a padroni e sindacati la sua alternativa:
non riforme ma potere; non:
"più potere"
nella società
borghese; ma:
lotta per un altro potere, per
un'altra società.
Il
vero terreno di lotta non è quindi quello delle riforme,
ma quello della lotta per il potere, non è quello di una lotta economica (anche
se dura) ma quello di una lotta politica complessiva. Detto ciò, non
si può mettere la testa nella sabbia e fingere di
non vedere come la volontà di lotta, la lotta stessa
e la sua carica di violenza e di intollerabilità,
trovi oggi un limite insuperabile nell'imprecisione della sua definizione
strategica e organizzativa.
Per
la sinistra proletaria questo è il vero problema,
ed è su questa frontiera che essa deve combattere
la più dura delle sue battaglie.
In
tal senso il rifiuto del riformismo mette con prepotenza
all'ordine del giorno la questione dell'organizzazione
rivoluzionaria per l'abbattimento violento
del potere borghese, la questione del partito
rivoluzionario del proletariato.
da Sinistra Proletaria, luglio 1970